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SAMBRUSON. CULTURA, COSTUME, TRADIZIONI, AMBIENTE. - LETTERATURA A SAMBRUSON (III)

Pierino Dittadi ritorna a Sambruson con i suoi

"Ricordi, Aneddoti, Racconti"


Una breve corrispondenza è stata il preludio alla pubblicazione del presente articolo.
Scrive Piero Dittadi il 25 novembre 2021.

Mi chiamo Pietro Dittadi, nato e vissuto a Sambruson in Via Villa, dimora che ho lasciato  nel 1955 per andare volontario nella Marina Militare e dal 1965 vivo a Monfalcone.

Ho scritto diversi aneddoti della mia infanzia, brani di vita che devono essere ricordati affinché non scompaiano nell'oblio della modernità.

Sono nato nel Novembre del 1939 e ricordo ancora, seppur vagamente, la caduta del Pippo del quale lei sta cercando la data dell'incidente. Una macabra visione che mio padre ha voluto che io vedessi non so perché.

Ricordo anche le nuotate nel Brenton  e la rumorosità molesta che causavamo con il nostro vociare nell'ora del sonnellino pomeridiano degli adulti.

Porgo i miei saluti da ex paesano.


Caro Piero,

bentornato a Sambruson. Qui ancora molte persone si ricordano di Pierino.

Sono Luigi Zampieri (Luigino) e curo il sito internet SAMBRUSONLASTORIA. Abitavo proprio nella casa (ora non c’è più) adiacente al “ponte de piera”, in via Brentoni, dove tu e molti altri venivate a nuotare. Dopo la tua partenza da Sambruson, sono stato amico dei tuoi fratelli Ilario e  Guido e recentemente ho conosciuta anche Renzo al quale ho pubblicato nel sito il suo libro autobiografico “Butta via quel libro”, dove sei ben presente assieme alla tua famiglia. Se pensi che i tuoi aneddoti e brani di vita debbano essere ricordati e mostrati nel sito di Sambruson, prova a inviarmeli, allegati alla mia mail, intanto ti ringrazio e ti saluto molto cordialmente, Luigi Zampieri.


PROLOGO

Caro Piero, inserisco questo breve prologo, dopo aver letto, con grande coinvolgimento e curiosità, i tuoi aneddoti, racconti, ricordi. Essi si adattano e si integrano del tutto, nel sito Sambrusonlastoria che ha come principio e motivo, la custodia della memoria delle persone, dei fatti, delle cose, motivazioni che ho constatato essere ancora più vive e forti in chi si è allontanato dal paese dove è nato ed ha vissuto fanciullezza e adolescenza. Nei tuoi scritti sveli ricordi limpidi, precisi, minuziosi e molto particolari della parte della tua vita vissuta a Sambruson. Sono quasi tuo coetaneo e da ragazzi frequentavamo gli stessi luoghi di gioco, di convivenza e di amicizie e mi ritrovo, personalmente, in tutte le tue reminiscenze, anche molto specifiche. Leggendo i tuoi racconti ho richiamato e arricchito i miei stessi ricordi. Le nostre frequentazioni e  amicizie di ragazzi, erano lì, in via Villa , Brentoni, Calcroci;  erano i Naletto (Menegasso), i Dittadi (Begon), i Roson, i Saccarola (Piccin), i Darici, i Bettini, i De Lorenzi (Patao), i Marchiori (Aria Pastore), i Nardo, i Renier.
Persone, fatti e cose, da te descritti, sono in gran parte già presenti in svariati articoli di questa elaborazione, ma la tua particolare vivacità e sensibilità nel riportarli e descriverli li riconsegnano a chi legge, ancora più vivi, presenti ed efficaci.
Questa introduzione sarà a breve perfezionata con altre considerazioni, intanto mi complimento con te e ti ringrazio per aver voluto aderire al SAMBRUSONLASTORIA.


"Ricordi, Aneddoti, Racconti"

LA VIA VILLA

Negli anni del dopo guerra ho frequentato l’Asilo Infantile sito in Via Cimitero. Abitavo in Via Villa a circa un chilometro dal centro di Sambruson. Ogni sera, dopo aver ascoltato i racconti satanici della Suora Servidea, nei quali era sempre presente la figura del demonio con la forca e l’odore di zolfo, imboccavo la via di casa. Passavo prima dal negozio della nonna che mi dava sempre qualcosa da mettere sotto i denti, una manciata di stracaganasce, una mela, o anche un ritaglio di una pasta crema rimasta invenduta. Mi raccomandava di camminare sulla destra della strada (sta sul troso) per non essere investito dalle biciclette, i soli mezzi pericolosi in transito allora. Percorrendo la via polverosa e dissestata, passavo davanti al vecchio edificio che ospitava le scuole elementari. Nella curva a gomito, in una minuscola casetta viveva l’anziana Emma, seguiva l’abitazione di Cioci Segato. Più avanti, sul lato sinistro, la vistosa cancellata recintava il giardino della silenziosa Villa Parolini. Pochi in paese avevano oltrepassato il vigilato ingresso. In un rudere oltre la siepe risiedeva un ateo, da tempo ammalato, condannato dalla parrocchia per il suo peccato mortale. Alla volontaria che lo accudiva riferiva di avere in camera la costante presenza del demonio pronto a trasferire l’anima dannata negli inferi. In paese si raccontava della sua sconcertante sepoltura a lui riservata in un angolo sconsacrato del Cimitero. All’interno di un ampio cortile abitava la numerosa famiglia Roson. Pochi metri dopo la fontana a getto continuo che forniva l’acqua potabile agli abitanti della Via. Veniva poi la stamberga dei Darici, tre stanze a pianterreno e il bagno all’aperto. Sulla sinistra la robusta casa di Tiberio il postino. Ancora avanti sulla destra, in un deprimente e cupo casolare abitavano tre ottantenni rugose e ringrinzite : Maria Tessara, Maria Rosa, Maria Pippa, (le tre Marie). Litigavano costantemente fra loro. Per noi piccoli erano temute streghe. All’imbrunire passavamo con audacia sotto le finestre della catapecchia, l’interno era illuminato da una lampada a petrolio che contribuiva a rendere maggiormente tetri i volti incartapecoriti delle Marie, che non avevano mai conosciuto creme di bellezza. Una decina di metri, prima di raggiungere il mio casermone, c’era il negozio di generi alimentari, che aveva le dimensioni di una camera da letto. La proprietaria Maria Gardellin forniva al vicinato pasta, riso olio che veniva versato in una bottiglia portata da casa, lo zucchero avvolto nella inconfondibile carta blu. Il sale era invece monopolio di Stato e si acquistava in centro dai fratelli Organo. Le somme della merce acquistata veniva trascritta in un apposito libretto. A fine mese si effettuava il saldo, spesso capitava che il totale superava il misero salario del capofamiglia, così il debito aumentava e c’era il rischio di vedersi negata l’indispensabile spesa futura. Dopo la dimora di Toni Polo, ecco il lungo casermone nel quale la mia famiglia occupava il lato Nord  quattro stanze, due al piano terra e due camere da letto al piano superiore, avevamo anche un cortile e l’area di un orto, dove coltivavamo pomidoro, insalata, zucchine e melanzane. Nel centro, l’abitato era occupato da una famiglia di pugliesi sfollati durante la guerra, padre, madre e tre figlie femmine, Cinque persone adulte in unico stanzone nel quale, con improvvisati paraventi, avevano diviso la cucina dalle camere da letto. Non c’era il bagno, così ogni mattina la mamma Capolecchia gettava nel fossato antistante il contenuto dei vasi usati durante la notte. Due figlie erano impiegate alla Vidal Profumi di Marghera. Al mattino quando partivano da casa con la bicicletta, lasciavano una scia profumata, coprivano così i cattivi odori di casa.
Ricordo che la povera mamma diceva di avere nostalgia della sua Barletta, soffriva di emicrania, per tal motivo si legava un fazzoletto sulla fronte rugosa, sembrava una squaw della tribù degli Sioux. Nella parte Sud del casermone abitava la famiglia Benetti, marito, moglie e tre figli maschi. Al piano superiore in due stanze viveva la vedova Fidemia, una chiacchierona che spesso veniva a casa per raccontare alla mamma le sue avventure di lavoratrice in nero nelle calzolerie di Strà. La distensione e la confidenza che regnava nel caseggiato subì un trambusto con l’arrivo di un magliaro, che installò un rumoroso laboratorio di telai. Una persona antipatica e altezzosa convinto di poter dominare l’edificio. Ai lati del nostro brutto complesso abitativo facevano ala due casupole, quella cadente dei Polo, già menzionata, l’altra della Antonia situata all’angolo con la Via Marinelle, la stretta carreggiata delimitata sulla destra dalla Piuga, il fossato di acqua stagnante che d’inverno quando ghiacciava, era la nostra pista di pattinaggio. Qualche volta il ghiaccio cedeva sul nostro peso allora si tornava a casa bagnati, ma occultando l’accaduto per non essere castigati. A letto senza cena era allora la punizione più ricorrente, il cibo a cena era sempre scarso così si otteneva due piccioni con una fava. La prima casa colonica sul lato opposto della Piuga era di proprietà dei Bettini. Nell’ampia aia si svolgevano i vari lavori stagionali : trebbiatura del grano, pigiatura dell’uva e la macellazione del maiale nel mese di dicembre. Ero un assiduo frequentatore della casa dei Bettini e amico di Dino. Tornando alla Via Villa, aldilà del fossato si ergeva la Montagnola di Piccin, i resti di un argine del vecchio Brenta, l’area preferita per i nostri giochi all’aperto. Un tunnel scavato nel corso della guerra come deposito di munizione, era un perfetto nascondiglio. La Via Villa terminava con il Capitello della Madonna. Tutte le famiglie della Via, come tante altre del paese erano impegnate alla sopravvivenza quotidiana, con la speranza che prima o poi sarebbe arrivato quel soccorso divino promesso dal parroco nelle omelie domenicali chiamato provvidenza.


CORPUS DOMINI

Era una festività religiosa molto attesa quella del Corpus Domini, che si celebrava il Giovedì successivo alla Domenica di Pentecoste, quindi cadeva nel mese di Giugno, o in Maggio quando la Pasqua era bassa. Già il giorno precedente della festa le campane suonavano a distesa per annunciare la solennità che rievocava il Miracolo Eucaristico di Bolsena, quando un religioso di nazionalità boema diretto a Roma si fermò nella località lacustre del Centro Italia per celebrare la Messa domenicale. Elevando l’Ostia egli dubitava che la bianca particola rappresentasse in realtà il corpo di Cristo, spezzandola questa sanguinò, e alcune gocce caddero sul suo corporale. Il Papa francese Urbano IV volle onorare la circostanza miracolosa e l’11 agosto 1264 convalidò l’evento come Dogma di Fede. Il Corporale è tutt’oggi conservato in una teca nel Duomo di Orvieto e viene esibito ai credenti due volte l’anno. Nel Maggio 1947 frequentavo la terza elementare, quindi accolito per la Prima Comunione. Il mese successivo e precisamente Giovedì 5 cadeva la solennità religiosa del Corpus Domini, ero pertanto vincolato a seguire la processione che aveva luogo nel pomeriggio, dopo il rito dei canti gregoriani e il “Veni Creator Spiritus”. Il corteo, muovendo dalla Chiesa, si snodava lungo la Via Villa, con i fedeli allineati che intonavano canti e preghiere.            Al centro della sfilata il parroco, all’ombra dell’Ombrellino Sacramentale, procedeva lento tenendo fra le mani l’Ostia racchiusa in un Ostensorio dorato. Dalle imposte difilate lungo il percorso pendevano copri letti, drappi e altri ornamenti colorati, preziosi orpelli delle doti, tolti dalle cassapanche per l’occasione. Ai lati della Via i campi erano disseminati di rossi papaveri sbocciati fra le spighe dorate del grano già maturo. Era usanza che i comunicandi maschi e femmine spargessero petali di rose lungo il cammino della processione, io risultavo fra questi. La mamma, nella sua inesauribile creatività, confezionò un vezzoso cestino. Foderò con uno drappo bianco una scatola di scarpe, cucì intorno accurati fronzoli e aggiunse un laccio azzurro per la tracolla. I detentori delle aiole, con i rosai in fiore, erano ben disposti a regalare i boccioli per impreziosire il passaggio del Cristo. Ebbi così il beneplacito dalle nonne che apprezzarono il manufatto della mamma, ritenuto più grazioso dei cestini in vendita nell’agraria. La camminata aveva termine in fondo alla Via, di fronte al Capitello della Madonna. Salutata la Madre Maria, con una inversione a U il Cristo tornava verso la Chiesa. Sarebbe stata necessaria l’esperienza di un filosofo per interpretare la devozione dei fedeli di Sambruson. E’ possibile che la partecipazione spirituale della ricorrenza portasse pace nella famiglie, sollievo nel duro lavoro quotidiano, o la consolazione delle innumerevoli miserie presenti in quell’anno di grazia causate dalla lunga guerra mondiale.

 

 

 


LA CRESIMA

A Sambruson si parlava un dialetto rozzo, una mescolanza fra veneziano, padovano e rovigotto. Le doppie lettere non venivamo mai pronunciate, pertanto nella frequenza delle elementari era difficile scrivere un dettato, o un riassunto senza errori grammaticali. La mia istruzione veniva  dagli insegnanti, ma soprattutto dalle suore dell’ Asilo infantile. Mi tornano alla memoria i racconti demoniaci della solerte suor Servidea che narrava, la sera prima di abbandonare l’asilo, nei quali Satana era la figura dominante; i sermoni rigorosi del parroco don Segala e quelli più morigerati di don Arcangelo, che spesso farfugliava dopo aver tracannato diverse ombrette di merlot. I vocaboli più conosciuti fin dalla tenera età erano quelli affini alla religiosità : altare, particola, giaculatoria, litanie, rosario, tabernacolo, ostensorio, reliquia, aspersorio, messale, vespri, crocifisso, redenzione, credo, devozione, trinità, alleluia, catechismo, pulpito, parabola, chierichetto, seminario, apostolato, eretico, ricreatorio, sacrilegio, diavolo, confessionale, penitenza, peccato originale; veniale, mortale, scomunica, estrema unzione, paradiso, purgatorio, inferno, immacolata concezione, putativo, cenacolo, eucarestia, incarnazione, astinenza, elemosina, offerte, anima, quaresima, triduo, novena, spirito santo, amen. La formazione ecclesiale si accentuava in occasione delle visite pastorali, come quella del 22 novembre 1953, il giorno dopo il mio  14° compleanno quando il vescovo di Padova, monsignor Girolamo Bortignon, ha conferito la cresima a 87 ragazzi, compreso il sottoscritto. Cresimarsi era un obbligo per non essere additato come una mosca bianca e la nonna Maria avrebbe avuto un dispiacere se i suoi nipoti non si fossero cresimati. Cosa non facile era trovare il padrino, che doveva affiancarmi nel percorso della fede. Mio padre ha affidato l’incarico ad un suo amico, che forse in chiesa c’era stato un paio di volte nella sua vita. Era consuetudine che il padrino regalasse al figlioccio l’orologio con tanti rubini. Gli orologi allora erano costosi, oggi si possono acquistare con una decina di euro. Ho un vago ricordo di quella domenica di autunno. Naturalmente sono salito all’altare teso ed emozionato, in attesa che l’austera figura con i paramenti dorati mi trasmettesse il pax tecum con il buffetto sulla guancia. La delegata del catechismo mi diceva che in quel giorno sarebbe sceso lo Spirito Santo sul mio capo con le fattezze di una colomba bianca, ma io non ho notato nessun volatile in chiesa. Terminata la lunga cerimonia ecco il mio primo orologio da polso, un Lanco che ostentavo muovendo continuamente l’avambraccio sinistro. Il cinturino mi andava un po’ largo. Nessun problema, si può fare un altro buco. Quel regalo fu un compagno di tante avventure, lo tenevo al polso il giorno che sono partito per la Sardegna e quanto ho guardato il suo quadrante nelle ore di guardia alla Maddalena, ore che scorrevano con una lentezza esasperante. Le lancette dei miei orologi che scandiscono il tempo attuale girano  veloci, in  un baleno passano i mesi, le stagioni, gli anni. Mi piacerebbe riavere nel mio braccio. Mi piacerebbe riavere nel.  Mi piacerebbe riavere nel braccio il Lanco  della cresima, che sapeva come rallentare il tempo.
Quel tempo, che allora scorreva lentamente, si chiamava giovinezza.

 


I PATTARELLO  (Saramejo)

La nonna Alba era una componente della numerosa famiglia Pattarello, aveva tre fratelli : Eugenio, Giuseppe, Luigi e una sorella Caterina. Così i nomi risultavano nella Anagrafe al Municipio di Dolo, era però consuetudine manipolare le generalità e pronunciarle in dialetto : Nino, Catina, Gigio e Bepi Saramejo. Solo Alba manteneva inalterato il nome: Catina era più anziana della nonna, ricordo che viveva nella lontana periferia di Sambruson in Via delle Monache, ma della sua famiglia non ho mai saputo nulla. La nonna le faceva visita raramente perché il percorso a piedi era alquanto faticoso. Nino gestiva l’osteria “Al Boccalon” a Dolo, non so se fosse il proprietario del locale. Gigio e Bepi erano contadini e vivevano entrambi in una casa in Via Cimitero, con tutti i locali a pianterreno. Una divisione virtuale separava le abitazioni delle due coppie : Gigio e Maria, Bepi e Maria (Marietta). Dopo l’ampia aia, regno di tutte le varietà aviarie : galline, anitre, oche, tacchini, c’erano le stalle, con mucche e buoi e un recinto appartato per la scrofa. Oltre le stalle si allungavano i campi coltivati a granoturco, erba spagna e filari di viti, che in autunno con la vendemmia, fornivano il merlot per uso familiare e se l’annata risultava buona era possibile vendere qualche ettolitro di vino alle osterie locali. Tutto bene, mancava ora la prole maschile, che in futuro sarebbe risultata necessaria per aiutare i genitori nel faticoso lavoro dei campi. Qualche mese dopo i rispettivi matrimoni e i rituali auguri di figli maschi, le spose rimangono incinte. I padri felici e speranzosi attendono la nascita del primogenito, il desiderato maschio, ma al termine della gestazione Maria partorisce Eleonora e da Marietta nasce Beatrice. Gigio e Bepi delusi, ma fiduciosi partono per il secondo giro. Lunga e ottimista l’attesa, al termine della seconda gestazione nascono da una coppia Ada, nell’altra Livia. Che disdetta, si ricomincia sperando nella fortuna che però sembra non voler assecondare il desiderio dei padri, infatti da Maria nasce Zemira, mentre il parto di Marietta non va a buon fine, così la coppia Bepi e Marietta rinunciano ad inseguire la nascita del maschio, rimanendo pertanto padre e madre di due femmine. Gigio non si arrende, vuole il maschio. Ci riprova, ma al quarto parto nasce Rita, al quinto Rina, al sesto Maria e a completamento della prole femminile Elda. A Gigio non rimane che arrendersi e adeguarsi all’incredibile situazione. Si diceva allora che mettere al mondo una femmina era un guaio. Nella casa di Via Cimitero i guai concepiti erano nove. Rita, Elda resteranno nubili. Rina sposerà un soldato inglese, conosciuto durante la guerra e si trasferirà in Gran Bretagna. Livia da quarantenne si unirà in matrimonio con un carabiniere sardo e andrà a vivere a Nuoro, portando con sè i genitori, che in Sardegna concluderanno la loro esistenza.

 


IL BRENTA

L’odierno Burchiello è il natante turistico che percorre il Naviglio Brenta da Strà a Fusina, entra nella Laguna e arriva a Venezia alla Riva degli Schiavoni. Nel suo percorso attraversa i paesi rivieraschi di Fiesso d’Artico, Dolo, Mira e la borgata di Oriago, citata da Dante nel Purgatorio

«Ma s'io fosse fuggito inver la Mira,
quando fu' sovraggiunto ad Oriaco,
ancor sarei di là ove si spira.
Corsi al palude, e le cannucce e 'l braco
m'impigliar sì, ch'i' caddi; e lì vid'io
delle mie vene farsi in terra laco.»

(Dante Alighieri - Purgatorio V, 79-84)

Nelle località menzionate sono visibili e visitabili molte ville risalenti dal XVI al XVIII le quali si affacciano sulla placida via d’acqua. Sono una ventina le ville appartenute alla nobiltà della Serenissima, fra le quali la monumentale villa di Strà con l’esteso parco e le peschiere, voluta dal doge Alvise Pisani e completata nel 1756. Ogni anno il Lunedì di pasquetta era consuetudine raggiungere in bicicletta Strà, entrare nella Villa Pisani, che noi chiamavamo Palazzo Reale per trascorrere il pomeriggio nel Parco.  Ci si divertiva ad addentrarsi nel settecentesco labirinto di siepe, percorrere il lungo circuito obbligato, individuare il giusto tragitto, raggiungere il centro e salire sul belvedere della torre, dove troneggiava la statua di Minerva. A Fiesso d’Artico è in bella vista l’elegante e barocca villa Recanati Zucconi. Mira ospita la suggestiva Valmarana, dedita ai divertimenti dei nobili e dei facoltosi veneziani, la Widmann Rezzonico, splendido esempio di stile rococò. Prima che il Burchiello entri nella Laguna, ecco la Villa Foscari detta Malcontenta, con le grandi scalinate e il pronao ionico, capolavoro del Palladio, il padre dell’architettura neoclassica. Nelle stanze sono sontuose le decorazioni nel piano nobile. Dal 1996 la Malcontenta è patrimonio dell’UNESCO. Ricordo gli anni ’50, quando il Brenta veniva utilizzato per trasportare materiale che dalla terraferma arrivava a Venezia e al Lido. Il Naviglio, che allora chiamavamo Canale, aveva lungo i suoi argini un tracciato nel quale robusti cavalli procedevano trainando controcorrente bragozzi, caorline e peate cariche fino all’orlo. Prima di bagnare le rive di Dolo, poco dopo l’ospedale, il Naviglio divideva il percorso in due rami che racchiudevano il centro di Dolo nell’isola chiamata “Bassa”. Uno dei due corsi d’acqua spingeva le pale lignee di una ruota gigante che, con varie cinghie ed ingranaggi trasmetteva movimento al Mulino Demaniale, utilizzato dai contadini di Sambruson per macinare le granaglie. Dopo il mulino l’acqua lambiva Io Squero, antico cantiere dove trovavano ricovero e riparazioni la barche. I due rami del Brenta si riunivano nei pressi della località chiamata Ca’ Tron, dal nome di una villa distrutta da un incendio. A Dolo l’acqua del Canale veniva rallentata da una delle chiuse. Quante volte mi sono fermato sul Ponte del Vaso, attratto dal gorgogliamento dell’acqua che penetrava dalla base provocando un timoroso borbottìo.  Qualche volta appoggiato al parapetto del ponte seguivo la manovra della barca, che con il doppio sbarramento scendeva lentamente fino ad appaiare il livello a valle, quindi proseguiva in direzione di Mira. Ultimata la serie delle operazioni m’incamminavo sulla Strada Alta che univa Dolo a Sambruson, ancora ignaro che l’acqua sarebbe diventata la mia compagna di vita per i futuri sei anni. Con i due rami riuniti, il Brenta continuava il suo percorso, prima di lambire le rive della località Casello 12, dove un ponte girevole univa la Provinciale 22 con la Via Badoera e il centro di Sambruson.

 

 


FAMIGLIA POLO

 


LA BEFANA

Sambruson, Sabato 5 Gennaio 1946 Andavo dal fornaio per acquistare il quotidiano pane, il formato delle pagnotte allora era unico, non esistevano michette, sfilatini, ciriole.  La mattina della tanto attesa vigilia era fredda ma gioiosa. La brina ghiacciata avvolgeva i rami spogli dei pioppi allineati lungo il fossato e l’aria gelida arrossava le mie guance. Dai campi arati ai lati della strada vedevo il vapore acqueo levarsi come un incenso all’apparire del tiepido sole. Coperto dalla sola mantellina di panno che poco riparava dall’aria siberiana, camminavo con la mente rivolta alla Befana, la strega dei regali, che dal 1941 era rimasta assente a causa della guerra, rintanata chissà in quale grotta e che nell’imminente notte riprendeva le sue benvenute prestazioni. Ero certo di non far parte della categoria degli immeritevoli, quelli che la Befana puniva revocando la sua presenza. Un po’ disobbedienti eravamo tutti alla nostra età, ma per questa insignificante  negligenza la Befana non mi avrebbe deluso. Nel pomeriggio l’attesa si faceva esaltante, non tanto per i miseri doni in arrivo, ma per l’emozione di sapere che con il buio la Vecchia a cavallo della scopa sarebbe transitata sopra il tetto. Dopo l’abituale e spartana cena, ho fissato le tradizionali calze sulla cordicella che la mamma utilizzava per appendere i panni bagnati quando il pigro sole invernale stentava ad asciugarli e preparata una tazza di latte, la bevanda che, a detta degli adulti, era gradita alla Megera. Noi fratelli ci siamo coricati più presto del solito, perché si diceva che la nostra presenza avrebbe potuto ostacolare il passaggio della Befana la quale non gradiva essere notata. Iniziava così la notte magica. Disteso sul letto, silenzioso e supino, ero convinto di sentire il rumore delle tegole sopra il tetto, ma dopo qualche minuto di dondolio con la testa sul cuscino il sonno aveva vinto sulla fantasia e mi addormentai. Sognavo che l’Arpia entrava in casa e annaspava nel buio per assalirmi. Era vicino al letto e allungava le grinfie per cercare le mie  gambe avvolte nella coperta. Per difendermi dall’immaginarie grinfie mi raggomitolavo con la testa sotto il cuscino. Un sogno che incuteva un’apprensiva tensione, proseguita anche dopo la sveglia.  La mattina seguente la mamma si era alzata all’alba ed aveva anticipato l’accensione del fuoco in cucina per intiepidire il locale e premurosa nell’esaudire le nostre illusioni fece del suo meglio. Cinque anni di guerra avevano causato povertà ovunque, di conseguenza anche la Befana doveva aver subìto ristrettezze, non si poteva quindi pretendere dovizie. Infatti sopra un tovagliolo collocato sul tavolo facevano bella vista una dozzina di mandarini, alcune caramelle, le immancabili castagne secche e un  modellino un po’ sgraziato di auto rimasto invenduto nel negozio dello zio Romano. La carica a molla, che conferiva movimento al veicolo, poche ore dopo non funzionava più. Così iniziarono i consueti litigi fra noi per incolpare il celere demolitore del trabiccolo di latta.

 

 

 

 


Novembre

Negli anni d’infanzia vissuti a Sambruson ricordo di avere sempre detestato novembre, il mese che precede il lungo inverno. “La nebbia agli irti colli piovigginando sale e sotto il Maestrale . . . .”    Malinconia poetica che imparavo a memoria in quinta elementare e recitavo nella ricorrenza di San Martino. Carducci in poche rime riassume perfettamente Novembre, il mese autunnale per antonomasia. Infatti le prime nebbie scialbe avvolgevano la campagna, il pallido e lattiginoso fumo nascondeva le cime dei pioppi, il Sant’Ambrogio girevole sulla cuspide del campanile, il capitello della Madonna che delimitava la Via Villa. Era il mese delle piogge abbondanti e diffuse, dell’umidità, delle pozzanghere e del fango nelle strade. Le giornate si accorciavano, iniziava il freddo. Si doveva  vivere stipati nella cucina, il solo locale riscaldato con la legna usata dalla mamma per cuocere, per asciugare i panni appesi ad una cordicella, per riscaldare l’acqua del bucato, per lavare piatti e posate al termine dei nostri pasti frugali. Mio padre era solito dire che il venditore bagnava la legna per aumentarne i peso, ne conseguiva una combustione fumosa che irritava i nostri occhi infantili. Non era più possibile trascorrere i pomeriggi all’aperto. Abbandonati i giochi estivi sulla Montagnola, il residuo del vecchio argine del Brenta, coperto da rovi e con un tunnel alla base, usato come rifugio nella guerra da poco terminata e allora valido nascondiglio per i miei svaghi. Terminate le nuotate nel Brenton, per la gioia della famiglia Zampieri, che ora poteva godersi il silenzio pomeridiano. Le spade ricavate dai rami delle robinie, con le quali armeggiavo imitando le gesta di Zorro, sarebbero rimaste in letargo almeno fino all’arrivo della Pasqua, quando dai rovi delle siepi germogliavano timidi i biancospini. Nei campi corvi e storni saltellavano nei solchi formati dei  campi arati cercando qualcosa per nutrirsi prima dell’arrivo del ghiaccio o della neve. Le sere erano brevi, aggredite dal buio repentino e la riduzione del giorno continuava anche in dicembre fino a Natale. A novembre cadevano i miei compleanni che si presentavano in sordina senza nè torte nè candeline. La mamma mi ricordava che il giorno della mia nascita coincideva con la ricorrenza della Madonna della Salute, venerata a Venezia nella barocca Basilica che si erge sulla Punta della Dogana. Nell’occasione della festività, per agevolare i fedeli nelle loro preghiere di fronte alla Vergine, un ponte votivo sul Canal Grande collegava San Marco alla Chiesa che conserva un’icona bizantina. Quella suggestiva manifestazione che ancora si ripete ogni 21 novembre, io non l’ho mai veduta. In piazza si diffondeva la fragranza delle castagne arrostite che si potevano acquistare dallo zio Romano con poche lire, mantenute calde perché avvolte i panni di iuta. Nei primi due giorni del mese iniziava il rituale viavai al Cimitero. Le donne, spesso in lutto per la recente scomparsa di un familiare, strofinavano le bianche lapidi. Abbondavano i crisantemi inseriti nei loculi che coprivano le effigie dei cari estinti. Il parroco, con i paramenti viola e l’aspersorio, benediva le tombe e incassava le mance; in cambio distribuiva un santino da appendere sulle sepolture, il quale riportava scene del Purgatorio dantesco e l’effige di un Cristo risorto. In quel consacrato recinto, recentemente ampliato, riposano coloro che furono persone nella mia infanzia e che oggi hanno qui la loro definitiva residenza : papà, mamma, nonni, zii e tanti altri. Viene mestizia pensando a quando sarò io ad andarmene. Chissà se lascerò buoni ricordi ai posteri. Scrive Foscolo nei Sepolcri “Sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha nell’urna  le sue ceneri”.
Il 14 di Novembre 1951 a Sambruson si percepiva una diffusa e malinconica mestizia quando arrivò notizia che il Po aveva rotto gli argini nella Bassa Padana causando annegamenti di bestiame, ed evacuazione di povera gente dalle case sommerse dall’acqua limacciosa e danni incalcolabili alla campagna ed ai raccolti perduti. Detesto ancora Novembre anche se il mio appartamento ha i locali riscaldati e le piogge non sono più un problema come nel passato, perché non mancano panni adeguati e ombrelli. La nebbia a Monfalcone è quasi inesistente ma novembre è comunque il mese con le aride foglie a terra lungo i viali e i comignoli fumanti nei tetti. Arrivano le folate dei primi venti freddi, spinti dai Balcani, strappano brutalmente le foglie dei tigli frondosi, insiti nel panorama che guardo quotidianamente affacciato al mio poggiolo. I bar chiudono gli spazi all’aperto e accatastano sedie e tavolini nei ricoveri invernali. Nel grigiore novembrino, una ventata di giovialità viene dalle alture carsiche, quando le colline si tingono di accese colorazioni. Il Sommaco, o Scotano, offre uno spettacolo naturale che si ripete ogni anno ai primi freddi autunnali. Nelle rare giornate quando il cielo è limpido e soffia una leggera bora, percorro sentieri munito di macchina fotografica e riprendo il trionfo di colori che da’ vivacità al Carso dovuto al caratteristico arbusto, che si accontenta di affondare le proprie radici in pochi centimetri di terra o fra le fessure delle rocce, assume accese colorazioni rossastre. Le sue foglie mescolano i pigmenti ottenendo varie sfumature che vanno dal giallo al rosso intenso. Negli spazi luminosi perdurano le trincee della Grande Guerra, sbarramenti blindati e scavati nelle rocce, lavori estenuanti, ricoveri che spesso si trasformarono in luoghi di morte. Camminando da solo, con il cellulare spento, mi fermo di fronte a questi luoghi difensivi, oggi centenari e cerco di immaginare come doveva essere allora la demarcazione carsica. Una linea di sangue, lasciata da reclute male addestrate e mandate al macello. Quante vite sono state sacrificate in queste cime cruente.  E’ un percorso nella memoria per non dimenticare coloro che sono morti per unire all’Italia lembi occupati dall’Impero Asburgico. Continuo il cammino apprezzando i segni della natura offerti dal fogliame del sommaco. Lo spettacolo attraente m’induce a dimenticare che tutto ciò si spegnerà in pochi giorni, le foglie scarlatte cadranno precocemente e su ogni cosa avrà il sopravvento il mesto e deprimente sipario dell’ inverno.

 


GIACOMO

 


I FUNERALI

 


IL CHIERICHETTO

 

 


 

IL CINEMA

 


 

OLIO DI RICINO

 


 

PRIMA COMUNIONE

 


PASSATO E PRESENTE

Certo è che la mia infanzia e quella dei miei coetanei è trascorsa a Sambruson in ristrettezze, stenti e privazioni, ma indifferenti trascorrevamo comunque le nostre giovani vite spensierati e gioiosi, anche perché non eravamo consapevoli dell’esistenza di tante agiatezze e prosperità. Dalle omelie il parroco ci  esortava ad apprezzare la sorte di vivere in povertà in quanto il Giudizio Universale non avrebbe  creato ostacoli per accedere al Paradiso, mentre gli sfortunati ricchi erano costretti a raggiungere l’alto dei cieli passando per la cruna dell’ago assieme al cammello. Nella nostra indigenza apprezzavamo ogni evento, anche insignificante. Era una lusinga l’arrivo del Natale, esternavamo le nostre idee per il presepio, si raccoglieva il muschio che doveva coprire le improvvisate colline, trovare la carta color cielo da collocare sullo sfondo, ritagliavamo la stella cometa da un foglio bianco e con l’impasto di acqua e farina veniva assestata nelle vicinanze della capanna. Il giorno 25 dicembre la mamma dedicava più tempo al pranzo affinché questo risultasse all’altezza della ricorrenza : pastina in brodo, gallina lessa con tanto ripieno a base di pane e fegatini, il panettone che dal forno usciva sempre asimmetrico. Dopo il pranzo si andava in Chiesa per la visita al Presepio parrocchiale. L’albero era considerato un simbolo ateo, pertanto sconsigliato il suo allestimento.
A Capodanno noi fratelli maggiori ci alzavamo dal letto all’alba per porgere gli auguri alla nonna Maria che ci aspettava con la mancia già preparata nei giorni antecedenti. La nostra vicina festeggiava invece il nuovo anno ascoltando le canzoni di Claudio Villa raccolte in un disco di vinile che girava in un grammofono a manovella. I gorgheggi del cantante erano squillanti, ma a metà disco la voce diventava rauca, sembrava cantasse il baritono Renato Bruson. Per tornare ai trilli di Claudio Villa si doveva rigirare la manovella e sostituire la puntina che gravava sui solchi del disco. Il 14 febbraio si festeggiava il patrono San Valentino con una sagra pietosa. Anche questa era per noi un atteso evento. Qualche giorno prima, al termine delle lezioni, invece di andare verso casa si faceva una capatina in centro per accertarsi che le due giostre, barchette e seggiolini volanti, fossero in fase di montaggio. Sfidando il freddo, potevamo permetterci un paio di giri in giostra con il denaro rimasto dalla mancia di Capodanno. In Chiesa si svolgeva la funzione e il bacio alla reliquia del Santo che non risulta fosse un solerte dispensatore di miracoli. Altro evento banale, ma atteso, era la sorpresa del film domenicale proiettato nel cinema parrocchiale, nel quale si assisteva alla ripetitiva mattanza degli indiani nelle loro riserve. Cambiava solo la tribù che settimanalmente veniva sterminata, una domenica toccava ai Mohicani, un’altra agli Apache o ai Cheyenne. Attualmente nella mia TV con il grande schermo avrei la possibilità di vedere tre o quattro film in un solo giorno, tramite i canali RAI, Mediaset o con YouTube, Netflix, TimVision, preferisco invece la passeggiata sulle colline carsiche adiacenti a Monfalcone. Quale diversità fra il mio passato ed il presente.
Nell’ultima domenica di carnevale la nonna faceva le “frittole” che vendeva anche in osteria. Scolava nell’olio bollente cucchiaiate dell’impasto di farina uova e uvetta. Uscivano palline dorate nella misura di una biglia da golf, pronte per essere divorate. La nonna si stancava della lenta dosatura, così aumentava la quantità che andava nella teglia, tant’è che le ultime frittelle avevano le dimensioni di grosse patate. Erano comunque apprezzate ma rare ghiottonerie.
Si usava mettersi sul viso maschere di cartone fissate con un elastico alla nuca e si andava speranzosi nelle case del vicinato seguendo gli odori della frittura. Oggi in tutte le pasticcerie abbondano vassoi con crostoli, frittelle, castagnole, ma sono ghiottonerie sconsigliate per la glicemia. A carnevale si poteva mangiare più carne, ma per chi non poteva permettersi l’acquisto, anche i pranzi e le cene in questo periodo di eccessi erano un anticipo dell’astinenza  quaresimale.
In campagna la primavera era molto vistosa. Nei primi giorni di marzo l’aria intiepidiva, fioriva il biancospino nei rovi, seguito dal melo e dal ciliegio, poi il pesco con i boccioli rosa raggruppati nei rami ancor privi di foglie. Allegro il cinguettio festoso delle rondini, pronte ad occupare lo stesso nido abbandonato in seguito all’esodo invernale. La Pasqua era preceduta dalla Settimana Santa nel corso della quale si doveva effettuare l’ora di adorazione al Santissimo. Il Giovedì si procedeva alla copertura delle croci e delle icone con drappi di color viola, si tacitavano le campane e il Venerdì Santo si svolgeva la processione serale, per me il più gradito evento primaverile.            A Maggio, mese Mariano, ogni sera nella Chiesa parrocchiale si recitava  il rosario e il canto delle litanie. Chiusi i riti alla Madonna, la liturgia continuava con le preghiere rivolte ad Antonio di Padova, il Santo di gloria fulgente, festeggiato il 13 Giugno. Si approssimava la fine dell’anno scolastico, temevamo la consegna delle pagelle perché i voti non sempre erano positivi, qualcuno veniva rimandato ad ottobre. Nelle vacanze non avevamo luoghi di aggregazione, dovevamo inventare giochi all’aperto. C’era la possibilità di frequentare i raduni definiti Campi Solari che si svolgevano nello spiazzo polveroso della scuola elementare, nel quale si faceva ginnastica e si davano calci ad un pallone. Nell’estate del ’47 ho trascorso un paio di settimane in una colonia a Calalzo di Cadore. Ricordo le piacevoli passeggiate nei pendii e nelle vallate adiacenti all’accogliente  stabile. Una bella vacanza che però non ha avuto ripetizione.
Oggi si vive meglio, c’è un diffuso benessere, ma gli eventi non entusiasmano più. Il Natale lo festeggiano i commercianti. Pochi si ricordano del millenario compleanno di Gesù. Betlemme che, nel presepio domestico, immaginavo un luogo con tante casupole sparse nelle Colline Palestinesi, è invece un caotico agglomerato di fabbricati vecchi e nuovi che si ergono a ridosso della Chiesa della Natività. Una muraglia alta sei metri separa Betlemme dallo Stato d’Israele.  Il San Silvestro è un evento ripetitivo da ingannare con qualche botto scagliato dal poggiolo. Novene, rosari e riti sono sempre più rari. Le chiese chiudono le porte nell’ora della cena.
L’arrivo della primavera si nota al mercato, perché sono in vendita fragole, ciliegie, nespole.  Nei frigoriferi dei supermercati abbonda ogni tipo di carne, salumi e insaccati vari, molteplici le qualità di formaggi, ma sono alimenti che favoriscono il colesterolo. Al Conad panettoni, pandoro e mandorlati costano meno del pane, troppo zuccherati, meglio non acquistarli. Guai farsi attirare dalle leccornie : paste creme, cioccolato, gelati, cornetti, tutte cose che generano il diabete.  Il caffè va preso senza zucchero. Nella frutta meglio escludere l’uva, i cachi, le banane, i fichi.  A tavola niente burro, soffritti e carni rosse, consigliato il pane e la pasta con farina integrale. Il sale nei cibi è pericoloso per l’ipertensione. Bere vino il meno possibile, dimenticarsi dei superalcolici. Niente bibite gassate e zuccherate. Va bene il pesce, purché non sia fritto.  L’abbondanza di alimenti sarebbe stata necessaria quando avevamo i denti sani e le pance vuote.

 


SCUOLA ELEMENTARE

 


SUOR PIERSOFIA

 

 

 


SUPERGA 4 MAGGIO 1949

Giovedì 5 Maggio 1949, frequentavo la quarta elementare. Quel giorno la maestra Italia iniziò la lezione riassumendo la storia di  Napoleone Bonaparte, il grande generale francese morto nella sperduta isola atlantica di Sant’Elena il 5 maggio 1821. L’eco della tragedia del giorno precedente non era ancora arrivato a Sambruson. I due Gazzettini che vendeva lo zio Romano, uno era per la famiglia Meneghelli, l’altro per il parroco. Le radio in paese si contavano sulle dita di una mano. Alla fine delle lezioni, percorrendo la via di casa, notavo che la notizia di cronaca s’era già sparsa, perché davanti alle case le donne stavano riportando, a modo loro, ciò che avevano sentito dire riguardo la sciagura di Torino. Anche la mamma era al corrente, aveva avuto l’informazione dalla vicina.  Nel pomeriggio mentre giocavo nel cortile della casa dei Roson, situata a circa metà della Via Villa, anche noi ragazzi volevamo parlare di Superga, dei 31 passeggeri che viaggiavano nell’aereo e dello schianto contro il terrapieno della Basilica dei Savoia. Ognuno, in carenza di provate informazioni, metteva in atto le proprie fantasie. L’aereo era caduto perché tutti i passeggeri, pilota compreso, si erano ubriacati per festeggiare la vittoria calcistica a Lisbona. No, il velivolo volava basso per evitare i fulmini del temporale in atto. Altra versione captata affermava che l’altimetro segnava 2000 metri di altitudine invece dei 700 reali e ancora, che i motori si erano fermati per mancanza di carburante. Qualcuno fra noi, non ricordo chi, raccoglieva e incollava in un album le figurine dei calciatori delle varie squadre italiane, così potevamo avere le immagini di alcuni giocatori periti nel disastro : Il capitano Mazzola, Bacigalupo, Ballarin, Ossola, Maroso.  Nei giorni seguenti nelle osterie, fra un’ombra e l’altra di Merlot, si commentavano i particolari  del fatale incidente aereo e la conseguente sventurata fine del Grande Torino.
Alle ore 17 di Mercoledì 4 Maggio 1949 il trimotore Fiat 212 G. proveniente da Lisbona, deviato dalle forti raffiche del libeccio, si è fracassato sulla collina di Superga alla velocità di 180 chilometri orari. Nessuno si è salvato. I funerali delle vittime si svolsero nel pomeriggio del 6 Maggio nel Duomo di Torino partendo dalla camera ardente allestita a Palazzo Madama. Oltre seicentomila persone stipate nelle piazze e nelle vie cittadine furono presenti per l’estremo saluto alle salme. Ricordo che la bigotta insegnante della dottrina cristiana ci proibiva di ripetere il nome della squadra portoghese sconfitta dal Torino e il parroco invitava lo zio Romano a togliere dalla vista i settimanali che mettevano in evidenza il nome osceno della squadra di Lisbona. Mia ingenuità di allora non sapevo che “Benfica” potesse essere il nome italianizzato di “Benmona. Sono stato varie volte a Superga, da dove si gode una bella vista sulla sottostante Torino. Nel muraglione posteriore della Basilica una lapide ricorda le vittime di uno sport che  nel passato era vissuto in maniera corretta e leale.

 

 


 

TONI E GIGIA

 

 


UN TUFFO NEL PASSATO

Sono sempre rare la mie visite nel paese dove sono nato. L’ultima risale ad un paio di mesi fa. Un tuffo rigeneratore nel mio passato fatto di tanti ricordi, tristi difficili e dolorosi e anche di qualche reminiscenza positiva e poiché la natura non mi ha dotato di ricordi selettivi, così sono obbligato rievocare ogni cosa bella o brutta. Era un pomeriggio di novembre, già passata la ricorrenza dei defunti e la Via Cimitero tornata nel suo abituale silenzio. Ho parcheggiato la Polo in piazza, la stessa che, nella mia infanzia, di macchine in sosta ne aveva viste assai poche. L’area del centro, avvolta nel grigiore della nebbia, è uno squallore. Il normale viavai, consueto in ogni paese, qui sembra essere inesistente. Percepisco che a Sambruson tutto è radicalmente cambiato, ma il legame che sento per questo luogo depresso resiste ancora in me. Mi sono chiesto spesso a cosa sia dovuto. Culturalmente mi sono formato altrove, ma evidentemente interrogarsi sulla propria storia, non si smette mai. L’aver vissuto, anche per pochi anni, in questi luoghi entra a far parte della mia vita. Affiorano spesso dettagli e ricordi che rimangono immagazzinati nella memoria, unici e inimitabili perché protagonisti del romanzo personale. Ho avuto il privilegio di viaggiare molto, ma il sentimento che mi lega alle origini è ancora presente, senza però percepirne la nostalgia. Lasciar andare il passato non significa dimenticarlo.
Scendo dalla macchina, chiudo gli occhi e con la fantasia metto alla prova la mia memoria per far rivivere le persone che negli  anni 1940/50 contribuivano ad animare questo misero centro : il sagrestano Olivo che dava voce al campanile facendo dondolare le campane con le proprie braccia; il bonaccione e sempre alticcio cappellano don Arcangelo e la sua nana perpetua; il barbiere Riccardo, l’unico figaro del paese, che disinvolto, rapava le teste di noi ragazzi con la sua macchinetta Jet Solingen; la levatrice Emma che ha assistito a tutti i parti della mamma, ad eccezione del terzo, nato in ospedale; il maniscalco Gisto, buon datore di lavoro a minorenni che avevano ultimato la scuola d’obbligo e cercavano una prima occupazione; il meccanico  Emo tenace consumatore di mastice e rattoppi per le camere d’aria forate;  Giovanin Organo e lo zio Romano gestori delle due osterie, dove solo gli uomini trascorrevano il loro ridotto tempo libero serale giocando a Briscola e Tresette con l’immancabile boccale da mezzo litro sul tavolo. Un mondo ormai scomparso, quello legato ai capricci delle stagioni, che turbavano i sonni dei contadini provati dal duro lavoro nella campagna, spesso a mezzadria,  speranzosi nei buoni raccolti che sovente erano causa di delusioni dovuti a gelate, siccità, grandinate o presenza di dannosi parassiti. Quelle persone che ricordo attive ed operose, oggi hanno dimora nel Camposanto.  Il tempo della vita è stato per tutti loro una corsa rapida e inarrestabile verso la morte.
Percorro a piedi i circa mille metri della Via Villa, cammino lungo il percorso tanto per rivedere i luoghi dei miei primordi. Noto la moltitudine di trasformazioni che hanno alterato il paesaggio, in certi casi è irriconoscibile. Scomparsi i lunghi filari di vigne, i solchi dei campi arati, le siepi di arbusti ai bordi della carreggiata. Alcune foglie secche si staccano dai rami e mulinando cadono al suolo, là dove in passato zampillava la fontana dove sgorgava l’acqua potabile.
La migrazione dopo la guerra verso Mestre e Marghera, ha disgregato molte famiglie, vedo case vuote e disabitate. Esiste ancora il casermone nel quale ho vissuto fino al 1955, anch’esso però è disabitato. Il cancello d’ingresso è coperto da una lamiera, nasconde la vista su quello ch’era il nostro cortile. Torna alla mente la vita dinamica esistente in questo edificio e le storie di ogni famiglia qui vissuta, che qualche volta entrano nei miei sogni. Si regge miracolosamente la casupola dei  Polo. Difficile credere che nei tre modesti locali al piano stradale sia vissuta per molti anni una famiglia di sei componenti. Proseguo sereno mentre le nuove costruzioni sfilano lentamente sotto i miei sguardi. Sono villette silenziose di gusto razionalista e con recinzioni frangivista. Leggo le targhette sugli ingressi : Bettini, Saccarola, Bareato, nomi che ricordo bene perché i proprietari di queste dimore sono stati miei compagni alle elementari. Di quella odiata scuola primaria alla quale non ho mai dato il dovuto impegno, anche perché il noioso insegnamento era avulso dalle realtà paesane, negata la libera creatività individuale, così preferivo  giocare all’aria aperta, lo spazio per svagarmi abbondava. Vorrei suonare il campanello, ma c’è il rischio ch’io venga scambiato per un testimone di Geova, o per il rappresentante della Folletto. Nei tempi che ricordo le abitazioni recintate lungo la via erano inesistenti, si entrava ed usciva dalle case degli altri senza neanche dover chiedere il permesso. Eravamo testimoni di ciò che accadeva ai vicini, degli immancabili problemi, delle traversie. Ricordo il nebbioso clima novembrino, uguale a quello che oggi mi assedia, s’iniziava ad intiepidire gli esigui locali attizzando un fuoco con qualche frasca e se pioveva ci si bagnava, gli ombrelli per ripararsi erano inesistenti. Torno in piazza, sento doverosa la visita nel Cimitero.
Entro con mestizia nella città dei morti, cammino nel desolato labirinto fra tombe custodite da angeli di pietra e loculi con lumini e fiori di plastica scoloriti. Avverto il silenzioso orrore dei volti prigionieri nei loro ritratti e penso che questi morti continueranno ad esistere finché saranno ricordati, ed io gli ricordo coloro che mi sono stati vicini, soprattutto durante l’infanzia : papà deceduto la notte di Natale del 1968 a soli 56 anni, la mamma che riposa nel loculo con sua madre, Alba, nonni, conoscenti e amici che mi hanno preceduto nel cammino verso l’Ade voluto dal doloroso e funesto destino.
Risalgo in macchina e mi avvio verso Monfalcone, da oltre cinquant’anni la mia dimora, dove ho svolto la lunga attività lavorativa nella Termoelettrica e dove avrà termine la mia esistenza.

 

 


LA VACA MORA

Ricordo i nomi di alcuni paesi della Bassa Padana situati nei pressi degli estuari del Brenta e dell’Adige, nelle infinite distese agricole. Dimenticati dalla civiltà, che negli anni del dopo guerra stava lentamente dilagando in tutto il Paese. Non avevo mai messo piede in quei borghi, ma sentivo spesso pronunciare i loro nomi per la loro infelice collocazione : Bojon, Sandon, Paposse Prozzolo, Lughetto, Lova, Corte, Pegolotte. Quando negli anni ’50 ebbe inizio l’industrializzazione di Marghera, con l’installazione di inquinanti fabbriche chimiche, si rivelava utile una manodopera generica, da sfruttare e retribuire con bassi salari. Dove cercarla ? Ecco allora l’idea di ripristinare un vetusto percorso ferroviario, inaugurato nel 1931, rimasto inattivo negli anni della belligeranza “Adria – Mestre”. Il fine corsa non era però nella stazione centrale di Mestre, ma in un seminascosto binario, quello dimenticato, che non aveva nemmeno il marciapiedi, poiché la merce umana in transito era talmente plebea e grossolana da preferirne l’occultazione. Questa linea ferroviaria non aveva un nome, per gli abitanti dei paesi agricoli era un mezzo in movimento che, in carenza di paragoni, poteva essere associato alle movenza delle vacche custodite nelle stalle e considerato il colore nero del trenino a vapore, ecco il nome appropriato “La Vaca  Mora”. Il treno non aveva orari ben definiti, partiva da Adria all’alba, con la fitta nebbia d’inverno e nugoli di zanzare d’estate. Dalle stazioni intermedie riprendeva la corsa solo quando tutti i pendolari diretti a Marghera erano presenti. Assenze per malattie, o per altri motivi non erano ammesse. I manovali, dalle mani incallite, portavano al seguito la “sporta”, una borsa di un grossolano pellame che conteneva il pranzo da consumare nel breve intervallo che l’impresa concedeva a questi poveracci. Penso sia abbastanza facile indovinare il menù, che sicuramente non includeva nè antipasto, nè dessert. Da un lato della sporta era visibile il torso della pannocchia che serviva da tappo all’immancabile mezzo litro di Clinton, il vino dal sapore forte, tale e quale ai consumatori dell’aspra bevanda, ricavata da un incrocio di vitigni ibridi, che una Legge del 1931 ne vietava la coltivazione sia del Clinton e del Bacò. Ma i contadini ignoravano la Legge e mantenevano con cura i loro filari.  Alla sera la partenza dall’appartato binario era simile a quella del mattino. Il treno partiva solo quando tutta la manovalanza era presente. Un giorno di Ottobre quando Alfonso Renzato aveva prolungato di mezz’ora la permanenza nel lavoro, per ricontrollare gli attrezzi da custodire in magazzino, il treno partì con mezz’ora di ritardo. Il capo treno era costretto ad accettare l’inflessibile e risoluto adeguamento del volere della maggioranza che pagava l’abbonamento. La Vaca Mora è stata poi sostituita dalla Littorina, con la motrice Diesel. Forse avrò l’occasione di transitare in quei luoghi rimasti più o meno simili agli anni della mia infanzia, con le poche case ubicate intorno ai loro campanili.

 

 


VIAGGIARE

 


ZIA AMALIA

 


MAGGIO MESE DI MARIA

 

 


 

IL BACCALA'

 


RICORDI

Il 13 febbraio 1942, abitavamo in Via Badoera, la mamma era pronta per il parto del suo terzo figlio, il papà assente perché richiamato alle armi in Jugoslavia. Una zia, che viveva in casa con noi non se la sentiva di fare e veci della levatrice, consigliò la mamma di andare in Ospedale a Dolo. Non c’erano telefoni, ambulanze o macchine per raggiungere il Nosocomio. La notte era fredda, la Strada Alta ghiacciata e dissestata, il percorso in bicicletta fino all’ospedale si presentava complicato, arduo pedalare in quella condizione. Un nostro vicino si offrì di accompagnare
la mamma, lei in sella alla bicicletta, ferma e irrigidita dal freddo, lui la spingeva con la mano nella schiena. Poco dopo la mezzanotte, i due imprudenti e temerari ciclisti, entrarono in Ospedale quando il parto era già pronto, così il terzo figlio nacque il giorno del Patrono San Valentino.
Nello stesso anno la casa situata nell’incrocio fra la Via Badoera e la Strada Alta, era stata requisita dai tedeschi, usata come sede di comando. Bonariamente gli occupanti avevano lasciato un paio di stanze per la mamma e i suoi tre bambini, quello di mezzo ero io. Il nonno paterno, che gestiva l’osteria in centro, preoccupato per la nuora di 31 anni sola con i soldati, che a volte alzavano il gomito, invitò la mamma a condividere un paio di stanze situate sopra l’osteria. Allora i bombardamenti nelle città del Veneto erano quotidiani. Un ricognitore della RAF, che chiamavano Pippo, sorvolava quotidianamente il cielo nelle ore del buio e segnalava ai bombardieri i bersagli da colpire. La stampa fascista o definiva il Molestatore volante. In Osteria gli avventori entravano e uscivano senza badare all’oscuramento, raccomandato per non dare segnali al ricognitore sempre insidioso. Si decise allora di trascorrere le notti in una casa di contadini lontana dal centro.
Così, nell’estate del ’42 abbiamo dormito in un fienile in Via Cimitero messo a nostra disposizione.
Il 25 Luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo sfiduciò Mussolini e il Re passo a Badoglio l’incarico di primo Ministro. Furono giorni inquieti, densi di vendette da parte dei tedeschi, ancora presenti nelle Regioni del Nord, increduli della loro imminente sconfitta e rabbiosi per il tradimento dell’Italia. Casa Reale e Governo, da vigliacchi, abbandonarono Roma lasciando l’Italia allo sbando. Anche a Sambruson vi furono movimenti di truppe e di carri armati in ritirata. Diffuso un comprensibile timore per gli imprevisti sviluppi della situazione. In un giorno da ricordare era stato segnalato il passaggio di un drappello degli sconfitti, la popolazione del centro impaurita e perplessa decise di rifugiarsi nel campanile per rimanere uniti nel caso di eventuali accanimenti. Si ammassarono così una trentina di persone fra le corde delle campane, soprattutto donne, bambini e il parroco don Luigi Rimano. Anche la mamma, con i suoi tre figlioletti, seguì la sventurata scelta. Chiusa la porta del campanile in faccia ai tedeschi, convinti  che  nel gruppo si nascondessero partigiani armati, fecero uscire i rifugiati con un mitra puntato pronto a sparare. La mamma terrorizzata, dopo la perquisizione, ebbe il permesso di lasciare la postazione. Il parroco, con difficoltà convinse i soldati che il raduno  era solo un incontro di preghiera. Grazie alla sua abilità e diplomazia, l’errata strategia del raduno non finì in tragedia. Nel mese di agosto del ’43 tornammo a vivere nella casa in Via Badoera che i tedeschi, in fuga, avevano liberato. Pochi giorni dopo arrivò il caos dell’8 Settembre. Molti sodati italiani disertavano e chiedevano alle famiglie indumenti borghesi per non essere catturati dai tedeschi. Conservo il vago ricordo di un giovane militare al quale la mamma diede una bicicletta affinché potesse raggiungere la sua casa a Mirano. Seguirono ancora tempi difficili, con carestie, stenti e paure fino alla Primavera del 1945.

LA PASQUA

Nella mia infanzia meritano essere ricordate le festività pasquali, in particolar modo quella del 9 Aprile 1950, proclamato Anno Santo da Pio XII con la concessione dell’Indulgenza Plenaria, che io non avevo la minima idea cosa fosse, malgrado le impegnative descrizioni della suora Servidea. I riti religiosi ebbero inizio lunedì 27 marzo con la Settimana di Passione. Le visite in chiesa erano più frequenti, andavo spesso da casa al centro. I refoli d’aria erano ancora freschi, ma oltre il fossato, che costeggia la via Villa, nei rami degli arbusti fiorivano i biancospini. Sull’altare della Chiesa era esposto l’Ostensorio dorato del Santissimo ed era impegno dei fedeli effettuare l’ora di adorazione. La Settimana di Passione terminò con la Domenica delle Palme. Era una tiepida e gradevole giornata primaverile, ma indossavo ancora i pantaloni lunghi alla zuava, la moda di allora.  Alle 9 si celebrava la Messa dei fanciulli, a me piaceva la Messa Solenne che iniziava alle 11, per ascoltare il coro accompagnato dal suono dell’organo. Nell’Offertorio un assiduo praticante saliva sul pulpito per recitare la Passione di Cristo. Ricordo una lunga e noiosa filastrocca letta e cantata in latin. Nel corso della cerimonia il parroco benediva il fascio di rami d’ulivo accatastati sul Sagrato, accompagnato da una decina di chierichetti, tutti muniti di strumenti religiosi : incenso, navetta, aspergo e ceri accesi. I presenti intonavano il “Veni Creator Spiritus”. Terminata la liturgia tutti prendevano una ramo della pianta benedetta, il quale veniva tradizionalmente inserito al lato di una immagine sacra appesa alla parete della cucina, pronto per essere incenerito nell’estate quando le nuvole nere si approssimavano minacciando la grandine. Il lunedì seguente iniziò la Settimana Santa. Il mercoledì venne rimosso il Santissimo, coperte le immagini sacre con drappi viola e spalancato il tabernacolo per ricordare l’assenza del Cristo morto. Le campane rimasero mute e il mezzogiorno venne avvertito da noi ragazzi con il ruotare delle troccole di legno “le racoete”. Venerdì nel centro di Sambruson aleggiava un clima di tristezza dovuto all’evento. In questo luttuoso giorno risate o allegrie sarebbero risultate sacrileghe. Le tre pomeridiane era l’ora della morte del Salvatore. In Chiesa era stato allestito il Sepolcro, una Croce stesa sopra un baldacchino ornata con fiori bianchi. Dopo il rigoroso digiuno serale, l’attesa processione, con canti preghiere, fiaccole e qualche grattatina per le punture delle zanzare destate dal letargo e avide di sangue. Superato il sabato di meditazione è arrivata l’esultanza della Pasqua. Nella tarda mattinata tutte le campane rintoccavano un lungo e piacevole segno e nel frattempo c’era qualcuno che si bagnava gli occhi, finte lacrime di gioia per la Resurrezione. A casa la mamma aveva lessato una dozzina di uova colorate, inserendo un drappo rosso nella pentola. Ho trascorso il pomeriggio giocando a ruvoleto, e a sera abbiamo mangiate le uova a cena con gli asparagi.  Le feste di Pasqua dal 1956 al 1961 le ho trascorse a bordo dei cacciatorpediniere della Marina Militare. Negli anni successivi la festività religiosa è diventata l’occasione per viaggiare seguendo il proverbio “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”. A tale proposito dal 1983 al 2019 ho trascorso tutte le 37 pasque in qualità di accompagnatore in viaggi da me organizzati, molte delle quali in pullman con l’autista e amico Daniele : a Barcellona nel 1986, in Grecia nel 1989, poi in Andalusia, a Budapest, a Bratislava, l’ultimo a Praga nel 2019 prima dell’inizio della pandemia.


VERSO LA SARDEGNA

 


PELLEGRINA


Orazio il suicida

Ricordando i tempi della mia infanzia a Sambruson, mi tornano alla mente i racconti che la suora Servidea ci propinava alla sera prima di lasciare l’asilo. Il protagonista era sempre Satana, l’onnipresente malefico che sostava sulla nostra spalla sinistra, in continua rivalità con l’angelo custode che invece occupava la destra. Noi piccoli eravamo ossessionati da queste due figure astratte che accompagnavano la nostra vita quotidiana. L’intenzione della Servidea non era certo quella di intimorirci, ma io rimanevo turbato per la quantità di peccati veniali che mi portavo appresso fino al momento della confessione settimanale. Fra i tanti racconti ne ricordo uno in particolare, che oggi potrebbe risultare una fiaba, ma che allora ascoltavo con la bocca aperta seguendo la narrazione e la mimica. In un paese, del quale non ricordo il nome, viveva il signor Orazio, un cristiano benestante, timorato di Dio e frequentatore assiduo dei riti religiosi. Era coniugato ed educava i suoi figli al cattolicesimo più ortodosso. Erano molto apprezzate in paese le copiose elemosine e le offerte di denaro che donava al parroco per le opere di misericordia. In una torrida estate con una inusuale siccità, i raccolti della vasta campagna del signor Orazio andarono perduti. Ne seguì una insanabile crisi economica, e dal momento che anche le banche gli avevano  rifiutato un prestito, un giorno, preso dalla disperazione, salì sulla spalliera di un ponte e con una pietra legata al collo si gettò nelle acque del fiume. Il povero Orazio diede fine alla sua esistenza con l’annegamento. Il triste evento imbarazzò non poco il parroco incaricato delle esequie. Il suicidio è un peccato mortale, solo Dio dà e toglie la vita, l’annegamento è stato un affronto verso il Padreterno; ma come poteva Don Vincenzo rifiutare un funerale cristiano al buono e caritatevole Orazio? Decise di consultarsi con il proprio vescovo alla Diocesi di Padova. Raccontò a Sua Eccellenza la tragedia che il maligno aveva causato nella sua fedele comunità. Il vescovo ascoltò attentamente la relazione di Don Vincenzo e, dopo averlo bonariamente licenziato, assicurò che avrebbe escogitato una soluzione. Due giorni dopo il feretro di Orazio varcò la porta della chiesa parrocchiale e il suicida ebbe la funzione religiosa con Requiem, incenso acqua santa e il viatico per la vita eterna. Nel paese si commentava la decisione del parroco contraria ai principi ecclesiali. Perché la cerimonia e la sepoltura cristiana ad un suicida? La risposta era indicata nell’epitaffio esposto all’ingresso della Chiesa : "Pinessi Orazio ha conseguito perdono ed indulgenza plenaria, in quanto nel breve tempo trascorso nel salto fra il parapetto del ponte e l’acqua del canale si è pentito del malsano gesto. Alle quattro del mese di novembre la nebbia aveva già avvolto le vie di Sambruson. Imboccai la via di casa con il pensiero rivolto a quel rapidissimo e singolare pentimento. La suora non l’aveva detto, ma sulla balaustra dell’altare c’era una busta, che probabilmente conteneva la somma di denaro per traviare il custode del paradiso. Nell’età dell’asilo si è creduloni, certamente avrò ritenuto veritiero anche il fulmineo pentimento.


Un commento e un saluto, sempre graditi, da Andrea Zilio

Cari amici Luigi e Piero,

ho letto la storia dei ricordi, delle persone, dei luoghi, delle trasformazioni, delle persone che non ci sono più, delle speranze, della strada a piedi per andare all’asilo da suor Servidea e suor Piersofia, della miseria del dopo guerra … e mi sono commosso. Grazie, Pierino, sei stato più bravo, più documentato, più affezionato di me al nostro paese. Anch’io ho scritto con amore di Sambruson, ma tu mi hai superato. Mi hai commosso per la precisone e la meticolosità dei ricordi. Ti saluto cordialmente. Vivi a lungo, perché senz’altro hai altre cose da raccontare.

Ciao da Fausto (Andrea) Zilio.


 

Mi scrive Piero:

Caro Luigi,

desidero inviarti in allegato  anche due poesie scritte in dialetto sambrusonese da mio fratello Ilario.

Le pubblico con molto piacere, innanzi tutto perchè sono belle e soprattutto perchè mi porgono l'occasione per un caro saluto a Ilario che da quando ha lasciato Sambruson, non ho piu' rivisto. Abbiamo in comune ricordi indelebili di vita e amicizia da ragazzi e giovani.

Ciao Ilario, se puoi, mandami un saluto e se hai altre poesie facciamo un articolo dedicato. Con affetto Luigi.

 

Poesie di Ilario Dittadi

Dopo ‘n’inissio beo. . . .

Da l’alba ciara, fresca e luminosa
sicuramente el dì promete ben;
Fiori che sbocia, osei che va e che vien
colori che più bei no ga ‘na rosa
Ma apena a mezodì rompe el seren
‘na nuvoèta scura dispetosa,
po’ altre ‘ncora dosso ghe se posa
finchè de sera el cieo xe tuto pien.
Se alsa el vento, tuto se fa nero
lampi straèche, e dopo ‘na tempesta
che da che l’alba no’ pareva vero.
Proprio come ne ‘a vita che te resta,
dopo n’inissio beo, un sol pensiero :
dai temporai de riparar la testa.

 

El poeta imbriago

Lo so de avèr bevùo massa,
go el cuor cofà na strassa
butàda su ‘n canton:
ma anca se imbriago
so’ ’n poeta
e ‘desso che me sento
un fià de vena
in do e do quatro
ciapo carta e pena
e no’ me fermo più.
Ma . . trema ‘a man,
davanti al quarto goto
desmentego ‘a poesia,
me incorso che sangiòto,
che bagno de ‘agreme
la toa de l’ostaria.
“Va a casa . . . “
qualchedun me siga:
Mi no’ ghe bado miga,
stago qua.
Gnente me costa
iluderme poeta,
magari da imbriago
. . .  ma casa no’ ghe vago
parchè nissun me speta.

 


articolo a cura di Luigi Zampieri


Ultimo aggiornamento (Venerdì 10 Giugno 2022 17:45)