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SAMBRUSON. CULTURA, COSTUME, TRADIZIONI, AMBIENTE. - LETTERATURA A SAMBRUSON (II)

 

LAMPI SULLA LINEA

poesie in endecasillabi

con rima alternata e baciata di 40 versi

A. Zilio


Caro Andrea

mi permetto di inserire nel presente articolo, come premessa e doveroso chiarimento per chi legge, una parte del nostro contatto, relativo proprio a questa tua nuova fantastica visione poetica. Ti ringrazio, Luigi.

 

11 Ottobre 2016

Caro Luigi

.............prima di salutarti ti informo che ho in testa qualcosa di impegnativo e meraviglioso. Ho letto testi di scrittori e studiosi che affermano, con esempi e storie che dicono vere, che a qualcuno succede di “morire”,  ma di essere richiamato indietro quando ormai sembra abbia oltrepassato la linea del “traguardo”. Citano altri casi di biologi e specialisti i quali affermano che la morte apparente non coincide con quella reale, per cui si sente tutto e si vede tutto per attimi, anche quando agli occhi degli altri sembra impossibile. Sto “dialogando”, con personaggi illustri, da Giuda a Silvia del Leopardi,degli ultimi loro istanti, e di che cosa può essere cambiato in loro in quegli attimi davvero fuggenti. Scrivo in endecasillabi , con rime alternate e baciate. Roba da pazzi? Credo di sì. Andrea.

 

20 nov 2016 - 19:57
Caro Luigi, una settimana fa ho ricevuto questa mail da Dino Ermolao, di Dolo, persona colta che ama la letteratura e la musica (compone e scrive). Ci vediamo, ci sentiamo, ci scambiamo notizie sui nostri interessi culturali. Gli ho proposto di leggere i miei LAMPI SULLA LINEA e di consultare il tuo sito SAMBRUSON STORIA.  Ecco cosa mi ha risposto. Non volevo inviarti questa lettera personale, ma poi ho pensato che può fare piacere a Dino, a me, a te per abbellire il tuo sito. Ciao, Andrea.


Caro Andrea, inserisco la bella lettera di Dino Ermolao, che saluto e ringrazio cordialmente, come ottima prefazione e commento alla tua narrazione poetica, LAMPI SULLA  LINEA. Tanti auguri e buon lavoro per la nuova impresa GLORIA e VANAGLORIA. Sono certo che le tue risposte (ad Alessandro) saranno, come sempre di grande spessore filosofico e poetico. A presto, Luigi.
25 nov 2016


 

Caro Andrea esimio Vate,
è stata una bellissima, inaspettata sorpresa, dal momento che ricordo bene, dovresti ricordare anche tu, l’ultima volta che ci eravamo incontrati, molti mesi fa, quando a una mia domanda avevi risposto circa  così: “Ho chiuso con i prodotti della mente”.
Ne ero rimasto rattristato e però incredulo.
Non eri certo di umore vispo in quel periodo e dovevi averne tante, troppe, di buone ragioni.
Sono felice per te e per tutti i tuoi amici, che credo ti ringrazino. Anche Callìope ne sarà fiera e scambierà occhiate di approvazione con Apollo, mentre Omero, per me il Sommo a pari merito con l’Alighieri, non ne sa niente di questi giovani …. allievi dal gusto ancora classico,  avendo egli sempre l’handicap di non poter leggere.
Poiché, quanto a età e comune passione, la mia … barchetta segue di poco la tua, credo di riuscire a capire cosa significhi trovare il coraggio di affrontare l’onde del mare procelloso degli endecasillabi rimati, tenendo dritta la prua e fluido il procedere.
Metrica maestosa e affascinante quella usata per il genere narrativo trattato, ma ce ne vuole!
Per restare sull’immagine marinara, non è sufficiente, neppure per diporto, avere la consistenza di un buon legno … culturale, perché il rispetto della metrica esige doti di vario genere.
Non c’è casualità, improvvisazione, calo di vogata.
“Necesse est studuisse” e avere un certo talento, poi l’imput nasce dalla condizione psicofisica.
Ti auguro che questo non sia per te un fuoco d’artificio di fine festa letterario, ma una riaccensione d’interessi per contributi d’esperienza.
Può talvolta capitare, che alcune piante, in  condizioni di fioritura rinnovate, buttino fiori e germogli anche fuori stagione, d’autunno. Crescono anche viole d’ottobre, certe volte, e il loro profumo è forse meno intenso, ma apprezzato come e più di quelle di primavera.
Nel merito della tua opera “d’ottobre”, devo dire che si tratta di primizie e non di fiori fuori stagione.
Piaceri, emozioni per tanti motivi.
Ma qui mi fermo, perché l’apprezzamento ha stretti confini con l’adulazione.
Speriamo che il binomio umore/salute possa prolungare la tua “primavera a ottobre”.
Un caro abbraccio
Dino
14.11.2016


LAMPI SULLA LINEA

Attimi di lucidità,

prima di oltrepassare del tutto

la linea del non ritorno.

Sarà così? Lo vedremo!


 

PROEMIO

Mentre aspetto la fine del cammino,
passando il tempo a rinverdir gli studi
antichi e a conversare con voi, chino
il capo, vi chiedo: non siate rudi
per troppa umiltà o per consuetudine,
perché subir non è mia abitudine.

Ed ora vengo al succo del mio dire.
Quando si muore c’è separazione
netta tra chi resta e chi va a partire
o rimane l’attimo d’emozione
per poter cambiare nota opinione
in vita e trasformar viltà in passione?

Quando possiamo parlarci? Di notte?
Sognare è ottima via di conoscenza
retta, senza inganni, furbizie o lottte

per dire verità e non già parvenza.

Dopo l’ultimo respiro è finita?
Resta un consapevole atto di vita?

Ditemi: che succede quando sembra
che l’ultimo respiro sia esalato
e l’anima lascia le esauste membra
sigillando il libro del nostro stato
e l’altro mondo sconosciuto appare,
c’è ancora tempo per correggere, rimediare?

Si sente ancor quel che succede intorno?
C’è intervallo tra morte e nuova vita,
perché c’è la sera tra notte e giorno
o davver la nostra è storia finita?
Fissato il percorso con convinzione
di chiamarvi all’appello è mia ambizione,

per esplorare siti incredibili,
scoprire zone d’ombra sconosciute
in cui pentiti diventan nobili
o persone sagge che il ciel rifiute.
E’ importante saper che Dio ci attende,
anche nel trapasso apre le sue tende.

Dirò ciò che penso a vostro riguardo,
aiutatemi a non essere mai bugiardo,
ci son lampi su linea del traguardo?
sarà scopo del mio curioso sguardo.
06.10.2016

ISCARIOTA

Voi tutti laggiù, di me che pensate?
Or che frettolosi vi approssimate
a consumar l’ultima fuggente ora,
mentre attorno nessuno vi rincora
credendo che di voi sia tutto quanto
già scritto, sia d’iniquo che di vanto.

Sappiate, assopiti, che quando tutto
di voi sembra già  insignito o distrutto,
c’è un intervallo per le forti tempre
per redimersi o perdersi per sempre.
Come pescatori non navigate
nel mar di Tiberiade a reti piegate,

prima del buio si può ancor pescare,
c’è un attimo per potersi salvare
per ricordare eventi assai sonanti
non goduti eppur eran lì davanti.
Di me tutto supponete già scritto,
che di salvezza non abbia diritto,

giudicando le infami mie parvenze,
per me ci furon severe sentenze.
Ma mentre ero appeso al ramo funesto,
chiaro e forte sorse un pensier onesto
ebbi un  fremito, il tempo di capire,
d’invocare, di dolore soffrire.

Non immediato fu il buio, il trapasso,
niente era più di me profondo, in basso,
ma gli occhi imploranti rivolsi al cielo
cadde di perdizione il cupo velo.
Questo nessun lo vide, nessun scrisse,
alcun profeta lo pensò o lo disse.

Toccò a me sciagurato, condannato
in partenza, a tradire Dio e il Creato.
Prima fuggii folle e disperato
correndo senza fede, cuore e fiato,
ma, nell’intervallo, a Gesù guardai
Oh! mia speranza, gridai, l’implorai.

Con cuore affranto, e pentito, perdono
chiesi. La Sua mano tese in dono
e più non mi lasciò. Salvo ora sono,
non dei traditori nel cerchio nono.

CAIO GIULIO

La toga, ancor di sangue maculata,
Cesare avvolge. Ritto il capo fiero
ordina ai legionari l’adunata,
ombre si schieran, pronte per l’impero.
Poi immobili stan come fosser creta
l’orda non è furente, ma  discreta.

Che vuoi sapere da me che già non sai?
Ricca d’eventi fu tutta mia vita,
cento battaglie non mi scalfiron mai,
la mia storia resterà perenne, infinita.
Ma quando in Senato affondò la lama,
Casca immortalò ai posteri la mia fama.

Ai piedi di Pompeo caddi in Senato,
prima che lanciassi l’ultima sfida
per trasformare Roma in nuovo Stato.
Ma tradito è spesso chi in altri fida.
I tempi tuttavia erano maturi
per dare all’Urbe fasti imperituri.

Il ghigno della statua era feroce
e Bruto che inferse il colpo mortale
segnò la sua fine in età ancor precoce,
mio disegno avverò, era fatale.
Quando passai il Rubicone armato
pensai che mai più sarei stato amato.

Or che sto ripassando, la memoria
mi trascina a quegli eventi lontani
in cui feci di Roma nuova storia
e per il popolo prosperi domani.
La gloria non sta sol negli atti in vita,
soprattutto è in tragica dipartita.

La gran caduta mi dispiacque molto,
ma fu l’atto più  potente e solenne,
osannato prima d’esser sepolto,
meritò gloria e memoria perenne.
Nobile Cassio, involontariamente
favoristi tu ciò che avevo in mente.

Da me caduto sorgerà Ottaviano,
sarà mio figlio la mia lunga mano
Questo pensai, ti parrà davver strano,
mentre cadevo da vero romano.

DON ABBONDIO

Voi chi siete? Coi tempi che corrono!
Non c’è novità, caro reverendo,
ci son sempre quei che tutto scoprono
ma per costoro, è certo, non mi spendo
Penso a voi che avete lasciato traccia,
ma ditemi se volete ch’io taccia.

Lasciami pensare, torna domani!
Cosa dico? Qui il tempo non passa mai,
alto o basso quello che sei rimani,
resta, perché se passi non tornerai.
Non sei per caso l’ultimo dei bravi
che sta cercando il primo degli ignavi?

Se volete parliamo in confidenza:
esci pure, Abbondio, dal sottoscala,
qui sei al sicuro, trovato hai clemenza
spero che presto entrerai nella sala
che precede il sognato paradiso
ma nell’attesa dovrai far buon viso.

Vorrei capire del tuo agir il germe
tormentato. Dal viottolo bel bello
calciando ciottoli scendevi inerme,
leggendo il breviario, ma proprio in quello
due figuri ti miser la paura
che più non ti lasciò, anzi ancora dura.

Pur basso di statura, personaggio
sei comunque, perciò sapere vorrei:
nella tua vita ci fu mai coraggio?
o fu ricca sol di abbagli funerei.
Infine, come finì la tua storia?
perché ora mi tradisce la memoria.

Peste mi sfiorò, di morir temevo,
feci preci e scongiuri, derelitto,
l’arrivo del vil monatto attendevo
mi immaginai sperduto in bosco fitto,
ma s’allontanar bubboni e demonio,
fui pronto, ancor timido, al matrimonio.

Liberatomi da quel sacramento,
vissi nascosto senza alcun lamento,
come Mosè punito, ho un dolor spento:
sol da lontano guardo chi è contento.

SILVIA

Non cercarmi, ché  più nulla m’importa,
il fior reciso declinò improvviso
fatal destino bussò alla mia porta
spegnendo ogni speranza, ogni sorriso,
il mio spirito or in celeste sfera
resta, né più vagheggia né più spera.

L’umane delizie che, giovinetta,
avea  intravviste, natura fallace
mi tolse, negandomi vita retta
e gentile, togliendo gioia e pace.
Dal suo balcone mi guardava il vate,
mi faceva sognar mondo di fate.

Solerte ricamavo la mia tela,
egli si piegava su libri e carte,
spingendo contro l’onde la sua vela,
accostandomi, infelice, alla sua arte;
simile era d’avvenir la speranza,
per lui ognor cantavo nella mia stanza.

Tu che pensi a me e vieni da lontano
sappi che prima di lasciar il mondo
piccolo del mio borgo, toccar mano
mi bastò al giovine serio e profondo
nel guardare, nel sentire, nel dire
di me parole immense da stordire.

Là capace non ero di mentire,
or lo faccio, forse te ne sei accorto.
Fu  doloroso i palpiti sentire
d’un amore che nessuno ha mai scorto,
di mia vita infranta m’importa ancora,
son lieta che qualcun parli d’allora.

Il Cielo per me ha fatto un’eccezione
mi ripaga con divini consensi
a pensar, prima della delusione,
quando lieti si turbavan i miei sensi.
Innocente e pura fu vita e fine,
lo posso ancor dire da oltre confine.

Infiniti spazi e silenzi scrutar
sapeva, e dove mi poteva trovar,
sul telo mio bianco lo vidi pregar,
una sua lacrima m’osò accarezzar.

NAPOLEONE

Andavo con mia madre in riva al mare
ad ascoltar colorate conchiglie,
l’onde azzurre volevo cavalcare,
sconfinata fantasia senza briglie
mi spingeva a superar gli ostacoli,
sentivo i miei pensieri esser oracoli.

Nacqui in terra còrsa, pieno d’ingegno,
lo seppi dall’inizio di mia vita,
giurai di fare tutto con impegno,
di volontà e coraggio era fornita.
Vincere vuol dir sempre precedere
chi  con te lotta, senza mai cedere.

Or qui dall’oceano son circondato,
come da deserto, sto solitario,
cupo, in mezzo vo ad ombre senza fiato
che m’interrogan con in man un diario:
a  Jena son caduto, a Wagram, Mosca;
la mia  giornata è come notte, fosca.

A cosa son servite mie vittorie,
per finire in un’isoletta, a vista
sorvegliato a scriver le mie memorie,
a dolermi, ciò molto mi rattrista.
Attento a te che parli a testa china,
ché tutti abbiamo la nostra Beresina.

Mi raddrizzo, dico con cuor sincero,
non ti cerco per lodare o condannar,
conosco tutte tue battaglie, è vero,
pertanto non è di questo che parlar
vorrei, è per conoscer gli ultimi istanti:
quali pensieri scegliesti tra tanti?

Causa mia morte fu solitudine,
non già veleno, inedia o tradimento,
mi percosse rapida inquietudine,
svenni di fronte all’ultimo tramonto,
mi dichiararon perduto,  defunto,
invece nel morir non fui disgiunto.

Cuor mio andò lontano, in riva al mare
di casa, a raccattar conchiglie rare
per saper cosa mi dovea aspettare,
dove Storia avrebbe dovuto stare.

CLEOPATRA

Un generale del grande Alessandro
fu mio antenato, nacqui in Egitto
nella città dove il Nilo meandro
si fa, prima che il mare prenda dritto.
Là iniziaron e finiron, senza fallo,
i giorni d’un magnifico intervallo.

Non mancò audacia, ambizione, cultura,
teatro, rischio ad una vera sovrana,
dalla nascita fino a sepoltura
cercai dominar civiltà romana.
Conquistator di Gallie ai miei piedi
ridussi, senza lasciar veri eredi.

Di fronte a Roma parvi un’eccezione
perché trattai da pari generali
e senatori; beltà e seduzione
furon l’armi mie amorose, fatali,
a chi preferì baccanali e feste
procurai solo dolori e tempeste.

Con Antonio ebbi giorni di prestigio,
unimmo ricchezza egizia al potere
di Roma, valoroso, ad essa ligio
fin che, con scaltrezza, il mio volere
feci diventar suo: caput mundi
trasferire doveva tra noi oriundi.

Abile, il senato, scosse Ottaviano
divenuto difensore dell’Urbe,
popolo e alleati ebbe in sua mano
pronto a distrugger chiunque la disturbe.
Antonio, sicuro, si batté ad Azio
e per lui, per me, fu davvero strazio.

Ad Alessandria pur facemmo festa
come avesse conquistato vittoria,
poi scegliemmo ciò che ad eroi resta
l’unico gesto per avere  gloria:
lui mise mano al  gladio, a me la serpe,
mettemmo così fine a nostra stirpe.

Lenta, assopita la morte mi colse,
l’umana Storia ad ammirar si volse,
pensai ch’essa troppo presto mi tolse,
e a colei che innocente al sen mi morse.

SOCRATE

Sapevo di non sapere, ragionar
sempre volevo per capire le cose
dal particolar partendo per donar
l’universale, il mio pensiero pose
in dubbio d’Apollo l’oracolo:
la voce di traditor  prese il volo.

M’accusò esser dei giovani corruttor,
Meleto, di provocar disordini,
dei nostri dei esser vero distruttor,
d’essere pericolo senza confini.
Son cittadin del mondo non d’Atene,
per me la conoscenza è il solo bene.

Di brutto aspetto, sol di pensiero bello,
oltre ai sofisti, Santippe sopportar
dovetti; il carcere ebbi per ostello.
Quieti e forti, un gallo dovete portar
ad Esculapio in dono per la morte
indolore, cicuta apre altre porte.

Sappiate, amici, subire ingiustizia,
che praticarla, è più saggio, sentenza
di condanna rispetto, non mestizia,
m’inchino alla legge, alcuna clemenza
cerco, del resto chi sa quale sorte
in dote avremo dopo nostra morte?

Restate ancora, amici, a dialogare
di filosofia e d’immortalità,
presto con voi non potrò più parlare
del nostro destino nell’aldilà
Nel vostro pensiero siate liberi,
mai ingannate voi stessi, siate fieri.

V’ho disturbato, amici, dialogando?
In  questo modo si giunge a verità,
questo ho cercato di dir insegnando
mai ho denigrato leggi e divinità.
Anche se tu a Delfi fallisti, o Pizia,
mai porterò rancor, inimicizia.

Vai pure, o Critone, altro vi ho da dire,
nulla vi scrissi prima di sortire,
mia voce  pensate voi a riferire,
non lascio debiti, or posso morire.

LEONIDA

Spartano, niente in Grecia così  grande
fu mai, né ovunque, perché una sconfitta
gloria immensa vi procurò, domande
non  ci son, ma risposta chiara e dritta.
Patria in pericolo ebbe petti e dardi,
fermaste Serse, da eroi, non codardi.

Pur sapendo al passo di soccombere
guidasti all’assalto i tuoi veterani
le torme obbligando a retrocedere.
Vostro credo provarono i persiani:
l’onore era per voi ‘sì netto e crudo,
di tornar con lo scudo o sullo scudo.

Esperti, forti d’animo, convinti
della vostra missione, duratura
impresa, vittoriosi, seppur vinti,
alle polis permetteste sicura
federazion, che pria non avea strade
per dare Salamina ad Alcibiade.

Alle Termopili, l’ultima sera,
parlando ai prodi, sotto chiaro cielo,
rimembrando patria, famiglia vera,
togliesti lor d’ogni timore il velo,
dicendo cadute le loro trame,
anche a causa del traditor infame.

Che vedesti negli oracoli, o prode?
E quale fu l’estremo tuo pensiero?
Cader per inganno ancora mi rode,
ma tremendo schianto celebrò vero,
incantevole amor per suolo e acque
per cui il mio corpo qui insepolto giacque.

Quando il capo mi staccò il grande Serse,
risposi in tempo con ghigno feroce
al suo oltraggio, ma fu là che si perse,
la sua fine accelerò assai veloce.
Non ti voglio tediar, o forestiero,
ma sappi, quel che dico è veritiero.

Erodoto  dei Greci parlò alquanto,
di noi descrisse fin che visse il vanto,
ci onora di vati famosi il canto,
dei Persiani non dicon più di tanto.

GIULIETTA

Amor perfetto in stagion scellerata!
Con il giovane figlio dei Montecchi
nacque  storia, mai fu più celebrata,
né ci fu dramma che vi si rispecchi,
ahimé! questa fu nostra breve vita,
tuttora impressa nella casa avita.

Calda Verona, roventi famiglie,
da livor divise e pure congiunte,
allevasti nel tuo sen senza briglie,
dove amicizia e pace eran defunte
regnavano solo torbide voglie
di reprimer quelle altrui pur con doglie.

Già fanciulla, rifiutai sposo imposto,
ma non desistette la mia famiglia
che volle convincermi ad ogni costo.
Spesso vero amor le trame scompiglia.
Sotto la maschera conobbi al ballo
Romeo e mio cuor non fece fallo.

Dal veron  ci guardammo e ci giurammo
fedeltà eterna, tanto intenso, forte
fu l’afflato per che subito ci amammo.
Per liti e giovanil baldanze, morte
trovò, causa l’amor mio, Tebaldo,
per cui esule andò simile a ribaldo.

Due giorni immobile mi rese il frate,
tornato, fredda mi vide il fuggiasco,
disperato rimase e senza fiate,
indi per velen di vita fu lasco.
Al mio risveglio, lo vidi, ahi lasso!
Lama m’infissi e caddi come sasso.

M’attendeva Romeo sulla scala
che al cielo conduce i giovani amanti,
m’aspettò sul confine, prima che ala
funerea ci spingesse troppo avanti.
Non tornerò quaggiù, non val la pena,
brevi dì  fur pur fitti come rena.

Nel tunnel Romeo senza favelle
m’attese e fummo anime gemelle.
Stretti per le mani, alle nostre celle
salimmo, lassù ben oltre le stelle.

11.  FORNARETTO

Una mattina di buon’ora andavo,
garzone, il pane fresco ad infornare,
in calle della Mandola passavo,
pensando ad Annetta, e di ritornare
con dono; da terra bella guaìna
raccolgo per l’amata signorina.

Ma c’è un uom pugnalato al petto, è Alvise
Guoro,  stirpe di nobil rinomanza.
La guardia di notte  ai Piombi mi mise,
perché, dichiarano, colto in flagranza.
Annetta implora aiuto al suo padrone,
conte Lorenzo Barbo: dall’androne

malfamà liberate l’innocente!
Membro dei Dieci, vota nel Consiglio,
interviene, ma non si può far niente.
Il tradito sornione sembra un giglio.
Nasce nel popolo qualche sospetto
è troppo mite Pietro, il sopra detto.

Il morto, di Costanza Barbo è amante,
Annetta per difender la padrona,
disse: di me era stato spasimante.
Pur essendo una diceria che stona,
la sua buona e onesta disposizione
fu per delitto giustificazione.

Pur avendo nel frattempo scoperto
che a vendicarsi del subìto sgarbo,
un nobil d’oro zecchino coperto,
era stato l’insospettato Barbo,
di Pietro Fasiol il doge Loredan
solennemente se ne lavò le man.

Che sia leggenda la mia triste storia?
poco m’importa. In Palazzo Ducale
sulle scale che già Marin Faliero,
vecchio doge, videro finir male,
pur sapendomi innocente la testa
mi spiccaron, e cadde in una cesta.

Là dentro ancora senziente, diretto
il popolo inventò proverbio netto,
m’offese molto l’ultimo dispetto:
ricordeve del pòaro fornaretto.

12. RUZANTE

Mi dicevano pavan strambo e matto,
perché pensavo e scrivevo sincero
parlando da giullare, detto fatto,
di gente popolar colta sul vero.
Contadini e strafanti son gli attori
protagonisti dei miglior lavori.

Commedie del mio tempo in dialetto
mi venivan spontanee dal niente,
dicevo verità grasse, ad effetto,
osservando il viver della mia gente.
Il mio teatro allegro ironico è vario,
questo lo capisce e continua Dario.

A te mi rivolgo, sono antenato
pavan dell’amor della tua Betìa
che, in paese, tanto spasso ci ha dato
nella commedia alla buona imbastìa.
Ora però è tutto un altro discorso,
non parlo più in dialetto, e c’è rimorso.

Non t’inganni la mia parlata grezza,
mia cultura sappi! fu raffinata,
da nobile casato che l’apprezza
fu allegramente accolta ed approvata.
Ancor giovane la morte mi cercò
e, come sua abitudine, mi trovò.

Son vissuto da poltrone e sensuale,
questo si può dire, e che nuovo solco,
superando il melodramma abituale,
tracciò nel Rinascimento Beolco.
Son l’opere mie la celebrazione,
oltre ogni cittadina convenzione,

della sana rural naturalezza.
Di altri, pur insigni, feci parodia,
in tutta libertà e dimestichezza,
l’onore del coraggio me lo si dia.
Un colto e raffinato spettatore
ebbi complice del mio spessore.

Ricordami commediografo e attore.
Quando risposi all’Appello, al sapore
forte pensai d’un mazzetto di pore,
poi me ne andai senza fretta o clamore.

13. ANDROMACA

Alle porte Scee finì la mia vita,
poi tutto mi fu tragedia e dolore,
tutto persi: la mia famiglia avita,
l’eroe che combatteva per l’onore
delle mura che cingevan sacra Ilio,
da lassù fu lanciato mio figlio.

Ettore sposo mi fu imposto, l’amai,
con  lui soffersi i lutti e le rovine,
ora sono derelitta e schiava, mai
dimenticherò chi, fino alla fine
sua, per mano d’Achille, ci difese,
solo al semidio Pelide s’arrese.

Umile sposa, paziente e fedele,
vissi sovrastata da mia impotenza
nel veder Giunone tesser le tele
che grande ci portaron sofferenza.
Fu, contro gli dei e il fato,  impossibile
lottare, nostro valor fu fragile.

Alle mie stanze penso, quando Ecuba
mi consigliava il taglio delle vesti,
su come accender i fuochi, pronuba
fu d’amorosi ed accoglienti gesti,
parlavamo d’allevare Astianatte
da vero troiano, cuor ancor mi batte.

Sto vagando nell’Ade tenebroso,
altri spettri s’aggiran senza volto,
senza voce e luce, sol lamentoso
raccapricciante pianto avverto e ascolto.
A tutti si manifesta verità
orrenda: chi ci perse fu vanità.

E’ tra di noi un greco cieco, sapiente,
che ha lasciato, di noi antichi, ricordi
furiosi e immensi, che nessun e niente
potrà cancellar fin che vita scordi.
Prima di cadere vissi altri eventi,
ma per essi non valgono altri accenti.

Quando dal mio corpo spirito evase
volli andar dove mia storia rimase,
sto ancor cercando profumo di case
e stanze in cui vita ebbe miglior fase.

14. GERTRUDE

Non devi imprigionar un cardellino
se non vuole, le sbarre l’eremita
cerca, perché aspira a quel destino
per meditar sui santi e sulla vita.
Non devi violentar una creatura
seppellendo la sua vita in clausura.

Virginia fui detta dalla nascita
per informar il mondo: la mia dote
al convento già donata e servita,
m’obbligaron a nasconder viso e gote
sotto un velo nero, fui destinata
a passar l’esistenza dietro grata.

Vietato mi fu il riso delle spose.
Non divider si dovea il patrimonio.
Furore immenso allor dentro m’esplose.
così di me s’impadronì il demonio.
Cuor mio ebbe sol tormenti mai riposi,
così alla prima tentazion risposi.

Giunsi perfino al delitto, sospinta
dal malvagio e quando Lucia mi giunse
di dar aiuto e rifugio fei finta,
la tradii e nessun rimorso mi punse.
Torbido e morboso aspetto si svelò,
giudice giusto per sempre mi celò.

Cambiai clausura, tra le penitenti,
da  Monza a Milano giunsi distrutta
mi rifiutaron umili e potenti
non ci fu donna con vita più brutta.
Cercai, accettai crudeli penitenze
ancor più dolorose di sentenze.

Pregai ogni giorno chiedendo perdono
a tutti coloro ch’avevo offeso,
offersi a Dio tutta mia vita in dono;
mosso a pietà lo vidi a me proteso,
allargò le sue misericordiose
braccia e nel seno eterno mi ripose.

Son commosso, triste e muto, sorella,
il pentimento t’ha rimesso in sella
ora puoi star accanto a la Mondella
perché brilla vostra storia gemella.

MILITE IGNOTO

L’ultima notte sui monti al confine,
in trincea, stretti tra neve e fango
tenevamo in pugno le carabine.
Ordinò un ufficiale d’alto rango:
soldati, all’attacco! andiamo a morire!
Fui colpito in fronte senza capire.

M’hanno raccattato sugli Altipiani,
una granata in pezzi mi ha spaccato,
or sono qui, ma mie non son le mani,
Di guardia sul Pasubio m’han beccato,
soffiava il vento, penso al mio orticello,
Maria mia! bum! E cado proprio in quello!

Cara mamma, torno presto…scrivevo.
Prendi tu la mia lettera, sergente,
mandala tu a casa mia; se vivevo
avrei detto che guerra porta a niente.
Ortigara e Gorizia, avanti eroi?
Maestà, siam soltanto dei pòari fioi!

Nella navata d’Aquileia, muti
in undici bare ci sono i fanti,
mai prima s’eran visti, conosciuti,
stanno qui silenti al posto di tanti,
i loro spiriti si capiscono,
pure da lontano ci ammoniscono.

Sarà una madre triestina a toccare,
svenendo sopra, l’ignoto soldato
che dalla Patria a Roma avrà un altare.
Grazie, Maestà, ora ti sei ricordato,
senti almen il nostro stridor di denti
per donar  onori e fasti ai potenti?

Fa silenzio l’Isonzo, non mormora
più  il Piave a Nervesa; s’innera il Grappa
di nembi e cumuli, in lutto vi implora:
l’onore sia a chi alla pace s’aggrappa,
le guerre, i popoli siano convinti,
non danno vincitor, ma solo vinti.

Sarò scelto! Ero giovane alto e bello!
Faccio a chi m’ascolta accorato appello:
cercate uno disperso sul Montello,
cercate Alessandro, mio fratello.
29.10.2016

DISMA

All’ora nona fu buio sul colle,
agonizzavo appeso a la mia croce,
ridevano i centurioni e le folle,
godevano di nostra morte atroce,
ai ladroni spettava destin nero,
triste, dopo giudizio veritiero.

Tra di noi era inchiodato il Galileo
flagellato, di spine incoronato,
nessuna colpa avea, nessun neo,
fin prima tutti l’avevan lodato,
Lazzaro ha risorto, perch’era Cristo,
su la mia strada mai l’avevo visto.

Gesta imprecava, tutti malediva:
Se tu sei il Cristo prova a liberare
te e noi, sento che già la morte arriva.
Questo è il Figlio di Dio, non bestemmiare!
Mio Signore, in vita molto ho peccato,
quando nel tuo Regno sarai andato

ricordati d’un malfattor pentito
alle mie colpe, al male tolgo il velo.
Non parte, ma Amore tutto, al contrito
promise: oggi tu sarai con me in cielo!
Poi un alto grido, che la terra scosse,
emise, ogni presente si commosse.

Non solo rocce, ma i cuori di pietra
degli uomini che mai hanno riflettuto,
pianto, sperato, il grido spezza, tetra
disperazion di chi non ha creduto
Sulla linea è cambiato il mio destino
così  m’ha salvato l’Amor divino.

Di tutti gli uomini salvati e santi,
Dio mio, son unico canonizzato
da Te, m’hai scelto negli ultimi istanti,
eppur ero infelice e disperato.
A Te in Paradiso canterò lodi
tutti sapran come hai sciolto i miei nodi.

Per Tua intercessione proteggo i vivi
giunti all’agonia di peccati privi,
i  ladri a pentirsi ancora schivi,
affinché sano ogni uomo a Te arrivi.


INDICE

1.  PROEMIO

2.  ISCARIOTA

3.  CAIO GIULIO

4.  DON ABBONDIO

5.  SILVIA

6.  NAPOLEONE

7.  CLEOPATRA

8.  SOCRATE

9.  LEONIDA

10.GIULIETTA

11. FORNARETTO

12. RUZANTE

13. ANDROMACA

14. GERTRUDE

15. MILITE IGNOTO

16. DISMA


Articolo a cura di Luigi Zampieri


Ultimo aggiornamento (Domenica 29 Gennaio 2017 11:18)