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SAMBRUSON IN EPOCA PREROMANA E ROMANA - LA TESI DI E. ZEN su Antiquarium e Maio Meduaco

LA TESI DI E. ZEN

Non è certo un caso se la Tesi di Laurea di Emilio Zen è stata pubblicata nel sito internet SAMBRUSONLASTORIA.
Nella prima parte, la “Maio Meduaco” è indubbiamente focalizzata sulla storia e leggenda di Sambruson e analogamente gli Stagna Liviani” con la battaglia di Cleonimo (sempre nei limiti di attendibilità della narrazione di T. Livio). La seconda parte è interamente dedicata al Museo/Antiquarium di Sambruson.

E. Zen, maestro elementare di Venezia trapiantato a Dolo, nel contesto trattato, non è certo l' ultimo arrivato, direi uno dei primi e più importanti. Vent’anni or sono, assessore alla cultura del comune di Dolo, è stato persona decisiva nel ritrovamento dei reperti del Museo di Sambruson in un deposito comunale a Mestre.

Intervenne personalmente presso il Ministero dei Beni Culturali per ottenere l’autorizzazione al trasloco dei reperti da Mestre a Sambruson. Fece ottenere le aule, presso le scuole elementari di Sambruson, per l’iniziale esposizione dei reperti.

Si prodigò personalmente per avere il primo incontro, nel 2000, con la dottoressa della Soprintendenza, Gianna Ravagnan a Padova e poi a Sambruson per assicurare la prima esposizione e messa in sicurezza dei ritrovati reperti.

Fu l’ideatore del premio letterario “La Seriola”, uno dei fiori all’occhiello dell’Assessorato alla Cultura di Dolo.

Partecipò in modo determinante, con Trovemose,  all’organizzazione delle opere di servizio a docenti e scolaresche, per i Laboratori di Archeologia presso il Museo, poi Antiquarium di Sambruson.

Attivò il “comitato di gestione della biblioteca di Dolo” per la scelta dei volumi, dei giornali, delle riviste e degli incontri per la presentazione di eventi importanti.

E’ stato sicuramente il Museo di Sambruson ad offrire ad E. Zen gli spunti essenziali per questa laurea della quale, con soddisfazione, pubblichiamo la tesi e per questo lo ringraziamo molto sentitamente. L. Z.



Corso di Laurea in Storia
Tesi di Laurea triennale

Dagli stagna liviani a Maio Meduaco
Romanizzazione e romanità

Relatore

Ch.mo Prof. Lorenzo Calvelli

Correlatrice

Ch.ma Prof.ssa Giovannella Cresci Marrone

Laureando

Emilio Zen
Matricola n. 500367
Anno Accademico
2017 / 2018


NOTA INTRODUTTIVA

“Le scoperte archeologiche del geometra Lino Vanuzzo (1907-1986), all’inizio degli anni ’50, fecero scalpore ed ebbero vasta risonanza sulla stampa.
Per strane e straordinarie vicende, i reperti archeologici scoperti nelle campagne dei Velluti e degli Zanetti andarono in seguito dispersi. Nell’indifferenza generale. Fino alla sua morte, Lino Vanuzzo tentò con ogni mezzo di riaverli a Sambruson. Morì stanco di chiedere.
La famiglia Danieli, della nipote Carmen Vanuzzo, offrì a molte persone i documenti lasciati dallo zio. Inutilmente.
D’altra parte, fino a trent’anni fa, questo paese non aveva neppure un nome esatto, neppure sulle mappe del Comune, neppure nella segnaletica stradale... Si scriveva in vari modi: S. Bruson, San Bruson, S. Ambroson, Sambruson, Sampreson... Protestai con vari enti, scrissi ai giornali, ebbi anche risposte, consensi.
Fu il CAP, il Codice di Avviamento Postale, a mettere ordine e a scrivere definitivamente Sambruson”[1].
Così scriveva Andrea Zilio, insegnante, scrittore, uomo di cultura, attivo nel mondo associativo, primo ad impegnarsi per il ritrovamento dei reperti archeologici di Sambruson.
Esprimeva il desiderio di un’identità locale, ciò che ogni approfondimento sulla storia del territorio può aiutare a definire.
E questo può essere anche il senso del presente elaborato.
Si è cercato di costruire una sintesi del contesto storico-geografico d’epoca romana entro cui collocare le realtà insediative sorte sulle rive del Medoacus a valle di Padova, soffermandosi poi su alcune loro peculiarità, con particolare attenzione verso Sambruson.
Riferimenti fondamentali sono state le fonti letterarie, in primis Tito Livio, il quale, attraverso il suo racconto su Cleonimo di Sparta, fornisce utilissime informazioni su luoghi e modalità della vicenda, parlando, ad esempio, di tenue praetentum litus, di stagna, di ostium fluminis praealti, di naves... apte planis alveis, di Patavinorum vicis[2]. Ulteriori notizie si sono ricavate da passi di Strabone, Virgilio, Plinio il Vecchio, Cassiodoro.
Documenti imprescindibili si sono rivelati gli itineraria Burdigalense, Antonini e la Tabula Peutingeriana, pressoché unici nel riportare indicazioni su percorsi, tappe, intervalli spaziali, diventando, inoltre, tracciati, griglie, mappe entro cui situare le altre attestazioni.
Conferme, integrazioni, smentite alle fonti letterarie derivano dalla ricerca archeologica ed epigrafica. Riscontri in tal senso hanno caratterizzato lo sviluppo degli argomenti ai capitoli sulle infrastrutture di collegamento, di culto, di commercio e di sosta. Ciò ha consentito, tra le altre cose, di individuare deduzioni aggiornate da parte degli studiosi su ipotesi a confronto o dubbi in relazione, ad esempio, all’idrografia del Medoacus, o alla data di costruzione della via Annia, o al punto d’incontro tra questa e la via Popilia.
Stazioni di culto, di commercio e di sosta comprese nell’area oggetto del presente elaborato e attestate negli itineraria sono Mino Meduaco, con il suo santuario, centro di culto ed emporile, Ad Portum, avamposto portuale di Padova, e Maio Meduaco, centro nevralgico di traffici fluviali e terrestri, situato nel territorio di Sambruson, il cui piccolo “Antiquarium” è stato inserito tra “le realtà museali che caratterizzano la via Annia nella provincia di Venezia”[3].
Dell’“Antiquarium” di Sambruson, oltre che fornire alcune indicazioni generali su ciò che espone (reperti oggetto di ampia trattazione già nei testi di Monica Zampieri più volte citati[4]), si è voluto analizzare qualcosa che poteva ancora offrire novità interpretative: i bolli su laterizi, su ceramiche di terra sigillata, oltre che su due fondi di crogiolo di dubbia appartenenza al periodo romano. Gli esiti non sono stati sicuramente “rivoluzionari”, ma qualche dato in più è emerso, dal confronto con nuovi rinvenimenti e consultando, all’occorrenza, i volumi di András Mócsy e Barnabas Lorincz, Onomasticon provinciarum Europae Latinarum[5], e di Heikki Solin e Olli Salomies, Repertorium nominum gentilium et cognominum Latinorum[6].
Uno spunto in più per ulteriori indagini.


[1] Zilio 2009, pp. 7-8.

[2] Liv. 10, 2.

[3] Veronese 2011, p. 16.

[4] Tesi di laurea Zampieri 2005/2006 e Zampieri 2005/2006b; tratto da tale tesi Zampieri 2009.

[5] Mócsy, Lorincz 1999, 2000, 2002, 2005, 4 voll.

[6] Solin, Salomies 1988.

 


1.      IL TERRITORIO DAGLI STAGNA RISALENDO IL MEDOACUS NELLE FONTI LETTERARIE

1.1.     L’AVVENTURA DI CLEONIMO SECONDO LIVIO

L’avventura nell’alto Adriatico di Cleonimo principe di Sparta raccontata da Tito Livio (Patavium, 59 a.C. – 17 d.C.) apre il presente lavoro e in alcuni tratti lo accompagna, in quanto, pur nella consapevolezza dei limiti di attendibilità che tale narrazione porta con sé, rimane fonte letteraria imprescindibile nel trattare aspetti storico-geografici del territorio considerato.

1.1.1    CLEONIMO IN ADRIATICO: LIVIO E DIODORO, UTILE PARALLELISMO

Siamo, secondo Tito Livio, sotto il consolato di Marco Livio Dentre e Marco Emilio, 451 U.C.,[1], quindi nel 302-301 a.C.

«... classis Graecorum Cleonymo duce Lacedaemonio, ad Italia litora adpulsa...

... Circumvectus inde Brundisii promuntorium medioque sinu Hadriatico ventis latus, cum laeva importuosa Italiae litora, dextra Illyrii Liburnique et Histri, gentes ferae et magna ex parte latrociniis maritimis infames, terrerent, penitus ad litora Venetorum pervenit. Expositis paucis qui loca esplorarent, cum audisset tenue praetentum litus esse, quod transgressis stagna ab tergo sint inrigua aestibus maritimis, agros haud procul [proximos] campestres cerni, ulteriora colles videri; esse ostium fluminis praealti quo circumagi naves in stationem tutam <possint> [vidisse], – Meduacus amnis erat, eo invectam classem subire flumine adverso iussit[2]».

Della spedizione italiota di Cleonimo parla anche Diodoro Siculo (storico greco di Agirio, 80 – 20 a.C.)[3].

Lorenzo Braccesi rileva come i filoni delle tradizioni che confluiscono in Livio e Diodoro siano chiaramente diversi, come diverse sono le loro intenzioni, interessato com’è il primo alla conflittualità fra Cleonimo e i Romani, mentre il secondo agli scontri con gli indigeni di Magna Grecia. È significativa, comunque, la presenza di punti di contatto e parallelismi fra i due racconti. Ed è proprio Diodoro, pur silente secondo Braccesi sull’avventura adriatica, ad offrire un elemento narrativo che consente di non declassarla, come argomenta Livio, a fatto episodico governato dalle vicissitudini del caso, bensì ad un preciso disegno di conquista: la presa da parte di Cleonimo di Corcira, trampolino di lancio per qualsiasi impresa in area adriatica, trasformata in sua roccaforte personale, fornitrice di denari, uomini e navi[4].

Marta Sordi va oltre, ritenendo che l’ultima impresa di Cleonimo in Italia nota a Diodoro attraverso Duride di Samo (della cui opera oggi rimangono solo frammenti) non vada ambientata al sud, bensì nei luoghi liviani, riscontrando, ad esempio, concordanza sulla data (302 a.C.), analogie nello sviluppo dei racconti (espugnazione di città, devastazione, cattura di prigionieri...) e rimanendo colpita dal fatto che se Cleonimo incontra dei “barbari”, questi non potevano essere Messapi, Japigi o Lucani, popoli che i Greci conoscevano bene[5].

1.1.2.   LA DESTINAZIONE

Dando per scontato l’arrivo di Cleonimo e della sua flotta ad litora, quale poteva essere la destinazione? Utili riflessioni in tal senso le fornisce Braccesi:

-       La fossa Philistina avrebbe potuto offrire a Cleonimo ed alla sua flotta una via per giungere ad Adria, città che era (o che da poco aveva cessato di essere) una polis greca, dove si parlava il medesimo dialetto dorico, attraverso un canale progettato con tutta probabilità da ingegneri siracusani. Una tappa per approvvigionarsi, magari, di acqua e viveri, intermedia rispetto ad un viaggio pianificato per giungere ad altri lidi.

-       Il santuario di Gerione, presso il fons Aponi, per la sua duplice connotazione di sede oracolare e di sede terapeutica, custodiva ricche e preziosissime offerte votive. Cleonimo avrebbe potuto progettare la depredazione del santuario paleoveneto, diventando profanatore sacrilego oltre che saccheggiatore di villaggi[6].

-       Seguendo, invece, la narrazione di Livio e prendendo per buona la scelta del principe spartano di dirigersi verso Padova, vedere in questa città il suo obiettivo di conquista potrebbe essere una conclusione ragionevole[7].

1.1.3.   SCONTRO NAVALE ED EPILOGO

«... Inde captivis proximo vico in custodiam datis pars fluviatiles naves, ad superanda vada stagnorum apte planis alveis fabricatas, pars captiva navigia armatis complent profectique ad classem immobiles naves et loca ignota plus quam hostem timentes circumvadunt; fugientesque in altum acrius quam repugnantes usque ad ostium amnis persecuti captis quibusdam incensisque navibus hostium, quas trepidatio in vada intulerat, victores revertuntur...»[8].

Per affrontare la navigazione via fiume e i bassi fondali della laguna, le barche usate dai Patavini sono a fondo piatto. Le navi di Cleonimo sono ferme temendo più i fondali sconosciuti che il nemico. Spunti suggestivi per parlare diffusamente, più avanti, di vie e mezzi di trasporto acquei.

«... Cleonymus vix quinta parte navium incolumi, nulla regione maris Hadriatici prospere adita discessit. Rostra navium spoliaque Laconum, in aede Iunonis veteri fixa, multi supersunt qui viderunt Patavi. Monumentum navalis pugnae eo die quo pugnatum est quotannis solemni certamine navium in oppidi medio exercetur...»[9].

Livio mostra di conoscere la tradizione riguardante i clamorosi insuccessi di Cleonimo in Adriatico, indotto alla fuga dai popoli stanziati in quelle regioni dove incautamente cercò di approdare, eventi che contraddicono, a dire il vero, la sua tesi sull’approdo casuale di Cleonimo ai lidi veneti. In tale contesto, comunque, la sconfitta inflitta a Cleonimo dai Padovani è epilogo glorioso, in un’esposizione di impronta latina, con memoria di rostri navali, di spoglie depredate al nemico e di naumachie celebrative[10].

I rostri si narrano appesi nel vecchio santuario di Giunone, magari asportati da alcune navi di Cleonimo ritrovate in quanto incagliate nei bassi fondali del Meduacus, quindi simboli di uno scontro presunto, forse frutto di reinvenzione a posteriori, fantasia collettiva allegorica[11].

1.1.4   AGROS TRIBUS MARITIMIS PATAVINORUM VICIS

Livio fornisce utilissimi riferimenti insediativi, topografici, geografici in genere.

«... in leviora navigia transgressa multitudo armatorum ad frequentes agros tribus maritimis Patavinorum vicis colentibus eam oram pervenit. Ibi egressi praesidio levi navibus relicto vicos expugnant, inflammant tecta, hominum pecudumque praedas agunt, et dulcedine praedandi longius usque a navibus procedunt. Haec ubi Patavium sunt nuntiata - semper autem eos in armis accolae Galli habebant - in duas partes iuventutem dividunt...»[12].

Il passo definisce le località Patavinorum vici, quindi documenta storicamente, per la prima volta, un legame fra il centro patavino e un’area territoriale che riconosceva essere soggetta alla sua sfera d’influenza. Frequentes agros tribus maritimis vici: sono termini che rinviano a terra e mare, in un’area di foce dove si incrociano i loro prodotti, compreso il prezioso sale, e le attività collegate, utili al sostentamento e al commercio dei Padovani[13].

Secondo Bosio, i tre villaggi possono essere indicativi di una diffusa umanizzazione lungo le vie d’acqua e nel comprensorio perilagunare[14].

Si può ritenere che Padova in epoca preromana non avesse un’unità urbana e un’unità politica regionale, pensando piuttosto ad una confederazione di vici o villaggi con una loro, sia pur modesta, struttura amministrativa, entro un tessuto abitativo discontinuo, che andò concentrandosi attraverso i secoli sulle sponde e all’interno della grande ansa del Meduacus[15], ultimo meandro nel quale si apriva il corso del fiume prima di dividersi in due rami[16].

Braccesi sottolinea come la “città-stato” Padova si trovi impegnata per la prima volta a combattere genti straniere venute da oltremare[17]. Interessante è la definizione di “città-stato”, quindi con giurisdizione che va oltre i confini della citta stessa: Padova combatte per difendere un territorio di sua pertinenza.

1.1.5   DISTANZE E SITI

«... altera in regionem qua effusa populatio nuntiabatur, altera, ne cui praedonum obvia fieret, altero itinere ad stationem navium - milia autem quattuordecim ab oppido aberat - ducta. In naves ignaris custodibus interemptis impetus factus territique nautae coguntur naves in alteram ripam amnis traicere. Et in terra prosperum aeque in palatos praedatores proelium fuerat refugientibusque ad stationem Graecis Veneti obsistunt; ita in medio circumventi hostes caesique: pars capti classem indicant regemque Cleonymum tria milia abesse»[18].

Le navi di Cleonimo sono ancorate a XIV miglia dalla città: sono 21 km, misura che per via terrestre potrebbe condurre all’attuale località di Porto Menai, dove l’indicazione Ad Portum della Tabula Peutingeriana indica uno scalo fluviale di età romana[19], presente con ogni probabilità anche in epoca precedente.

Tabula Peutingeriana,

particolare di segmentum III,5

È quanto rileva Luciano Bosio dalle indicazioni di Livio, immaginando un centro di vita sviluppatosi attorno allo scalo di Porto Menaj, forse uno dei tre vici liviani, assieme a Mira e Piazza Vecchia. Inoltre il luogo di sosta della flotta di Cleonimo a tre miglia di distanza, dunque a 4,5 km scendendo il corso del Meduacus Maior, poteva corrispondere all’attuale borgata di Bastie Grandi, lontana da Porto Menaj circa 5 km[20].

“Paesaggi artificiali a Venezia”: paleoidrografia del territorio di Sant’Ilario[21]

La bastia (da “bastita”) è costruzione militare. Un tempo, tra le antiche località di Curano[22] e Sant’Ilario (attuale territorio) delle Giare, sorgevano torri, castelli e bastie. Originariamente il territorio era diviso in Bastie, Bastiette, Bastie Grandi e Bastie interne. La memoria di questi luoghi rimane ancor oggi viva nel nome delle vie[23].

1.1.6.   UN RIFERIMENTO: STRABONE

Strabone, storico e geografo greco del Ponto, contemporaneo di Livio, nel libro V della sua “Geografia”, riferendosi a Padova scrive «... Si risale dal mare alla città lungo un fiume che partendo da un grande porto scorre attraverso le paludi per 250 stadi. Il porto si chiama Medoaco ed è omonimo del fiume...»[24].

Si può comparare la misura che indica Strabone tra Padova e un “grande porto”, cioè 250 stadi, con le distanze in miglia riportate da Livio. Considerando che i dati forniti da Strabone sono generalmente attendibili, sui 250 stadi 60 potrebbero corrispondere alla navigazione lagunare, dal sito dell’attuale Malamocco, lungo un percorso ricalcato oggi dai canali di Poveglia e di Freganzorzi[25].

Da ciò risulta che Cleonimo fosse giunto proprio a quel sito, tra laguna e mare, quand’era ancora un modesto approdo della Padova preromana, non ancora il ricco scalo marittimo citato da Strabone, forse conosciuto per esperienza diretta da Livio. Uno scalo marittimo con lo stesso nome del fiume. Un  nome che confermerebbe il sito dello sbarco di Cleonimo nell’area di Malamocco, se è vero che il toponimo moderno deriva dall’antico attraverso una serie di facili variazioni fonetiche: Metamauco > Memedocco > Medamocco > Medóakos[26].

Giunto alle spiagge dei Veneti, Cleonimo ritiene opportuno mandare alcuni uomini in perlustrazione, forse reso prudente dal paesaggio paludoso che ha di fronte. Nel merito, seppur indirettamente, torna utile un’altra descrizione di Strabone:

«... Tutta la Celtica al di là del Po abbonda di fiumi e di paludi, ma principalmente la parte occupata dagli Eneti; nella quale poi si aggiungono anche gli accidenti del mare. Perocché quasi soli que’ luoghi, in tutta l’estensione del nostro mare, soggiacciono al flusso e al riflusso come i paesi posti lungo l’Oceano; d’onde poi la maggior parte della pianura è piena di laghi marini. Quindi di canali e di argini si provvedono gli abitanti, come si fa nel Basso Egitto e così il paese in parte si asciuga e si coltiva, in parte è navigabile. Delle città poi alcune sono isole, alcune son circondate dall’acqua soltanto in parte: e quelle che stanno al di là delle paludi nella terra ferma hanno fiumi che si possono rimontare fino ad una mirabile altezza...»[27].

1.1.7.   DOVE APPRODÒ CLEONIMO? DUE IPOTESI

A quale foce di fiume assai profondo sarebbe approdato Cleonimo?

Bosio senza alcun dubbio fa corrispondere il fiume profondo e navigabile, quindi di grande portata, e la sua foce, luogo per un attracco sicuro, ad un ramo di fiume che seguiva la direzione dell’odierna Riviera del Brenta, il Meduacus Maior, ed al suo scalo fluviale[28].

Concorda Braccesi: la flotta approda alla foce del Meduacus Maior, cioè il Brenta, che nell’antichità, attraversati gli stagna liviani, sfociava in mare nell’area di Malamocco[29]

Diversa l’opinione di Loredana Capuis[30]. La studiosa si rifà ai numerosi ritrovamenti archeologici di epoca preromana nell’area dove il fiume si biforcava (Camin, Terranegra, Granze di Camin) e lungo il Meduacus Minor, altro ramo del fiume, da Villatora a Boion, a Lova, Idrovora di Lova, Busa di Guia, fino a Piove di Sacco e Campolongo Maggiore. Individua nella stessa area segnali dell’influenza padovana e di interazioni con la grande città dei Veneti. Pochi, invece, i ritrovamenti lungo la direttrice del ramo maggiore del fiume, tali da non supportare l’ipotesi di una significativa antropizzazione come immaginata da Bosio (vedi precedente nota 20). Sul dato archeologico, dunque, la Capuis riconosce un dinamismo crescente dell’area intorno al Meduacus minore, valutando la possibilità, considerato che la già citata distanza delle 14 miglia non intercorre soltanto tra Padova e Porto Menai, ma anche tra Padova e Lova, che Cleonimo fosse approdato a Lova e che i tre villaggi fossero altri. Questo anche sulla base di riferimenti onomastici e toponomastici che rimandano ad una direttrice di spostamenti ed influenze meridionale, da e verso l’“area greca” adriese. Di notevole importanza, in tal senso, due ciottoloni funerari rinvenuti nella zona di Piove di Sacco, poiché ad una tipologia patavina aggiungono un’onomastica con un’evidente componente greca: il Pilpotei di Pa 9-Piove di Sacco, dove la cittadella indicata si presenta con il nome greco *-p°li- ed il Mustai di Pa 10-Piove di Sacco o Campolongo Maggiore, con riferimento concettuale ad una classe sacerdotale (dedicata probabilmente a culti misterici di tipo orfico), quindi ad un nucleo abitativo-cultuale[31].

Analoga è l’opinione di Andrea Gloria[32], che si rifà alle argomentazioni di Jacopo Filiasi[33]: gli Spartani di Cleonimo sarebbero entrati dalla foce del Medoaco Minor in territorio patavino verso Montalbano, Fogolana e Conche, di fronte a Chioggia, quindi i tre vici vanno cercati nel territorio di Piove di Sacco, luogo prosperoso almeno fino al 1000, individuando in uno di questi Codevigo. Sarebbero rispettate le distanze indicate da Livio, rigettando l’opinione riguardo un’espansione delle acque salse fin dentro il territorio (semmai i fiumi in ambiente lagunare apportano detriti che fanno avanzare il terreno), sottolineando come in quei luoghi prosperò San’Ilario, badia con casale.

Continuando con le sue considerazioni, la Capuis afferma che proprio da Lova i Colli Euganei si vedono meglio. L’argomento non è dirimente, in quanto i colli sono visibili in modo pressoché analogo da qualsiasi luogo della laguna sud e del suo entroterra, come dimostrano le due foto seguenti, la prima scattata da una zona prossima a Lova, la seconda da Porto Menai.

Colli Euganei visti dall’area di Lova. Colli Euganei visti da Porto Menai.

Comunque l’ipotesi della Capuis, è attendibile e da più parti condivisa: secondo Antonio Marchiori, anche in base alla Carta Geomorfologica della Provincia di Venezia, nella seconda Età del Ferro (a partire dal V sec. a.C. circa), il collegamento più importante tra Padova Venetica e il mare era il ramo fluviale che giungeva a Lova. La completa attivazione del ramo nord, il Meduacus Maior, sarebbe avvenuta in piena età romana[34].

Carta Geomorfologica della Provincia di Venezia (Geomorfologia 2004, p. 295)

 

1.2.     ALTRE FONTI LETTERARIE

1.2.1.   VIRGILIO, LIVIO E IL TOPONIMO TROIA

Antenore, nel poema di Virgilio, reperisce nuove sedi per i suoi Teucri fondando Padova e lì affigge le armi di Troia.

«... Antenor potuit mediis elapsus Achiuis
Illyricos penetrare sinus atque intima tutus 
regna Liburnorum et fontem superare Timavi, 
unde per ora novem vasto cum murmure montis

it mare proruptum et pelago premit arva sonanti.
Hic tamen ille urbem Patavi sedesque locavit 
Teucrorum et genti nomen dedit armaque fixit 
Troia, nunc placida compostus pace quiescit:...
»[35].

Livio recupera una tradizione che vede giungere Antenore insieme ad un gruppo di Veneti, scacciati dalla Paflagonia e dopo aver perduto il loro re.

«Iam primum omnium satis constat Troiā captā in ceteros saevitum esse Troianos, duobus, Aenēae Antenǒrique, et vetusti iure hospitii et quia pacis reddendaeque Helĕnae semper auctores fuerant, omne ius belli Achīvos abstinuisse; casibus deinde variis Antenǒrem cum multitudine Enĕtum, qui seditione ex Paphlagoniā pulsi et sedes et ducem rege Pylaemĕne ad Troiam amisso quaerebant, venisse in intimum maris Hadriatici sinum, Euganĕisque qui inter mare Alpesque incolebant pulsis Enĕtos Troianosque eas tenuisse terras. Et in quem primo egressi sunt locum Troia vocatur pagoque inde Troiano nomen est: gens universa Venĕti appellati...»[36].

Virgilio e Livio, dunque, narrano entrambi dell’arrivo in territorio veneto di Antenore, condottiero “ecista” di Patavium. In Livio, Antenore giunge assieme ad un gruppo di Enĕti, abitanti della Paflagonia, che con i Troiani daranno origine al popolo dei Veneti.

La leggenda sull’origine paflagone degli Enĕti fu forse elaborata dai Focei (che giunsero a navigare nell’alto Adriatico fin dal VI sec. a.C.), successivamente alla fondazione di Amisos/Enetè (nel Ponto). Essi furono artefici di definizioni onomastiche come Adrié (da Adriés, originariamente applicato al Po, l’Eridano della tradizione), che indicò l’emporio situato presso il fiume. L’“etichetta troiana” (di derivazione omerica), che assegnarono ai Veneti, oltre a sancire il fruttuoso rapporto di scambi con loro, venne applicata nell’ambito del tessuto toponomastico, forse ancor priva di riferimenti alla figura di Antenore[37].

Poiché nel Mediterraneo occidentale il toponimo Troia e la deduzione di fondazioni troiane sono ampiamente diffusi, Domenico Musti ha ricercato tradizioni e particolarità topografiche a giustificazione di ciò[38]. Partendo dall’espressione “una città simile a Troia”, relativa a Siri (Magna Grecia), contenuta in un passo di Licofrone[39], Musti non si limita a considerare soltanto la “rocca” come caratteristica della città, ma anche la presenza di fiumi nei pressi del mare:

-       circa la fondazione di Butroto in Epiro da parte di Eleno, Virgilio dice che ante urbem scorre un falsus Simois[40];

-       Strabone riferisce la tradizione secondo cui i fiumi confluenti verso Segesta vengono ribattezzati dagli esuli di Ilio con i nomi dei fiumi troiani[41];

-       Vigilio lascia intendere che Enea troverà nel Lazio un altro Scamandro e un altro Simoenta[42].

-       Siri stessa, secondo la tradizione, sorge su un’altura vicina al mare ed è compresa tra due fiumi.

Troia dunque, per i Greci indica un’altura fluvial-marittima, possibilmente mesopotamica. Un luogo chiamato Troia, secondo Musti, sarebbe situato in una zona compresa tra i due Meduaci[43].

Braccesi concorda nel definire “paesaggio troiano” quello dei due Medoaci. Inoltre considera plausibile dedurre dalle righe liviane che l’approdo di Antenore e Cleonimo sia avvenuto al medesimo lido, identificando quindi in Troia la realtà infrastrutturale del porto del Medóakos, area del successivo insediamento di Malamocco[44].

Si può considerare complementare il saggio sul municipio patavino di Maria Silvia Bassignano, in cui descrive un sistema di amministrazione periferica basata su ampi distretti (pagi) e singoli abitati minori (vici). Si conoscono i nomi di tre pagi: Troianus, Misquilensis, Disaenius. Il primo, noto attraverso Livio, si suppone fosse situato verso la foce del Brenta; il secondo nell’odierna pieve di Sant’Eulalia, dato che un sarcofago probabilmente rinvenuto in quel luogo reca l’epigrafe del veterano Gaio Vettonio Massimo, il quale lascia paganis Misquilen(sibus) 800 sesterzi perché gli possano tributare annuali onori funebri[45]; il terzo con sede ad Albignasego, dove venne scoperta un’iscrizione che lo documenta[46]. Per i vici, unico riferimento rimangono i tres maritimis Patavinorum vici del racconto su Cleonimo, possibile riflesso di una situazione contemporanea all’autore[47].

Quindi, tornando al pagus Troianus, è suggestivo immaginare una Troia litoranea parte di un pagus mesopotamico (tra i due Meduaci), amministrato da Patavium.

Da: Zustinian 1786, Temanza tab. I,

 

1.2.2.   PLINIO E CASSIODORO: LA LAGUNA

Nella Naturalis Historia Plinio spazia da un luogo all’altro descrivendone caratteristiche e fenomeni. Parlando della Laguna Veneta, ci fa conoscere uno spazio acqueo infrastrutturato fin dai tempi antichi. Giovanni Uggeri, in sintesi, cita quanto tramandato da Plinio[48]: le canalizzazioni etrusche, nello specifico la «... fossa Flavia, quam primi a Sagi fecere Tusci egesto amnis impetum per transversum in Atrianorum paludes quae Septem Maria appellantur...»[49]; la fossa Philistina, anch’essa d’epoca pre-romana; le fossiones[50]. Argomenti che saranno ripresi parlando di navigazione endolagunare e fluviale, come sarà ripresa la nota descrizione di Cassiodoro delle barche che sembrano scivolare sui prati. Un estratto: «... carinae vestrae flatus asperos non pavescunt: terram cum summa felicitate contingunt et perire nesciunt, quae frequenter inpingunt...»[51].

1.3.     LE FONTI ITINERARIE

«... Primum itineraria omnium regionum, in quibus bellum geritur, plenissime debet habere perscripta, ita ut locorum intervalla non solum passuum numero sed etiam viarum qualitate perdiscat, conpendia, deverticula montes flumina ad fidem descripta consideret, usque eo, ut sollertiores duces itineraria provinciarum, in quibus necessitas gerebatur, non tantum adnotata sed etiam picta habuisse firmentur, ut non solum consilio mentis verum aspectu oculorum viam profecturus eligeret...»[52]. Secondo quanto ci narra  Flavius Vegetius Renatus (alto funzionario del tardo impero) a cavallo tra IV e V sec. d.C., le fonti itinerarie (itineraria adnotata, in forma scritta, o picta, cioè dipinta) costituivano uno degli strumenti più significativi per facilitare la localizzazione topografica, distanza in miglia, toponomastica delle stazioni stradali romane. Documenti funzionali ai trasferimenti di truppe, ma anche, probabilmente, a tutte le altre pratiche di viaggio, sia di carattere pubblico (di magistrati, funzionari, ambasciatori...) che privato (per scopi commerciali, religiosi...), poiché permettevano di programmare i viaggi “con la mente e anche con gli occhi”. Itineraria giunti fino a noi sono l’Itinerarium Antonini e il Burdigalense (“scritti”) e la Tabula Peutingeriana (“dipinta”), tutti e tre datati, pur con vari dubbi, fra il III e la prima metà del IV sec. a.C.[53].

1.3.1.   ANTONINI AUGUSTI ITINERARIA PROVINCIARUM ET MARITIMUM

Nei codici è indicato come “itinerario delle province di Antonino Augusto”. È composto di due sezioni: l’Itinerarium Provinciarum in cui vengono descritti percorsi per via di terra, l’Itinerarium Maritimum in cui vengono descritte rotte marittime. Nella tradizione viene attribuito a Caracalla (211-217 d.C.) in quanto presenta elementi dell’organizzazione di epoca medio-imperiale. È però ipotesi recente ritenere che l’attribuzione di quest’opera ad un imperatore sia alquanto discutibile, tipico espediente per assicurare fortuna al testo[54].

Se l’inquadramento cronologico resta dubbio, altrettanto lo è il suo principio ordinatore: non sembra un testo ufficiale, bensì una compilazione privata, forse di carattere erudito e didattico, ispirata a qualche carta stradale del tempo. L’elenco dei percorsi stradali è alquanto disorganico[55].

Basilare riferimento per conoscere l’Itinerarium Antonini è l’edizione critica Itineraria Romana vol. 1 di Otto Cuntz edita per la prima volta a Stuttgart nel 1929. Di seguito lo “stemma” [56]:

P = Codex Escorialensis R II 18

D = Codex Parisinus Regius 7230 A

L = Codex Vindobonensis 81

B = Codex Parisinus Regius 4807

β = Codex Vindobonensis 12825

R = Codex Florentinus Laurentianus 89

C = Codex Pithoeanus, nunc Parisinus 4808

 

Un tratto dell’itinerario riportato qui a fianco attesta l’esistenza di un percorso misto terrestre/lagunare: da Rimini a Ravenna diretto via terra, poi per i Septem Maria verso Altino ed Aquileia[57] .

Nella tradizione rappresentata dal Codex Escorialensis appare septimaria. I “Sette mari” sono le Atrianorum paludes di Plinio.

1.3.2.   ITINERARIUM BURDIGALENSE

L’Itinerarium Burdigalense ci è trasmesso da tre codici del IX e X sec. Il nome deriva dal luogo di partenza del percorso descritto: Burdigala, l’odierna Bordeaux. È noto anche come Itinerarium Hierosolymitanum, ponendo così in rilievo il punto d’arrivo: Gerusalemme. L’itinerario da Bordeaux alla Palestina e il ritorno fino a Milano sono suddivisi in 18 segmenti, i cui capolinea coincidono con i principali centri attraversati, in genere capoluoghi delle diocesi e delle province costantiniane, oltre che la capitale dell’impero[58].

È un itinerario privato, redatto in ricordo di un viaggio del 333 d.C. condotto da un anonimo pellegrino d’Aquitania. Ad ogni tratto descritto l’anonimo autore fa seguire una breve sintesi informativa[59].

Anche per l’Itinerarium Burdigalense è opera basilare l’edizione critica Itineraria Romana vol. 1 di Otto Cuntz. Di seguito lo “stemma” (due sono le tradizioni) [60]:

 

P = Codex Pithoeanus, nunc Parisinus 4808

V = Codex         Veronensis 52

 

È in questo itinerarium che, nel percorso Vicenza-Aquileia, appare a dodici miglia da Padova la Mutatio Ad Duodecimum[61], dove Bosio, prima di altri, fa coincidere San Bruson con la statio Maio Meduaco, che definisce mansio[62].

 

1.3.3. TABULA PEUTINGERIANA

Quando nel 1507 il bibliotecario dell’imperatore Massimiliano I Konrad Celtes raccontò di aver trovato questa pergamena lunga 6,752 metri e larga 34 centimetri, ora conservata nella Biblioteca Nazionale di Vienna sotto la denominazione di Codex Vindobonensis 324, tacque sul luogo del rinvenimento per evitare eventuali diritti di proprietà avendo compreso l’importanza della scoperta. Avutala in eredità da Celtes, si rese conto del suo valore eccezionale pure il cancelliere di Augsburg Konrad Peutinger, che la rese nota. Fu pubblicata nel 1598 da un suo discendente, Marcus Welser, e questa preziosa riproduzione  diventò l’editio princeps[63].

In merito alla Tabula Peutingeriana esiste un discreto accordo nel considerare l’importanza di questa “carta itinerario” nell’ambito storico della cartografia, contribuendo, attraverso le numerose edizioni, alla nostra conoscenza della geografia antica. Lungo la striscia, divisa in 11 segmenta, da occidente verso oriente corrono strade, coste e fiumi quasi paralleli tra loro. Rappresenta il mondo conosciuto dai Romani meno la porzione occidentale, forse contenuta in un dodicesimo segmento. Alcuni luoghi sono localizzati meglio dalla presenza di vignette. Tra una località e l’altra si leggono le distanze marcate in miglia romane; fa eccezione la Gallia, con l’uso delle leghe, e la Persia, con le parasanghe. Non mancano alcune frasi esplicative. È ormai parere pressoché unanime che la Tabula Peutingeriana sia una copia medievale di una carta originale dell’età romana imperiale, traendo origine dall’Orbis Pictus ordinato da Augusto, con revisioni e aggiunte fino all’epoca di Giustiniano[64].

Notizie sull’orbis pictus, la cosiddetta “carta di Agrippa”, documento non pervenuto, si ricavano dai suoi fruitori, soprattutto Plinio: «... Agrippa quidem in tanta viri diligentia praeterque in hoc opere cura, cum orbem terrarum urbi (vel orbi) spectandum propositurus esset, errasse quis credat et cum eo Divum Augustum? Is namque conplexam eum porticum ex destinatione et commentariis M. Agrippa a sorore eius inchoatam peregit...»[65]. Si trattò di una produzione cartografica monumentale che rappresentava tutta l’ecumene, compresi quindi i siti estranei al diretto controllo romano, in sintonia con i più maturi portati dell’ideologia augustea di conquista, propagandando un’egemonia sull’intero orbis terrarum per scripta, per titulos e per imagines[66].

Alla base della Tabula Peutingeriana stanno gli itineraria, ma in gran parte vuole essa stessa presentare all’osservatore un itinerario[67].

Per Richard J.A. Talbert la nostra profonda ignoranza sulle grandi mappe greche e romane in generale e in particolare sull’originale della tabula non consente di determinare con certezza il suo livello di novità. È comunque plausibile pensare che “no previous mapmaker had been so bold as to take a frame of such extreme dimensions and then to set the entire orbis terrarum within it, with the city of Rome as the center point”[68].

Punto di partenza insostituibile per qualsiasi ricerca sul contenuto della Tabula, anche se oggi una parte del lavoro risulta superata grazie a nuove scoperte archeologiche ed epigrafiche e ad una più matura conoscenza dell’evoluzione del paesaggio antico, è il ponderoso volume di topografia storica “Itineraria romana. Römische Reisewege an der Hand der Tabula Peutingeriana” di Konrad Miller, edito a Stuttgart nel 1916, contenente l’analisi della rete stradale del mondo romano, suddivisa in 141 segmenti, con l’elenco delle singole tappe, oltre tremila, per ognuna delle quali viene fornita una rassegna delle fonti ed una proposta di localizzazione[69].

Di seguito è riportata copia della pagina che descrive il tratto di itinerario della Tabula Peutingeriana da Butrio, presso Ravenna, alla stazione Adportū, con le distanze in miglia ed alcune note esplicative topografiche e toponomastiche. Si noti come Miller riferisca le attestazioni letterarie di Strabone, Plinio e Livio alla stazione Mino Meduaco, quindi all’area del ramo minore del Brenta, implicita conferma del’affermazione tarda del ramo maggiore[70].

 

.

 

Segue la porzione di Tabula dove sono situati i luoghi che qui interessano, nello specifico Mino Meduaco, Maio Meduaco, Ad portum:

 

da Tab. Peut. III, 5, ed. Miller.

1.3.4    AD DUODECIMUM E MAIO MEDUACO: C’È CORRISPONDENZA?

Mauro Calzolari, in uno dei suoi saggi sugli itinerari romani, propone un confronto tra Itinerarium Burdigalense, Itinerarium Antonini e Tabula Peutingeriana[71] (tabella ripresa anche da Talbert[72]):

It. Burdigalense

..........

civitas Patavi

Mutatio Ad Duodecimum

..........

mil.

 

X

XII

...

 

It. Antonini

Patavis civitas

 

..........

m.p.

 

XXII

 

...

 

T.Peutingeriana

Patavis

 

..........

mil.

 

XXII

 

...

 

A commento del primo percorso attraverso l’Italia dell’Itinerarium Burdigalense (Briançon, nel tronco Milano-Aquileia fa coincidere l’attuale San Bruson, citando Bosio[73], con la mutatio Ad Duodecimum, a 12 miglia da Padova nel punto d’incontro con la via paralitoranea proveniente da Adria[74]. Mentre Bosio, però, riporta un’ulteriore corrispondenza tra San Bruson e la stazione Maio Meduaco della Tabula Peutingeriana, questa non appare nella tabella di Calzolari. Ciò potrebbe sottintendere quel margine di dubbio insito in comparazioni di tale natura, anche soltanto nei termini: mansio usato da Bosio, mutatio nell’Itinerarium Burdigalense, dove la tipologia mansio è assegnata ad altri siti.

 


[1] Liv. 10, 1.

[2] Liv. 10, 2: “... la flotta dei Greci di Cleonimo duce dei Lacedemoni si avvicinò alle sponde dell’Italia... Doppiato quindi il promontorio di Brindisi, e trovatosi in mezzo all’Adriatico dov’era stato sospinto dai venti, poiché temeva a sinistra le spiagge importuose dell’Italia, a destra gli Illiri, i Liburni e gli Istri, popolazioni selvagge e in gran parte tristemente famose per le loro piraterie, giunse fino alle spiagge dei Veneti. Fatti sbarcare pochi uomini per esplorare i luoghi, qund’ebbe sentito che si trattava di una stretta lingua di terra, superata la quale ci si trovava di fronte a delle lagune formate dalle maree, che non lontano si scorgevano aperte campagne e più oltre apparivano delle colline, e che v’era la foce di un fiume assai profondo, dove si potevano far girare le navi verso un ancoraggio sicuro – era il fiume Meduaco –. ordinò di far entrare là la flotta e di risalire il fiume contro corrente...”.

[3] Diod. Sic. 20, 24.

[4] Braccesi 2017, pp. 21-28.

[5] Sordi 2000, pp. 255-259.

[6] Braccesi (Braccesi 1984, pp. 23-25) parla dell’approdo ultimo dell’eroe troiano, dopo lunga navigazione, in area euganea. Ad Abano, un oracolo era dedicato a Gerione, divinità benefica, che dimorava presso acque salutari termali. Il dio, che le tradizioni popolari lo abbinavano a fenomeni di vulcanismo tellurico, non va identificato con il mostro a tre teste o il gigante alato a tre corpi della leggenda greca, alla quale comunque sarà assimilato successivamente (Mastrocinque 1987, pp. 55-58). Il poeta Claudiano (IV-V sec. d.C.), probabilmente a conoscenza di una tradizione perduta, canta i miracula di Aponus. Scrive (Claud. carm. min. 26, 1) che la fonte di Abano dà vita alla città di Antenore («Fons, Antenorae vitam qui porrigis urbi»), fa menzione (Claud. carm. min. 26, 89-90) di coloni insediatisi ad Abano sotto la protezione di Aponus, («Felices, proprium qui te meruere, coloni, / fas quibus est Aponon iuris habere sui»), parla (Claud. carm. min. 26, 38) di armi donate dal re che brillano sotto lo specchio lacustre della fonte di Abano («tunc veteres hastae, regia dona, micant»). Sono le armi di Antenore? Interpretazione suggestiva se si accompagna ai versi in cui Virgilio lo mostra nell’atto di deporre in loco e consacrare agli dei le armi troiane. La tradizione arcaica di cui fa tesoro Claudiano assegnerebbe dunque ad Abano, anziché a Padova, il primato nell’insediamento dell’eroe troiano (Braccesi 1984, p. 28). Si ritiene che l’oracolo di Gerione dovesse essere consultato, nel lungo periodo, con assiduità e grande venerazione. Ad esempio Lucano (Luc. fars. VII 192-200) narra della profezia sull’esito della battaglia di Farsalo fra Cesare e Pompeo rivelata da un «Euganeo...augur colle / sedens...» (“augure che siede su un colle degli Euganei”) «... Aponus terris ubi fumifer exit...» (“dove il fumoso Aponus esce dalla terra”). E Tiberio, racconta Svetonio (Svet. de vita caes. 3, 14) «... cum Illyricum petens iuxta Patavium adisset Geryonis oraculum, sorte tracta, qua monebatur ut de consultationibus in Aponi fontem talos aureos iaceret, evenit ut summum numerum iacti ab eo ostenderent; hodieque sub aqua visuntur hi tali...» (“... dirigendosi verso l’Illirico era andato a consultare presso Padova l’oracolo di Gerione, e le sorti gli dissero di gettare alcuni dadi d’oro nella fonte di Apono per avere una risposta alle sue domande; fu così che i dadi da lui gettati segnarono il numero più alto e ancor oggi possono essere veduti sotto l’acqua...”).

[7] Braccesi 2017, pp. 52-54, 64-66.

[8] Liv. 10, 2: “... Così, dopo aver lasciato i prigionieri in un villaggio dei dintorni perché fossero sorvegliati, i Patavini, imbarcandosi parte su battelli da fiume costruiti apposta col fondo piatto peraffrontare i bassi fondali delle lagune, e parte invece sulle imbarcazioni sottratte ai Greci, raggiunsero la flotta nemica, circondandone le navi rimaste immobili per paura del fondale sconosciuto più che del nemico. E mentre i Greci fuggivano verso il largo senza nemmeno cercare di opporre resistenza, i Patavini li inseguirono fino alla foce del fiume...”.

[9] Liv. 10, 2, 14-15: “... Cleonimo se ne partì con soltanto un quinto della flotta intatto, senza aver raccolto alcun risultato in nessuna parte dell’Adriatico. A Padova ci sono ancor oggi molte persone che hanno visto i rostri delle navi e le spoglie spartane appese nel vecchio santuario di Giunone. A ricordo di quella battaglia fluviale, nel giorno in cui essa fu combattuta si tengono oggi solenni gare di navi lungo il fiume che scorre attraverso la città”.

[10] Braccesi 2017, pp. 62-63.

[11] Braccesi 2017, p. 65.

[12] Liv. 10, 2: “... trasferito il grosso dei soldati su navi più leggere giunse presso campagne popolose, poiché su quella riva, in prossimità del mare, sorgevano tre villaggi di Padovani. Allora sbarcano e, dopo aver lasciato un piccolo presidio a difesa delle navi, espugnano i villaggi, incendiano le case, fanno preda d’uomini e di bestiame e, per la brama del bottino, s’allontanano ovunque un po’ troppo dalle navi. Quando a Padova arrivò la notizia di ciò che stava succedendo, gli abitanti, costretti ad un perenne allarme dalla minaccia dei Galli, divisero le proprie forze in due contingenti...”.

[13] Bosio 1981b, p. 10.

[14] Bosio 1981b, p. 14.

[15] Fogolari 1981, p. 43.

[16] Bosio 1981b, p. 7.

[17] Braccesi 2017, p. 64.

[18] Liv. 10, 2: ... uno si portò nella zona in cui erano stati segnalate le incursioni nemiche, l'altro, seguendo un percorso diverso per non incontrare gli avversari, si diresse invece verso il punto in cui erano ancorate le navi, a quattordici miglia dalla città. Eliminati gli uomini di guardia con un attacco di sorpresa, si riversarono sulle navi, costringendo i marinai a spostarle sulla sponda opposta del fiume. Anche lo scontro sulla terraferma contro gli autori dei saccheggi ebbe esito positivo. E mentre i Greci cercavano scampo in direzione delle navi, vennero affrontati dall'altro contingente di Veneti, che li accerchiò e massacrò. Alcuni prigionieri rivelarono che la flotta col re Cleonimo si trovava a tre miglia di distanza...”.

[19] Tabula Peutingeriana, segmentum III, 4-5.

[20] Bosio 1994, pp. 219-220.

[21] Primon 2017, p. 47.

[22] Poppi 1977, p. 50: “... la villa di Curano sorgeva sulle sponde del fiume omonimo, a sud di Porto (Porto Menai). Il nome è oggi rimasto a poche case e ad uno scolo campestre, ma nel medioevo era conosciuto in tutto il Padovano sia per la torre che qui si ergeva, sia per la famiglia che con esso si denominò. Il più famoso dei Curano fu Rolando. Console di Padova nel 1142...”.

[23] Vulcano 2007, p. 20. In una lettera, che sarà ripresa più avanti, inviata in data 4/11/1967  da Don Gallo (Massanzago) alla Soprintendenza alle Antichità, si legge: “Da un anno a questa parte sto facendo ricerche nuovamente alle BASTIE di MIRA (Malcontenta) nell’area antica dell’ex monastero Ilariano e mi sono portato anche nella zona del famoso PORTO CURANO dove scorreva anticamente il BRENTA”.

[24] Strab. 5, 1, 7.

[25] Girotto, Rosada 2015, pp. 161-162.

[26] Braccesi 2017, pp. 42-43.

[27] Strab. 5, 1, 5.

[28] Bosio 1994, pp. 217-218.

[29] Braccesi 2017, p. 42.

[30] Capuis 1994, pp. 75-79.

[31] Prosdocimi 1988, p. 411.

[32] Gloria 1974 (1862), pp. 317-318 III vol.

[33] Filiasi 1811, pp. 182 segg.

[34] Marchiori 2013, p. 6.

[35] Verg. Aen. 1, 242-249: “... Ha potuto Antenore, in mezzo agli Achivi sfuggendo, / giungere ai golfi d’Illiria e, sicuro, nel cuore dei regni / dei Liburni, e passare la fonte del fiume Timavo, / donde per nove foci, con vasto fragore del monte, / va, mare in impeto, e preme i campi con onde sonanti. / Qui tuttavia la città ha fondato di Padova e sedi / per i Teucri, e un nome ha dato alla gente ed ha appeso /  di Troia le armi; ora in placida pace riposa”.

[36] Liv. 1, 1: “Anzitutto concordemente si tramanda che dopo la presa di Troia i Greci infierirono contro tutti gli altri Troiani, e nei riguardi di due soli, Enea e Antenore, si astennero dal trattamento di guerra, sia per antichi legami di ospitalità,  sia perché sempre erano stati fautori della pace e della restituzione di Elena; dopo varie vicende poi, insieme con un gruppo di Eneti, i quali, cacciati in seguito ad una sedizione dalla Paflagonia e perduto sotto le mura di Troia il re Pilemene, cercavano una sede e un capo, Antenore pervenne nella parte più interna dell’Adriatico, e cacciati gli Euganei, che abitavano fra il mare e le Alpi, gli Eneti e i Troiani occuparono quelle terre. Il luogo in cui dapprima presero piede fu chiamato Troia, ed è rimasto il nome di Troiano a quel distretto; l’intera gente prese il nome di Veneti...”.

[37] Antonelli 2008, p. 186.

[38] Musti 1994, pp. 95-100.

[39] Licofr. Alexandra, pp. 984 sgg.

[40] Verg. Aen. 3, 242 sgg.

[41] Strab. 13, 1, 53.

[42] Verg. Aen. 6, 88 sg.

[43] Musti 1994, pp. 95-100.

[44] Braccesi 2017, pp. 46-47.

[45] CIL V 2090.

[46] Ann. ép. 1947, 45: “PAGO·DISAENIO / LOCVS·PRIVATVS / EST / LEX·PAGANIS / CAPTVRAE·HS·X. Le nom du pagus Disaenius est nouveau; la lex capturae édicterait le tarif exigé pour jouir du droit de pêche et de chasse (la lex capturae stabiliva la tariffa richiesta per godere del diritto di oesca e di caccia)”.

[47] Bassignano 1981, pp. 203-205.

[48] Uggeri 1987, pp. 307-308.

[49] Plin, nat 3, 120: “… la fossa Flavia, che i Tusci per primi fecero dal Sagis dopo aver scaricato l’impeto del fiume trasversalmente nelle paludi degli Atriani che sono chiamate Sette Mari...”.

[50] Plin, nat 3, 121.

[51] Cassiod., var. 12, 24: “... Le vostre imbarcazioni non temono i venti violenti, toccano il terreno con grandissima facilità senza subire danni e non si rovinano, anche se urtano frequentemente...”.

[52] Veg., epit. mil. 3, 6 “...Un comandante deve innanzitutto possedere itinerari assolutamente precisi di tutte le regioni nelle quali si conduca una guerra, così da conoscere bene le distanze fra i diversi luoghi non solo per il numero delle miglia, ma anche per la situazione viaria; deve esaminare le scorciatoie, le deviazioni, i monti, i fiumi, che devono essere fedelmente descritti; addirittura i comandanti più abili assicurano di aver posseduto itinerari delle province, dove la necessità li aveva portati, non solamente scritti ma anche disegnati, per poter scegliere, al momento della partenza, il cammino non solamente con la mente ma anche con la vista...”.

[53] Basso 2016, p. 28.

[54] Calzolari 1996, p. 376.

[55] Basso 2016, p. 29.

[56] Cuntz 1929, pp. IV-V.

[57] Cuntz 1929, p. 18.

[58] Calzolari 1997, p. 127.

[59] Basso 2016, p. 31.

[60] Cuntz 1929, pp. VII-VIII.

[61] Cuntz 1929, p. 88.

[62] Bosio 1970, pp. 56-57.

[63] Bosio 1983, pp. 13-15.

[64] Levi 1967, pp. 17-22.

[65] Plin, nat 3, 16-17: “… Chi può pensare che abbia fornito dati inesatti proprio Agrippa, uomo di così grande precisione e che per di più si era dedicato a quest’opera con tanta cura, dovendo sottoporre allo sguardo di tutto l’orbe (o di tutta l’Urbe) la raffigurazione del mondo intero? E con Agrippa avrebbe sbagliato anche il divino Augusto? Fu infatti Augusto a completare il portico contenente quel disegno, la cui costruzione era stata iniziata, ispirandosi al progetto e agli appunti di Marco Agrippa, dalla sorella di quest’ultimo...”.

[66] Cresci 1993, pp. 215-216.

[67] Levi 1967, pp. 25-26.

[68] Talbert 2010, p. 162.

[69] Calzolari 2003, p. 67.

[70] Miller 1916, cc. 309-310.

[71] Calzolari 1997, p. 148.

[72] Talbert 2010, pp. 158-161.

[73] Bosio 1991, p. 73.

[74] Calzolari 1997, p. 157: “559,4: mutatio Ad Duodecimum, mil XII. Stazione a 12 miglia da Padova, nel punto d’incontro con la via paralitoranea proveniente da Adria; coincide con l’attuale San Bruson”.


2.       INFRASTRUTTURE VIARIE: VIE D’ACQUA

2.1.     INFRASTRUTTURE PREROMANE

Forte sostenitore del concetto di “grecità adriatica”, Braccesi, nell’ipotesi che la meta ultima della spedizione adriatica di Cleonimo fosse Adria, nota come il principe spartano, entrando nella laguna di Venezia, non sarebbe certo approdato in quelle contrade barbare e sconosciute descritte da Livio, bensì in acque note alle carte nautiche “greche”, già solcate da navi commerciali “greche”, comunicanti tramite un canale scavato da maestranze “greche” con una città colonia “greca”[1].

Come già visto, l’Itinerarium Antonini attesta un percorso misto terrestre/lagunare da Rimini ad Aquileia passando per i Septem Maria[2] e Miller, nel riportare il tratto di via endolagunare in riferimento alla Tabula Peutingeriana, cita come fonte Plinio[3], che scrisse: «... Proximum inde ostium Caprasiae, dein Sagis, dein Volane ... omnia ea fossa Flavia, quam primi a Sagi fecere Tusci egesto amnis impetu per transversum in Atrianorum paludes quae Septem Maria appellantur... inde ostia plena Carbonaria, Fossiones ac Philistina, quod alii Tartarum vocant, omnia ex Philistinae fossae abundatione nascentia, accedentibus Atesi ex Tridentinis Alpibus et Togisono ex Patavinorum agris. Pars eorum et promum portum facit Brundulum, sicut Aedronem Meduaci duo ac fossa Clodia. His se Padus miscet ac per haec effundit...»[4]. Dunque la strada terragna che da Rimini giungeva ad Altino, doveva essere affiancata da canali artificiali, già scavati in tempi remoti, per scolmare l’impeto delle acque e per collegare poi i rami fluviali, facilitando una navigazione rivierasca per transversum[5].

Il ruolo che le vie d’acqua svolgevano era già importante prima dei Romani. Ad esempio Spina, città-emporio, punto privilegiato dell’espansione etrusca verso il Nord in cui convergevano anche gli interessi dell’espansionismo commerciale ateniese[6], era posta su un dosso interfluviale a cavaliere tra le rotte adriatiche e la direttrice fluviale padana[7]; in quanto città lagunare, poi, i canali costituivano la sua struttura portante, con canale navigabile centrale[8]. I canali che affiancavano i cordoni litoranei limite degli stagna liviani erano già percorribili in età preromana[9].

Già dal III sec. a.C. la navigazione interna fu elemento propulsore del processo di romanizzazione della Pianura Padana, in cui le vie di terra e le vie d’acqua giunsero a formare un sistema integrato e capillare, con scali nautici collocati in corrispondenza dei principali nodi stradali. Nel caso dei grandi trasporti veloci le idrovie dovettero risultare perfino concorrenziali rispetto alle strade[10].

I Romani non fecero che ampliare e consolidare la rete preesistente di tagli artificiali. Così nella prima età imperiale scavarono la fossa Flavia per meglio collegare i rami del Po di Spina e del Po di Adria, ma in realtà si limitarono a riattivare ed attrezzare per nuove esigenze di viabilità fluviale il canale quam primi a Sagi fecere Tusci di cui parla Plinio[11]. Il canale Clodia, che immetteva le acque del Po di Adria nell’Adige, quindi nella laguna presso Chioggia (Clodia = Chioggia), si sovrapponeva  all’antica fossa Philistina. Secondo Luciano Bosio, tale fossa consentiva di collegare le Atrianorum paludes al portus Brundulus passando per lo scalo portuale di Clodia[12]. Qui si parla di intervento greco: l’idronimo “Philistina”, infatti, riconduce in forma onoraria al personaggio di Filisto, quindi al contesto storico dei siracusani fondatori di Adria al tempo dei due Dionigi. Discorso analogo vale per la fossa Augusta, realizzata sul preesistente canale Messanicus, idronimo riconducibile alla città di Messina[13].

L’intervento romano non va, comunque, considerato marginale. Infatti solo nel periodo della romanizzazione, come afferma Giovannella Cresci, il paesaggio sperimentò le tecniche di bonifica romane, assistette alla costruzione di grandi arterie viarie, conobbe il potenziamento di strutture portuali articolate e gerarchizzate[14].

2.2. DAI SEPTEM MARIA PER ACQUE LITORANEE

2.2.1.   PALUDI E CANALI

Plinio e l’itinerarium Antonini citano, dunque, una strada Rimini-Altino che dai Sette Mari (sette specchi d’acqua, forse un numero per certi aspetti simbolico, evocativo, utilizzato anche in altri casi) portava attraverso canali navigabili per transversum ai porti dei fiumi lagunari. Si desume che tutto l’arco dell’alto Adriatico in epoca romana fosse luogo privilegiato per le comunicazioni[15].

Strabone tramanda che «... Anche Altinum è situata nella palude, in una posizione somigliante a quella di Ravenna... ..Opitergium, Concordia, Adria, Vicetia...  sono meno condizionate dalla palude e sono congiunte al mare da piccoli canali...»[16].

Vitruvio, il cui “De architectura” fu scritto nel III decennio a.C., spiega che le lagune vanno mantenute vive tramite l’escavazione di fossae, ossia di tagliate litoranee, portando a modello proprio la laguna veneta: «... Exemplar autem huius rei Gallicae paludes possunt esse, quae circum Altinum, Ravennam, Aquileiam, aliaque quae in eiusmodi locis municipia sunt proxima paludibus, quod his rationibus habent incredibilem salubritatem...»[17]. Per contrasto ricorda le pestifere paludi pontine, i cui miasmi malarici erano dovuti alla mancanza di efficaci opere di canalizzazione che vi immettessero quotidianamente il gioco delle maree.

Va sottolineato che le fonti di Strabone e Vitruvio sono indipendenti, pertanto i loro racconti si convalidano e si completano a vicenda[18].

Da: Uggeri 1987, p. 352.

Da: Uggeri 1987, p. 353.

2.2.2.   PALUDI: IL LINGUAGGIO DEGLI ANTICHI

Varia era (ed è) la morfologia dell’ambiente lagunare come vari furono i termini usati dagli antichi per definire l’ambiente lagunare, raccolti da Guido Rosada e Marco Zabeo. Frequente il termine paludes, ta héle in Strabone (V, 1, 7C213-214); presso Adria, gli epta peláge di Erodiano (VIII, 7, 1) che trovano corrispondenza nelle Atrianorum paludes quae Septem Maria appellantur citate da Plinio (Plin. Nat., 3, 120). Qui la palus si scambia addirittura con il mare, quasi a riprendere il senso del termine straboniano limnothálatta (V, 1, 5 C212). Livio parla di stagna inrigua aestibus maritimis separati dal mare aperto dal tenue praetentum litus, rinnovati dalle maree, percorribili con fluviatiles naves adatte ad superanda vada stagnorum: la futura laguna di Venezia, un paesaggio che si può verificare ancor oggi, dove la terminologia ibrida sembra essere in diretta relazione con le caratteristiche di un ambiente instabile e morfologicamente mutevole, dove specchi d’acqua (stagna?) convivono con barene e velme (hele, paludes?), bassifondi (vada?) e insieme rappresentano bene nella stessa definizione lessicale trasversale una “variabilita” incessante[19].

2.2.3. IL “GRANDE PORTO” ERA PORTO “DIFFUSO”?

È inevitabile ritornare alla narrazione liviana su Cleonimo, che cerca acque profonde e sicure dove ormeggiare le navi per poi trasferire gli armati in lievora navigia onde affrontare bassi fondali e l’ingresso nei corsi fluviali per viaggi o scambi con l’entroterra. Quale tipo di porto poteva essere? I 60 stadi di navigazione interlagunare, che si desumono dalle parole di Strabone[20], corrispondono ad un tratto considerevole, probabilmente infrastrutturato nel tempo per stoccaggio, trasporto, trasbordi da parte di chi conosceva i fondali. Infatti, collegando il ritrovamento di palificazioni nel corso di lavori per il recupero morfologico dell’isola di San Servolo, datate tra il III e il V sec. d.C., con un altro ritrovamento presso l’Ottagono di Malamocco per il quale i dati sono meno certi, riconducibili comunque a strutture forse portuali del periodo tardo-imperiale, Diego Calaon deduce che in quel tempo il sistema portuale potesse essere caratterizzato da stazioni e siti collocati su lidi, con comunità che esercitavano, oltre alla caccia e alla pesca, le attività relative, data la lontananza di Padova che a quel sistema di approdo marittimo faceva riferimento[21].

San Servolo. Rilievo e pali strutturali (Calaon 2006, p. 98.).

L’ambiente lagunare, dal punto di vista geo-morfologico, era certamente diverso dall’attuale: le terre emerse risultavano più estese, specialmente nella laguna nord. La regressione marina raggiunse l’apice negativo nel corso del I sec. d.C. Dopo un periodo di stabilità si registrò una brusca inversione di tendenza che entro il V-VI sec. portò ad un aumento del livello del mare di circa 1,5 m, marcando sempre più la spaccatura tra aree lagunari ed entroterra, prima saldamente connesse e reciprocamente dialoganti[22].

2.3. LA NAVIGAZIONE E IL SISTEMA IDROVIARIO

2.3.1.   LE IMBARCAZIONI

In ambiente fluviale e di bassi fondali risultano adatte alla navigazione imbarcazioni con pescaggio ridotto, senza chiglia, le fluviatiles naves,ad superanda vada stagnorum apte planis alveis fabricata del racconto di Livio[23]. La sua definizione, tuttavia, non permette di cogliere cosa si intenda per naves: probabilmente scafi di una certa importanza, compresi i pontones, grandi barche fluviali con notevole capacità di carico, spinte a forza di remi o col traino all’alzaia (vedi punto 2.3.3). All’occasione potevano utilizzare anche la vela. Un’idea abbastanza chiara di tali natanti può essere data dai relitti rinvenuti nelle acque interne dell’Europa centro-settentrionale.

Ad uno scafo probabilmente a fondo piatto riconducono anche i frammenti di fasciame e il madiere rinvenuti a più riprese in mare presso la spiaggia degli Alberoni, nell’isola del Lido di Venezia, che le analisi radiometriche hanno datato tra il I e la metà del II sec. d.C. Si può ipotizzare che appartenessero a una imbarcazione fluvio-lagunare, che fece naufragio presso il porto alla foce del Medoaco, da dove partiva la via fluviale diretta verso Padova.

Merita una breve notazione il fenomeno di lunga persistenza della tecnica costruttiva “a cucitura”, che si riscontra nell’Adriatico settentrionale[24].

I maestri d’ascia dell’antichità conoscevano sostanzialmente due tecniche di costruzione navale: a “mortase e tenoni”, con il fasciame assemblato tramite linguette di legno bloccate da spinotti, e a “cucitura” (sutiles naves), con fasciame legato da corde attraverso fori praticati sui bordi delle tavole[25].

Seppur generalmente abbandonata, in età romana, la tecnica a cucitura a favore di quella a “mortase e tenoni”, la prima rimase in uso nell’area della costa adriatica nord-occidentale, poiché le imbarcazioni piccole a fondo piatto erano adatte alla navigazione lagunare, sia per vie naturali che per canali[26].

 

Pianta dei resti dello scafo di barca “cucita” di Corte di Cavanella di Loreo (RO) (II) (fondo esterno).

(da: Medas 2017, p. 152)

Dagli scrittori antichi si desume che lungo il litorale altoadriatico l’utilizzo di piccoli natanti dovesse essere assai sviluppato anche per spostamenti nei brevi canali o traghettamenti da una sponda all’altra del fiume[27]. Secondo Strabone ad Altino si faceva normale uso delle barche per attraversare i corsi d’acqua cittadini[28] e Servio cita esplicitamente le lintres, riferendo che a Ravenna e Altino «... venatio et aucupia et agrorum cultura lintribus exercetur...»[29].

2.3.2.   ROTTURA DEL CARICO

Le imbarcazioni di dimensioni ridotte e con pescaggio poco profondo erano, dunque, adatte alla navigazione per acque interne. Date le loro ridotte capacità di carico il trasporto delle merci poteva risultare costoso: dall’“editto dei prezzi” di Diocleziano (301 d.C.) si evince che per trasportare 1000 modii castrensi di frumento (1 modio = 17,5 kg) nel tragitto da Ravenna ad Altino-Aquileia, erano necessari 7.500 denari una cifra elevata[30]. Un nolo proporzionalmente molto alto rispetto a quelli fissati, ad esempio, tra Aquileia e l’Oriente, in parte giustificato dalla garanzia che il carico sarebbe arrivato a destinazione con rischio limitato di incagliamento del natante[31].

Laguna di Venezia.

Itinerari di età imperiale e tardoantica, secondo la Tabula Peutingeriana e l’Itinerarium Antonini

(da: Calaon 2006, p. 93).

L’esistenza di stazioni di ancoraggio per il trasbordo dei carichi dalle navi d’altura ad imbarcazioni di stazza minore può essere attestata dal rinvenimento di antichi ceppi d’ancora  in prossimità delle bocche di porto[32].

Posizionamento delle ancore rinvenute nei fondali antistanti la Laguna di Venezia

 

(Da: Beltrame 1993, tavole).

Per la risalita dei rami fluviali, il trasbordo delle merci dalle grosse imbarcazioni marittime ai battelli di poco pescaggio avveniva in prossimità della foce, in maniera analoga a ciò che si verificava presso Portus (porto dell’antica Roma, corrispondente a Fiumicino)[33]. Secondo Simon Keay, il bacino claudiano fungeva almeno in parte da “holding-space for sea-going ships waiting to pass through the Canale di Imbocco al Porto di Traiano and berth in the hexagonal basin”; da qui, successivamente, le navi trasbordavano i loro carichi in imbarcazioni più piccole, le naves caudicariae, ancorate in una darsena di dimensioni ridotte e con acqua poco profonda; queste intraprendevano la loro navigazione fluviale, imboccando verso sud il Canale Trasverso e la Fossa Traiana[34].

Le naves caudicariae, scrive Giulia Boetto, “constituaient une famille d’embarcations d’un type absolument particulier”, usate lungo il Tevere per trasportare le mercanzie da Ostia ai porti della capitale. Cariche delle merci trasbordate, risalivano il fiume attaccate ai buoi, i quali le trainavano come se si fosse trattato di carri[35].

Portus: area portuale (da Keay 2012, p.40, modificato).

Ostia, Piazzale delle Corporazioni, mosaico, scena di trasbordo di merci.

2.3.3.   ALAGGIO

L’alaggio, cioè il traino da terra eseguito da animali o dagli stessi battellieri, è noto anche come “traino all’alzaia”. Il termine “alzaia”, il cui ricordo è attestato nel nome di alcune di quelle vie che correvano lungo gli argini da dove veniva effettuato il traino, sembra relazionarsi con helciarius (bardotto, colui che traina la barca da terra con l’alzaia), trasferito nell’italiano “elciario” (colui che traina la barca) ed elcione (alzaia); o forse da un più preciso helciarius (funis, cima di traino, alzaia); “via alzaia” deriverebbe da helciaria via; il sostantivo helcium indica il collare delle bestie da tiro[36].

Cassiodoro, nel descrivere l’itinerario interno lagunare difeso dai venti, lungo incantevoli canali, così continua: «... Putantur eminus quasi per prata ferri, cum eorum contingit alveum non videri. Tractae funibus ambulant, quae stare rudentibus consuerunt, et condicione mutata pedibus iuvant homines naves suas: vectrices sine labore trahunt, et pro pavore velorum utuntur passu prosperiore nautarum...»[37].  Carlo Beltrame[38] ritiene che tale testimonianza possa riferirsi all’utilizzo dell’alaggio lungo viae helciariae a lato di fossae.

Su dati archeologici riguardanti costruzioni messe in opera nel punto di immissione in laguna del Natissa e del canale Anfora, Antonio Marchiori fa rilevare come queste sembrino indicare l’intenzione di razionalizzare il traffico commerciale da e verso Aquileia. Tale razionalizzazione poteva consistere nell’alaggio delle imbarcazioni fino al porto fluviale cittadino o nel trasbordo delle merci dalle imbarcazioni ai carri per condurle direttamente via terra ai magazzini della città[39].

L’alaggio era pratica di navigazione diffusa. Un bassorilievo, databile al III sec. d.C. e conservato presso il Museo Lapidario di Avignone, mostra una scena di alaggio sulla Durance, in Provenza.

Stefano Medas ricorda un’immagine poetica di come si navigava lungo i fiumi conservata nei versi in cui Ausonio, vissuto nel IV sec. d.C., celebra le acque e la corrente della Mosella, fiume della Gallia Belgica[40]: «... Tu duplice sortite vias et cum amne secundo / defluis, ut celeres feriant vada concita remi, / et cum per ripas nusquam cessante remulco / intendunt collo malorum vincula nautae, / ipse tuos quotiens miraris in amne recursus legitimosque putas prope segnius ire meatus!...»[41].

Strabone parla di un battello trainato da un mulo lungo la via Appia[42].

Analoga è la testimionianza di Orazio, il quale al mulo accompagna la figura di un battelliere: «... missae pastum retinacula mulae / nauta piger saxo religat stertitque supinus. / Iamque dies aderat, nil cum procedere lintrem / 20 sentimus, donec cerebrosus prosilit unus / ac mulae nautaeque caput lumbosque saligno / fuste dolat: quarta vix demum exponimur hora...»[43].

Giusto Traina affronta in termini linguistici la menippea varroniana Marcipor, dove in un contesto non meglio identificato si ha il verso hic in ambivio navem... Il termine ambivium (hapax varroniano) dovrebbe designare un bivium fra una via di terra e una via d’acqua[44]. Il verso, completo, è il seguente: hic in ambivio navem conscendimus palustrem, quanautici equisones per ulvam ducerent loro[45]. La traduzione di nautici equisones non è attestata, ma considerando che ĕquīso è lo scudiero, il palafreniere, quindi chi custodisce e ammaestra i cavalli, è suggestivo vedere i nautici equisones come coloro i quali tenevano e addestravano cavalli per l’alaggio.

L’alaggio fu pratica in uso anche in Riviera del Brenta fino ad alcuni decenni fa: “Partivano quotidianamente da Dolo, verso Padova e Venezia, alcuni camion e parecchi barconi, pochi dei quali dotati di motore diesel e molti altri mossi dai ‘tiranti’ e dai loro cavalli”[46].

2.3.4.   GLI “ARGINI-STRADA”

In riferimento alla citata descrizione di Cassiodoro delle barche che sembrano avanzare tra i prati trainate degli uomini[47], Beltrame ipotizza un suo collegamento anche con certe evidenze archeologiche documentate nella laguna nord: si tratta di piattaforme lignee larghe dai 3 ai 6 m, strutturate in modo da contenere materiale costipato quale pietrame, anfore, vasellame e laterizi[48]. Sono quei manufatti definiti “argini-strada” da Ernesto Canal, il quale, però, esclude possano che essere considerati resti di antiche alzaie, essendo difficoltoso individuare letti di antichi corsi d’acqua congruenti con essi. Considera altresì plausibile vedere in essi strutture di sostegno per opere viarie che attraversavano zone paludose[49]. Per Matteo Frassine tali opere emergevano dall’acqua in un paesaggio lagunare diverso dall’attuale: non dovevano fungere strutturalmente da moli frangi-flutti, bensì contenere le correnti radenti, forse rivestendo un ruolo di giunzione tra la zona rivierasca e la terraferma[50].

Laguna di Venezia, ricostruzione delle ipotetiche opere di arginatura:

1) canale delle Vignole;

2) canale Catene;

3) canale S. Felice;

4) canale dell’Arco

(da: Frassine 2013, p. 113).

 

2.4      MEDUACUS / BRENTA

2.4.1. MINOR E MAIOR

Livio e Strabone non menzionano le biforcazioni del fiume Meduacus nel suo percorso verso la laguna. Unica fonte letteraria è Plinio il Vecchio: «Inde ostia plena... Pars eorum et promum portum facit Brundulum, sicut Aedronem Meduaci duo ac fossa Clodia..[51]. Tale lacuna documentaria è integrata dall'indagine archeologica e dalle analisi geo-morfologiche.

Come già visto, probabilmente dalla zona di Camin un ramo proseguiva verso est in direzione dell’odierna Riviera del Brenta. Grazie alla funzione privilegiata di collegamento tra Padova e il suo sbocco al mare più diretto, tale ramo acquisì nel tempo importanza crescente e fu indicato per questo motivo con l’aggettivo Maior. Si suddivideva, all’altezza di Fiesso, scrive Antonio Marchiori, in due ulteriori rami: il primo, scorrendo verso Sambruson e Lugo, sfociava in direzione Malamocco; il secondo, forse di epoca più tarda, scorrendo verso Mira e deviando verso Porto Menai, Piazza Vecchia e le Giare, puntava sempre a Malamocco attraverso canali lagunari[52]. Guido Rosada suggerisce la stessa indicazione circa la separazione in due rami a Fiesso (Flexum) d’Artico di un corso d’acqua in parte corrispondente all’attuale Naviglio del Brenta[53]. Monica Zampieri, in precedenza, localizzava la biforcazione in località Sambruson di Dolo[54], analogamente a Bosio[55]. La carta degli antichi tracciati (vedi al punto 1.1.7: Carta Geomorfologica della Provincia di Venezia) sembra validare questa seconda opzione.

Ai margini orientali del territorio correva il secondo ramo, il cosiddetto Meduacus Minor, che seguiva un percorso oggi in parte ripreso dal Cornio e sfociava nei pressi di Lova, sito probabile della stazione Mino Meduaco[56]. Da localizzare nei pressi, sul bordo interno della laguna, un altro scalo fluviale minore, forse con approdo avanzato sul mare in località Portosecco, che nel nome conserva il ricordo di un’antica presenza marinara[57]. Anche dal Minor Meduacus, all’altezza di Villatora-Saonara, doveva staccarsi un ramo secondario che, per Legnaro e Brugine, giungeva ad Arzergrande e Vallonga, la mansio Evrone[58]. Maio Meduaco, Mino Meduaco ed Evrone sono presenti nella Tabula Peutingeriana[59].

2.4.2. SUCCESSIONE CRONOLOGICA

Le tappe indicate dalla Tabula Peutingeriana sembrano proporre, oltre alla sequenza itineraria, alcune scansioni cronologiche che nei dati archeologici e in quelli delle analisi geo-morfologiche potrebbero trovare conforto. Il ramo brentizio più antico doveva essere quello che sfociava a Mino Meduaco, in sintonia col sito di Lova, la cui frequentazione santuariale è forse databile almeno a partire dal IV sec. a.C.; tale linea durò forse fino al II sec. a.C., allorché la sua attività diminuì progressivamente; ed è significativo che nel I sec. a.C. il santuario, secondo i dati archeologici, subisse una distruzione. Di epoca successiva, già romano-imperiale, doveva essere il ramo più meridionale che andava a dividersi in due lungo i dossi della Morosina e della Fogolana, forse i Meduaci duo di Plinio, che formavano con la Fossa Clodia il Portus Aedro, cioè l’Evrone della Tabula identificato con Vallonga. I materiali ritrovati lungo il dosso correlato daterebbero al I-II sec. d.C. La nascita del terzo percorso, quello più settentrionale (Meduacus Maior), coinciderebbe con la stessa fase storica dell’Evrone[60].

Riguardo alla contraddizione che si potrebbe rilevare tra un Meduacus Minor non più attivo a causa della distruzione del santuario e la citazione dei Meduaci duo da parte di Plinio il Vecchio dopo almeno un secolo, una risposta la fornì Cessi, ricordando la graduale decadenza del luogo, dovuta ad interrimento della laguna sud, penalizzante anche per Adria e per i flussi commerciali con essa[61].

2.4.3.   IL NOME “BRENTA”

Venanzio Fortunato attesta per la prima volta, nel VI sec. d.C., l’idronimo Brinta:      «... Hic tibi Brinta fluens, iter est Retenone secundo...»[62].

Secondo Roberto Cessi, la comparsa fin dal sec. VI d.C. del nome Brenta, applicato al Medoacus e la delineazione del canale Breintisia (Brintesia?) nella Tabula Peutingeriana lasciano legittimamente sospettare il divergere delle acque medoacensi a causa di una “brentana”, termine volgare che significa esondazione, alluvione. Due secoli dopo la designazione volgare, riferita al diversivo delle acque, Brenta prevarrà sull'antica denominazione, anche per il mutato carattere del fiume[63].

Giovanni Uggeri collega il nome Brenta ad un’antica tradizione di scambi tra le due sponde dell’Adriatico. Gli idronimi a base *bhrent- indicano infatti diramazioni a corna di cervo nella lingua degli Illiri. Le diramazioni del Brenta verso la laguna (tra cui le due principali Minor e Maior) erano numerose: pluralità di accessi che consentivano di raggiungere Padova, grande emporio in età preromana e romana[64].

 


[1] Braccesi 2017, p. 52.

[2] Cuntz 1929, pp. IV-V.

[3] Miller 1916, cc. 309-310.

[4] Plin, nat 3, 120-121, “... Seguono le bocche di Caprasia, Sagi e Volano... alimentate tutte dalla fossa Flavia, che per primi scavarono gli Etruschi a partire dalla bocca del Sagi per deviare trasversalmente l’impeto del fiume verso le paludi di Adria, che sono chiamate Sette Mari... quindi le bocche ricche di acque di Carbonaria, Fossione, e Filistina, che altri chiamano Tartaro, tutte originate dallo straripamento della fossa Filistina, dal momento che qui si aggiungono le acque dell’Adige provenienti dalle Alpi Tridentine e del Togisono dal territorio dei Patavini. Parte di queste ultime va a formare il porto di Brondolo, così come i due Meduaci e la fossa Clodia formano il porto di Edrone. Con queste il Po si mescola e assieme ad esse si riversa in mare...”

[5] Lachin, Rosada 2011, p. 57.

[6] Antonelli 2002, p. 196.

[7] Patitucci, Uggeri 2017, p. 188.

[8] Patitucci, Uggeri 2017, p. 208.

[9] Braccesi 2017, p. 48.

[10] Medas 2017, p. 148.

[11] Braccesi 2017, p. 48.

[12] Bosio 1981a, p. 73.

[13] Braccesi 2001, p. 53.

[14] Cresci 2015, p. 114.

[15] Lachin, Rosada 2011, p. 57.

[16] strab. 5, 1, 8, “... ma esemplari per questo fatto possono essere le paludi galliche, quali quelle intorno ad Altino, Ravenna, Aquileia, e di luoghi i cui municipi allo stesso modo sono vicini a paludi, i quali per questa ragione hanno incredibile salubrità...”.

[17] Vitr. 1, 4, 2.

[18] Uggeri 1987, p. 309.

[19] Rosada, Zabeo 2012, p. 243.

[20] Strab. 5, 1, 7.

[21] Calaon 2006, pp. 95-98.

[22] Zabeo 2010, pp. 185-187.

[23] Liv. 10, 2.

[24] Medas 2017, p. 152.

[25] Beltrame 1999, p. 137.

[26] Beltrame 1999, pp. 140-141.

[27] Beltrame 2001, p. 434.

[28] Strab. 5, 1, 7.

[29] Serv., georg. I, 262, “... dove con piccole barche è esercitata la caccia, l’uccellagione e la coltivazione dei campi...”.

[30] Calaon 2006, pp. 93-94.

[31] Uggeri 1987, p. 344.

[32] Rosada, Zabeo 2012, p. 253.

[33] Beltrame 2001, p.435.

[34] Keay 2012, p. 46.

[35] Boetto 2001, pp. 125-126.

[36] Medas 2017, p. 157.

[37] Cassiod., var. 12, 24: “... Da lontano si può credere che vengano quasi portate attraverso i prati, quando capita di non vedere il loro canale. Trascinate dalle funi procedono, esse che si solito stanno legate alle gomene, e, cambiata la situazione, gli uomini a piedi le aiutano ad avanzare...”.

[38] Beltrame 2001, p.433.

[39] Marchiori 1989, p. 132.

[40] Medas 2017, p. 158.

[41] Aus, Mosella 39-44: “... Hai avuto la sorte di offrire due vie al navigare, l’una quando i remi col favore della corrente fendono rapidi i flutti, l’altra quando i marinai, disposti lungo le rive, a forza di spalle tendono le corde fissate alle antenne senza mai cessare il traino: tu stessa spesso ti stupisci per il refluire delle acque e pensi che il tuo corso naturale rallenti!...”.

[42] Strab. 5, 3, 6 “... Vicino a Terracina, per chi va in direzione di Roma, la via Appia  è affiancata da un canale alimentato in molti luoghi da acque stagnanti e da fiumi: vi si naviga soprattutto la notte, cosicché i viaggiatori viaggiano dalla sera alla mattina presto e procedono per il resto del viaggio sulla strada, ma anche di giorno. Un mulo rimorchia il battello...”.

[43] Hor., Sat., 1, 5, 18-23 “... il battelliere, pigro, lega a un sasso le corde della mula lasciata a pascolare e russa a pancia in su. Ed era ormai vicino il giorno, quando ci rendiamo conto che la barca non avanza per niente, finché un tale, una testa calda, salta su e con un bastone di salice randella testa e fianchi a mula e battelliere; a fatica, finalmente, verso le dieci veniamo sbarcati”.

[44] Traina 1988, pp. 80-81.

[45] Var.  fragm. 276.

[46] Coletto 2010, p. 142-143.

[47] Cassiod. var. 12, 24.

[48] Beltrame 2001, pp. 433-434.

[49] Canal 1998, p. 76.

[50] Frassine 2013, pp. 113-114.

[51] Plin. nat. 3, 121: “... Seguono una serie di foci colme d’acqua... Una parte di questi, come i due Medoaci e l’Edrone, formano anche rispettivamente il vicino porto di Brondolo e la stessa Clodia...”.

[52] Marchiori 2013, pp. 6-7.

[53] Lachin, Rosada 2011, p. 63.

[54] Zampieri 2009, p. 81.

[55] Bosio 1994, p. 216.

[56] Capuis 1994, p. 73.

[57] Bosio 1981a, p. 73.

[58] Capuis 1994, p. 73.

[59] Tabula Peutingeriana, segmentum 3, 4-5.

[60] Lachin, Rosada 2011, p. 63.

[61] Cessi 1960, p. 25.

[62] Ven. Fort. Mart. 4, 677: “... Il tuo cammino quindi segue il corso del Brenta, poi il Retrone...”.

[63] Cessi 1960, p. 28.

[64] Uggeri 1987, p. 334.


3. INFRASTRUTTURE VIARIE: VIE DI TERRA

3.1.     PRIMA DEI ROMANI

Il nord-est italico fu già in epoca preromana crocevia di percorsi.

Padova offre conferma archeologica di una via-cerniera fra Alto Adriatico, Alpi ed Iberia, la “strada di Eracle”, che passava per Massalia (Marsiglia), fondata intorno al 600 a.C. dai Focei, forse i primi ad irradiare i loro commerci lungo quest’asse: nella città venetica per lunghissimo tempo si coniarono monete di imitazione massaliota destinate al commercio estero, il che presuppone antica consuetudine a scambi fra la città veneta legata ai Focei e la colonia greca da essi fondata[1].

­­­­­­­­­­­­Dracme padane, da Padova, fine III sec. a. C.:   a) tipo venetico, b) tipo insubre. Padova, museo Bottacin.

Le monete di imitazione massaliota, nei due tipi venetico e insubre, sono emissioni in argento che circolano in area lombarda e veneta. Imitano la dracma ridotta di Massalia (Marsiglia). Al dritto delle monete appare una testa di una divinità femminile da identificarsi, per le monete venetiche, con la dea Reithia[2]; al rovescio un leone stilizzato e una pseudo-leggenda in caratteri greci. Studi recenti, in base all’associazione con altro materiale archeologico e numismatico, datano queste emissioni tra i secoli III e II a. C. Significativo in esse il richiamo alla tradizione greca, sia nell’uso dell’argento, sia nella tipologia, sia nella metrologia, pure in un contesto ovviamente celtizzante. (Braccesi 1984, tavola 5).

Della direttrice paralitoranea si è già parlato. La costruzione ed il mantenimento delle fossae di epoca preromana e le arginature contemplavano moduli insediativi e lavori idraulici, di spostamento e trasporto di terreno, in una società di Veneti capaci di elaborare programmi[3].

3.2.     STRADE ROMANE E PALUDI

Le vie che superavano aree umide potevano essere evoluzione di piste che certamente esistevano, percorsi tracciati dai soldati, itineraria alla mano, per superare gli acquitrini. In alcuni casi, su direttrici strategiche, diventavano arterie importanti, come la via Annia. Il toponimo Callalta, che ricorre lungo la strada Oderzo-Treviso, va ricondotto ad una carreggiata rialzata rispetto al piano campagna, per superare ambienti ricchi d’acqua[4].

I Romani svilupparono tecniche diverse a seconda della geomorfologia dei territori da infrastrutturare con percorsi viari. Per attraversare zone umide con terreno instabile e cedevole utilizzavano depositi di anfore opportunamente sistemate o costipamenti di materiale frammentario su cui impostare la sede stradale. L’eventuale posa sottostante di tronchi o travi sovrapposti ed incrociati più altro materiale vegetale aumentava la capacità drenante; in aree facilmente soggette ad esondazioni o ristagni idrici cercavano di sfruttare la presenza di dossi fluviali o cordoni litoranei. Per entrambi i casi può essere esempio la via Popilia, che presentava nei pressi di Adria una stesura di grosse pietre impostate su una fondazione cementizia posta sopra travi di rovere, e in altri tratti correva su cordoni litoranei (ghiaiosi e sabbiosi) per sfruttarne la maggiore solidità litologica e la leggera sopraelevazione[5]. In alcune zone, quando risultava impossibile sopraelevare i percorsi in altro modo, i Romani realizzavano strade “in levada” su terrapieni artificiali[6]. “In levada” correva per lunghi tratti pure la via Annia[7].

Percorsi senza soluzione di continuità, dunque, che formavano un sistema integrato di comunicazioni grazie anche agli interventi di grosso impatto sulle vie d’acqua.  Nel merito, la costruzione della via Annia e della via Popilia concorsero ad impostare la percorrenza del comprensorio secondo una triplice opzione: quella di terra, quella per acque interne e quella per mare[8].

3.3.     LE STRADE A SUD DI PADOVA: PROBLEMA COMPLESSO

3.3.1.   VIA ALTINATE

L’Itinerarium Antonini riprendeva un percorso stradale steso fra Aquileia e Bologna[9] che doveva rivestire, almeno nel III-IV d.C., un’importanza non trascurabile nella rete di comunicazioni di tutta la penisola. La testimonianza è in genere considerata tarda eco di una situazione ben più antica, da far risalire ancora al II sec. a.C., periodo della più consistente proiezione politica ed economica di Roma verso i territori della Venetia[10]. Fin dal XIX secolo la tradizione degli studi ha assegnato a questa strada il nome di via Emilia-Altinate (collegamento della via Emilia con Altino). Ne parlano Nereo Alfieri[11] e Luciano Bosio[12]. Ma se l’Itinerarum Antonini è stato letto alla luce di quanto scrivono Strabone[13] e Livio[14] in merito al console Marco Emilio Lepido, sorgono delle contraddizioni: Strabone, oltre che  attribuire erroneamente la costruzione della via Flaminia a Gaio Flaminio, console nel 187 a.C., anziché a suo padre, censore nel 220 a.C.,  fa costruire a Marco Emilio Lepido, (console nel 187 a.C. assieme a Gaio Flaminio)  una strada da Bologna ad Aquileia, colonia che non esisteva ancora, anziché la via Emilia; in Livio, che si riferisce al 175 a.C., anno del secondo consolato di Marco Emilio Lepido, a parte alcune incertezze su date e copertura di magistrature, non si leggono  legami diretti con la notizia straboniana: non appare alcuna menzione della stesura di una strada[15]. Scrive infatti Livio: «... neque aliud, quod ageret in provincia, cum habuisset, Romam redit...»[16]. Giovanni Uggeri, nel descrivere il tratto di via Annia tra Padova ed Altino, accenna alla via Emilia-Altinate in termini dubitativi[17]. Per Paolo Bonini è frutto di elaborazioni non suffragate da alcuna prova affidabile né confermate da puntuali considerazioni[18].

3.3.2.   VIA ANNIA E VIA POPILIA: QUALE FU COSTRUITA PRIMA?

Su base epigrafica sono attestate varie vie denominate Annia. Le riporta Giovanni Uggeri[19]. Relativamente alla via Annia della Venetia, sulla scorta dei progressi archeologici è ancora aperto e mutevole il confronto su paternità e data di costruzione della stessa, intorno alle figure di T. Annius Rufus, pretore nel 131 a.C. e console nel 128 a.C., e di T. Annius Luscus. Questi, come informa Livio, nel 169 a.C. fu invitato a condurre in qualità di triumviro, assieme a P. Decius Subulo e M. Cornelius Cethegus, 1500 nuovi coloni ad Aquileia[20].

Grazie al ritrovamento di un miliario presso Adria, meno incerte sono paternità e data di costruzione della via Popilia. È in forma di tabella su lastra in arenaria rastremata verso il basso con dente di infissione; riporta il nome e la carica del costruttore, ricoperta nel 132 a.C., nonché la distanza di 81 miglia dal presunto capolinea Rimini.

Adria, Museo Archeologico Nazionale.

Miliario della via Popilia. Bosio 1991, p. 62.

P(ublius Popillius C(ai) f(ilius)

co(n)s(ul) [21]

LXXXI.

Attilio Degrassi, tenendo presente la costruzione di una via da Capua a Reggio Calabria iniziata nel 132 a.C. dal console Publio Popillio Lenate, in riferimento ad un miliario rinvenuto a Sant’Onofrio ritenne che la stessa fosse stata portata a termine dal pretore Tito Annio Rufo menzionato sul cippo, e che potesse essere successa la stessa cosa anche per la via di Popillio tracciata al nord, prolungata quindi da Annio Rufo fino a Padova e da qui, per Altino, collegata ad Aquileia[22]. Altri, successivamente, furono della stessa opinione. Tra questi Luciano Bosio, il quale, in un contesto di articolazione viaria romana, vedeva nella continuazione della strada da Adria verso Aquileia un modo per garantire alle rotte marittime il costante appoggio di un percorso costiero terrestre[23].

 

Miliaro rinvenuto a Sant’Onofrio.

CCLX. T(itus) Annius, T(iti) f(ilius) pr(aetor).[24]

Un altro miliario recentemente rinvenuto in località Ponte Maodino (comune di Codigoro, FE) eretto nel II sec. a.C. da un console Tito Annio figlio di Tito ci fa sapere che una via Annia fu tracciata allora attraverso l’antico delta padano[25].

Miliario rinvenuto a Ponte Maodino

CCL[---]. T(itus) Annius, T(iti) f(ilius), co(n)s(ul).[26]

Per Angela Donati la somiglianza paleografica tra i cippi di Codigoro e di Vibo Valentia fa sì che questi possano essere riferiti allo stesso personaggio, cioè a T. Annius Rufus, validando così l’opzione cronologica 131 a.C. per la costruzione della via Annia del nord [27].

Uggeri ritiene di poter datare il cippo di Codigoro al II sec. a.C. dato il chi arcaico che sta per la cifra quinquaginta, senza ulteriori precisazioni. Ma poiché non è indicato il cognomen del console, si può pensare vada attribuito a T. Annio Lusco anziché a Rufo[28], continuatore della politica del padre, Lusco come il figlio, triumviro ad Aquileia nel 169 a.C., e in quanto verosimilmente egli stesso impegnato come pretore proprio ad Aquileia nella guerra contro gli Histri del 156 a.C.[29]. Una strada che non si riduceva ad un semplice completamento della via Popilia, bensì, prima di quella, ad un percorso complessivo Roma/Aquileia[30].

Già consideravano corretta la datazione alta, più di mezzo secolo fa, Giovanni Battista Brusin[31] e Cesira Gasparotto[32], sottolineandone le ragioni storiche, che avrebbero portato a non dilazionare troppo la realizzazione di una strada via terra per raggiungere la nuova colonia di Aquileia.

I dubbi comunque permangono.

Cauto nel trarre conclusioni è  Claudio Zaccaria, riferendosi  al blocco di calcare (base onoraria) scoperto nel 1995 ad Aquileia che conserva interamente un’epigrafe di sei righe con la menzione di un T. Annius T. f. triumvir:

T(itus) Annius T(iti) f(ilius) tri(um)vir. / Is hance aedem / faciundam dedit / dedicavitque legesq(ue) / composivit deditque, / senatum ter co(o)ptavit[33].

Identificato il triumviro con il T. Annius Luscus ricordato da Tito Livio[34], nell’epigrafe mancano riferimenti alla via Annia, e ciò non consente, osserva Zaccaria, di attestare con certezza la paternità dell’opera. In generale, pur ritenendo ragionevole la tendenza più recente di considerare valida la datazione alta, poiché Aquileia avrà avuto senz’altro bisogno per il suo sviluppo di un efficace sistema di comunicazioni, non considera dimostrabile appieno l’ipotesi[35].

Frassine ritiene che il recente rinvenimento del cippo di Codigoro, anche per la cifra in miglia che riporta, apra possibili nuovi sviluppi d’indagine, ma intanto, conclude, mancano ancora dati probanti[36].

3.3.3.   VIA ANNIA: IL PERCORSO

Sul cippo di Ponte Maodino, propone articolate argomentazioni Giovanni Uggeri: la distanza di 250 miglia corrisponderebbe al percorso più breve per raggiungere da Roma direttamente Aquileia, meta finale richiesta dalle contingenze storiche del periodo (datazione alta) quando le campagne contro gli Istri avevano fatto di Aquileia la principale base logistica della Cisalpina, rendendo quindi indifferibile la costruzione della strada. Va escluso fosse un prolungamento della via Flaminia, come era avvenuto per la via Emilia del 187 a.C. da Rimini a Piacenza e come sarebbe stato per la via Popilia del 132 a.C. da Rimini ad Adria ed oltre:  la cifra riferita alla distanza complessiva Roma - Ponte Maodino sarebbe stata superiore alle 250 miglia documentate dal miliario[37].

La via Annia da Roma ad Aquileia (Uggeri 2012, p. 165).

Sulla continuazione del percorso in direzione Padova le incertezze non mancano. Viene a supporto della ricerca anche la toponomastica: verso Conselve è citata una via Agna dal 954[38]; una strata Agna è attestata nel medioevo[39]; il paese Agna è documentato dal 970[40]. Le testimonianze archeologiche relative ad Agna provengono tutte dalla zona del centro storico. Più eloquenti le foto aeree che mostrano un tratto viario a sud-ovest del centro urbano; la traccia prosegue verso il centro di Rottanova sulla sponda sinistra dell’Adige, poi verso Cavarzere. L’identificazione della strada con la via Annia non trova concordi gli studiosi. Resta comunque innegabile il passaggio per Agna di un tracciato viario di epoca romana[41].

La via Annia (Bosio 1997, p. 70).

 

Meno incerto è il tracciato della via Annia da Padova ad Aquileia, ricordato dagli itineraria Antonini[42] e Burdigalense[43] e dalla Tabula Peutingeriana[44].

Per il tratto che interessa la Riviera del Brenta lo studio da telerilevamento è ostacolato dalla forte urbanizzazione del territorio[45]. Comunque, tra i numerosi e sparsi rinvenimenti archeologici, tornano utili due riscontri epigrafici:

-  a Sarmazza (Vigonovo) nel 1930 si rinvenne un pezzo di colonna miliare con incisa la cifra VII, che corrisponde alla distanza effettiva di km 10,5 fra Padova ed il luogo del ritrovamento[46];

-  un altro miliario, ora conservato al Museo Archeologico di Venezia, proviene da Sambruson, la statio Maio Meduaco della Tabula, nonché mutatio Ad Duodecimum dell’Itinerarium Burdigalense; è incisa una dedica all’imperatore Costantino; opinione diffusa è che vada riferito alla via Annia; il fatto che il nome sia in caso dativo e che manchi

D(omino) n(ostro) Flabio

Constantino

Maximo,

pio, felici,

invicto sem =

per Augusto.

l’indicazione delle miglia denota che tale cippo venne prodotto e installato come documento di propaganda[47]. A partire dal IV sec. d.C. si comprese appieno che un miliario poteva diventare formidabile veicolo in tal senso, data la sua diffusione capillare nel territorio, quindi l’opportunità che offriva di comunicare messaggi a molti individui[48]. Si evidenzia una netta cesura tra la fase in cui i miliari svolgevano la funzione concreta di indicatori viari e l’età tardoantica, caratterizzata da usurpazioni continue, lotte per il potere, cambi al vertice, diventando, pertanto, i miliari espressione del lealismo e della devozione ai regnanti da parte delle amministrazioni locali[49]. L’imperatore Costantino perpetua l’uso dei miliari come forma di propaganda, accompagnato ad un potenziamento del cursus publicus. Una singolare concentrazione di miliari nella Venetia, compreso quello di Sambruson, tra il 312 e il 324 d.C. risponde forse alla volontà di Costantino di rafforzare e consolidare la propria immagine affermando sia la sua vittoria su Massenzio sia la sua preminenza rispetto a Licinio, subito dopo la vittoria di Ponte Milvio, in un’area le cui città, sotto l’autorità del prefetto del pretorio Ruricius Pompeianus, erano rimaste fedeli a Massenzio. Si potrebbe restringere la datazione al 318, quando Costantino soggiornò ad Aquileia[50].

Per Luciano Bosio, Maio Meduaco, in quanto luogo dove la via costiera proveniente da Rimini veniva ad unirsi all’Annia, doveva essere un posto di tappa rilevante, come la scelta di installare lì un miliario imperiale potrebbe dimostrare[51]. Uggeri, invece, ritiene che il punto di convergenza tra la via costiera proveniente da sud, forse la via Popilia, e l’Annia vada localizzato a Porto Menai, riferendosi all’edizione di Miller  della Tabula Peutingeriana dove per tale sito è indicata una diramazione della strada verso Padova[52].

 

Da: La via Annia da Ravenna a Padova (Uggeri 2012, p. 154).

Bosio accettava l’ipotesi di un doppio percorso stradale lungo entrambe le rive del Meduacus Maior, la cui attestazione si potrebbe ricavare dal Miller[53] e giustificata dal notevole volume di traffici lungo il fiume in epoca romana[54]. L’itinerario di sinistra Brenta non rientra nei limiti geografici dello studio di sintesi sull’Annia di Maddalena Bassani[55] nel contesto dei lavori collegati al “Progetto via Annia”[56]. Antonio Marchiori ritiene tale responso sul doppio percorso assolutamente condivisibile[57].

3.3.4.    VIA POPILIA: UNA DIGRESSIONE

Secondo parere comune degli studiosi, la via Popilia trova attestazione sia nell’Itinerarium Antonini[58] che nella Tabula Peutingeriana[59], anche se c’è divergenza sulle distanze: tra Rimini e Ravenna l’itinerarium Antonini indica una distanza di 33 miglia, la tabula di 37 miglia. Una spiegazione la fornì Alfieri, riferendo il recto itinere dell’Antonini al percorso litoraneo Rimini-Ravenna e pensando a una modifica del tracciato in epoca successiva, registrato nella Tabula[60].

Il passaggio già noto «... inde navigatur/Septem Maria...» dell’Itinerario Antonini[61] riporta al presunto percorso “anfibio” della via Popilia da Ravenna verso nord. Appare significativa nell’ottica di una duplice viabilità in aree umide la stele funeraria di Aufidia Venusta, rinvenuta a Santa Margherita di Portomaggiore (Po di Volano) che augura ai viaggiatori di terra e di acqua una buona fortuna e di stare sani[62].

Aufidiae C(ai) l(ibertae) Venust[a]e;

viatores et velatores salvete

et bene valete.

Il percorso della strada romana da Rimini ad Altino (Bosio 1997, p.60).

 


[1] Braccesi 1984, pp. 40-41.

[2] Mastrocinque 1987, pp. 11-12 “... Reitia, la dea di Este... Per spiegare l’etimologia del nome Reitia si è talora fatto ricorso all’etimologia affine di Orthìa, nome di una dea spartana...”.

[3] Balestrazzi 1994, p. 200.

[4] Frassine 2013, pp. 36-37.

[5] Matteazzi 2009, pp. 26-27.

[6] Masiero 1999, pp. 115-118.

[7] Matteazzi 2009, p. 28.

[8] Cresci 2015, p. 114.

[9] Cuntz 1929, p. 19.

[10] Bonini 2010, p. 89.

[11] Alfieri 1964, p. 61.

[12] Bosio 1970, pp. 50, 115.

[13] Strab. 5,1,11: “Ma c’è un’altra via Emilia, che prosegue la Flaminia. Mentre erano colleghi nel consolato Marco Lepido e Gaio Flaminio, sconfitti i Liguri, l’uno costruì la via Flaminia da Roma attraverso i territori degli Etruschi e degliUmbri fino alla zona di Rimini, l’altro la prosecuzione fino a Bologna e da lì ad Aquileia, lungo le“radici” delle Alpi, aggirando le paludi”.

[14] LIV., 41, 27, 3-4. Qui Livio registra la presenza di Emilio Lepido a Padova durante il suo secondo consolato, quando il Senato lo inviò a sedare un tumulto scoppiato in città.

[15] Bonini 2010, p. 89-90.

[16] LIV., 41, 27, 4: “... non avendo trovato altro da fare nella provincia, fece ritorno a Roma”.

[17] Uggeri 2012, p. 157: “... La nostra via Annia... si congiungeva con la via proveniente da Ateste dove si congiungeva con la via proveniente da Ateste, forse la cosiddetta via Emilia Altinate o Minor proveniente da Bologna e attribuibile al 175 a.C...”.

[18] Bonini 2010, p. 89.

[19] Uggeri 2012, pp. 133-137.

[20] Liv. 43,17,1.

[21] CIL  V, 8007 = I², 637 = ILLRP, 453 = AE, 2002, 512.

[22] Degrassi 1962, pp. 510-512.

[23] Bosio 1997, p. 252.

[24] illrp 454a

[25] Uggeri 2012, p. 133.

[26] AE 2009, 393.

[27] Donati 2009, pp. 73-84.

[28] Uggeri 2012, p. 137.

[29] Uggeri 2012, p. 164.

[30] Uggeri 2012, pp. 137-167.

[31] Brusin 1950, p. 116.

[32] Gasparotto 1951, p. 144.

[33] AE 1996, 685: “Tito Annio, figlio di Tito, triumviro. Costui dispose che fosse costruito questo tempio e lo dedicò, assemblò il corpus delle leggi e le consegnò (alla colonia), per tre volte integrò il senato”.

[34] Zaccaria 2014, pp.521-522.

[35] Zaccaria 2014, pp. 537-539.

[36] Frassine 2010, p. 116.

[37] Uggeri 2012, pp. 138-140.

[38] Gloria 1877, p.63.

[39] Bonomi 1987, p 207.

[40] Gloria 1877, p 82.

[41] Pettenò, Vigoni 2011, pp. 194-195.

[42] Cuntz 1929, p. 19: “Patavis civitas, Altinum civitas, Concordia civitas, Aquileia civitas”.

[43] Cuntz 1929, p. 88: “civitas Patavi, mutatio Ad Duodecimum, mutatio Ad Nonum, civitas Altino, mutatio Sanos, civitas Concordia, mutatio Apicilia, mutatio Ad Undecimum, civitas Aquileia”.

[44] Miller 1916, cc. 259-266; Tab. Peut. 3, 5.

[45] Ninfo, Fontana, Mozzi 2011, p. 64.

[46] Bosio 1997, p. 73.

[47] Bassignano 2016, p. 310, scheda n. 16.

[48] Buonopane 2003, pp. 344-345.

[49] Basso 2018, p. 115.

[50] Buonopane, Grossi 2014, pp. 166-167.

[51] Bosio 1997, p. 73.

[52] Uggeri 2012, p. 159; Miller 1916, c. 310: “3. Adportū; j. östlich von Marano, an der Abzweigung der straße nach Padua.”.

[53] Miller 1915, c. 259: qui Miller attesta un percorso da Padova ad Altino nördlich von Dolo (a nord di Dolo).

[54] Bosio 1997, p. 74.

[55] Bassani 2010, pp. 73-84.

[56] Cammino progettuale iniziato nel luglio 2004 con la presentazione del Ddl n. 5148 in Commissione Cultura della Camera.

[57] Marchiori 2013, p. 12.

[58] It. Ant. 26, 5-9 “Ab Arimino recto/itinere Ravenna m.p. XXXIII/inde navigatur/Septem Maria/Altinum us/que/inde Concordiam. p. XXXI/Aquileia m. p. XXXI”.

[59] Tab. Peut., segm.III, 5Arimino Rubico Fl. XII, ad Novas III, Sabis XI, Ravenna XI, Butrio VI, Augusta VI, Sacis ad Padum XII, Neronia IIII, Corniculani (manca la distanza), Radriani VI, VII Maria VI, Fossis VI, Evrone XVIII, Mino Meduaco VI, Maio Meduaco VI, ad Portum III, Altino XVI”.

[60] Alfieri 1967, p. 12.

[61] It. Ant. 26, 5-9.

[62] CIL V 2402.



4.      INFRASTRUTTURE DI CULTO, DI COMMERCIO, DI SOSTA

4.1.     IL CURSUS PUBLICUS

Augusto creò un sistema di trasporti di stato soprattutto per facilitare la comunicazione tra l’imperatore e gli ufficiali dell’amministrazione e militari dislocati nei vari luoghi dell’Impero, ma anche per viaggi e trasporti legati agli affari governativi. Le fonti attestano il termine cursus publicus dal tardo III sec. d.C. Durante i primi due sec. d.C. sembra che il termine usato per descrivere il sistema dei trasporti imperiali fosse vehiculatio[1].

Fonte letteraria sull’avvio del nuovo servizio da parte di Augusto è Svetonio:

«... Utque perpetuo ac sine difficultate sumptus ad tuendos eos prosequendosque suppeteret, aerarium militare cum vectigalibus novis constituit. Et quo celerius ac sub manum adnuntiari cognoscique posset, quid in provincia quaque gereretur, iuvenes primo modicis intervallis per militaris vias, dehinc vehicula disposuit...»[2].

«...In diplomatibus libellisque et epistulis signandis initio sphinge usus est, mox imagine Magni Alexandri, novissime sua, Dioscuridis manu scalpta, qua signare insecuti quoque principes perseverarunt. Ad epistulas omnis horarum quoque momenta nec diei modo sed et noctis, quibus datae significarentur, addebat...»[3].

Fonte epigrafica è un editto. Siamo  a Burdur, Asia Minore (Pisidia), negli anni iniziali del regno di Tiberio. Il suo legato pro pretore Sesto Sotidio Strabone Libuscidiano dà disposizioni (in un testo bilingue latino-greco) agli abitanti di Sagalassos e dei centri vicini circa le forniture di mezzi di trasporto e bestie da soma che devono prestare gratuitamente ai viaggiatori in transito[4]: gli abitanti di Sagalassos «.... mansionem omnibus qui erunt ex comitatu nostro et militantibus ex omnibus provincis et principis optimi libertis et servis et iumentis eorum gratuitam praestari oportet, ita ut reliqua ab imitis gratuita none(x)igant...»[5].

Dall’età flavia, se non già dall’epoca di Augusto, l’amministrazione centrale del cursus era affidata a liberti imperiali, qualificati come tabularii a vehiculis, affiancati, dall’epoca di Traiano in poi, da altri liberti insigniti del titolo di liberti ab vehiculis et a commentariis vehiculorum. Con Adriano è attestata la presenza di un praefectus vehiculorum, vertice supremo dell’organizzazione e gradino della carriera equestre che precede il governatorato delle province[6]. In quanto “equestre” va escluso che avesse pieni poteri tali da intervenire direttamente contro eventuali soprusi da parte dei viaggiatori, poiché il cursus era utilizzato soprattutto dai senatori e dal loro personale[7]. In epoca imprecisata avvenne una particolare trasformazione: il mantenimento delle strade e dei servizi venne appaltato ai mancipes; i praefecti, liberati dai compiti pratici, mantennero solo la gestione delle clausole degli appalti[8]. I mancipes erano imprenditori uniti probabilmente in associazioni efficienti per determinati complessi stradali o regioni[9].

Il cursus publicus solo inizialmente fu collegato ad esigenze di natura militare. Nel prosieguo del tempo fu riorganizzato, propagandato e mantenuto per una migliore gestione del potere politico e, soprattutto, per l’affermazione del potere economico[10]. “Organizzare un impero è più importante che conquistarlo” fa dire Plutarco ad Augusto[11].

4.1.1.   LE STAZIONI DI SOSTA

Ricerche recenti hanno rivisto la problematica stazionaria, distinto la terminologia (statio, mutatio, mansio, taberna, praetorium, palatium...): nello specifico va ribaltata l’idea della stazione di sosta ad uso esclusivo del cursus publicus e del fisco. Di Paola, nel suo studio attorno ai termini mansio e stathmos, accomunati nell’etimo dall’idea del fermarsi e del permanere, indica un’evoluzione fino alla Tarda Antichità che va a riconoscere nei termini un sistema logistico integrato, di cui fanno parte anche infrastrutture ricettive e di ristoro pubbliche e private, impianti termali e aree sacre a disposizione di tutti i viaggiatori in transito sulle vie dell’impero[12].

Corsi menziona il tipo delle stazioni fluviali, snodi tra viabilità fluviale e terrestre, e le positiones marittime, piccoli scali che consentono la sosta notturna e il rifornimento nel corso del cabotaggio, piccoli intervalli che separano le grandi tappe segnate dai porti veri e propri[13].

4.1.2.   CURSUS E FONTI ITINERARIE

Basso ritiene le fonti itinerarie una delle voci più significative per la localizzazione topografica, la relativa distanza in miglia e la toponomastica delle stazioni stradali romane, documenti in uso in ambito militare, ma funzionali, probabilmente, a tutte le altre pratiche di viaggio, sia di carattere pubblico (spostamenti per conto dello stato), sia privato (singoli che viaggiavano per scopi commerciali, personali, religiosi, etc.)[14]. Basso ha quantificato e riportato in tabelle le tappe degli itineraria[15].

Tabelle dei dati quantitativi relativi ai siti menzionati lungo gli itinerari dell’Impero

 

 

 

 

 

 

 

nell’Itinerarium Burdigalense

 

nell’Itinerarium Antonini

 

 

 

 

 

 

 

Italia

resto dell’Impero

Italia

resto dell’Impero

civitates

52

71

 

civitates

32

13

mansiones

13

85

 

mansiones

1

5

mutationes

59

181

 

coloniae

 

41

vici

 

1

 

municipia

 

13

castella

 

1

 

oppida

 

2

palatia

 

1

 

vici

7

17

 

 

 

pagi

 

1

nella Tabula Peutingeriana

 

castra/castella/praesidia

1

32

 

 

 

praetoria

 

7

Italia

resto dell’Impero

 

legiones

 

18

 

portus

6

13

coloniae

 

20

 

aquae

7

33

municipia

 

16

 

villae/fundi

12

8

vici

3

9

 

tabernae

1

4

pagi

 

2

 

stabula

 

3

portus

1

 

 

 

 

castra/castella/praesidia

7

21

 

 

 

praetoria

1

10

 

 

 

 

horrea

 

2

 

 

 

 

aquae

11

23

 

 

 

 

villae

 

2

 

 

 

 

tabernae

2

6

 

 

 

 

stabula

 

2

 

 

 

 

Segue la riproduzione di tipi di vignette della Tabula Peutingeriana relative ai siti e alle loro funzioni[16].

a-b-c-d: a doppia torre (stazione di cambio di animali e di ristoro per i Levi[17], centro di particolare importanza logistica per Bosio[18])

e: a tempio

f: con corte (stazione stradale particolarmente attrezzata per i Levi[19], stazione termale per Bosio[20])

g: edificio composito (simboleggia gli horrea)

h-i: mura di città

j: personificazioni di città (Roma, Costantinopoli)

k: porti

l: fari

4.1.3.   DISTINZIONE INCERTA TRA MANSIONES E MUTATIONES

Cristina Corsi non fa riferimento alla differenza tra mansiones, intese come luoghi di sosta molto attrezzati con possibilità di pernottamento, e mutationes, cioè stazioni adibite al solo cambio di cavalli, con dotazione strutturale semplificata, perché tale distinzione è stata introdotta in età tardo imperiale e anche da un punto di vista archeologico la diversificazione appare piuttosto evanescente[21]. Si legge, in un suo contributo del 2016, che un approccio approfondito dal punto di vista critico all’Itinerarium Burdigalense, unica fonte dove appare la distinzione mutationes/mansiones, fa cadere questa conclamata ed abusata classificazione che non trova rispondenza sul terreno. Inoltre dal punto di vista filologico, l’impiego della terminologia stradale è poco tecnico in ogni tipologia di fonte, comprese quelle giuridiche. La sua ricerca (epoca tardo antica - alto medioevo) la porta a concludere come oggi la relazione fra infrastrutture deputate alla sosta, distribuite capillarmente lungo tutta la rete stradale romana, e il servizio di gestione del traffico di uomini, merci, animali ed informazioni (con impropria semplificazione definito cursus publicus) appaia molto articolata ed “interlocutoria”[22].

4.2 MINO MEDUACO - LOVA

La corrispondenza tra Lova, territorio a sud di Campagna Lupia, e la stazione Mino Meduaco è ormai dato condiviso: raggiunta dalla via costiera dopo Evrone, scrive Bosio riferendosi alla Tabula Peutingeriana, si trova a 9 chilometri (VI miglia) da Vallonga[23].

Ad attestare l’importanza del luogo basterebbero i 33 siti archeologici elencati e descritti da Valentina Girotto, primo fra tutti quello dell’idrovora, dove in due campagne di scavo, tra il 1991 e il 1993, promosse dalla Soprintendenza a seguito di prospezioni diagnostiche vennero alla luce le fondamenta di un complesso identificato come santuariale[24].

4.2.1   IL SANTUARIO

Seppur indagato in minima parte e ricostruita la sua planimetria grazie alla mappa delle prospezioni magnetiche, imponente complesso era senz’altro il santuario di Lova. Esso  comprendeva un quadriportico (A) di circa m 30x45, con vani quadrangolari posti al centro dei lati corti ed una corte interna forse interessata da liturgie con uso del fuoco (indiziato da scarichi di carboni contenenti votivi non combusti), un edificio (B) con pianta ad U che ne racchiudeva uno piccolo in antis, un edificio (C) lungo e stretto con articolazioni interne di incerta interpretazione, edifici minori (es. D) e, forse, una recinzione ed una strada sul lato nord[25].

 

Assonometria di restituzione del santuario di Lova di Campagna Lupia (da Bonomi – Malacrino 2011, disegno di C. G. Malacrino).



L’area sacra raggiungeva un’estensione di circa m 140x110, secondo uno schema regolare, forse frutto di un’attività progettuale unitaria, il cui orientamento ad ovest era determinato dalla disposizione del piccolo tempio, di circa m 13x15. Nella sua definizione architettonica, con grande piazza porticata, con tempio incorniciato da un triportico ed edificio a peristilio, il santuario, richiama tendenze del mondo ellenico. Questo perché gli interventi significativi, da collocare in un contesto di piena romanizzazione, seguono l’architettura tardo-repubblicana, pienamente influenzata dall’ellenismo greco[26].

Consacrato presso le foci del Medoacus Minor in un’area di rinvenimenti sporadici di tipo numismatico ed epigrafico, oggetto di una frequentazione patavina fin dal IV-III sec. a.C., il santuario di Lova si inserisce nel panorama complesso e stratificato delle manifestazioni di culto nel Veneto, sia preromano che romanizzato[27].

Il corredo numismatico è formato da monete frutto di ritrovamenti casuali nel corso degli anni da parte di privati, specialmente in condizioni di post-aratura del terreno, di cui il Comune di Campagna Lupia è entrato in possesso nel corso del 2008-2009 grazie a donazioni da parte degli scopritori; altre sono venute alla luce in occasione di periodici survey del gruppo archeologico “Mino Meduaco” di Campolongo Maggiore. Sono state catalogate 8 monete greche, 10 paleovenete di “imitazione massaliota”, 49 repubblicane, 155 imperiali, 1 romana provinciale, 2 reperti paramonetali[28].

Il luogo di culto probabilmente preesisteva all’uso della moneta, ma il nuovo tipo di donazione si affermò accanto alle più tradizionali forme di offerte votive[29].

Una buona quantità di reperti numismatici si può ragionevolmente ritenere sia in qualche modo connessa alle fasi di vita del centro cultuale[30].

La presenza del santuario giustifica il ritrovamento in loco di tanti reperti soprattutto monetali. Tuttavia la tipologia delle monete non risulta connessa strettamente all’edificio di culto: mancano ad esempio del tutto le dracme venetiche che ci si aspetterebbe di trovare[31].

A livello epigrafico va registrata una trentina di bolli su terra sigillata: 19 bolli pertinenti a figuli nord-italici, 8 a figuli aretini, uno ad un figulus di officine centro-italiche, 2 da aree di produzione non identificate[32]. I materiali bollati vanno tutti riferiti alla prima età imperiale. Sono stati rinvenuti anche embrici con bollo C×FLAVI, vari da figline pansiane, una lucerna VIBIUS / F[33].

Preziosi reperti sono due anelli d’oro:

  1. con cammeo di pasta vitrea bianca su fondo verde e iscrizione sul retro: Cornelius / Proculus dedit / Ettiae Qua= / rtae[34];
  2. ex voto offerto ad una divinità, che resta ignota; forse Ostis è il nome dell’offerente (antroponimo venetico della base OSTI-)[35].

 

Grazie all’archeologo Luigi Conton rimangono disegno e misure (cm 98 x 60 x 25) di una stele rettangolare in trachite che risulta irreperibile:

Octavia / L. f. Prima / v(iva) f(ecit) sibi et / filio / Antatio a(genti) an(num) / fregilo. / In fro(nte) p(edes) XIII, / in agr(o) p(edes) XIII.[36]

 

4.2.2   UNA SOMIGLIANZA CON IL SANTUARIO DI ALTINO

Nel corso dello scavo apparve chiara la somiglianza dell’edificio A di Lova con un santuario precedentemente rinvenuto ad Altino[37].

Qui, in località Fornace, dalla metà del VI sec. a.C., acquisiva chiara fisionomia di area sacra una serie di spazi cui corrispondeva un ciclo articolato di attività rituali sostanzialmente immutate fino all’età tardo repubblicana.

La planimetria è di una struttura rettangolare di m 20x12 indiziata da 40 fondazioni di pali e dall’evidenza di alcuni incassi per elementi lignei, forse transenne negli intercolumni. In elevato doveva esserci un portico che racchiudeva uno spazio interno, quasi certamente ipetrale, per le celebrazioni. Sono evidenti simmetrie ed asimmetrie. Due ampie aree a fuoco dovevano essere dedicate a pratiche rituali. Esternamente uno spazio documenta lo scarico dei resti delle celebrazioni. In epoche successive appaiono opere murarie, pavimentazioni del piano di calpestio, ampliamenti perimetrali, fino alla trasformazione del II sec. a.C. con l’adozione del laterizio e del carattere monumentale[38].

Ipotesi ricostruttiva dell’area sacra tra la fine del VI e il V sec. a.C. (Capuis, Gambacurta, Tirelli 2009, fig. 4. Disegno di E. De Poli).

Planimetria dell’area sacra tra la fine del VI e il V sec. a.C. (fase V): 1-40 fondazioni di pali; 41-42 altari di ceneri; 43 percorso stradale; 44 canaletta.

(Capuis, Gambacurta, Tirelli 2009, fig. 2. Elaborazione grafica di C. Miele).

 

4.2.3. SANTUARIO O CENTRO EMPORILE?

Secondo Girotto e Rosada, planimetria e organizzazione delle diverse unità del sito di Lova tradiscono somiglianze con luoghi destinati, più che al culto, ad accogliere attività pubbliche e commerciali, vista la piazza racchiusa da portici e affiancata da edifici di varia tipologia:

-  la planimetria dell’edificio B suggerisce aree forensi urbane, con un porticato ad U che cinge un edificio dedicato al culto;

-  l’edificio A dà l’idea di una struttura complementare raccordata alle altre, adibita ad accogliere attività o transizioni commerciali, con portici e coperture utile riparo dalla pioggia;

-  c’è somiglianza tra l’edificio C, con le sue articolazioni divisorie interne e le strutture porticate, atte ad ospitare di solito tabernae o vani di servizio.

Dunque nel mondo romano il sito di Lova sarebbe stato, nella sua organizzazione spaziale e funzionale, uno di quegli insediamenti minori con particolari attività[39]:

«Nundinis urbem revisitabant, et ideo comitia nundinis habere non licebat, ne plebs rustica avocaretur...»[40];

«... forum sex modis intellegitur. Primo negotiationis locus, ut forum Flaminium, forum Iulium, ab eorum nominibus, qui ea fora constituenda curarunt; quod etiam locis privatis et in viis et agris fieri solet»[41].

Questi due passi, e altri, suggeriscono di annoverare Lova tra i mercati, fora più che nundinae, siti in campagna, prossimi alle infrastrutture stradali (sotto la cura di magistrati romani preposti alla stesura delle strade stesse) al di fuori di un vero e proprio insediamento abitativo. La via terragna era la Pupillia, con la complementare via d’acqua, il Medoacus Minor[42].

Di santuario con natura probabilmente emporica, in diretta relazione con Padova via fiume, parla la Lachin. Un santuario “di frontiera” tra terraferma, laguna e mare[43].

4.2.4  IL SANTUARIO, MANSIO MINO MEDUACO, PERCORSI ROMANI

Ritrovamenti di manto stradale a sud di Lova, un manufatto antropico “a doppio binario”, segmenti più o meno rettilinei individuati mediante i nuovi strumenti di visione aerea potrebbero confermare l’effettiva presenza di un percorso viario lungo la gronda lagunare; evidenze ad una certa quota sul terreno (soil marks) si riscontrano a sud di Lova. Tutto ciò attesta l’importanza del territorio di Campagna Lupia, considerando la sua posizione strategica in quanto distretto portuale di Patavium, attivo già in epoca protostorica, oggetto di “romanizzazione” a partire dal II sec. a.C. I tanti reperti numismatici non solo romani testimoniano ricchezza e ruolo di emporio commerciale del comprensorio[44].

La possibilità che il percorso suddetto corrisponda ad un tracciato viario di epoca romana è supportata dalla tecnica costruttiva della strada e dalle sue ragguardevoli dimensioni, dalla presenza a nord del santuario emporile di epoca veneto-romana, dall’ipotesi condivisa che a Lova fosse ubicata Mino Meduaco, dal fatto che l’ideale prolungamento del rettifilo andrebbe a congiungere le zone di Porto Menai/Piazza Vecchia (Ad Portum) e di Vallonga (Evrone), mansiones riportate sulla Tabula Peutingeriana. Percorso attraverso un luogo la cui importanza è anche testimoniata dai ritrovamenti di basolato, tessere di mosaico, frammenti di intonaco e marmi presso il fiume Cornio, antica sede del Medoacus Minor: potrebbero far pensare ad una struttura di servizio, sorta in un punto d’incontro tra fiume e via Popilia, atta alla ricezione dei viaggiatori e delle merci da e per Patavium[45].

Il legame dei santuari/empori con le vie d’acqua, oltre che di terra, era stretto. Potrebbe testimoniare ciò la distruzione del santuario di Lova, che sembra avvenire nel I sec. d.C. quando il Medoacus Minor cessa di essere vitale a favore del ramo del Brenta più settentrionale[46]. L’assenza di materiale archeologico posteriore all’inizio del I sec. d.C. nella suddetta area di Lova attesterebbe il disarmo dello scalo e la limitazione della funzione idroviaria per la drastica riduzione della portata del fiume, che assunse per questo l’attributo di Minor[47].

4.3. AD PORTUM - PORTO MENAI

Il significativo toponimo Ad Portum sembra indicare il porto di Padova per eccellenza ed è probabilmente identificabile con lo sbocco in laguna di Porto Menai, di fronte a Venezia. Qui sembra terminare la strada alzaia descritta dalla Tabula. Infatti a questo punto si poteva proseguire per Altino sulla via Annia oppure imboccare la rotta endolagunare[48].

Alla consapevolezza che Porto Menai fosse una statio importante in epoca romana corrisponde un riscontro archeologico contenuto. Attestazioni sono riportate in CAV IV[49]:

-  272.1. MIRA (VE) PORTO MENAI [III NE, m 2-3]. Rinvenimenti casuali. Presso privati. Si ha notizia del rinvenimento di mattoni, alcuni con bollo Clavdivs incerto, pezzi d’anfora e frammenti di ceramica.

-  272.2. MIRA (VE) PORTO MENAI-CANALE NUOVISSIMO [III NE, m 6]. Rinvenimento casuale di una testa femminile in marmo con acconciatura assai simile a quella di Faustina Minore. Conservata al Museo Civico Archeologico di Padova.

Le attestazioni diventano maggiori e più significative se si prendono in considerazione le indicazioni un po’ generiche sui luoghi di ritrovamento del miliario di Costantino[50] e della lapide di Combullius[51] (di cui si parlerà più avanti): la strada che da Sambruson conduce a Gambarare passa per Porto Menai.

L’importanza nevralgica di Ad Portum viene rilevata da Maddalena Bassani, la quale ritiene indubbio che l’incontro tra via Annia e via Popilia avvenisse lì, rendendo il sito fulcro degli spostamenti via terra e via mare[52].

4.4.      MAIO MEDUACO - SAMBRUSON

La corrispondenza tra Sambruson e Maio Meduaco è dato, come già visto, pressoché condiviso. Ed anche se ormai si tende a spostare verso Porto Menai l’incontro tra le vie Annia e Popilia, è indubbio il suo importante ruolo nei traffici terragni. Maio Meduaco era caratterizzato da un legame strettissimo fra la strada e il fiume. In questo sito toccato dal Brenta era possibile cambiare i cavalli o fermarsi presso una struttura ricettiva ad una distanza di circa 18 km da Padova (XII miglia)[53].

Mansio o mutatio? Differenza irrilevante se si tien conto dell’opinione, già letta, di Cristina Corsi[54]. Importante è comprendere che intorno alle stationes ci doveva essere senz’altro un indotto: scrive Corsi, in un altro suo contributo, che si potrebbe approfondire la ricerca allargando il campo anche alla maglia insediativa che le circonda, ai poli di attrazione presenti nella zona, al tipo di attività che si svolgevano, oltre a quelle ovvie di accoglienza e di stallaggio[55]. Si potrebbe, pertanto, immaginare una mansio (o mutatio) Maio Meduaco, centro di una realtà insediativa.

 

4.4.1  A SAMBRUSON, LUNGO IL BRENTA, ARRIVÒ LA CENTURIAZIONE?


Particolare da “Carta archeologica del territorio a nord-est di Padova con ricostruzione delle persistenze centuriali” a cura di Cristina Mengotti (allegata a “Antico e sempre nuovo. L’agro centuriato a nord-est di Padova dalle origini all’età contemporanea”, Verona 2012).

 

Studi recenti sull’agro centuriato a nord est di Padova sono compresi nel volume “Antico e sempre Nuovo”. Qui Cristina Mengotti chiarisce la metodologia usata per individuare le persistenze centuriali: limitare il rilevamento a quegli elementi lineari riconducibili con ragionevole certezza ad un intervento di centuriazione, aggiungendo poi il censimento delle evidenze archeologiche[56].

I siti di interesse archeologico nell’area della centuriazione sono quasi cento[57]. Da precisare che nove cippi sono risultati di epoca post-antica: si rivelano strettamente legati al tema della terra e alla tradizione delimitativa di origine romana[58].

Secondo la ricostruzione grafica, gli allineamenti della centuriazione si arrestano alle fasce di territorio parallele al Brenta, destinate ad accogliere le eventuali acque di esondazione del fiume risparmiando le aree coltivate, sfruttate come ager compascuus. Fasce meno estese, sembra, di quanto le persistenze di cardini e decumani lasciano intendere. I limites dell’agro centuriato, perciò, non erano lontani dal Brenta, permettendo così un facile accesso al fiume, naturale e comoda via di collegamento e di scambi commerciali[59]. Si può immaginare, quindi, una mansio Maio Meduaco inserita in una realtà insediativa, crocicchio di flussi per vie di terra ed acqua di mezzi, di persone, di truppe, tra boschi ripari.


[1] Kolb 2016, p. 4.

[2] Svet. Aug. 49:   “... Perché poi si potesse più facilmente e con più rapidità comunicargli e fargli conoscere ciò che avveniva in ogni provincia, collocò lungo le strade militari, prima delle giovani staffette a brevi intervalli, poi dei veicoli...”.

[3] Svet. Aug. 50: “... Per sigillare i brevetti, i documenti ufficiali e le lettere in un primo tempo usò l'immagine della sfinge, in seguito l'effigie di Alessandro Magno, infine la sua, realizzata da Dioscuride, che restò poi il sigillo adottato anche dagli imperatori successivi. In tutte le sue lettere aggiungeva anche l'indicazione dell'ora, sia del giorno, sia della notte, in cui le faceva partire...”.

[4] Corsi 2000, p.53.

[5] AE 1976, 653: “... dovranno fornire alloggio gratuito a tutti quelli del mio seguito, ai militari in transito che provengono dalle altre province, ai liberti ed agli schiavi del migliore tra i principi, e alle loro bestie da soma, cosicché non facciano richiesta di altri servizi gratuiti...”

[6] Corsi 2000, p. 8.

[7] Eck 1999, p. 109.

[8] Corsi 2000, p.8.

[9] Eck 1999, p. 113.

[10] Di Paola 1999, p. 19.

[11] Plut. Ces. Aug. 8.

[12] Di Paola 2016, pp. 9-10.

[13] Corsi 2000, p. 14.

[14] Basso 2016, p. 28.

[15] Basso 2016, p. 30-34.

[16] Corsi 2000, p. 63.

[17] Levi 1967, p. 80.

[18] Bosio 1983, pp. 101-110.

[19] Levi 1967, p. 89.

[20] Bosio 1983, pp. 97-98.

[21] Corsi 2000, p. 16.

[22] Corsi 2016, p. 54.

[23] Bosio 1997, p. 66.

[24] Girotto 2011, pp. 19-44.

[25] Bonomi, Malacrino 2011, p. 73.

[26] Bonomi, Malacrino 2011, pp. 81-82.

[27] Bonomi, Malacrino 2011, pp. 76-77.

[28] Carraro 2011, pp. 111-132.

[29] Gorini 2011, p. 138.

[30] Asolati 2011, p. 143.

[31] Carraro 2011b, p. 155.

[32] Toniolo 2011, p. 159.

[33] Crisafulli 2011, pp.  204-205.

[34] Bassignano 2016, p. 433, scheda n. 155.

[35] Bassignano 2016, pp. 433-434, scheda n. 156.

[36] Bassignano 2016, pp. 381-382, scheda n. 80.

[37] Bonomi, Malacrino 2011, p. 73.

[38] Capuis, Gambacurta, Tirelli 2009, pp. 41-46.

[39] Girotto, Rosada 2015, pp. 166-167.

[40] Plin. nat. XVIII, 3: “I contadini venivano nelle citta alle nundine (mercati ricorrenti ogni nove giorni); e perciò era ordinato per legge che i comizi non si tenessero nelle nundine, affinché i contadini non fossero distolti dalle loro faccende”.

[41] Fest. 74, 15-18L: “Foro si può intendere in sei modi: Primo è luogo di mercato, come forum Flaminium, forum Iulium, così chiamati dai nomi dei personaggi che li hanno realizzati; ciò che si usa fare anche in luoghi privati, per le strade e nei campi”.

[42] Girotto, Rosada 2015, pp. 170-171.

[43] Lachin, Rosada 2011, p. 60.

[44] Girotto 2011, pp. 16-17.

[45] Matteazzi 2011, pp. 68-69.

[46] Lachin 2011, p. 60.

[47] Matteazzi 2011, p. 70.

[48] Uggeri 1987, p. 346. Altri, come Bosio 1997, p. 67, indicano in Maio Meduaco il punto d’incontro e di biforcazione delle vie Popilia ed Annia.

[49] CAV IV, p. 70.

[50] Bassignano 2016, p. 310, scheda n. 16.

[51] Bassignano 2016, p. 363, scheda n. 63.

[52] Bassani 2010, p. 75.

[53] Bassani 2010, p. 74.

[54] Corsi 2000, p. 16.

[55] Corsi 2000b, p. 245.

[56] Mengotti 2012, p. 23.

[57] Mengotti, Bonomi, Cipriano, Pistellato 2012, pp. 60-78.

[58] Mengotti, Bonomi, Cipriano, Pistellato 2012, p. 52.

[59] Mengotti 2012, p. 39.

 


a cura di Luigi Zampieri


Ultimo aggiornamento (Giovedì 19 Dicembre 2019 12:10)