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SAMBRUSON. CULTURA, COSTUME, TRADIZIONI, AMBIENTE. - LETTERATURA A SAMBRUSON (I)

L'insieme letterario di A. Zilio, Romanzo educativo, Proemio, Lettera a una giovane maestra, non poteva mancare in questo internet-site, perché, anche se ambientato in un luogo fantastico dell’oceano Pacifico, coinvolge ampiamente il paese di Sambruson.

Inserisco i nomi dei ragazzi della Classe 5^ C, anno scolastico 1975 –1976, all’inizio dell’articolo, per invogliarli a rileggere questa loro avventura di scolari della scuola elementare D. Manin.

Sambruson aleggia in ogni pagina con i nomi delle contrade, degli oratori, di avvenimenti come il tornado, di persone che molti ricordano; la bidella Cesira, mastro Ernesto, il direttore Bertoli e soprattutto gli alunni.

E’ un romanzo per educatori e ragazzi, ma non solo, è anche per gli abitanti di Sambruson.    L. Zampieri.  

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Sambruson: Anno scolastico 1975 – 1976

classe 5^  C

Bertellini           Luca                             

Boscolo            Stefano                         

Carraro            Roberto                        
Coin                 Endrio                          
Dartora            Daniele                         
Fabris              Franco                          
Giacomelli        Giuliano
Lazzari             Sandro
Martinello        Ivan                             
Massaro           Paolo
Menegazzo       Fabio
Minto               Giuseppe                      
Pretato             Antonio
Stocco              Robertino
Tacchetto         Gianni
Terrin               Guglielmo                    
Artusi              Patrizia
Bain                 Monica
Boscaro           Margherita
Caregnato        Carla                                     
Cerato              Barbara                        
Favaro             Lolita
Malaman         Rosetta                         
Palmarini         Michela
Pasqualetto      Catia
Vecchiato         Stefania
Zara                Sabrina

 

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L’ISOLA DI TAN KIU’

  

ROMANZO PER EDUCATORI E RAGAZZI

   Ho imparato che un uomo ha il diritto di guardarne un altro dall’alto al basso solamente quando deve aiutarlo ad alzarsi.”

                                                                                                             P. Neruda

 

  A Enrico, Alessandro, Marco, Irene nipoti dolcissimi

 

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Lettera a una giovane maestra

Cara Martina,

               mi chiedi alcuni consigli all’inizio del nuovo anno scolastico. Non ho più niente da dirti. Tu sei fresca di entusiasmo e di studi. Sono rimasto indietro. Saprai senza dubbio come fare.

Tuttavia la tua richiesta mi lusinga. Mi fa risvegliare ricordi e passioni lontane. Tieni conto di questo mentre leggi. Di quello che ti dico cogli lo spirito più che la lettera.

Per prima cosa non cercare subito delle risposte, poniti piuttosto delle domande.

“Cosa vado a fare a scuola?”

A insegnare a leggere, a scrivere, a contare, mi dici. Troppo poco. Anzi è una fatica sprecata. I bambini volitivi, magari un po’ più in là, ci arrivano da soli. Cerca di comprendere il paradosso: voglio dire che si può fare di più, molto di più. Vuoi fare la maestra? Allora devi insegnare ai bambini a dipanare il segreto della vita fornendo gli strumenti idonei, perché ognuno ce la faccia al meglio da sé.

I veri educatori operano per rendersi inutili nei confronti di coloro che amano. Devi essere colei che salva i bambini, perché non cadano nel burrone dell’indifferenza, dell’abulia, della noia, della rinuncia senza provare. Ricordi il giovane Holden? Non pensare di prepararli alla vita, come se fosse lontana. E’ già qui. Devono viverla subito. O tutto sarà perduto. Aiutali a camminare con le loro gambe, a pensare con la loro testa, metti loro addosso la voglia, l’entusiasmo.

Ti sembrano concetti difficili?

Non credo. Pensa alla mamma che insegna al figlio a camminare: lo aiuta ad allontanarsi da lei, a fare da solo, a camminare con i suoi piedi. Quel figlio deve andare lontano, per la sua strada, con i suoi mezzi.

Da principio devi camminare al loro fianco, illuminando, trasmettendo sicurezza, modificando il passo, perché imparino a conoscere le loro misure. Il progetto educativo consiste nell’avviarli, incoraggiandoli ad intraprendere fiduciosi il viaggio più importante. Devono sapere in partenza in quale direzione andare, devono sentire che è necessario attrezzarsi di strumenti culturali adatti, devono svelare, scoprendoli, i talenti naturali di cui sono dotati.

 Si parte insieme. Ma per strada ogni ragazzo poi avanzerà da solo. Si perdono le guide, i maestri, i genitori. E’ inevitabile, è naturale. Questo, solo questo, ricordati della scuola: aiutali ad andare da soli. Anche dopo di te, anche senza di te. Attrezzali!

Solo ciò che apprenderanno per volontà propria sarà vero nutrimento, vero sapere. Devi far sorgere nei tuoi alunni il bisogno, il desiderio, l’urgenza di conoscere, di capire, di agire. Devi far sentire a ciascuno il gusto della scoperta, della fatica ripagata, della capacità di affrontare percorsi inediti, personali. Tieni sempre accesa la fiamma della curiosità.

Già, mi dicevi, ma come fare?

Attenta, perché è da qui che devi partire.

Anche in questo caso la risposta non è difficile. Prima, tuttavia, devo darti un avvertimento. Io ti indico la via, la strada che ho seguito, ma non è detto che basti compiere gli stessi atti, prendere le stesse iniziative. Ti rinnovo l’invito a cogliere lo spirito delle mie parole.

I bambini sono sempre diversi, universi in apparenza uguali, ma in realtà irripetibili, gli ambienti sono diversi, i tempi sono diversi, le normative sono diverse. Perciò devi credere in te stessa, in quello che fai, devi impadronirti con sicurezza degli strumenti necessari per comunicare, per tracciare la tua personale proposta educativa, ora, nel luogo dove sei, con i bambini che ti sono affidati e che devi conoscere uno ad uno.

Dicevamo: come fare?

Ecco, a questo punto, ti indico due strade:

- la strada consueta, pedante, più o meno dotta, ricca di citazioni e riferimenti, di analisi e di richiami morali;

- una storia.

Ovviamente ti consiglio la strada da me seguita, la seconda.

Ai miei ragazzi di classe quinta, fu un anno memorabile!, avrei potuto insegnare tante cose con prediche, raccomandazioni, velate minacce, suggerimenti, letture di grandi autori, assumendo di volta in volta atteggiamenti autoritari o compiacenti. Una simile azione educativa, molto appariscente, ma poco concreta, potrebbe soddisfare tutti: le circolari ministeriali, le autorità scolastiche, le famiglie, gli stessi ragazzi. In apparenza. Ma, ciò che si apprende per timore o per far piacere, invece che per autentico interesse, non è solido, non è duraturo.

Allora? Vedi, anch’io mi chiesi, un giorno: che posso fare per te, Robertino?

Arrancava abbastanza! Pensai a lui. E trovai la risposta che cercherò di dare a te. Tienila da conto, sarà valida anche quando non ci saranno più concorsi magistrali, tesi universitarie da discutere, ma avrai comunque una classe davanti. Devi aiutare i piccoli a diventare uomini, a diventare donne destinati tutti a vivere in autonomia e consapevolezza la loro esistenza al meglio, in spirito di fratellanza e di solidarietà, con chi gli è vicino. I loro vicini sono quelli confinanti, cioè tutti gli uomini del mondo.

Così, per non annoiarli, per non ottenere solo la loro attenzione formale, pensai di coinvolgerli nella partita, di renderli protagonisti della loro educazione.

Scherzosamente avevo battezzato il mio metodo con il motto “Tre pini e un lupo”. E’ un’immagine sintetica. E’ stato il mio segreto. I pini stavano a indicare l’ambiente favoloso, eppure realistico, da inventare: l’atmosfera, la voglia di conoscere! Il lupo stava a indicare la fantasia, la creatività del bambino da liberare nel “bosco” preventivamente studiato con un piano ricco di curiosità, di stimoli, di attese, di sorprese.

Incominciai a immaginare, a inventare storie fantastiche, ma credibili, perché rigorosamente rispettose delle regole esigenti della lingua, della morale, della storia, della geografia, delle scienze, della meteorologia, della matematica, della psicologia.

Per muoverci a nostro agio nella nostra storia, da protagonisti, abbiamo dovuto pensare, abbiamo dovuto attrezzarci di scienza, di conoscenza. Ecco scattare la molla giusta. Ecco la necessità di acquisire tutti gli elementi necessari per imbarcarci con successo nell’avventura. Ecco scattare in ognuno dei ragazzi e delle ragazze l’urgenza di consultare vocabolari, enciclopedie, atlanti, riviste, giornali, ecco il bisogno di documentarci, di intervistare, di ricercare le informazioni giuste scegliendo. E’ stato necessario dividerci i compiti e le competenze e riportare, riferire le conoscenze e  le esperienze maturate a beneficio del gruppo. E’ gratificante, positivo scoprire che c’è qualcuno che ti aspetta, che ha bisogno di te, delle informazioni che solo tu porti, perché tutti avevano posto fiducia in te, incaricandoti di cercarle. E’ meraviglioso scoprire il momento in cui una persona, un ragazzo!, è in grado di agire responsabilmente per iniziativa personale. I miei alunni hanno scoperto questo entrando nella giungla della nostra storia con coraggio, con successo e uscendone con proposte, con iniziative, con scelte meritevoli di ascolto.

Nella storia che ti allego, i “tre pini” sono rappresentati da un  luogo immaginario. Là avevamo trasferito idealmente la nostra scuola. Il “lupo” è rappresentato dallo slancio impaziente, curioso, mai sazio dei ragazzi, e mio. Eravamo ansiosi di agire, di gestire l’isola da noi inventata. Il luogo fantastico, scelto come scuola ideale, era in pieno oceano Pacifico. Ho fatto girare il globo, Rosetta ha posato un dito bloccandolo. Eravamo arrivati! Ci eravamo semplicemente impadroniti di un atollo, rappresentato dal vivo con un plastico di cartapesta che abbiamo provveduto a costruire con tutte le nostre mani.

Per conoscere il nostro nuovo indirizzo, abbiamo imparato subito: a calcolare longitudine e latitudine, a disegnare paralleli e meridiani, a conoscere la formazione e la direzione dei venti, il nome, le abitudini, le caratteristiche degli animali tropicali e delle piante esotiche, a esaminare e correggere i nostri comportamenti alla luce della necessità del gruppo “in quell’ambiente”, a far nascere il senso del dovere, dell’assunzione di responsabilità, a rispettare le regole, ad amare la pace, a rispettare chi pensa e crede in maniera diversa.

Mi chiedevi come spiegare il concetto: la scuola prepara alla vita.

Qualcosa ti ho già detto. Sì, vivendola intensamente, in maniera creativa, senza indugi. L’infanzia è già vita. Rispondendo correttamente ai bisogni di vita in un ambiente fantastico, hanno imparato ad allenarsi davvero, a fare sul serio.

A che serve conoscere i monsoni a un bambino che vive a Sambruson? Paese tra i campi, dimenticato da tutti. Da noi per primi. Questo mi fu chiesto, allora.

Rifletti. I bambini di quinta C, quell’anno, non erano in paese! Sono vissuti in un ambiente dove era necessario conoscere i monsoni. Hanno imparato il metodo per rispondere a un bisogno immediato. Hanno pensato e creato luoghi e situazioni fantastiche. Fantastiche nel senso di bellissime. Ma i comportamenti erano veri, corretti. Era possibile sbagliare? Certamente! Siamo vissuti in un “luogo” immaginario in cui potevi sbagliare e correggerti. La trasposizione di eventi, di situazioni, di rapporti veri in un contesto fantastico ti consente di provare, senza drammi, di capire e di evitare errori irrimediabili.

Ho insegnato loro a non rinviare mai quando ti sorge un bisogno di sapere, di conoscere, di agire. Approfondisci subito. Se lo impari a scuola, cioè da piccolo, non lo dimentichi più.

Hai capito l’importanza dei monsoni? In quel momento occorreva conoscerli.

Hanno imparato un metodo, uno stimolo, un modo vivo di apprendere, valido sempre.

Dopo questa esperienza didattica, per tutti, fu più facile e naturale far di conto, leggere per capire, riflettere prima di agire, ordinare le proprie idee, scegliere le parole per esprimersi correttamente, ragionare, ascoltare, meditare.

Cara giovane collega, trova i tuoi “tre pini”. Il “lupo” curioso, ansioso di fare è già vivo in te, ascoltalo, trasmettilo. Crea il contatto, prova. Conoscendoti, sono certo che scoprirai in te e nei tuoi scolari capacità e doti inimmaginabili, ma, soprattutto, crescerai donne e uomini liberi.

Cara Martina, mi avevi chiesto un consiglio. Sono andato oltre. Ai vecchi succede.

Bastava ti dicessi che, nella mia vita, ho tenuto conto soprattutto di chi meno sa, meno ha, meno può.

Cerca di farlo anche tu.

az

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PROEMIO

Questa storia è vera. I personaggi sono veri. Siamo noi.

Eppure fantastica.

Suggerivo.

Come stimolo, come partenza… poi ognuno ha volato con le proprie ali. Ognuno ha raccontato la sua storia. Ho insegnato che, nella vita, ognuno deve attrezzarsi di conoscenza, determinazione, coraggio. Portando esempi. Raccontando storie. Bisogna cogliere il messaggio, tradurlo nella vita contingente.

Se impari da subito a camminare con le tue gambe, a distinguere il bene dal male non lo dimentichi più. Chiudi gli occhi e sai. All’istante!

Chissà se qualcuno, tra le sue vecchie carte, ha ancora il quadernone con le avventure sull’isola di Tan Kiù!

Caro lettore sconosciuto, la conosci l’isola di cui parliamo?

Calma! Adesso la conoscerai.

Questa storia è vera, perché…

… veramente l’11 settembre 1970 il nostro paese fu investito da una tromba d’aria, improvvisa e mostruosa. Il tornado, come fu chiamato, partito dai Colli Euganei, attraversò i nostri paesi di campagna e finì in laguna. Distrusse case, campeggi e rovesciò un vaporetto, molte persone morirono.

Da noi ci fu, grazie al cielo!, solo distruzione materiale. Possiamo dire così!

Questa storia è fantastica, perché…

… qualche anno dopo, l’evento ancora vivo mi ispirò nella stesura del  “Piano annuale di lavoro” alle scuole elementari “Daniele Manin”. Mi parve subito originale, stimolante e valido. Un modo personale di istruire e di educare.

 on alcuni adattamenti e alcune invenzioni necessarie, programmai un percorso didattico più creativo, diverso dai consueti schemi. I piccoli personaggi si muovono per mia scelta, per necessità descrittive e didattiche a completare una visione unitaria del progetto.

Lo proposi al dottor Pierantonio Bertoli, indimenticabile, storico direttore didattico di Dolo, futuro ispettore scolastico. Mi ascoltò, mi disse: vai!

Ogni settimana, di domenica, per un anno, ho steso la “mia avventura” su un blocco “Notes” a quadretti. Con una penna biro rossa. A scuola ne parlavo ai ragazzi senza concludere l’episodio…. e loro, sullo slancio, continuavano a creare una loro storia ideale.

Ognuno procedeva e terminava in modo diverso, pur partendo da stimoli iniziali comuni. Furono coautori del loro processo educativo.

Idealmente abbiamo trasferito la nostra aula in un’isola fantastica, ma anche vera, perché aveva  caratteristiche fisiche ben precise, con problemi quotidiani da affrontare e da risolvere, con rapporti interpersonali, tipici dell’età, non indifferenti da conoscere e da districare. Perché i protagonisti erano veri. Eravamo noi. Tutti insieme costruimmo la nostra isola di cartapesta.

Tutte le materie erano oggetto di studio: geografia, storia, scienze, botanica, fisica, meteorologia, matematica, ortografia, etica, etologia, religione, problemi tipici dell’età, relazioni sociali…

Fu fantastico!

Feci scattare una molla che ci appassionò, ci coinvolse tutti.

A fine anno ci lasciammo con tremore, con commozione.

Ci guardammo fissi, uno ad uno, e ci dicemmo sorridenti: buon viaggio!

Ognuno di noi scrisse la sua storia. Questa che presento oggi è la mia.

L’ho completata a scuola finita.  Di fatto, la finisco ora.

In quei giorni ….i ragazzi impararono a usare con frequenza il vocabolario, a consultare con logica i volumi di “Conoscere”, a svolgere ricerche appropriate e necessarie, volute, non imposte; a collaborare, a suggerire, a proporre, a temere, a sperare, a ragionare. A calcolare esattamente a colpo d’occhio, a dire “… secondo me… io penso che…” Ad essere comprensivi e solidali con chi sta indietro. Si trattava di dichiarazioni, di comportamenti di responsabilità.

 n quei giorni … a Sambruson (anni ’70) c’era un gruppo di insegnanti speciale: si collaborava, ci si aiutava, ci si consigliava. C’erano molte iniziative comuni. C’era molta collaborazione. Era facile avere idee e realizzarle. Nel 1976 proposi il progetto “Festa della Primavera”. Continua ancora con le stesse parole, le stesse motivazioni, la stessa coreografia.

Nell’isola ho immaginato per ognuno un compito, un’occasione, un lavoro necessario al gruppo suggerendo come si diventa partecipi di un progetto, concittadini. Certi  comportamenti o frasi sono di mia invenzione, di mia scelta, perché necessari in quel momento per esprimere concetti che ritenevo corretti, non per qualcuno, ma per tutti. Degli episodi va letto l’aspetto pedagogico, oltre quello descrittivo.

Imparai anch’io la bellezza di trasmettere entusiasmo, consapevolezza, senso di responsabilità. Autonomia… di scelta, di giudizio, di comportamento. Secondo regole comuni.

Tutti impararono e capirono che senza regole non c’è armonia, non c’è progresso. Senza disciplina non c’è libertà. Sembra un paradosso, ma è così.

Fu allora che scoprii che potevo esprimermi chiaramente scrivendo.

 e azioni e i comportamenti dei protagonisti sono in relazione all’idea che mi ero fatto delle loro attitudini, dei loro bisogni di aiuto. Dovevo stendere un progetto educativo. Non ho scelto nomi fantasiosi, altri soggetti, ho scelto i miei stessi ragazzi per spiegare la mia visione di maestro, di educatore impegnato tracciando un percorso comune da seguire. E l’ho spiegato, mostrato.

La lettura sarà una scoperta anche per voi, ragazzi. Leggerete le stesse cose osservandole dal mio punto di vista. Qualcuno ha più spazio di qualche altro. Dipende soltanto dall’argomento che in quel momento volevo spiegare e mi servivano più righe. Nient’altro. Ogni avventura non è casuale, vuole dire, insegnare qualcosa.

 

I miei ragazzi e ragazze erano 27.

Ho ritrovato le vecchie carte.  

Le lascio com’erano. Con la sola aggiunta di riflessioni nel frattempo maturate.

L’anno scolastico finì presto. Non riuscii a dirvi tutto. Ve lo dico ora. Ci lasciammo, ci perdemmo di vista.

E’ difficile pubblicare.

Ora, grazie ai nonni del Circolo «Trovemose», il lettore conoscerà anche la storia tremenda di Tan Kiù.

Cari nonni, cari amici e coetanei, già! tra i 27 ragazzi ci sono anche alcuni dei vostri figli.

Vi dico che erano seri, bravi, entusiasti. Certamente lo sono ancora. Nei loro resoconti parlavano e descrivevano i comportamenti corretti, cui dovevano attenersi i personaggi “fantastici”.

Imparavano a modellare la loro personalità, secondo il modo giusto, vero, corretto che suggerivano agli attori della scuola immaginaria, ideale.

Sono stati momenti esaltanti che non si dimenticano più.

Ragazzi, ragazze,  mi ricordo ancora di voi. Uno ad uno.

Era l’anno scolastico 1975/76. Avevate dieci/undici anni. Io ne avevo trentotto.

Speriamo di rivederci tutti nella stessa scuola, domenica 19 settembre 2010.

Andrea Zilio

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L’ISOLA DI TAN KIU’

 PARTE PRIMA

L’ISOLA

LA TROMBA D’ARIA

Lunedì 27 ottobre 1975 doveva essere un giorno come tutti gli altri per la classe quinta C. Era il giorno di geografia e ogni alunno si era portato il materiale necessario. Cartine, righelli, squadre, compassi, fogli da disegno.

La Cesira, sulla porta della scuola, osservava con occhio burbero le scarpe di coloro che entravano e le impronte che si stampavano sul pavimento.

La giornata autunnale era serena, dopo le piogge dei giorni precedenti che, tuttavia, avevano lasciato un’afa pesante e insolita. Si presentava un buon inizio di settimana con ricreazione garantita all’aperto. I ragazzi lo sentivano e ne erano felici.

«Ecco due pannocchie.» Sorrise Barbara, mentre le porgeva ancora avvolte nelle loro brattee con lunghi fili biondi sporgenti. Aveva i capelli uguali.

Il maestro le posò sulla cattedra. «Bene, ragazzi, oggi parleremo anche di cereali, dei luoghi in cui crescono, delle loro proprietà nutritive.»

«Maestro, perché il granturco si chiama turco?» chiese Rosetta.

«Ragazzi, immaginate un fulmine che colpisce un campo di mais… quintali di pop corn!» Fabio parlava e sorrideva contemporaneamente. Gli veniva bene.

Eccoli! Ci siamo.

«Adesso ne parleremo, attendiamo un attimo.» Sapeva che la bidella sarebbe entrata per vedere se era tutto a posto, se c’erano ordini. E per fare le sue raccomandazioni sulla pulizia dei gabinetti.

Nei campi di Luca, i suoi familiari seminavano. Dal carro pieno di sacchi rigonfi, prelevavano il grano e riempivano la seminatrice che riprendeva il suo andirivieni. Il suo frastuono, di tanto in tanto, giungeva fin sotto le finestre.

Nella sua segheria, oltre la siepe, mastro Ernesto e i suoi garzoni lavoravano di sega e di pialla. Tutto si svolgeva tranquillamente, in quella giornata d’autunno. Le rondini erano sparite da un pezzo. Solo i passeri arruffavano le piume sui tetti, mentre le colombe si aggiravano ai margini dei campi appena seminati.

La campanella puntuale annunciò l’inizio delle lezioni.

I ragazzi della quinta C erano ventisette e rumorosi. Aprirono simultaneamente le cartelle e sui banchi apparvero ben presto pastelli, forbici, colla e fogli da disegno.

Giuseppe, come sempre, riusciva contemporaneamente a succhiare la sua mentina quotidiana, a dare un pugno, come saldo, a Robertino e a protestare la sua innocenza da accuse non ancora sollevate.

«Giuseppe, vieni qui, portami il diario» disse severo il maestro.

«No, signor maestro, poi la mamma mi sgrida.»

«Speriamo.»

Giuseppe osservava la penna rossa che oscillava, pronta a scrivere l’inutile nota. La fece franca.

Il globo posato sulla cattedra, al tocco del maestro, cominciò a girare.

«Il meridiano di Greenwich!» esclamò.

Ventisette teste si chinarono su altrettante carte geografiche a cercare una linea immaginaria. Con l’altra il maestro accarezzò Clementina, la sua pipa. Era un tocco che aiutava, che riscaldava. Si affannò impacciato tra tabacco e zolfanelli, finché una nuvoletta azzurrognola annunciò a tutti che la lezione era cominciata. Non era un fumatore, ma la pipa era un simbolo. In tv la esibivano tutti i più famosi. Attraeva, creava simpatia. Distraeva dai temi trattati.

«Futile! Ridicolo!» pensava. Tuttavia per curiosità ci provò. Ahimé funzionò! A volte gli serviva come pausa, era come sorbire un caffé.

La spiegazione sul mais venuto dall’America, non interessava già più. Lo riprese per verificare  l’effettiva curiosità. Toh! circa la metà dei ragazzi ci fece caso. Doveva spiegare. Allora spiegò che il nome stava per indicare la provenienza da un paese esotico, forestiero. A Venezia, nel Medioevo, tutto ciò che era strano, esotico appunto, era detto turco, cioè proveniente dal Paese d’oriente che allora offriva le maggiori meraviglie, dai tessuti alle spezie, ossia le stravaganze del mercato.

Subito poi l’attenzione fu dirottata sull’aspetto avventuroso dei viaggi che Portoghesi, Spagnoli, Francesi e Inglesi intrapresero lungo le nuove rotte tracciate da Cristoforo Colombo. Doveva essere questo l’argomento della lezione.

«Roberto,  mi segui?» chiese il maestro.

La domanda era superflua, perché Roberto metteva a disposizione la sua attenzione sempre un quarto d’ora dopo l’inizio della lezione e, per prima cosa, disegnava cavalli.

Con il compasso, Guglielmo, anticipando i compagni, disegnava cerchi su cerchi cercando di ottenere un  bel grafico della mappa del mondo.

La bidella, con l’ultima circolare del direttore, entrò senza bussare e andò dritta alla cattedra. Il maestro dovette interrompere la lezione, perché la Cesira aveva già cominciato a parlare.

Era una istituzione, ormai. Aveva visto generazioni di ragazzi passare tra quei banchi. Era l’autorità più importante, dopo il direttore, secondo lei. A scuola era nata, là aveva trascorso la sua infanzia, la sua giovinezza aiutando la madre, bidella prima di lei, a lavare calamai, ad accendere stufe di terracotta, a spazzare pavimenti. Viveva nella scuola, la custodiva, ne era gelosa. I maestri lo sapevano e accoglievano i suoi burberi rimbrotti come manifestazioni di simpatia.

La circolare comunicava il calendario scolastico: i giorni di vacanza, le scadenze dei trimestri, i giorni degli scrutini e degli esami. Il maestro prendeva nota. La classe era in silenzio, come se fosse entrato il direttore.

«Antonio, viene un po’ qui» disse la Cesira, guardando il terzo banco con i suoi occhi di fuoco.

Il ragazzo guardò il maestro, ma poi si alzò.

«Chi ha rotto la finestra della palestra?» Silenzio. «Tu sei stato, con quella maledetta fionda!»

«Va bene, Cesira, grazie.» Intervenne pacato il maestro. «Provvederò io.» Mentre usciva, fu richiamata bruscamente: voleva ristabilire un po’ di ordine e di autorità. Insomma!

«Spenga il bruciatore, per cortesia, non vede che oggi è una bella giornata?»

«Non è acceso. E’ la giornata ad essere troppo calda per questa stagione.» Parlò senza voltarsi indietro.

Il maestro mandò giù ancora una volta. I ragazzi se ne accorsero.

«Ragazzi, andiamo via» propose calmo. Lo guardarono. Poi gridarono tutti. «Sìììì!»

«Non intendo qui fuori.» Si fece silenzio. Delusione!

«Forza! compasso e carta geografica. Cerchiamoci un’isola. Ci andremo con la fantasia.»

Ecco! Paralleli e meridiani diventano, all’improvviso, importanti come via Villa e via Stradona.

Ecco! La novità fa scattare curiosità e interesse in tutti. Pronti! Che c’è? Che si fa? Come si fa?

Dopo lungo dibattito viene concordato questo incrocio: 155° E da Greenwich, 7° N. Niente spiccioli di primi e di secondi. Il mondo è nostro! Lo facciamo dove e come vogliamo! Poi lo rispetteremo secondo regole che andremo a stabilire.

Al lavoro! C’è grande vocio, grande curiosità su ciò che succederà dopo.

Intanto dalla finestra aperta che dava sul cortile entrò un fruscio strisciante, il rumore di un tuono. Che fastidio! Era un rombo mai sentito che si trasformava in fischio. Insomma! Disse qualcuno disturbato.

Robertino, abituato a guardare fuori per metà mattinata, cercò di attirare l’attenzione. Sopportava la scuola con dignitosa serenità.

«Guarda, guarda.»

Il maestro non gli badò neppure. Era il grido d’allarme che Robertino ripeteva ogni quarto d’ora.

«Oh, guarda… guarda!» Robertino sillabava le parole. Stefania e Sabrina, incuriosite, erano già alla finestra.

«Corri, corri, maestro.»

A malincuore si alzò. «Evviva  la scuola attiva» brontolò tra sé. Ma quando giunse alla finestra fu investito da una ondata improvvisa di calore. Al piano di sopra, una ventata fortissima mandò in frantumi i vetri. Un turbinio di polvere, un frastuono strisciante, spaventoso, avanzava decisamente veloce in direzione della scuola.

Il maestro chiuse la finestra.

«Ragazzi, sotto i banchi. Subito!» Stupore, imbarazzo. Sorrisi. Pochi lo imitarono.

Il ciclone avanzava con la sua impressionante potenza distruttrice. Scavava nel terreno, sollevava le tegole dei tetti, piegava come fuscelli i tralicci della linea elettrica ad alta tensione. Animali, piante, persone venivano risucchiate in alto a una velocità incredibile. Era un evento mai visto, sconosciuto: una tromba d’aria.

Già pensava a come avrebbe spiegato in pratica il fenomeno.

«Ragazzi, avete presente il vortice che fa l’acqua del lavandino, ma a rovescio?»

Scherzava. Non immaginava ancora il seguito di questa storia.

Come una bomba, il vortice piombò sulla scuola, la avvitò come una trottola, la sollevò come una pagliuzza in alto in alto, sempre più in alto, dove si frantumò disperdendosi come una manciata di sabbia lanciata al vento.

LA TERRA SCONOSCIUTA

 Le impressioni di Gulliver, quando vide i piccoli abitanti di Lilliput camminare sul suo corpo, furono miste di stupore e di incredulità. Tali pensieri assalirono anche il maestro quando tentò di aprire gli occhi. Una pesante sonnolenza gli intorpidiva le membra e una luce viva, accecante lo schiacciava al suolo.

Sopra di lui tanti occhi ansiosi e smarriti erano in attesa. Ricordò confusamente. Poi pensò a soluzioni estreme. «Paradiso terrestre?» Ma, ricordando che la presunzione è cattiva consigliera, rettificò le sue mire.

«Mah, forse è il purgatorio!»

«Evviva!» Sentì più voci gridare. «E’ vivo.» Era la voce di Guglielmo. C’era da fidarsi. La sua voce esprimeva gioia e speranza.

Aprì gli occhi e si mise seduto. Attorno, con sguardi interrogativi, c’erano molti dei suoi ragazzi e delle sue ragazze.

Le vesti strappate, un po’ ammaccati si strinsero, come tanti pulcini impauriti attorno alla chioccia. Solo che la «chioccia» non riusciva a capire dov’erano né ad immaginare come potevano esserci arrivati.

«Guardate, il mare!» Stefania allungava il braccio e spingeva lo sguardo oltre la radura. Dal luogo in cui si trovavano, girando lo sguardo non si vedeva che mare. Alle loro spalle, un’alta montagna ricca di vegetazione lussureggiante si stagliava contro il cielo limpidissimo. Attorno a loro un vasto prato coperto di arbusti, di erbe, di fiori sgargianti sembrava fosse stato messo lì apposta per riceverli.

Uccelli oceanici, dalle ampie ali, volavano radenti gli scogli facendo schiamazzi assordanti.

«Dove siamo?» fu la prima cosa che si chiese. E non era il solo.

Che strano! La temperatura autunnale del mattino era mutata. Il clima era di gran lunga diverso. Indubbiamente il caldo era molto forte. Ma tutto era strano e misterioso in questa loro vicenda. Il sole volgeva decisamente a ponente. L’aria salmastra li faceva respirare a pieni polmoni. Si sentivano già in vacanza, eppure era l’inizio dell’anno scolastico.

Constatato che, tranne qualche graffiatura e qualche escoriazione, tutti erano sani e curiosi, il maestro pensò subito alla necessità di capire esattamente dov’erano, nonché di procurarsi il cibo e un riparo. Non capiva come mai, ma non c’erano dubbi. Erano diventati all’improvviso primitivi.

Quasi in mezzo alla prateria  s’innalzava un gigantesco albero solitario, un baobab.

«Per oggi il cibo è assicurato» sentenziò, ricordando le cognizioni apprese ai corsi di preparazione al concorso. Sia pure vagamente, ricordava infatti che i maestosi baobab avevano dei frutti commestibili, anche se poco gustosi.

Dopo lo smarrimento iniziale, tutti i ragazzi accolsero l’annuncio con gioia. Per loro era un’avventura che, certamente, sarebbe finita al calar della sera.

Il maestro si rese conto del loro stato d’animo e, pur essendo preoccupato, cercò realisticamente di non drammatizzare e di fare il punto della situazione.

«Ragazzi, siamo capitati in un’isola. Così penso. Come? Non lo so proprio. Non è il momento! Dal clima e dalla inclinazione dei raggi del sole capite che siamo molto lontani da casa. Ma ciò non ci deve dispiacere, perché tutti sogniamo qualche volta un’isoletta tutta nostra.»

«E’ vero!» Catia esplose in una esclamazione sincera. Non l’aveva mai rivelato a nessuno, ma ne aveva costruita una di cartapesta.

In quel momento un grido, poi molte grida ancora s’udirono salire da una macchia boscosa ai margini della prateria. Anche il maestro fu colto da gioiosa sorpresa. Il gruppo si andava festosamente ricomponendo. Sette ragazzi della quinta C si precipitarono di corsa da una piccola scarpata. Avevano le lacrime agli occhi per l’emozione e la felicità.

Li abbracciò tutti. «Grazie a Dio, siamo salvi!» esclamò.

Guglielmo, con un occhio gonfio ed uno strappo fino al ginocchio nei jeans nuovi, tra una interruzione e l’altra, riuscì a comunicare che aveva scorto delle scimmie e dei pappagalli. Ciò sembrava confermare i sospetti del maestro.

«Siamo ai tropici. Potremmo essere capitati nell’oceano Pacifico. Certo è un mare grande, non si scorge niente intorno. In quale punto? Non lo sappiamo. Per scaramanzia scegliamo il punto che avevamo gia indicato per iniziare una nuova avventura fuori scuola.»

«Oceano Pacifico? Mamma mia! Come ci siamo capitati?» Alcune ragazze si portarono le mani al viso e sbarrarono gli occhi.

«Come ce ne andremo?» Qualcuno osò chiederlo, ma era il pensiero di tutti.

Il maestro spiegò brevemente che ci sono scienziati che passano la vita a studiare i misteri della natura, a volte senza capirci nulla. «Se si sapesse tutto sulle trombe d’aria, forse troveremmo una risposta anche noi. Lasciare questi posti, comunque non dipenderà certo solo da noi. Intanto organizziamoci.» Fu fatto l’appello. Non c’erano tutti. E questa fu la prima loro preoccupazione.

«Prima di stabilire cosa fare e come, vediamo chi c’è» suggerì.

Guglielmo chiamò i maschi: Endrio, Fabio, Ivan, Sandro, Roberto, Robertino, Daniele, Stefano, Franco. «Undici ragazzi presenti» gridò Guglielmo. Gli occhi gli brillavano. Era l’inizio di una meravigliosa avventura.

Rosetta, spettinata e impaurita, stentava a trovare la tranquillità necessaria. Chiamò vicino a sé le compagne. C’erano Stefania, Barbara che succhiava nervosamente il suo fazzolettino, Catia, Carla, Patrizia e Monica. «Mancano Lolita, Sabrina, Margherita e Michela» disse con voce triste.

«E chi ci dice che non siano qui anche loro?» Il maestro cercò di infondere coraggio.

«Ce-cerchiamole» esclamò Roberto. A volte incespicava.

«Una cosa alla volta, non perdiamoci in chiacchiere.» Cominciò a distribuire incarichi, a organizzare delle piccole spedizioni per circoscrivere il luogo sicuro in cui accamparsi e per cercare eventuali compagni atterrati più lontano e smarritisi nel folto della boscaglia.

«Ci possono essere dei pericoli che non conosciamo, che non prevediamo. Non allontaniamoci troppo. Fissiamo un punto di riferimento visibile da lontano, sicuro: il baobab. E’ importante  avere un caposaldo. Un riferimento, come nella vita. Nessuno si allontani in luoghi in cui non sia visibile il grande albero. Nessuno deve addentrarsi nella giungla. D’accordo?» Il maestro fu chiaro e fermo. Tutti fecero un cenno di assenso.

Le ragazze, prudentemente, restarono ai piedi del baobab a raccogliere frutti e foglie per il gruppo. Con loro restò pure qualcuno dei ragazzi.

«Io vengo con te» disse Guglielmo. Ma il maestro lo dissuase. «Tu andrai con un altro gruppo verso ovest. Io con gli altri andrò verso la montagna. Avanzate con cautela, siate prudenti, se avvertite pericolo, qualsiasi pericolo, gridate o tornate indietro immediatamente.»

Franco, il più timido, febbricitante restò presso il baobab. Il mento gli tremava più del solito e Rosetta e Barbara lo incoraggiavano.

I due gruppi si separarono. Robertino sembrava nel suo ambiente ideale. Saltellava liberamente, gesticolava, rideva, faceva piccole corse avanti e indietro. Niente! Nessun rimprovero. Era libero. Per lui tutto era bello, nuovo, eccitante. Il maestro lo portò con il suo gruppo a nord-est verso la montagna.

La montagna, certamente di origine vulcanica, si elevava, dopo un dolce pendio, in maniera netta e scoscesa. Convennero che sarebbe stato necessario salire in vetta per avere la cognizione esatta del luogo in cui si trovavano.

«Potrebbe anche non essere un’isola.» Sarebbe stato di gran lunga la scoperta migliore, da tutti auspicata, certamente così avrebbero incontrato qualche villaggio, qualche cacciatore o  pescatore. Avrebbero avuto notizie più certe, oltre le loro supposizioni. Allargandosi lentamente, allontanandosi con prudenza dal baobab, sotto il sole cocente, aiutandosi con dei rami spezzati, il gruppo di Guglielmo cominciò ad esplorare il vasto spiazzo sconosciuto che stava davanti a loro. Ben presto arrivarono ai margini della radura, poi sarebbe iniziata una fitta boscaglia. Dai primi alberi altissimi che incontrarono scendevano, come robuste corde le liane di cui avevano solo sentito parlare o visto nei film di Tarzan.

“Che cos’è questo» chiese Stefano, e indicò un oggetto grigio, simile ad un sacco che sventolava da un ramo a mezza altezza.

Per terra, ai piedi dell’acacia, un mucchio di grano fece loro ricordare che nei campi di Luca si stava seminando quando era sopraggiunta la tromba d’aria.

Le ispezioni continuarono senza intoppi e, quando fecero ritorno, ognuno aveva una sorpresa, una novità da raccontare. La più importante riguardava il ritrovamento di oggetti e attrezzi sparsi strappati alla fattoria dalla furia dei venti e precipitati con loro in quell’angolo di terra sperduto tra le onde. Stefano e Daniele portarono alla base mezzo sacco di grano, Endrio una pannocchia. Guglielmo già assumeva la veste di piccolo capo: tornò con un fazzoletto annodato sulla fronte impugnando un’ascia e una sega. Sul legno vi erano incise a fuoco due E. Certamente, se sarà scampato alla furia della tromba d’aria, mastro Ernesto le starà cercando tra le rovine della sua segheria. A quella vista, il più felice di tutti fu il maestro sia per il prezioso ritrovamento sia perché il ragazzo si rivelava quello che era sempre stato, un valido collaboratore.

L’unico triste era Robertino. A scuola era il più svogliato, l’unico che avrebbe regalato volentieri libri, quaderni e penne. Invece, tra calcinacci, tavole e chiodi, aveva rinvenuto la sua cartella intatta. Fu l’unica trovata. L’aprirono subito e trassero fuori un quaderno a righe nuovo, il sussidiario, una scatola con i compassi, l’astuccio dei pastelli, le forbici e persino due puntine da disegno.

«Robertino, sei il nostro portafortuna.» Il maestro gli passò una mano sui capelli arruffati. Il ragazzo tentò un sorriso. Ma ben presto l’allegria, a lungo trattenuta,  scoppiò e si diffuse, mettendo ciascuno a migliore agio. Mangiarono la frutta raccolta e si riposarono all’ombra.

Con calma fecero l’inventario degli oggetti ritrovati, tutti utilissimi per una comunità che si apprestava a vivere nelle condizioni degli uomini primitivi. L’unico orologio salvatosi era quello al polso di Roberto, ma era silenzioso e senza lancette.

Il maestro cercò qualcosa e la trovò: estrasse la pipa con l’ultima presa di tabacco. Ma gli mancava il più, il fuoco. Restò con la pipa a mezz’aria a riflettere.

Le ragazze scoppiarono in una sonora risata.

«Povera Clementina!» esclamò Rosetta.

Eh, sì! Anche la pipa aveva un nome.

IL MISTERO DELLA MONTAGNA

 Era trascorsa una settimana dal loro arrivo e già la piccola prateria aveva assunto un aspetto diverso. I ragazzi si dimostravano molto dinamici, veloci ad affrontare situazioni impreviste. Si stavano adattando bene alla nuova condizione facendo fronte alle fatiche, ai disagi, al caldo e alla sete con coraggio e compostezza. Con gli arnesi fortunosamente recuperati avevano costruito un piccolo accampamento, diviso in due settori: maschi e femmine. Mai gli arnesi di mastro Ernesto avrebbero immaginato di tagliare così abbondantemente legni pregiati. Rami di mogano e di ebano, tronchi di teak e di palissandro servivano da costruzione e da ornamento. Il tetto delle capanne era ricoperto di foglie di banano e di palma da cocco.

Riuniti in assemblea discutevano i loro progetti immediati.

«Dai miei calcoli, oggi dovrebbe essere ancora lunedì» disse il maestro. «Per non perdere il conto dei giorni daremo l’incarico ad uno di voi di tenere un calendario che sarà posto bene in vista. Chi si fa avanti?» Stefania alzò la mano, poi appuntò ad un tronco un foglio bianco su cui scrisse i giorni del mese di novembre.

L’organizzazione funzionava a meraviglia nella piccola colonia. C’era la curiosità, c’era la voglia. Le ragazze provvedevano a tenere in ordine le capanne, a curare i servizi igienici, a pulire alla meno peggio i vestiti. I ragazzi, divisi in batterie, provvedevano a procurare la frutta e il pesce. Per la pesca era stato facile. Qualche giorno dopo il loro arrivo, Stefano, Ivan e Daniele continuando le loro esplorazioni, erano giunti in riva al mare. Davanti a loro si era presentata una piccola baia. C’era l’alta marea. L’acqua, ritiratasi, si era abbassata di circa due metri, o meglio di due “liane” Era questa la nuova misura, approssimativa del metro, che avevano adottato per le loro misurazioni. Allo scoperto, tra conchiglie vuote e sassi, raccolsero crostacei e molluschi che, portati al campo, dovettero mangiare crudi, perché, nonostante vari tentativi, non erano riusciti con l’uso dei bastoncini a “scoprire” il fuoco.

Un terzo gruppo, con scarsa fortuna, cercava l’acqua. Le noci di cocco non bastavano più per dissetare.

Il maestro guardava sempre più spesso la montagna.

«L’unica nostra speranza è là» disse. «Dovremo deciderci ad affrontare la giungla.»

Presenze pericolose non se ne erano notate. Di animali feroci e pericolosi non si era trovata traccia. Senza proteine il corpo si sarebbe indebolito e ammalato. Allora sarebbero potuti accadere seri guai. Era necessario prendere una grave decisione: affrontare l’ignoto. Bisognava uscire dalla tranquilla sicurezza del proprio accampamento e affrontare la giungla per conoscere i misteri e i segreti che essa custodiva: l’acqua, innanzitutto, e gli alimenti di cui avevano bisogno. Altrimenti la loro sorte sarebbe stata segnata. Dovevano agire. Infine bisognava assolutamente procurarsi il fuoco.

In un angolo Rosetta teneva riunite le compagne che con pazienza, usando sottili radici, stavano unendo una sottoveste bianca ad una camicetta verde e ad un golfino rosso.

«Abbiamo la bandiera» dissero, interrompendo le discussioni.

Lesto, Fabio salì sul tetto e fissò ben saldo il tricolore. Stava per scendere con un balzo quando i compagni lo videro sbiancare in volto, balbettare e indicare un punto imprecisato della montagna.

«Là!» gridò. La sua mano tesa indicava del fumo che saliva lento in cielo.

Ammutolirono tutti. Poco sotto la vetta, tra alberi più radi, saliva una colonna di fumo. Era un segnale di vita, dapprima sperato e ora temuto.

«Chi sarà?» Era questo il pensiero di tutti.

Il fumo sparì quasi subito, tanto che qualcuno dubito d’averlo visto.

Quella notte pochi dormirono serenamente. Il maestro vegliò a lungo, abbassando il capo a tratti. Poi  crollò vinto dal sonno. Guglielmo, in silenzio, gli andò vicino e prese il suo posto.

La notte era tiepida, il cielo limpidissimo e pieno di stelle. Molto bassa, all’orizzonte, chiara e nitida si vedeva l’orsa minore. Dalla foresta giungevano mille rumori, grida gutturali di animali, fruscii di foglie e schianti secchi di rami spezzati. I ragazzi dormivano molto vicini l’uno all’altro facendosi inconsciamente coraggio. A tratti giungeva il frastuono della risacca contro gli scogli.

Giunse l’alba liberatrice. Le paure della notte sembrarono presto svanite, già si pensava al nuovo giorno.

Il sole batte a picco molto presto nelle terre equatoriali. Si dovette di nuovo fare i conti con il caldo, la sete e un nemico all’inizio trascurato: gli insetti. Fastidiosi, insistenti, qualcuno certamente pericoloso, non davano tregua con il loro ronzio e con le loro punture.

«Se avessimo il fuoco, potremmo tenerli lontano con il fumo» azzardò Rosetta.

«Già, si potrebbe» aggiunse Ivan con un filo di voce. Il suo sguardo era fisso alla montagna da dove salivano fumate regolari che il vento disperdeva quasi subito.

Il maestro si era fatto pensieroso. Bisognava muoversi. E chi? Tutti? Non era consigliabile. Egli doveva restare o partire per cercare di scoprire il segreto della montagna? E se gli fosse accaduto qualcosa di grave, che sarebbe successo dei suoi ragazzi?

Chiamò tutti a raccolta e parlò loro come non aveva ancora fatto, con franchezza assoluta rendendo palpitante la responsabilità di ciascuno. Spiegò che la loro posizione stava diventando insostenibile, se non si reagiva, che c’era bisogno di trovare presto acqua e carne, ma soprattutto era necessario sapere se c’erano altri abitanti e conoscere le loro intenzioni.

Con una rudimentale bussola, costruita con un ago di Carla, calamitato con le punte delle forbici e posto su una foglia galleggiante sull’acqua di mare in una pozza profonda, pazientemente, fu possibile tracciare una mappa dell’isola. Almeno della parte fino allora conosciuta. La mappa doveva tenere conto dei punti di riferimento inconfondibili: una radura, un albero secco, un gruppo di conifere, una macchia, la baia, il baobab, una scogliera.

Tutti lavorarono intensamente quel giorno. Furono preparate le provviste necessarie. Alcuni ragazzi, alla sera, fecero persino una nuotata. All’insaputa del maestro. Non sarà la prima trasgressione. Furono costruite armi rudimentali: bastoni appuntiti e un arco che difficilmente avrebbe superato la prima prova seria. All’imbrunire, seduti in cerchio, prepararono i piani per il giorno seguente.

Il maestro chiamò per nome tutti. Chiamò e guardò fisso negli occhi uno per uno e diede disposizioni che Guglielmo scrisse a chiare lettere sul quaderno a righe di quinta.

«Domai all’alba partirò per la montagna. Porterò con me chi di voi vorrà venire. Guglielmo resterà qui, sarà responsabile al campo-base.» Si schiarì la voce. «Dovete ascoltarlo.» C’era silenzio intorno. «Scoprirai, Guglielmo, che non basta essere intelligenti. Dovrai essere prudente. Non allontanatevi troppo dall’accampamento e mai da soli. Alla sera rientrate presto. Stefano sarà l’aiutante del capo. Avete del grano e del mais, è vero, ma non usatelo se potete…» Fece una lunga pausa. «Quando tornerò, quando torneremo dovremo pensare a seminare. Ho notato del terreno adatto a nord della baia. Ricordàtelo comunque.» Scacciò i cattivi pensieri e concluse invitandoli a mostrare l’applicazione dei buoni propositi che finora avevano imparato e dimostrato.

«Rispettatevi, aiutatevi» concluse.

Robertino e Daniele chiesero di andare con il maestro. Poi Endrio lo chiese anche lui.

Prepararono in un angolo l’ascia e un bastone ciascuno, poi s’addormentarono profondamente. Alcune ragazze diedero il cambio ai ragazzi per il turno di guardia.

LA SPEDIZIONE

 La piccola spedizione era in cammino da un paio d’ore. Avanzava faticosamente cercando i percorsi più facili, anche se ciò li costringeva  a lunghi giri facendoli ritornare qualche volta sui loro passi.

La giungla era un mare verde. Tutta quella immensità li sovrastava e intimoriva. Vicino ad una piccola radura incontrarono, appeso ai rami di una pianta di sandalo, un bradipo. A testa in giù.

«Non temete, ragazzi, è un animale pigro e non pericoloso.»

La curiosità e il timore si leggevano nei volti dei piccoli esploratori. Con l’aiuto dell’ascia si facevano strada nel groviglio della rigogliosa vegetazione mettendo di tanto in tanto dei segni convenzionali. I segnali, in quell’ambiente scompaiono presto, per questo preferivano lasciare piccoli cumuli di sassi, di scaglie di roccia oppure scheggiare massi con segni particolari.

Robertino aveva smesso di parlare, guardava in giro con occhi vigili e sospettosi. Daniele grondante sudore procedeva a testa china, incurante delle graffiature che rovi e spine gli procuravano ad ogni passo. Endrio chiudeva il gruppo. Era il più ciarliero e non finiva mai di stupirsi. Per lui erano incantevoli gli alberi altissimi attorcigliati di liane, i colori e le forme delle foglie e dei fiori, il profumo e l’umidità refrigerante. Era un grande osservatore, amava la lettura.

«Quanto sarà alto quest’albero? Più di un campanile?» Certamente voleva dire molto alto.

Non era necessaria una risposta. Continuava a parlare ed era per gli altri di compagnia.

«Guardate gli ananas» disse. La scoperta fu un invito.

«Ci fermiamo a riposare e a dissetarci» propose il maestro.

A stento s’intravedeva il cielo tra il fogliame. Mangiarono a sazietà i succulenti ananas.

«E’ suonata la ricreazione» dichiarò Robertino. Anche il maestro sorrise. Non era da lui avere quelle trovate. In quell’ambiente tutti stavano cambiando qualcosa, scoprendo energie e risorse sconosciute. Anche lui si sentiva ragazzo voglioso di nuove ricerche, di nuove scoperte, di nuove fantasie. Si immaginò lupo sciolto nel suo ambiente ideale, nella sua giungla, libero. Sorrise. Si guardò la camicia strappata in più punti, le vesciche sulle mani. Accarezzò la barba incolta. Il senso di responsabilità che aveva accettato e gradito, ma che anche gli era pesato, aveva spesso frenato i suoi slanci. Misurava i suoi gesti, controllava le sue parole.

La sua fronte si era fatta più distesa, lo sguardo meno pensoso. Anche la sua voce era cambiata. Seduto tra le felci del bosco cominciò a cantare. I ragazzi lo seguirono. Capirono. Gli si strinsero intorno e si unirono a lui ritmando con le mani e con i gesti una vecchia canzone montanara. Anche loro avevano sentito che era cessata ogni ufficialità nei rapporti, stabiliti dal protocollo, dal rango. Restava la creanza. Capirono che il maestro era uno di loro che combatteva al loro fianco la stessa battaglia, certamente con più esperienza, perché in quel tratto di vita c’era già passato. Era nata una amicizia che solo il pericolo corso insieme, la lontananza sofferta insieme, rendono salda. L’amicizia sbocciata spontanea durante percorsi comuni fa aumentare il rispetto e la stima reciproca. Il maestro era ormai uno di loro, anche se il più grande, il più esperto e quindi meritevole di ascolto.

Aver raggiunto la consapevolezza che il pensare a tutto e a tutti non l’avrebbe aiutato, il suo momentaneo distacco, fu una piacevole rivelazione, una conquista. Quello che sarebbe potuto accadere al campo, dopo che aveva dato tutte le giuste istruzioni non lo poteva distrarre. La loro missione, ora, era trovare l’acqua e maggiori, ulteriori conoscenze del luogo. La piccola spedizione aveva uno scopo, una meta e questa era la sola cosa importante.

«E’ strano che gli indigeni, se di loro si tratta, abbiano scelto di abitare stabilmente così in alto, quando sarebbe stato più comodo costruire le capanne vicino al mare.»

«Quanto sarà alta?» Si scambiavano domande e riposte. «Chissà! Forse duecento liane» rispose il maestro.

«Potremmo misurarne l’ombra e metterla a confronto con quella di un bastoncino di cui sappiamo la misura.»

«Certo, si potrebbe…»

Ripresero a salire, lentamente. Si trovarono ben presto di fronte ad un tratto aspro, roccioso, senza apparenti vie di uscita. La vegetazione si era fatta più rada perché il suolo s’impennava. Da un lato si scorgeva il mare senza fine. Il campo-base era nascosto. Poterono però avere un’idea più precisa  della terra sconosciuta che li accoglieva. Aggiornarono la loro mappa guardando il sole. A nord-ovest s’innalzava una scoscesa collina. Sembrava tagliata a picco dall’intervento dell’uomo, perché a un occhio attento forniva appigli. Notarono il contrasto tra il verde chiaro della prateria e quello intenso della giungla. Voli di gabbiani e di sule. Erano gli unici segni di vita che scorgevano in quel momento. Coglievano i rumori assopiti dei frangenti che colpivano le rocce, laggiù dove la montagna scendeva a picco.

La piccola baia, che già conoscevano, era un ottimo riparo per barche ed era strano che eventuali abitatori non l’avessero notata e utilizzata. Le acque limpide, spinte dall’alta marea, s’infrangevano con incantevoli spruzzi iridati contro un piccolo promontorio tormentato e scavato dai flutti e dagli uragani. Dall’alto si notava meglio: procedendo nel loro slancio, le acque entravano  da uno strettoia distendendosi poi nella baia, bella e chiara come un laghetto alpino.

«Dobbiamo dare dei nomi  a questi luoghi.» Era stato Endrio a parlare.

Daniele che seguiva i suoi pensieri, uscì ad un tratto, indicando la baia, con una felice espressione.  «Com’è tranquilla!»

La chiamarono così: baia Tranquilla. E lo segnarono subito sulla mappa.

«Anche a questa terra dovremo dare un nome.» Endrio sorrise con tutti i suoi denti cariati. Aveva i capelli rossi e il viso pieno di lentiggini e quando sorrideva era uno spettacolo.

«Anche a te ci vuole un nome.» Uscì con una felice intuizione che significava comunanza di intenti, di tensioni, di passione, di obiettivi. Fiducia.

«Ce l’ho già un nome, Marco Vailati» disse il maestro che aveva gradito quella confidente spontaneità.  «Te lo sei già scordato?»

«Ti chiameremo…»

Un grido tremendo lacerò l’aria. Improvviso, inatteso. Raggelò tutti. Robertino stralunava gli occhi e inghiottiva saliva, pallido come un morto. L’urlo si ripeté. Lassù, verso la vetta. Veniva da lassù. Clamori e lamenti indistinti, soffocati dalla vegetazione, giunsero appena fino a loro. Poi, inconfondibile, s’udì lo sparo di un’arma da fuoco. E il silenzio tornò sovrano sulla montagna.

L’aria quasi immobile sembrò scuotersi. Dall’oceano, da est, grossi nuvoloni apparsi all’improvviso, accavallandosi minacciosi, si avvicinavano. Spinto dai monsoni l’uragano con violenza sconosciuta si abbatté sulla giungla. Un vento fortissimo piegava le cime, mentre un diluvio d’acqua avvolgeva ogni cosa. Era sceso il buio. Riparati alla meno peggio, sotto provvidenziali spuntoni di roccia, i quattro esploratori restarono immobili e attoniti. Il terrificante spettacolo dell’uragano ricordava loro la recente esperienza. L’acqua scrosciava da tutte le parti, si tenevano stretti, per salvarsi, per incoraggiarsi. Schegge di roccia scrostate dal vento e dall’acqua ferivano e rotolavano come sassolini giù dalla china trascinando con loro foglie, rami, tronchi spezzati.

«Mi sento un lupo braccato» si lasciò sfuggire il maestro.

Era successo tutto così in fretta che quasi stentavano a raccapezzarsi. Non era il primo uragano che colpiva quella terra sconosciuta, da quando erano arrivati. La stagione delle piogge volgeva al termine nelle zone tropicali e prima di lasciare il passo al grande caldo dava libero sfogo alla furia dei suoi elementi.

Erano bagnati dalla testa ai piedi. Daniele piangeva silenziosamente e non se ne accorgeva.

«Coraggio, ragazzi, passa presto.»

Il pensiero di ciò che avevano udito poco prima che scoppiasse l’uragano si affacciava a tratti nella loro mente. Era un mistero cui non sapevano dare risposta. Uno in più.

Non seppero mai quanto durò l’uragano. La paura non è un buon orologio. Certamente era passato mezzogiorno quando cessò il vento e d’improvviso, com’era venuto, il frastuono si allontanò a occidente disperdendo la nuvolaglia nell’immensità dell’oceano. Il sole caldo tornò a splendere. Tornò il calore, tornò la vita. Gli alberi continuarono a gocciolare lentamente, come liberandosi dal sudore di una grande fatica. Ruscelli improvvisati scendevano precipitosamente a valle.

«E’ finita.» tentò di sorridere il maestro. «Come state, ragazzi?»

«Ho trovato!» esclamò Endrio. Quasi gridò. «Ti chiameremo Lupo.»

Il maestro restò di sasso per lo stupore, per la bellezza, la pienezza dell’immagine, per l’immediata comprensione della sua scelta in mezzo ai suoi ragazzi, per nulla rinunciataria. Era il nome di un corridore esperto al fianco. Sorrise e fece di sì con il capo.

Tutti scoppiarono a ridere, compreso Robertino che stentava a tornare in sé e forse non aveva capito tutto. Credeva si trattasse di una licenza concordata.

“D’accordo” disse il maestro felicemente sorpreso.

Ripresero a salire. Intorno non c’era segno di presenza umana. Ma il ricordo dell’urlo di terrore non era stato sepolto dalla paura appena passata.

«Che sia stato un gorilla?» azzardò Daniele.

«No, no, era un grido umano.» Endrio lo disse scotendo la testa, di nuovo preoccupato. Guardò il maestro. «Che ne dici, Lupo?» Era la prima volta che lo chiamava direttamente così. E gli piacque. Anche a Lupo piacque.

«Sono d’accordo anch’io» disse. «Sembrava l’urlo di una persona terrorizzata. E poi quelle voci confuse, sommerse, ma voci…»

«E il colpo d’arma da fuoco!»

«Questo proprio non me lo spiego. Ci sarà un villaggio di indigeni… E va bene! Ma le armi come possono averle?»

«E’ semplice.» Endrio era straordinario nella sua semplicità. «Dall’altra parte della montagna ci sarà una città, perché no? Ci saranno dei mercati, ci saranno degli scambi, perché no?»

Camminavano parlando a tratti, respirando faticosamente, come ripassando una lezione sulle usanze e sui comportamenti degli uomini primitivi.

«E’ giusto» disse Lupo. «In fin dei conti potremmo trovarci in un continente o in un’isola molto grande e abitata. Lo sapremo tra poco.»

«Allora siamo salvi» annunciò Daniele.

«Ah! Ah!» fece Robertino saltellando. Questa volta aveva capito tutto e subito.

Ma le sorprese, purtroppo per loro, non erano finite. Era quasi il tramonto, quando, stanchi e sfiniti, raggiunsero la vetta della montagna salendo da nord-est. Erano al termine di una giornata emozionante. Però era destino che l’ultima emozione fosse riservata al momento della vittoria. Ovunque girassero lo sguardo, una sola era la visione che appariva ai loro occhi: una distesa d’acqua senza fine che li stringeva come in un cerchio. Non c’erano più dubbi. E neppure speranze di salvezza a breve. La loro nuova terra era proprio un’isola.

La montagna appena conquistata, tra le proteste degli altri, fu battezzata da Endrio: Montagna dell’Urlo. Così fu detto e così fu scritto.

Tuttavia la loro delusione fu cocente.

«Tutto qui?»

Eh, ricordatevi! La felicità sta nella salita, nella fatica della conquista. Questa dura un attimo.

Tante speranze di trovare un facile mezzo di ritorno a casa erano cadute. Tante attese svanite. Non avevano trovato una sorgente. Erano in ansia per i compagni che mancavano all’appello.

Mangiarono in silenzio. Mai avevano gustato come in quel momento i frutti dell’albero del pane. Dopo il pasto, in verità assai misero, si apprestarono a preparare un riparo per la notte. Con frasche, rami e foglie costruirono un piccolo rifugio tra gli alti fusti di tasso e di mango.

Erano troppo stanchi e troppo rassegnati per fare un turno di guardia. Avevano deciso di non spaventarsi più di niente. Il loro destino, a quel punto, non sarebbe dipeso più solo da loro. Era ormai notte. Il sonno profondo di cui sentivano grande bisogno stava già facendo dimenticare le avventure della giornata. Una luna stupenda sorgeva dal mare spezzandosi in mille cristalli sulla superficie dell’oceano. Dopo l’inferno del giorno, il grande mare sembrava essere tornato un paradiso di bellezza e di quiete. Era così bello quel mondo crudele e affascinante che si sentirono avvolti da un fremito di felicità così intenso, così raro, che ti dispone a tutto, inconsciamente, anche ai pericoli.

Il fogliame della boscaglia stormiva senza pausa.

Pace.

Ad un tratto, da un cespuglio di felci, uscì un ombra. Si avvicinò furtiva camminando china. Si diresse sicura al piccolo rifugio, sostò un istante. La luna illuminò per un attimo una figura umana che, com’era apparsa, sparì silenziosamente nella selva.

IL SEGRETO DELLA RADURA

C’era un’altra capanna. Poco lontano si viveva un’altra storia. Più drammatica di quella conosciuta nella giornata dai nostri quattro esploratori.

Ai margini di un prato, sul fianco della montagna a ponente, si stavano vivendo momenti di dolore e spavento creati dall’impotenza, dalla mancanza di conoscenza di cosa fare. Accanto ad un focherello, che andava lentamente spegnendosi, dei volti smarriti, tesi, erano chini su una fanciulla in preda allo spavento.

Erano gli altri ragazzi della quinta C. Erano miracolosamente sopravvissuti, contando soltanto sulle loro forze. In quella settimana, da soli, avevano vinto la paura, i pericoli.

Ignoravano la presenza dei compagni. Stavano attorno a Lolita che guardava fisso il cielo stellato, altissimo, senza capire. La febbre la tormentava. Le sue compagne le bagnavano la fronte e i polsi come avevano visto fare alle loro mamme. Le accarezzavano una mano. Paolo aveva scritto dei versi apposta per lei. Gli sembrava un modo di aiutare.

Avevano imparato a non temere il buio, il silenzio e i rumori sconosciuti, avevano imparato a sopportare tanti disagi. Ma di un mistero nuovo, tangibile e incomprensibile, avevano paura. Avevano paura della morte. Temevano per la loro compagna.

Era successo tutto in maniera inattesa, nel primo pomeriggio. Lolita, Sabrina, Margherita e Michela stavano raccogliendo radici di manioca. Sapevano che potevano essere commestibili. Nessun segnale o avvertimento c’era stato che lasciasse prevedere l’incontro terribile di Lolita con un boa, immobile tra il fogliame. Tutti sapevano che nella giungla c’erano dei rettili, però, spinti dalla necessità si erano dovuti inoltrare nella fitta vegetazione alla ricerca di cibo. Il serpente l’aveva ammaliata, si stava avvicinando a lei pericolosamente. Fece in tempo a lanciare urla raccapriccianti. Poi, inatteso, s’era udito uno sparo. Il rettile, colpito a morte, era caduto travolgendo la ragazza. Lolita, come un peso morto, aveva colpito violentemente il capo contro le nodose radici che emergevano dal suolo. Terrore e trauma l’avevano quasi paralizzata. Con grande slancio di solidarietà, vincendo il naturale ribrezzo, i ragazzi si  erano precipitati a soccorrere la compagna. Con tutte le precauzioni l’avevano trasportata su un giaciglio improvvisato di foglie.

Era svenuta, pallida, immobile. Mai si erano trovati di fronte ad un evento simile. Non capivano, non sapevano che fare. Era scoppiato intanto l’uragano che, per la loro posizione, non li investì in pieno. Sistemati sottovento, avevano superato con minori disagi il pericolo di cui nemmeno si erano accorti. Più di uno si sentiva cadere dal sonno, ma non voleva cedere. Giuliano raccoglieva le ultime brace, soffiava forte per ravvivare il fuoco. Gianni guardava tutti, con i suoi occhioni neri sbarrati, sempre sulla difensiva. L’inquieto Giuseppe, disperazione delle bidelle, era anche lui serio e addolorato. Pensava a tutte le volte che aveva tirato le trecce alla sua compagna!

«Oh, oh!» si lamentava intanto Lolita.

 Margherita, che le teneva un panno fresco sulla fronte, chiamò piano Luca.

«Un po’ d’acqua!»

Luca, pulendo l’unica lente rimasta dei suoi occhiali, andò a raccogliere dell’acqua con un guscio di noce di cocco. Nei primi giorni, con quella preziosa lente, con pazienza e costanza, era riuscito a provocare un piccolo incendio di foglie secche.

«Hai scoperto il fuoco per noi» gli aveva detto Paolo. Era un complimento ed un ringraziamento. Si erano anche loro nutriti di frutta, di radici, di uova di uccello, di selvaggina. Uccelli sconosciuti erano stati abbattuti dalle infallibili fionde di Antonio e Giuseppe. Le loro tasche erano sempre state un arsenale di elastici, temperini e spaghi, decisamente utili nella circostanza.

«Blà, che schifo!» aveva brontolato Giuliano quando le ragazze spennavano e pulivano la selvaggina, prima di metterla ad abbrustolire su uno spiedo. Alla fine aveva smesso di brontolare e aveva mangiato avidamente come tutti.

La ricerca dell’acqua non era stata faticosa. Poco sopra la piazzola erbosa su cui si erano sistemati, sgorgava una fonte limpidissima che, con canne di bambù, erano riusciti a far giungere fino alla loro capanna.

Ogni tanto Lolita, svegliandosi dal suo torpore, mormorava qualcosa con un filo di voce. Margherita le bagnava le labbra febbricitanti, le asciugava la fronte con il suo fazzolettino.

La ragazzina, nei rari momenti di lucidità, chiamava sua madre. Lo dirà in seguito. Stranamente, davanti gli occhi le passavano immagini lievi, confortanti: le corse sull’aia di casa sua, i giochi con i ragazzi della sua contrada, le carezze della mamma, lo sguardo burbero e protettore del babbo.

Come tutti i bambini, anche lei, una volta, aveva saputo essere crudele. Aveva scoperto il cattivo sentimento della vendetta. Volle far soffrire la mamma che non le aveva regalato una bambola tanto desiderata. Si era nascosta, per mezza giornata, dentro a una botte vuota, abbandonata nell’aia. L’avevano cercata per i campi e nelle case vicine. La madre, disperata, aveva pensato al peggio. Quando la trovarono, pianse di rabbia, perché la perdonarono subito. Non li aveva fatti arrabbiare abbastanza, pensò. Il rimorso lo sentiva soltanto ora, inspiegabilmente. Ora che voleva tanto i suoi genitori vicini. Aveva undici anni ormai e giocava volentieri con i maschi, ma con quelli più scatenati, perché neanche lei si tirava indietro. Era emotiva, impulsiva, era capace di atti di generosità e di bontà istintivi. E di sbagliare facilmente.

Andava molto d’accordo con Rosetta, ragazza riflessiva, premurosa con tutti. Accettava le burle della sua amica in segno di preferenza. Erano nello stesso banco. Il banco era importante, creava e manteneva amicizie che duravano per sempre. Copiavi, soffrivi, suggerivi, chiedevi qualcosa nei momenti più difficili che non si dimenticano. Le compagne le volevano bene. I ragazzi preferivano scherzare con Lolita che, a volte, sciorinava le belle letterine che riceveva.

Rosetta era timida. Più materna. Soffriva, perché lei non riceveva letterine. Lolita le passava le sue. Una volta convinse uno dei ragazzi a scrivere un messaggio per l’amica. Per amor suo!

Il messaggio, passando di mano in mano, capitò a Giuliano che pasticciò, non capì. Il pezzo di carta arrivò sulla cattedra. Il maestro approvò. Lo lesse, rendendo noto a tutti che i messaggi si possono inviare, ma corretti.

«Chi vuole correggerlo?» Domanda sbagliata! Nessuno si alzò.

«Ivan» chiamò il maestro. «Completalo con le frecce e i cuoricini, non l’hai ancora imparato?»

Ivan andò alla cattedra. Non era suo, ma ritirò il biglietto, era una occasione di aggiornamento.

Nel suo povero giaciglio, queste immagini sfuocate, ma leggere e innocenti, erano come un antidoto alle sue paure. Intanto, anche la piccola e tenace Margherita aveva reclinato il capo cedendo alla stanchezza. Fu allora che Lolita credette di vedere, chino su di lei,  il volto abbronzato e severo del padre. Lo chiamò teneramente, ma non ebbe risposta. Tutto era sfumato, evanescente. Credette di bere di qualcosa che inghiottì avidamente. Una mano leggera appoggiò di nuovo il suo capo sul cuscino di foglie. Questo sognò, questo le parve. Un sonno benefico, ristoratore scese su di lei. Gli occhi si chiusero lentamente.

«Grazie, babbo» mormorò.

Qualcuno si allontanò dal giaciglio, ombra nel buio. La foresta intorno sembrava parlare con mille voci, scossa da un’aria fresca ed energica.

FINALMENTE INSIEME

 

Il risveglio sulla Montagna dell’Urlo fu piuttosto brusco e movimentato. Il sole splendeva già alto nel cielo, quando Lupo e i suoi compagni si scossero dal loro torpore. Uccelli variopinti festeggiavano il nuovo giorno con grida assordanti, mentre sulla scogliera più in basso planavano ad ali spiegate gli albatros. Ma ciò che sorprese tutti fu una scimmietta sistemata sul tetto di frasche e di foglie. Ballava e gridava come se desse spettacolo in un circo.

«Che improvvisata è questa?” esclamò Robertino. Imitò subito la scimmietta, gli veniva facile. Tutti scoppiarono a ridere guardando quei due impegnati a beffeggiarsi.

A Robertino non sembrava vero di avere trovato qualcuno che badasse soltanto a lui. Mentre gli altri si preparavano a riprendere la marcia, loro due continuavano a giocare.

A scuola i compagni lo evitavano, perché era burbero e non era bravo nei compiti. La sua bravura era nell’imitare gli altri. Li prendeva in giro e ciò non era gradito. Per questo si sentiva a suo agio con la nuova amica che non gli chiedeva conto di niente.

«Ah, che improvvisata sei per me!» ripeteva felice.

Quando si mossero disse che avrebbe voluto tanto portare l’animaletto con sé, invece quella con un guizzo saltò sui rami più vicini e scomparve.

Pensarono di non ritornare per la stessa via, ritennero di esplorare il più possibile il luogo in cui sarebbero dovuti vivere per chissà quanto tempo, e perché avevano disperato bisogno di trovare una sorgente.

Scelsero a caso una direzione. Certo, non fecero particolari ragionamenti, quando imboccarono una specie di sentiero, forse aperto da qualche animale, che portava a valle.

Avanzavano con relativa facilità su un percorso che sembrava segnato apposta per loro. Era ora che la fortuna li aiutasse, si dissero. Procedevano in fila indiana con circospezione, appoggiandosi ai rami e alle liane. A volte, nei tratti più ripidi, scivolavano sulla schiena. Era persino piacevole. Il più distratto era Robertino, ovviamente. A lui bastava poco. Ma questa volta era mosso da un interesse. Attratto dai balzi delle scimmie tra i rami chiedeva continuamente della sua amica.

«Ehi, Improvvisata, dove sei?» Gli altri non lo badavano.

Il sentiero girava verso sud, con una serpentina brusca. Il passaggio apparve ostruito da un grosso tronco di palissandro che con i suoi rami chiudeva letteralmente la via. Per superare l’ostacolo dovettero dirigersi verso nord per riprendere più avanti la direzione prescelta.  Fu allora che sentirono delle voci. Erano voci umane, conosciute. Increduli e stupiti, incuranti dei pericoli che nella foresta sono sempre in agguato, si lanciarono nella direzione che ormai li attirava come una calamita. Sbucarono in una piccola radura e videro.

L’incontro tra compagni fu chiassoso e commovente, perché ormai insperato. Le parole, le richieste, gli abbracci si accavallavano e si confondevano, e così anche si rispondevano.

Ma ben presto furono chiamati alla realtà dai lamenti di Lolita. Anche lei aveva sentito, aveva capito. Chiamò con un filo di voce: maestro…

Lupo, ormai si chiamava così! le si inginocchiò accanto e le parlò. Era stato informato brevemente da Luca di tutto ed ora cercava di rendersi conto della gravità dell’infortunio. Prese una ciotola di pietra che stava vicino al capo della ragazza. Era un’acqua scura, densa, emanava un odore acre e pungente.

«Che cos’è?» chiese.

«Non so» rispose Margherita. Non l’aveva mai vista prima. Egli assaggiò il liquido e lo sputò. Aveva un sapore amaro, asprigno. Lolita stese la mano. «Mi fa bene, ne ho già bevuta» mormorò. La fecero bere. Poi si addormentò di un sonno regolare e tranquillo. Nessuno ricordava di avere preparato quella strana bevanda, con evidenti effetti medicinali. Ma nessuno aveva più voglia di tornare indietro a rievocare, avevano troppe cose urgenti da proporre, cui pensare.

Ci vollero alcune ore per raccontarsi tutto. Fu come conoscersi di nuovo. E in un certo senso lo era, perché ognuno svelava aspetti del suo carattere, che neppure personalmente conosceva, perché mai dissepolti. 

Con la scoperta della fonte Lupo considerò conclusa con successo, e con l’aiuto di tutti, la loro missione.

Come trasportare l’acqua a valle?

«Eh!» esclamò Luca che già stava escogitando qualcosa. «Perché non salite tutti fin quassù?»      

Per la prima volta, dopo giorni di ardente desiderio, bevvero a sazietà acqua di fonte che sgorgava cristallina dalle fessure di una roccia.

Riuniti intorno alla capanna, esaminarono la nuova situazione. Il problema più grave era il trasporto di Lolita. Le sue condizioni di salute sembravano migliorare. Il maestro capì  che non aveva danni fisici, ma solo un grande spavento da superare. La compagnia e la sicurezza ritrovate, un  buon riposo, l’avrebbero rimessa in piedi in un paio di giorni. Poi, finalmente, la quinta C sarebbe ritornata ancora unita. Tutti erano ansiosi di rivedere i compagni rimasti a valle. Qualcuno propose di mettersi in marcia subito lasciando Lolita con le ragazze e il maestro. Ma Lupo stesso lo sconsigliò.

«Non dividiamoci» disse. «Nessuno conosce il sentiero, potrebbero capitare altri guai. Ci muoveremo insieme, non appena la nostra compagna potrà muoversi da sola.» In questa avventura erano uguali, alla pari.

Poi Lupo volle vedere il luogo dell’incidente.

«Ci cucineremo il serpente» ridacchiò qualcuno. L’avevano visto fare in certi film di esploratori africani. Luca aveva ribrezzo solo a sentirle dire certe cose.

Giunti al posto cercarono inutilmente il rettile. Non vi era traccia alcuna dell’animale ucciso.

«Questo ci toglie il pensiero» disse Paolo.

«Qualche bestia è arrivata prima» concluse Giuliano. Poteva anche darsi, ma il pensiero di ciò che era accaduto il giorno precedente non si allontanava da nessuno. Non osavano fare una domanda semplice, preoccupante.

«Chi è stato?»

Non osavano perché tutti la temevano. Chi aveva ucciso il serpente?

Ci pensò involontariamente uno dei ragazzi che, raccolto, un piccolo oggetto da terra, si mise a soffiarci sopra richiamando l’attenzione di tutti con un fischio.

Gianni aveva raccolto la cartuccia di un fucile. Non aveva tracce di ruggine o di fango secco. Era evidente che si trovava sul terreno da poco tempo.

«Qualcuno ha sparato, l’ho sentito, questo è certo» disse Antonio scotendo la testa. «Già qualcuno ha sparato» confermò Endrio. Il maestro, silenzioso, andava rimuginando le stesse cose, sperando di trovare una spiegazione, prima di affrontare l’argomento.

«Chi è stato?» chiese ingenuamente Michela.

All’ombra delle alte conifere, parlarono a lungo, cercarono  a lungo una risposta convincente e logica. Che sia un naufrago? Perché non si mostra? Che sia un indigeno? Poteva farci del male, ma non l’ha fatto… D’altra parte non avevano trovato traccia di vita organizzata. Almeno fino allora.

«Miracolo!» esclamò Giuseppe sempre pronto alla burla.

Dopo lunga riflessione il maestro trasse questa conclusione. «Non ci è nemico, chiunque sia. Ma qui, oltre noi, qualcuno c’è.» La presenza misteriosa era stata provvidenziale, ma troppo oscura, e questo non li aiutava affatto.

Il maestro rifletté a lungo sulla ciotola di pietra lavorata con l’infuso sciropposo che i ragazzi non avevano mai visto prima, su quel sentiero che sembrava aperto apposta di recente, e che sembrava un invito.

Non ne parlò subito ai ragazzi per non rendere ancora più complicata la situazione. In attesa di Lolita, decisero di ispezionare con cautela la boscaglia circostante.

L’idea di trasferire il campo principale in quella radura andava prendendo sempre più corpo. La posizione era più salubre, c’era l’acqua, erano riparati dai venti dell’est, c’era abbondanza di frutta, di tuberi, di foglie. E. soprattutto, a causa dell’altitudine c’erano pochi insetti. Infine, essendo prossimi alla vetta, avrebbero potuto, all’occorrenza, inviare dei segnali luminosi con il fuoco.

Non erano ancora riusciti a procurarsi della carne per sostentarsi equilibratamente, tranne la abbondante selvaggina. Ma, in verità, non avevano ancora organizzato una caccia sistematica.

Al termine della seconda giornata, le condizioni di Lolita migliorarono sensibilmente. Margherita, Sabrina, Michela le stavano accanto. Anche le ragazze erano più serene.

Il pericolo e lo spavento, che in precedenza sembravano incombere inesorabili su di loro, ingigantiti dall’inesperienza e dal precipitare degli eventi, sembravano ora superati. Una nuova atmosfera regnava sulla Montagna dell’Urlo. Era stata l’avventura di Lolita a suggerire il nome al monte. Questa decisone unanime, fece sorridere la ragazza.

Intanto i ragazzi avevano provveduto ad ampliare la loro capanna. C’erano nuove necessità, questo fu un bell’incitamento a dimostrare le loro esperienze e capacità organizzative. Emersero attitudini e intuizioni che nessuno sospettava di possedere. Ognuno lavorava con gusto e impegno, a seconda delle proprie forze e abilità.

Solo Robertino se ne stava svagato, sotto un albero maestoso i cui rami giungevano al suolo formando nuove radici. Guardava le scimmie saltare da una cima all’altra.

«Improvvisataaa!» chiamava, ma nella sua voce c’era più delusione che speranza. Non era una novità.

CACCIA NELLA SAVANA

Erano trascorse parecchie settimane dal loro arrivo. Dopo lo smarrimento iniziale, grazie allo spirito di adattamento di tutti, i giorni scorrevano lieti e laboriosi.

Il calendario di Stefania indicava che si era ormai nel mese di dicembre avanzato.

Mancavano pochi giorni a Natale e fervevano febbrili i preparativi per allestire un decoroso presepe. Sarebbe stato un Natale veramente diverso. Al posto della neve e del freddo c’erano il caldo e l’umidità dei tropici. Ma questo fatto non impressionava la colonia della Quinta C. Scritta in maiuscolo sul quaderno, perché nome proprio di luogo. Aspettavano con gioia l’avvicinarsi di un giorno di festa, ma anche di riflessione positiva.

Il territorio era stato in buona parte esplorato. Con loro soddisfazione avevano constatato che la presenza dei rettili non era così minacciosa, come avevano temuto. Gli spazi frequentati erano sicuri.

A nord-est, nella grande prateria trovarono terreno adatto per la semina del mais. Contarono minuziosamente 1348 preziosi semi sani estratti dalle pannocchie ritrovate. Barbara già aveva calcolato quante pannocchie poteva dare ciascuna pianta e quindi quanti nuovi chicchi presunti avrebbe dato la raccolta. Il frumento invece era andato perduto con l’uragano.

A nord-ovest, tra al Baia Tranquilla e un’ampia spiaggia punteggiata di scogli e di secche, s’innalzava una compatta e minacciosa collina. Sembrava raccolta, ravvolta su sé stessa. Calcolarono che fosse lunga un migliaio di “liane”. Le pareti interne, ad oriente, erano quasi a picco. La roccia stratificata dimostrava che non tutta l’isola era di origine recente, vulcanica. Sulla cima piatta e uniforme  c’era la stessa vegetazione che fino a mezza costa avevano incontrato sulla montagna.

La pattuglia di Guglielmo, di recente, aveva fatto una sensazionale scoperta. Con lui erano partiti Stefano, Antonio e Giuseppe. Stefano era un ragazzo mite e riflessivo. Parlava poco, ma quando interveniva aveva sempre qualcosa di interessante da dire. Fu lui che, tornando dalla pesca, invece di prendere la via dell’accampamento, propose di spingersi decisamente a ovest. D’accordo! Anche qui la collina scendeva a picco sul mare. La bassa marea aveva però lasciato scoperto un tratto di spiaggia. Si avviarono decisi sulla sabbia; costeggiando la roccia oltrepassarono la collina. Giunsero così dall’altra parte per la prima volta. Da quel lato la collina declinava dolcemente verso un altro spazio accogliente coperto di arbusti. Furono subito attratti da una visione insolita, inattesa: una famiglia di maialini selvatici pascolava tranquilla, grufolava indifferente nel morbido terreno alla ricerca di radici. I due adulti e i cinque piccoli, per nulla intimoriti, continuarono il loro pasto. Entrarono ancor più nella savana appena scoperta e incontrarono altri maialini al pascolo, indisturbati e tranquilli. Vincendo la loro naturale ritrosia, quasi a un segnale convenuto, spinti dalla fame arretrata si lanciarono sulle prede atterrandone due.

Guglielmo non aveva mai fatto male a una farfalla, ma aveva imparato che anche i leoni sono tranquilli e che uccidono solo per fame. Anche in famiglia allevavano i maiali e li uccidevano solo per il loro nutrimento. Questi pensieri, in realtà vennero dopo, perché sul momento pensarono solamente di atterrarli e di colpirli a sassate. In quel momento erano primitivi.

Quella scoperta e queste riflessioni, tuttavia, furono per loro tutti di vitale importanza. Materiale e intellettuale.

Intanto c’era lì, ben custodita, una riserva di carne fresca praticamente inesauribile. Perché i maiali e i roditori della nuova prateria, pomposamente chiamata savana, non invadessero gli altri territori non lo sapevano. Forse ne erano impediti dallo sbarramento della collina che, come un enorme muraglia divideva in due parti l’isola. Sembrava quasi che qualcuno li avesse ristretti in un recinto naturale.

Il loro ritorno fu festeggiato alla grande. Con gli attrezzi di legno affilati che si erano costruiti prepararono un delizioso pranzo. Le ragazze erano state attivissime nell’allestire i banchetti, nel vigilare il fuoco e il girarrosto.

Rosetta, Barbara e le compagne avevano lavorato sodo in quelle settimane. Con pazienza, ma anche con amore, avevano intrecciato centinaia e centinaia di foglie di pandano preparando stuoie, gonnellini, reti, ceste estremamente necessarie alla vita di ogni giorno.

Tranne che a sud e ad est della montagna, l’isola era stata esplorata tutta e si poteva dire sotto controllo. Non avevano trovato traccia di animali feroci né di altri rettili. Questa constatazione aveva tranquillizzato tutti. Tuttavia, Carla e Patrizia continuavano a tenersi sempre per mano.

La mappa dell’isola, schematizzata su un foglio, dava l’idea di un insieme di figure geometriche appiccicate. La montagna aveva una forma triangolare, la prateria, con il campo seminato a nord,  somigliava ad un rettangolo, mentre la savana a ovest aveva una superficie che si avvicinava ad un quadrato. In questi spazi entrava a forma circolare la baia Tranquilla.

Avevano deciso di calcolare l’ampiezza del loro universo, come compito scolastico. Si erano ricordati tutti che la scuola continuava, sotto forma diversa, ma continuava.

Tra i personaggi più vivaci e attivi era ritornata Lolita, perfettamente guarita e ristabilita dopo l’incidente dei primi giorni.

Era stato un periodo abbastanza felice, quello seguito al loro ritorno a valle. L’incontro con gli altri compagni rimasti al baobab era stato, come si può facilmente immaginare, elettrizzante e commovente.

Anche il bistrattato Robertino aveva avuto, scendendo dalla Montagna dell’Urlo, momenti di gioia. La scimmietta che tanto desiderava l’aveva seguito a valle. Anche lei forse non poteva fare a meno della sua amicizia. Il ragazzo passava le ore a ballare, a giocare con Improvvisata. I compagni non lo rimproveravano, se non lavorava come tutti. Anzi, li consideravano due artisti che si esibivano per la platea e quindi meritevoli di vitto e alloggio.

Il campo-base sotto il baobab non era stato abbandonato. Era stato anzi ampliato e modificato per avere più comodità. Grossi pali infissi nel terreno assicuravano alle capanne una sufficiente solidità. Il secondo campo era stato comunque sulla radura. Là si riposavano le pattuglie, quando partivano per la caccia o per la raccolta della frutta e delle radici commestibili. Per dissetarsi bisognava salire fino lassù. I rifornimenti venivano fatti anche riempiendo noci di cocco svuotate.

In vetta alla montagna avevano costruito una garitta da cui osservavano il mare spingendo inutilmente lo sguardo intorno nella speranza di scorgere una vela, un filo di fumo, una nave. In cima alla garitta aveva fissato anche il tricolore.

La “presenza umana” di cui tutti erano certi, non si era in seguito più rivelata. In tutti i giorni che seguirono l’incidente a Lolita non successe niente che potesse rivelare una presenza umana. Oltre le loro tracce non ne trovarono altre. Il mistero non era stato in alcun modo svelato. Ai ragazzi ormai non interessava più. Solo il maestro continuava a rimuginare sui fatti accaduti, reali e inspiegabili.

Erano eventi tuttora aperti.

LA FESTA

Giunse il giorno tanto atteso della festa. Il calendario di Stefania di arricchiva di crocette che indicavano i giorni trascorsi. Il Natale fu segnato con una crocetta più grossa, perché fosse ricordato in seguito anche dagli osservatori più distratti.

La giornata si presentava splendida. Fin dal primo mattino i venti del profondo oceano avevano spazzato il cielo dopo la pioggia notturna. Preannunciavano la stagione calda. Sulle pendici della montagna, nella piccola radura, c’era grande animazione. Era là che avevano deciso di passare il Natale. La luce del sole, penetrante tra i rami e le foglie ancora gocciolanti, creava ai lati della capanna uno scenario mistico, intimo. Tutti erano agitati, commossi. Ricordavano, pensavano, per la prima volta così intensamente, alle case lontane. Il ricordo della festa di contrada e di paese, le rincorse lungo le siepi di biancospino innevate, i ghiaccioli pendenti dai rami di salice selvatico, il gioco della tombola dei pomeriggi a filò: erano tutte immagini gioiose e benvenute. Per alcuni attimi stringevano il cuore.

Ma la tristezza nel cuore dei ragazzi è breve. Il bello è nel momento, il più bello nel domani. La speranza è una meravigliosa medicina.

La capanna era stata preparata a festa dalle ragazze. Fiori vari e coloratissimi adornavano le pareti, rami di magnolia, posti ad arco, disegnavano l’entrata.

Il presepe vivente, dopo i sorrisi e gli screzi iniziali per le scelte dei personaggi, destava ora solo commozione e religioso silenzio. Rosetta, all’unanimità, era Maria. Guglielmo era S. Giuseppe. Al piccolo e mite Franco fu assegnata la parte di Gesù.

Nei giorni precedenti avevano preparato alcuni canti. Il maestro aveva suggerito le voci adatte per il coro. Anche i ragazzi più stonati avevano desiderato partecipare, ma poi si erano convinti che ognuno doveva fare quello che meglio lo ispirava e gli riusciva. Chi con la voce, chi con conchiglie e canne di bambù soffiate, chi con l’applauso, ognuno partecipava al meglio alla celebrazione del Natale. La nascita di Gesù fu celebrata con grande trasporto e devozione.

Tutti stavano seduti intorno. Le ragazze intonarono una dolce ninna-nanna imparata a scuola, ancora in classe quarta. Guglielmo recitava la sua parte, girando lo sguardo da lei al “bambino”, un po’ impacciato pur mettendoci tutta la buona volontà. Tutti facevano sul serio. La visita delle pastorelle, alquanto inconsueta per i doni, ananas, banane e noci di cocco, fu accolta da un applauso generale che servì a scuotere tutti e a far tornare alla realtà.

«Evviva, buon Natale!» gridò Endrio con il suo solito buon umore. Anche gli altri risposero stringendosi attorno a Lupo, manifestandogli tutta la loro amicizia e simpatia.

La sua presenza sull’isola era stata fin dall’inizio la garanzia di sopravvivenza. Egli aveva trasmesso loro, con discrezione e fermezza, coraggio e speranza in ogni momento giusto. Li aveva guidati nel duro tirocinio di ambientamento. La sua sensibilità e la consuetudine di vita con i ragazzi gli facevano capire quando la sua parola era attesa, necessaria, oppure quando era prudente starsene in disparte ad osservare le cose che, da sole, andavano già nella giusta direzione. Lasciava loro il gusto delle piccole, faticose conquiste personali.

I giorni passavano veloci, i ragazzi maturavano in fretta. Erano stimolati da necessità e interessi quotidiani, naturali. Crescevano bene, nel fisico e nello spirito.

Incominciavano a capire, ad amare e ad usare correttamente la loro autonomia e la loro libertà.

L’autorità e l’esperienza di Lupo non erano messe in discussione, perché impiegate con autorevole discrezione.

Dalle grida e dagli sguardi dei ragazzi capì di essere atteso. Si alzò, posò su tutti gli occhi benevoli e, con il tono burbero che a loro piaceva moltissimo, parlò.

«Cari ragazzi, buon Natale.»

La leggera commozione fu presto superata. Stavano vivendo una esperienza rara e irripetibile. «Buon Natale! Che vuol dire? Che significa per noi così lontani?» Fece una pausa e pensò parole che un attimo prima neppure conosceva. «Non significa la bambola nuova. Può venire in altra occasione. Non il trenino elettrico, la letterina con le bugie, il regalino tanto atteso. Non significa l’indigestione di pasticcini o le cartoline obbligatorie. Che significa allora?» Parlava lentamente a testa china. I ragazzi ascoltavano incuriositi e sorpresi. Erano in attesa.

«Per noi, qui, significa vivere di nuovo, da principio. Significa andare a caporiga. Vuol dire dimenticare abitudini e atteggiamenti che non ci servono, vuol dire capirci meglio e accettarci tutti nelle nostre diversità. Il Natale è un’isola, un’isola di tempo nell’anno. Un approdo da cui ripartire più buoni. “In che senso?” mi chiederete. Nel senso che si fa, tutti, rifornimento di bontà, di amore per gli altri.» Nessuno era distratto. Capivano che non aveva ancora finito. Allora parlò più concretamente. «Noi viviamo già l’isola. E’ da quando siamo qui che ci sentiamo tutti fratelli davvero. La sofferenza di Lolita ci ha fatto stare male tutti. Quando Paolo non fa l’arrogante o quando Guglielmo non ignora Robertino o quando Stefania non viene esclusa dai giochi… ecco, per noi è Natale!»

Aaah! Fece più di uno. Allora, per loro, era Natale dal primo giorno. Tutti avevano capito il senso delle sue parole e le condividevano. Poi concluse.

«Che resti Natale per sempre. Che le isole diventino mondo. Un giorno ci lasceremo, partiremo da qui. L’occasione verrà. Che questa avventura scolastica, strana e originale, serva a farci comprendere come siamo tutti necessari gli uni agli altri, come sia gratificante dare una mano a chi in quel momento non può darsela. Allora Natale sarà un’isola sempre più grande, la vita stessa di ogni giorno.»

Sorridendo cambiò repentinamente discorso.

Cercò la sua Clementina e l’accarezzò. Tutti gli si strinsero attorno.

C’erano delle foglie di tabacco poste ad asciugare al sole. Le avevano trovate ai piedi della collina a nord-ovest, Stefano, Sandro, Patrizia e Catia, durante un’escursione alla ricerca di tuberi. Le strane foglie, larghe e scure, avevano richiamato l’attenzione di uno dei ragazzi che le riconobbe. I suoi familiari le coltivavano. Le foglie erano tutte contate, una per una. Aveva una zia che era dedita alla contabilità, si chiamava Letizia. Propose che così fosse chiamata anche la collina. Nessuno si oppose. Le ragazze convennero che il nome “Letizia” era augurale, evocava lieti eventi.

Intanto che la festa procedeva, la squadra di corvè era impegnata, poco lontano, a preparare il pranzo natalizio.

La pattuglia dei cacciatori, con Antonio e Giuseppe in testa, aveva catturato e ucciso un grosso tapiro, mammifero erbivoro, che pascolava tranquillo nella piccola savana. Scuoiato e ripulito, l’animale era stato avvolto in foglie di banano, dopo essere stato sparso di erbe aromatiche. Il tutto era poi stato sepolto da pietre su cui avevano acceso per alcune ore del fuoco di legna lento e continuo.

«Peccato che manchi il sale» disse Paolo. Si era deciso a fare il cuoco, dopo aver tentato invano di recitare, di suonare, di cantare. Dava gli ordini a chi considerava le sue aiutanti: Lolita, Patrizia, Carla. In realtà erano le ragazze che facevano tutto.

«Poco male per noi» concluse Lolita.

«Perché poco male per voi?»

«Perché noi di sale in zucca ne abbiamo e ne avanziamo, tu invece non ne hai abbastanza.» Scoppiarono a ridere.

«Io di sale ne no più di tutti e te ne accorgerai.»

«Non farci ridere. Non vedi che fai il lavoro da donne? Non ti vergogni di stare con le ragazze?»

«E’ questa la mia furbizia. A me piace stare con le ragazze.»

«Ci fai proprio ridere.»

«Appunto. Le ragazze le faccio ridere, sono simpatico.»

Tutte si affrettarono attorno al fuoco e fecero silenzio. Lo guardarono da sotto il braccio. Ma faceva sul serio? Patrizia e Carla si nascosero il viso con le mani, perché pur essendo timide non dispiacevano quei discorsi. Paolo era il più ardito dei compagni.

Roberto, grande e grosso, assentiva in silenzio. Avrebbe voluto confermare le parole di Paolo, ma sorrise soltanto. Era l’artista della compagnia. Il suo tempo libero lo passava a disegnare cavalli con un carboncino sulla pietra o a intagliare bastoncini. Gli amici lo chiamavano Derby. Quello che gli capitava intorno lo captava esattamente, ma lo comunicava sempre dopo.

Paolo era il “dongiovanni” della classe. Aveva quasi undici anni. Si considerava il più sveglio di tutti. Su questo terreno lo era. Per questo era stato spesso emarginato dal gruppo. Invidie di ragazzi! Guardava gli altri sempre con le sopracciglia alzate e gli occhi semichiusi, con l’aria di chi sa. Aveva visto che funzionava. Si vantava di avere già fumato una sigaretta. Il fatto era che, davvero, le sue poesie facevano piacere alle ragazze che lo punzecchiavano apposta. Altri ragazzi avevano tentato di imitare Paolo, ma con scarso successo. Non avevano la sua determinazione. I suoi messaggi erano perentori, fulminanti: mia cara, ho deciso di sposarti… ho deciso di rapirti… attenta! amo una dell’altra quinta.

Anche quel giorno decise di stupire. Estrasse un foglietto sgualcito con una poesia sgrammaticata, ma che non lasciava dubbi. «Amore, ti porterò sulla collina, una sera… là aspetteremo la luna…guarderò i tuoi capelli argento e rame…i tuoi occhi azzurri come il cielo e canterò per te… Aspettate un po’! Ho perso la riga.» E lì crollava tutto. Ma, certamente, Paolo faceva impressione, quando si esprimeva così. Comunque nessuno rideva più. Anzi, Carla sospirò di gelosia. Non le prestava attenzione.

Rimise in tasca il suo poema sgualcito e, impettito, con lo sguardo a mezz’aria si allontanò lentamente.

Intanto anche gli altri stavano avvicinandosi. Erano tutti molto chiassosi e felici. E pieni di appetito.

«Si può assaggiare?» Giuseppe era vulcanico, si notava subito nel gruppo, sempre chiassoso e sorridente. Le ragazze lo chiamavano Righello. Aveva i capelli pettinati spartiti in mezzo esattamente a metà. «Li misuri con il righello per pettinarti?» aveva chiesto Paolo. Da quella volta gli era rimasto il soprannome, e la riga in mezzo ovviamente.

«Preparate le tavole, invece» brontolò Lolita tutta annerita. Le tavole erano state formate da rami e liane intrecciate. Sopra furono posate foglie di banano e di palma formando la più stravagante tovaglia di questo mondo. Quel giorno fu abbandonato anche l’osservatorio sulla Montagna dell’Urlo.

«Chi volete che si metta in viaggio il giorno di Natale?» Tutti convennero con Guglielmo, era giusto passare la giornata assieme.

Abituatisi ormai a quella nuova vita, erano giunti al punto di temere il giorno in cui avrebbero avvistato una nave soccorritrice.

DUE CORAGGIOSI

Un piccolo promontorio, scavato dalle onde e trasformato in faraglione, vigilava l’ingresso di Baia Tranquilla. In cima al promontorio, se ne stavano, un pomeriggio, Robertino e Improvvisata. Dovevano vigilare che nello specchio di mare limpidissimo non entrassero gli squali, mentre i ragazzi giocavano e nuotavano nell’acqua bassa. Sarebbe stato, altrimenti, difficile risalire in fretta sulle sporgenze rocciose.

L’enorme distesa dell’oceano era in pace. Bianche spume apparivano e scomparivano in lontananza. Larghi flutti s’infrangevano sul faraglione rovesciandosi di nuovo in mare con ritmo uguale, monotono. Alcuni delfini al largo guizzavano fuori dall’acqua. Erano l’unico segno di vita visibile in quell’immensità di spazi azzurri che si confondevano all’orizzonte.

Robertino, consapevole della responsabilità assegnatagli, scrutava intorno i fondali trasparenti, ricchi di coralli e di alghe marine.

I compagni continuavano i loro giochi d’acqua. Chi cercava conchiglie, chi inseguiva sparuti polipi, chi lanciava noci di cocco, chi nuotava tranquillo.

Approfittando dell’assenza delle compagne, impegnate in canti e danze lassù sulla montagna, qualcuno aveva pensato bene di alleggerirsi dei miseri vestiti per non rovinarli ulteriormente.

Chi guardava l’oceano entrare nella piccola baia aveva a destra il faraglione e a sinistra le pendici della montagna che finivano a picco sul mare. La vegetazione giungeva fino a toccare l’acqua nascondendo la roccia, creando anzi tanti piccoli meandri di verde eccitante per i misteri che sembrava racchiudere. Grandi alberi tropicali, curvi sull’acqua, creavano una cornice d’ombra invitante. Altre piante, a loro sconosciute, e le immancabili felci facevano dondolare rami e foglie seguendo il flusso dalla risacca. Le loro radici, pur affondando in riva all’oceano, riuscivano a pescare nelle falde sotterranee superficiali l’acqua dolce che, essendo più leggera, galleggiava sull’acqua salata più densa e pesante. Era la mangrovia.

Attratti dalla bellezza del luogo, dal desiderio di un po’ d’ombra e dalla curiosità di scoprire sempre cosa c’è più in là, Fabio e Ivan-Muscoletto, gareggiando, si diressero a larghe bracciate verso la riva meridionale di Baia Tranquilla. Non visti dagli altri, toccarono terra. Il fondale sabbioso era solido. Entrarono in un tunnel di fronde camminando lentamente nell’acqua che arrivava alle ginocchia. Seguendo la costa, nascosti dalla vegetazione, percorsero qualche centinaio di “liane”. La luce stentava a filtrare nel fitto fogliame e l’onda, frenata dai rami ricurvi sull’acqua, giungeva smorzata e stanca. Non si accorsero nemmeno di essere usciti dalla baia e di avere girato a sud. Il tunnel, seguendo la costa frastagliata, sembrava non finire mai. Si accorsero di non udire più le voci concitate dei compagni.

«Torniamo indietro.»

Fabio assentì. Fecero dietro-front.

«Chissà dove finiva questo tunnel.»

Muscoletto,  già rinfrancato, gli fece eco. «Ci torneremo con gli altri e lo scopriremo.»

Tornando sui loro passi si trovarono a una biforcazione. Dopo un attimo di esitazione, Fabio uscì con la sua solita esclamazione.

«Ragioniamo. All’andata avevano l’acqua a destra e la montagna a sinistra, ritornando sarà il contrario.»

Si avviarono. Ma più avanzavano più la vegetazione si infittiva e più il tunnel si allargava. Decisamente non era quella la strada giusta. Si guardarono in viso leggendo ognuno nel pensiero dell’altro la stessa cosa.

«Non è che ci siamo persi?»

«Non credo. Abbiamo fatto così poca strada. Ragioniamo…»

Stettero in silenzio ad ascoltare. Nessuna voce giungeva fino a loro. Si udiva la risacca infrangersi da qualche parte, ma non riuscivano a individuare il punto di provenienza di quel suono amico. Era come giocare a mosca cieca.

«Torniamo indietro» ripeté Muscoletto.

«Ma è quello che stiamo facendo» disse perplesso Fabio.

«Rifacciamo il percorso fino al bivio e prendiamo l’altro tunnel.»

«Ragioniamo.»

«Non c’è tempo da perdere, dobbiamo uscire di qui alla svelta, prima dell’alta marea.

Un leggero smarrimento incominciò ad impossessarsi dei due ragazzi. Aggrappandosi ai rami rifecero lo stesso cammino. O così credevano. Cominciavano ad essere stanchi. La lunga permanenza in acqua li stava spossando. Un uccello del paradiso levatosi all’improvviso in volo li fece sobbalzare. Stava arrivando la paura.

«L’acqua sta salendo.»

«Io grido» disse Ivan pallidissimo. E nello stesso istante gridò. «Oooh! Oooh!»

«Più forte, così non ti sente nessuno.»

«Robertino dovrebbe sentirci.»

«Robertinooo!»

Restarono in ascolto. Niente. Anzi la loro voce sembrava venire assorbita e scomparire nel vuoto. Ebbero una sensazione di impotenza che li paralizzò per un  attimo.

«Aiutooo! Lupooo!» Ora gridavano assieme.

Le grida inascoltate aumentarono la loro paura. Come l’esploratore caduto nelle sabbie mobili scopre che il suo agitarsi, il suo affannarsi è inutile, così i due sfortunati ragazzi, sostenendosi a vicenda, cominciarono a brancolare senza meta chiamando ogni tanto qualcuno dei compagni.

L’acqua intanto continuava a salire.

«Oh, mamma mia!» implorò Muscoletto. Era la prima volta che il piccolo, robusto Ivan, implorava la madre. Per un attimo si stupì. Non sapeva che quello è il nome della verità, il nome che si invoca nel momento delle grandi gioie e del grande dolore. Lo stava scoprendo. Anche Fabio lo stava scoprendo. Ma, pur con le lacrime agli occhi, stava vedendo anche un’altra cosa.

«Guarda!»

Innanzi a loro, seminascosta, galleggiava una piroga a bilanciere. Con l’acqua sopra la cintola si diressero affannosamente, ormai nuotando, in quella direzione.

Stanchi, sfiniti, salirono faticosamente sull’imbarcazione cadendo dentro con tonfi secchi. Erano ancora vivi.

«Ragioniere!» Muscoletto ebbe la forza di scherzare. Fabio era muto con la faccia rivolta sul fondo della barca. Stettero nelle stesse posizioni per molti minuti per riprendere fiato e coraggio, per riordinare i loro pensieri.

Intanto l’acqua saliva. Anche la piroga, ancorata con una liana scorrevole ad un tronco, si alzava lentamente. Se non fossero saliti in tempo, difficilmente, in quell’intrico di rami e di radici sporgenti, si sarebbero salvati.

A poppa c’erano delle reti da pesca costruite con fili sottili di radici e foglie attorcigliate. A prua, ben conservata sotto foglie di banano, c’era della frutta fresca. Ne mangiarono a sazietà sotto un piccolo, solido tetto di paglia costruito al centro dell’imbarcazione.  Controllarono minuziosamente la barca. Era ben costruita con legname lavorato e squadrato, con cortecce ben saldate, intrecciate tra loro In alcuni punti notarono la presenza di chiodi. Che fosse una barca in grado di prendere il mare era evidente per Muscoletto, che già aveva navigato con suo padre nella laguna veneta. Ma quello che non riuscivano a spiegarsi era il mistero di quella presenza in quel luogo. Erano ormai trascorse molte settimane dal loro arrivo sull’isola e mai avevano notato barche di pescatori al largo.

Si ricordarono del colpo d’arma da fuoco.

«E’ sempre lui»  concluse Fabio.

«Forse ci osserva in questo momento. Ma chi sarà mai?»

«Ragioniamo.»

«E’ meglio che non proviamo. Tanto non serve. Passeremo la notte qui e domani, con l’acqua bassa, tenteremo di uscirne fuori.»

Ma Fabio continuava a ragionare. «Se è un naufrago, quale motivo ha di nascondersi?»

Erano trascorse circa due ore, così pensarono. Era pomeriggio inoltrato. La barca, sollevatasi di qualche “liana”, offriva loro ora la vista di un paesaggio più aperto e sgombro. Saliti sul bilanciere, ampliando la vista, scorsero, a meno di cento “liane”, il mare aperto. A babordo, sul fianco della montagna, videro un  sentiero e, più in su, riparata dalla roccia incavata, una capanna.

Remando con le braccia, spinsero con notevole fatica la piroga a riva. Con l’alta marea erano saliti come su un ascensore. Ora si trovavano di fronte a nuove dimensioni, a nuovi spazi. Ancorarono la barca. Scesi a terra si diressero con circospezione verso quell’insperato segnale di vita.

«C’è nessuno?» Fabio, nonostante l’emergenza, si comportò educatamente.

«Ssst…»

«Dobbiamo pure far notare la nostra presenza. Ci conviene.»

Nessuno rispose. Dalla posizione del sole e della montagna capirono di avere aggirato l’isola verso sud e che sarebbe stato impossibile per il momento comunicare con i compagni. Convennero che sarebbe stato più prudente e più sicuro passare la notte a terra. Verso il tramonto entrarono nella capanna e chiusero l’ingresso con frasche e rami.

Era già scesa la sera e si erano stesi a riposare, quando sentirono un fruscio, uno scricchiolio. Qualcuno si muoveva fuori con circospezione. Si rizzarono a sedere. Ascoltarono. Avevano il cuore in gola.

«Che sia qualche animale?» Ivan fiatò appena.

C’era ormai la luna. Era una notte di luna piena e lo spiazzo erboso antistante era illuminato a giorno. Un uomo piccolo, seminudo, scalzo con un fucile a tracolla, attraversò il prato. Era sicuro nel passo e nei gesti. Si avvicinò all’imbarcazione, la guardò, la toccò. Comprese. D’improvviso si volse verso la capanna. Non resistendo, più Ivan diede un grido. L’ombra colta di sorpresa balzò da un lato mandando a sua volta un grido terribile.

I ragazzi videro l’uomo avvicinarsi alla capanna. Curvo, in guardia. Scorsero un corpo bruno, un viso coperto da una barba incolta e due occhi di fuoco che li scrutavano. Era magrissimo, ma dimostrava una vitalità e una agilità sorprendenti. Si guardarono per pochi istanti. Poi l’ombra svanì.

TAN KIU’

Per molte ore non chiusero occhio. L’emozione provata era stata grande. Inoltre, durante la notte era scoppiato un breve violento temporale. A loro era parso interminabile. Il riparo sotto la roccia era stato provvidenziale. Alle prime luci del giorno, tremanti, uscirono all’aperto. Una leggera nebbiolina copriva in basso la boscaglia acquatica. Voli radenti di gabbiani e di altri volatili sconosciuti attrassero la loro attenzione; più lontano, gli audaci cormorani si tuffavano sott’acqua a pescare.

Percorsero il breve tratto di prato che li separava dal luogo dove la sera prima avevano ormeggiato la piroga. Per un attimo temettero che fosse scomparsa. Poi capirono. La marea l’aveva riportata giù. La raggiunsero. Era semisommersa per l’acqua imbarcata e per l’acquazzone notturno. Decisero di attendere di nuovo l’alta marea per prendere il largo e rientrare a Baia Tranquilla. A casa!

«Credi che possiamo prenderla?» chiese Muscoletto. Erano riusciti a salirci sopra. Con le mani unite cominciarono a liberarla dall’acqua.

«Se vogliamo tornare a casa!»

«Dicevo… perché non è nostra.»

«Niente è nostro in quest’isola, eppure ce ne serviamo.»

«Ma è diverso, perché la frutta, la verdura, la carne, l’acqua, le piante le usiamo soltanto per sopravvivere. E non prendiamo tutto.»

«Anche prendere la piroga per noi diventa una necessità. Prova a ragionare. C’è qualche altro modo per uscire di qui? Ce la faresti a nuoto?»

«Penso di no.»

«E allora?»

«Di frutta ce n’è a volontà, ma di barche ce n’è una sola. Prendendola prendiamo tutto e qualcuno resta senza. Magari è sua. Ti sembra giusto?»

Trovandosi da soli, dovendo dare risposte non suggerite, urgenti, attingevano dal fondo della loro formazione culturale, familiare, scolastica interrogativi e segnali di convivenza ineludibili. In altre circostanze avrebbero lasciato ai loro educatori le risposte. E avrebbero perduto occasioni irripetibili.

L’acqua intanto saliva creando piccoli vortici che facevano dondolare l’imbarcazione. I due ragazzi discutevano, madidi di sudore, non cessando mai di lavorare, alzando la testa di tanto in tanto per un profondo respiro.

«Chiediamo il permesso al suo padrone.» Fabio si arrese.

«Possiamo provare, facciamogli vedere che siamo amici. In questi mesi ci avrà osservato, avrà capito che non facciamo del male, che siamo anche noi in emergenza.»

Muscoletto, chino sul fondo, continuava  a gettare fuori acqua dalla barca.

«Pensi che ci consideri amici?» chiese.

«Ne sono sicuro.»

Fabio era stato deciso e perentorio. Alzò la testa per capire e vide ciò che il compagno già aveva visto. A pochi passi da loro, sulla riva, c’era un uomo. Era lo stesso piccolo uomo abbronzato visto la sera prima. A piedi nudi, ma con un berretto e una divisa stracciata da soldato. Non aveva il fucile, ma un lungo coltello alla cintola. Aveva uno sguardo seccato, come chi è costretto a sopportare degli ospiti sgraditi. L’età era indefinibile. Pur nella sua magrezza e nella sua bassa statura aveva nello sguardo e nel portamento una composta fierezza. Teneva nella sinistra un tegame ammaccato e consumato dall’uso, ma che poteva ottimamente servire nella circostanza.

I ragazzi lo guardarono tranquilli. Non erano né sorpresi né intimoriti. Muscoletto gli sorrise. «Amici, amici» disse Fabio e per spiegare il significato delle sue parole strinse la mano al compagno e lo abbracciò, mimando poi le stesse azioni verso lo sconosciuto.

L’uomo non si scompose. La barca intanto saliva e stava per raggiungere il suo punto più alto. Era il punto in cui l’acqua s’acquieta, per un attimo resta immobile; poi riprende l’inversione di tendenza. Fabio ebbe il tempo di pensare a queste  cose.

L’uomo salì sulla barca e, senza curarsi degli occupanti, completò il prosciugamento. Poi, sciolto l’ormeggio, con un ramo rudimentale si staccò da terra e si diresse dritto in mare aperto.

Le onde dell’oceano, accavallandosi, si precipitavano contro l’isola con moto incessante con alte schiume e grande fragore Con mano esperta, l’uomo affrontò le onde che, avvicinandosi alla costa, s’impennavano minacciose. Superarono una prima e una seconda barriera d’acqua, poi una terza meno impetuosa, poi la barca navigò sicura in un mare pacifico davvero.

I ragazzi guardavano l’uomo manovrare remo e timore con sicurezza, con disinvoltura. Erano ammirati e impietriti. Nel primo momento di calma, di cessata frenesia, si volse verso di loro. Erano stati, in quei momenti, come tra vecchi conoscenti. Non era stata pronunciata alcuna altra parola, come se non fosse necessario.

«Grazie!» esclamarono insieme. I loro occhi brillavano di riconoscenza. Non provavano timore per ciò che li poteva attendere.

«Thank you?…» mormorò assorto l’uomo che doveva aver capito. E il suo sguardo, fisso in avanti, sembrava scrutare qualcosa, lontano.

«Veniamo dall’Italia, vogliamo tornare a casa. Ci puoi aiutare?» Fabio restò deluso, capì di non essere compreso.

L’uomo riprese a remare dirigendosi al largo, lontano da Baia Tranquilla.

«Chi sei? Come ti chiami?»

«Forse l’ha detto prima il suo nome» disse Ivan. «Ha detto qualcosa: Tan… tan…kiù…»

 «Tan Kiù! Tan Kiù!» gridò Fabio.

L’uomo per la prima volta appianò il volto corrucciato, come se volesse tentare un sorriso e accennò ad un inchino che si confuse con un colpo di remo.

«Ha detto di sì. Si chiama così.»

La piroga stava circumnavigando l’isola da sud. In quei luoghi i ragazzi non c’erano mai stati né potevano arrivarci da terra. Mentre a nord c’era una vasta area pianeggiante, al lato opposto c’era la    Montagna dell’Urlo. 

Anche la vegetazione di questo versante era più rada. Rupi scoscese e rocce salivano dal mare profondo. Era il regno degli uccelli oceanici. Prendevano il sole spiccando brevi voli. Grida stridenti, continue si confondevano con lo schianto del mare contro la montagna. La piroga, fuori dalla risacca, scorreva silenziosa tagliando la superficie leggermente increspata del mare.

I ragazzi vedevano per la prima volta l’isola da lontano. Era un enorme scoglio che alzava fiero la testa dalla profondità degli abissi cui era ancorato. Ad un tratto la piroga rallentò. Sollevato il remo, il piccolo uomo dalla pelle olivastra armeggiò attorno alle reti, poi le gettò in mare. Aveva gli occhi piccoli e taglienti come fessure, le mani abili e nervose.

Fabio, seduto a poppa, guardava la schiena curva, nodosa di quell’essere misterioso, muto, che li ignorava completamente. Voleva tornare a riva, voleva dire qualcosa, ma sentiva che sarebbe stato inutile.

Dopo il freddo della notte, si godevano il caldo del giorno. Fattosi coraggio, Muscoletto si avvicinò al timone manovrando con cautela. Era un suo modo di comunicare, di attirare l’attenzione, di fare intendere che esisteva. Il suo tentativo cadde nel vuoto.

«Tan Kiù, mi senti?» urlò esasperato. Il tempo trascorso insieme non aveva chiarito niente. «Portaci a terra. Mi senti? Vogliamo tornare al campo.»

La pesca si protrasse per un tempo interminabile. Erano ignorati. Era come se non ci fossero proprio. Tan kiù non dava alcun segno di notare la loro presenza. Quando cominciò a ritirare le reti, capirono che stava per giungere il momento di tornare. La pesca non era stata abbondante, ma l’uomo sembrava ugualmente soddisfatto, perché non fece alcun gesto di stizza o di turbamento. Se era per lui il pesce poteva bastare. I ragazzi invece ci avevano fatto conto.

«Ah, finalmente torniamo indietro!» sospirò Fabio.

Invece la piroga continuò a navigare, superò l’estremo lato sud e risalì decisa costeggiando il lato orientale. La Baia Tranquilla, da cui erano partiti, si trovava al lato opposto.

«Dove ci porti?» osò chiedere con durezza Muscoletto.

«Ragioniamo. Se ci fosse nemico non saremmo qui, ora. Comunque vada, finirà bene.» Era una speranza più che una convinzione.

L’imbarcazione, sotto i colpi secchi e vigorosi del rematore, costeggiava la montagna a qualche centinaio di “liane”. Doppiarono uno spuntone roccioso, un piccolo promontorio spigoloso come una lama. In quel punto, la costa, alta e frastagliata, nascondeva alcuni piccoli fiordi, antri e caverne erose e scavate in migliaia di anni.

Aggrappati con ambedue le mani alle sponde, non finivano di stupirsi e di preoccuparsi. Poi, in maniera del tutto inattesa, Tan Kiù diresse decisamente l’imbarcazione verso terra. Man mano che si avvicinavano all’isola, la piroga cominciava a ballare tremendamente. Con una certa fatica approdarono in una piccola insenatura. Sembrava avere un’insegna quel luogo, come una locanda pronta ad ospitarli che mostra la sua banderuola: lì videro un segnale, un lungo tronco secco sporgente.

L’uomo, raccolti i pesci in una apposita rete, saltò sulle rocce in quella direzione, lasciando di ghiaccio i due ragazzi.

«Ehi, che fai?»

«Tan Kiù non abbandonarci.» Ma Tan Kiù non si volse nemmeno. Lo videro arrampicarsi con agilità e sparire dietro un anfratto.

Passò del tempo prima che potessero riaversi dallo choc.

«Ora la barca è nostra! Con questa torneremo.» Fabio stava riprendendo fiato e coraggio.

«Al timone!» gli fece eco Muscoletto.

Con grande fatica, sempre a rischio di caduta in mare, si staccarono da riva. Dopo molti tentativi infruttuosi di raddrizzare quel guscio di noce, che si manovrava a fatica in uno spazio angusto, riuscirono a cogliere l’onda di ritorno e in breve si trovarono al largo.

« A casa, a casa!» Il loro sogno era il campo-base.

Uno stormo di gabbiani che stava planando si sollevò di colpo impaurito. Sorpreso. La piroga procedeva traballando, ma ai due ragazzi sembrava di essere a bordo di un transatlantico.

PRIMI PASSI

Un’ampia barriera corallina fungeva da frangiflutti alla spiaggia di sabbia finissima posta a settentrione. Si estendeva per quasi un chilometro. L’acqua limpidissima lasciava trasparire un fondale pulito che scompariva lentamente nell’oceano. Non vi si nascondevano pericoli e per le ragazze era piacevole inoltrarsi fino agli scogli della barriera. Scherzavano e ingannavano l’attesa godendo il sole, il mare, la libertà, mentre i compagni, sparsi per l’isola, cercavano Fabio e Muscoletto.

Carla e Patrizia, inseparabili, costruivano castelli di sabbia. Sabrina e Margherita sopra due massi scrutavano l’orizzonte. Lolita con una grande conchiglia ascoltava il rombo del mare che sembrava venire da molto lontano. Rosetta teneva attorno a sé le altre compagne. Tra loro parlavano e commentavano. Stefania teneva stretta tra le mani una bambola che le amiche le avevano regalato per il suo compleanno.

Era calato in tutte un velo di malinconia. La consuetudine, che taglia le ali alla fantasia e alla scoperta di cose nuove, rendeva tutto scontato, neghittoso. Dopo la gioia spensierata dei primi giorni, dopo le avventure e i pericoli corsi addentrandosi nell’ignoto, subentrava la noia. Un’isola è troppo piccola per contenere il bisogno di conoscere che non ha confini. A loro sembrava di avere già visto e conosciuto tutto dell’isola. Cioè tutto il mondo. Non era così. C’era ancora molto da scoprire.

Materialmente erano circoscritti. Ma non spiritualmente. Certe consapevolezze si conquistano a tappe, faticosamente. Ancora non lo sapevano. La conoscenza non ha confini.

Ecco! Per loro, invece, l’ansia per la scoperta di nuovi luoghi e di nuove esperienze si andava attenuando. Trepidazioni ed entusiasmo erano andati di pari passo. Risolti i problemi più immediati di sopravvivenza, erano caduti anche molti stimoli e la molla interiore che li aveva spinti ad essere sempre curiosi, mai stanchi. Il gusto della fatica, così necessaria all’uomo per rendere belle e importanti le sue imprese, si andava attenuando. Sentivano che stavano per  avvicinarsi giorni grigi, sempre uguali, monotoni. I racconti dei ragazzi che tornavano dalla caccia o le invenzioni di Paolo, di ritorno dal suo turno di guardia sulla vetta della montagna, erano le uniche occasioni rimaste per suscitare l’attenzione e la curiosità. Le ragazze, soprattutto, che più degli altri temevano di avventurarsi nella giungla, passavano gran parte del loro tempo sulla scogliera o sotto il baobab, in spazi limitati e senza possibilità di sorprese. Il loro divertimento fisso, ormai stucchevole, erano le capriole di Improvvisata. Non bastavano più. Qualche volta inventavano storie, qualche volta si raccontavano i sogni e i loro segreti. Quel giorno, Rosetta stava raccontando il sogno meraviglioso che aveva fatto. Le compagne l’ascoltavano con interesse e con una punta di invidia.

«Se sapeste che sogno ho fatto!»

«Racconta, racconta…»

«Ho sognato che mi sposavo.»

«Racconta, racconta… con chi?»

«C’erano tanti fiori tutto intorno a me. Ero vestita di bianco. Non riuscivo a distinguere il luogo, ma mi sembrava di essere sulla strada di casa mia. Filari di alti pioppi scorrevano ai lati, come succede andando in treno. Avevo la sensazione di correre, ma più che altro la volontà di correre, perché in realtà non ci riuscivo nella misura in cui volevo. Prima attorno a me c’eravate voi sorridenti… poi mi trovai sola.»

«Ma chi dovevi sposare?» Era questa la domanda sulla bocca di tutte.

Rosetta, con il suo sguardo mite, cercava di rievocare i suoi ricordi guardando lontano, senza sentire le compagne.

«Avevo il terrore di non arrivare in tempo alla chiesetta del Redentore dove mi attendeva lo sposo. Poi mi ricordai che la chiesetta era un antico oratorio cadente e abbandonato in mezzo alla campagna. Non poteva essere quello il luogo dell’incontro. Mi trovai sola e capii che stavo per smarrirmi. Mi accorsi di non avere più il vestito bianco. Provai un grande dispiacere. Sentii il bisogno di qualcuno, di un aiuto. Intanto continuavo a correre, ma senza meta, verso qualcosa, senza riuscirci. Smisi di correre, mi fermai, mi inginocchiai in un campo di verde trifoglio. Ad un tratto una mano mi toccò la spalla, mi rialzò…»

«Chi era? Era lo sposo?»

«No, era il maestro.»

«Davvero? Lui?» chiesero Barbara e Michela incredule.

«Era sorridente. Mi bastò per ritrovare sicurezza e tranquillità. Mi diede la sua mano forte, mi rialzò e mi indicò una strada… ripresi a correre senza affanno, sapevo dove andare…»

«Dove? Dove?»

«Vedevo tante farfalle sui rossi fiori di trifoglio, sentivo cantare usignoli, c’era molta luce ma non distinguevo, non sapevo se fosse giorno o una notte luminosa di luna… poi venne un vento forte che scompigliò tutto… mi separò dalla scuola… ed ebbi paura, non capivo più niente, ero in un grande vortice… poi mi svegliai agitata. Ho capito che, nonostante la voglia di orizzonti sempre nuovi … non siamo ancora pronte a camminare da sole.»

La maggior parte delle compagne restò delusa. Attendevano un altro finale. Non apprezzarono il giudizio di Rosetta.

«Alla nostra Rosetta non bastano i sogni.»

«I sogni aiutano. Durano così poco. Non costano niente.»

«Cosa voleva dire il tuo sogno?» chiese Barbara.

Non siamo grandi abbastanza, neppure per sognare oltre. Questo voleva dire Rosetta, ma capì che le avrebbe deluse ulteriormente. Da sole non potevano ancora andare da nessuna parte. Questo la scosse dal suo torpore e invitò le compagne a tornare al campo per terminare le loro incombenze tralasciate.  Ma una conquista l’aveva fatta: poteva ardire e pensare. Era in grado, era disposta, era preparata per quando sarebbe stato il momento.

Alcune tornarono al baobab, altre restarono sulla spiaggia a lanciare sassolini a pelo d’acqua. Sabrina e Margherita non si mossero dalla loro posizione sulla scogliera. Sabrina in particolare non staccava lo sguardo dall’orizzonte, sembrava aspettare qualcosa. Il suo sogno era presto svelato, lo gridava a tutti ad ogni piè sospinto.

«Una nave!» Le compagne la rimproveravano. Lolita le diceva qualche parola poco simpatica.

Sabrina continuava a scrutare il mare, perché era convinta che fosse questione di tempo, presto o tardi, una nave sarebbe passata a salvarle. Meglio essere all’erta.

Il resto della mattinata trascorse in varie incombenze.

«Una nave. Venite, c’è una nave…»

«Smettila!» Anche Margherita si era spazientita.

Questa volta era vero. Da est qualcosa mai visto prima navigava nella loro direzione. Sabrina aveva visto giusto: c’era un segno di vita diverso che spuntava dal mare. Come paralizzata dalla paura, nonostante attendesse l’evento, cadde in acqua inzuppandosi dalla testa ai piedi.

«Credevo che le navi fossero più grandi» disse con un filo di voce Stefania. Era robusta e la minuscola imbarcazione, che avanzava traballando con una lentezza esasperante, era piccola.

Videro qualcosa o qualcuno agitarsi nella piccola imbarcazione a bilanciere.

«I pirati!» gridò Sabrina che si aspettava tutt’altra cosa. Bastò quella parola, perché in un attimo tutte sparissero come razzi verso l’interno dell’isola rilanciando l’allarme: i pirati, i pirati!

A bordo della piroga, che faticosamente procedeva tra i flutti, Fabio e Ivan erano furiosi per non essere stati riconosciuti; vedevano sfumare l’occasione di un rientro trionfale.

LA  SORGENTE  E’  SECCA

 a stagione delle piogge  era passata. Da settimane ormai i monsoni soffiavano sull’isola senza portare una nuvola. Durante il giorno l’afa era opprimente. I lavori si svolgevano quindi alle prime ore del mattino. Le conversazioni di storia, di geografia, di botanica, le lezioni di aritmetica e di geometria erano a metà mattinata. Ma non tutti erano presenti.

La caccia ai maiali selvatici si era fatta più sistematica e meno causale. I ragazzi, spinti dalle necessità si erano fatti esperti e, sotto la guida di Lupo, si erano addestrati a costruire trappole. Scavavano delle buche che mimetizzavano e dentro vi cadevano gli animali. Non molto diversamente dovevano avere fatto gli uomini primitivi. Tutte le novità attraggono, stimolano perché sollecitano la curiosità. Poi, quando sai tutto, o cerchi qualcosa di nuovo o ti stanchi.

Da un po’ di tempo i ragazzi stavano diventando nervosi e irrequieti. Erano frequenti i litigi, i bisticci per futili motivi. Duravano poco, ma erano segnali. Il maestro cominciava a preoccuparsi. L’ampiezza degli spazi, ben diversi da un’aula, non lo aiutavano in questo. La dispersione delle attività e dei movimenti, se da un lato aumentava gli stimoli, dall’altro allentava la possibilità del  controllo e della disciplina. In particolare tra Guglielmo, capo riconosciuto dei ragazzi, e Paolo, che era ben accetto da un gruppetto dissenziente, gli screzi e gli affronti erano ormai quotidiani.

La raccolta del mais era stata una novità. La novità non era però durata molto, anche perché il raccolto era stato inferiore alle attese. Le pannocchie arrostite, oltre che una variante al cibo consueto, erano state anche l’occasione di serate allegre attorno ai fuochi. Una sera Paolo aveva fatto la parte del leone. Con la sua vena e la sua capacità di interpretazione aveva dato spettacolo a tutti. Aveva cantato canzoni con parole e musica inventate da lui, imitando i cantautori jazz. Le sue contorsioni avevano esilarato e conquistato gli spettatori che alla fine lo applaudirono con un prolungato battimani ritmato. Le più entusiaste erano le ragazze. Era quello che a Paolo piaceva di più. Non altrettanto soddisfatto era stato Guglielmo, oscurato dalla crescente popolarità del suo compagno. Avrebbe dovuto reagire con altri gesti che richiamassero l’attenzione su di lui, ma non su un terreno sbagliato e in un momento inadatto. La sua bravura la mostrava nella prontezza delle decisioni e nell’impegno dell’esecuzione, quando tutto il gruppo era impegnato.

Insieme a Lupo era uscito in mare con l’imbarcazione recuperata da Fabio e Ivan. La pesca non era stata abbondante, ma era stata la novità, la difficoltà dell’impresa che aveva elettrizzato Guglielmo. Aveva ascoltato attentamente il racconto avventuroso dei compagni approdati a baia Tranquilla dopo ore e ore di mare. Da terra li avevano visti apparire come spuntati dalle acque. Li avevano cercati dappertutto, ma non pensavano certo di vederli spuntare sulla cresta delle onde. Tutti erano stati affascinati dalla strana e avvincente avventura dei due ragazzi. Guglielmo era andato oltre. Aveva ascoltato e chiesto precisazioni su come si usava il remo,su come si teneva il timore, su come si governava la barca, su come si ritiravano le reti. Era un ragazzo pratico, esuberante, poco sentimentale. Andava subito al sodo delle questioni. Dagli altri era rispettato, ma non sempre accettato.

La storia di colui, che ormai chiamavano Tan Kiù, aveva suscitato un grande interesse, soprattutto in Lupo. Si chiedeva chi fosse e perché si comportava così misteriosamente.

La barca era di ottima e solida fattura, facile da manovrare. Mostrava dei chiodi in alcune assi. Pensò che fossero stati trasferiti nell’isola, piuttosto che fabbricati là.

Lupo capì che, quanto prima, doveva farsi conoscere, farsi accettare, diventare amico di quel formidabile conoscitore dell’isola e dei suoi segreti. Avrebbero potuto cercare insieme il modo di uscire da quella situazione che non sarebbe potuta durare all’infinito. Ma era evidente che i contatti con Tan Kiù erano stati sempre casuali, non voluti, subiti con indifferenza e fastidio. Egli sperava di incontrarlo almeno una volta per tentare un dialogo, un approccio che lo portasse ad arricchire le loro conoscenze dell’isola. Invece l’ultima volta che Tan Kiù diede segno della sua esistenza fu quando venne a riprendersi la piroga nella Baia Tranquilla. Un mattino, infatti, non la trovarono all’ancora. I ragazzi non si spaventarono per questo. Anzi l’avvenimento li stimolò a costruire una robusta zattera, difficile da governare, ma comunque bastevole e sufficiente per le loro escursioni in mare intorno all’isola. Anche senza piroga e con le reti costruite dalle ragazze, copiando quelle di Tan Kiù, riuscivano a procurarsi il pesce necessario.

Ma, risolto un problema, subito se ne presentava un altro. Incominciava a preoccupare la siccità. Nonostante non cadesse una vera pioggia da settimane, la vegetazione sembrava non risentirne. Ma, una mattina, il gruppo di ritorno dalla Montagna dell’Urlo portò una brutta notizia.

«La sorgente è secca.»

Roberto illustrò minuziosamente ciò che avevano constatato. La fessura tra le rocce, nascosta da giunchi, felci e canne di bambù era inaridita. Attorno, il soffice muschio ingialliva. Dove prima scorreva un ruscello, ora affioravano radici nodose, scaglie bianche di roccia levigata, fiori piegati tesi a recuperare gli umidi umori del sottobosco.

La notizia scosse tutto il campo. Si rendevano conto che l’emergenza sarebbe durata parecchi mesi. Lupo comprese subito che quello era uno dei momenti magici in cui bisognava assolutamente intervenire, con fermezza e decisione. Lo scoramento era evidente nei più timidi, in Gianni, Sandro e Franco, ma presto poteva diventare contagioso. Allora sarebbe stato difficile lottare insieme, lottare per vincere. Cercò lentamente la sua pipa. La sua apparizione provocava sempre un sorriso. Si vedeva il burbero maestro giocare come un bambino attorno al fornello e alla cannuccia di Clementina. In quei momenti era uno di loro. Lo sapeva, doveva cogliere l’onda favorevole per  rialzarli, tirarli su. L’educazione è questo: tirarli su un po’ alla volta perché vadano da soli.

«Ragazzi!» Quasi gridò, dopo avere acceso la pipa con tizzone preso dal falò facendo un grande chiasso. Attirò tutti.

«Ragazzi, che meraviglia il fuoco! Pensate come sarebbe difficile la vita senza questa meraviglia della natura. E non lo dico solo per noi sapete! Lo dico per la storia dell’uomo. La sua scoperta cambiò tutto. Provate a immaginare la vita degli uomini primitivi senza il fuoco. Terribile! Il fuoco ci dà la luce, ci dà il calore, trasforma i nostri cibi, è simbolo di gioia, di vita. Quando arrivammo qui non riuscimmo subito a procurarcelo. Fu difficile all’inizio. Poi, grazie a Luca, con un po’ di esperienza e di pazienza abbiamo imparato ad accendere il fuoco. Oh, ma anche in altri modi lo sappiamo fare. Oppure c’è qualcuno che ancora non sa accendere il fuoco se si trovasse solo?»

Tutti si erano fatti attenti. Avvertivano che c’era qualcosa di importante da sentire. La pipa si era spenta, era finito il tabacco. Silenzio e attesa. La pulì appena e tossì per schiarire la voce.

«Già! Siamo senz’acqua.» Attese un attimo. «E con questo? Credete che questo problema non l’abbiamo avuto altri uomini prima di noi? Oh, sì! Qualcuno si sarà abbattuto, si sarà scoraggiato. Ma certo altri non si sono arresi, altrimenti l’umanità sarebbe finita. E’ il nostro caso. Non ci arrendiamo! In quest’isola vivono piante e animali da chissà quanti anni. Cosa vi dice questo? Potrebbero vivere se in qualche modo non riuscissero a procurarsi l’acqua? Sarà davvero una bella soddisfazione per chi riuscirà a scoprire una nuova sorgente. Perché c’è! C’è sempre una soluzione a un problema.»

«E’ vero!» esclamò Antonio battendo una mano sull’altra.

«Ragioniamo» propose Fabio.

«Oh!» sogghignò Paolo.

Fabio imperturbabile stava costruendo pietruzza su pietruzza il castello del suo ragionamento che infine espose.

«Che nell’isola ci sia dell’acqua lo credo anch’io...»

«La tua intuizione è tardiva. C’è dell'altro?»

«… però le piante hanno dei mezzi per procurarsela che noi non abbiamo.»

«E sarebbero?» chiese Guglielmo.

«Le radici.»

«E’ vero. La radici possono raggiungere la profondità di parecchi metri» concluse Rosetta.

«Non ci resta che osservare il comportamento degli animali che sono qui da prima di noi.»

«I maiali selvatici!» esplose Giuseppe che seguiva attentamente.

«Appunto.» Fabio aveva finito.

«Ho trovato!» esclamò Guglielmo.

«Sentiamo Archimede» ironizzò Paolo.

«E’ una cosa seria.» C’era elettricità a stento mimetizzata tra i due. «Ho capito perché i maiali li incontriamo solo nella savana, oltre la collina Letizia. Significa che solo lì possono abbeverarsi in qualche modo in tutte le stagioni. Significa che ci deve essere qualche sorgente, qualche pozza che affiora dal terreno. Là c’è l’acqua.»

«E’ esattamente quello che volevo dire» concluse Fabio, soddisfatto che il filo sottile del suo ragionamento fosse diventato talmente resistente e robusto da convincere tutti.

 LA COLLINA LETIZIA

Come tutte le mattine, Stefania annunciò il nuovo giorno.

«E’ giovedì.»

Era inverno inoltrato, secondo il loro calendario. Sulle prealpi venete, familiari e conoscenti passavano le giornate a sciare e forse neanche sapevano che in altre parti della terra, nello stesso momento, il clima era ben diverso. Erano questi pensieri che inorgoglivano Guglielmo, quella mattina, mentre guidava un gruppetto di esploratori verso la piccola savana.

Commentando un pensiero di Blaise Pascal, il maestro aveva spiegato, un giorno, che l’Universo contiene tutto, esiste, ma non lo sa; noi, infinitesima parte dell’Universo, siamo più importanti perché esistiamo e lo sappiamo.

Guglielmo era solo una piccola parte del loro gruppo, ma impegnato in una grande impresa. Per questo si sentiva importante. Non si risparmiava mai.

Erano partiti in dieci dal campo. Anche tre ragazze avevano chiesto di fare parte del drappello. Arrivati alla spiaggia che guardava la scogliera corallina, avevano preso il sentiero radente le pendici della collina Letizia e, in fila indiana, erano arrivati nella piana che pomposamente avevano battezzato “savana”. Qui si divisero in due gruppi.

«Non voglio le donne con me.» Guglielmo fu categorico.

«Non ti preoccupare, con te non verremmo comunque!» Carla fu piuttosto categorica. Le altre convennero.

Stefano, Daniele e le ragazze iniziarono ad esplorare la savana in lungo e in largo, secondo le disposizione del loro giovane capo.

«Noi tenteremo di salire sulla collina da questo lato, mi sembra meno impervio. State attenti, mi raccomando.»

«Anche tu.» Carla si era fatta audace, ma ubbidì.

Iniziata l’incerta e faticosa salita, il gruppo ben presto scomparve inghiottito dalla vegetazione.

Stefano, senza smentire la sua tradizionale calma, consultò i compagni sul da farsi.

«Spero che quelli non trovino niente lassù!» esclamò stizzita Sabrina.

«Bella soddisfazione! Morire di sete, ma in compagnia.» commentò Stefano.

«Stai zitta» le disse sottovoce Patrizia.

«Ssst…»

«Daniele, che c’è?» chiese Stefano, più con gli occhi che con la voce.

«Sentite?»

Sostavano a ridosso di una parete pietrosa, compatta, ricoperta da una meravigliosa spalliera di piante rampicanti con larghe foglie palmate, lucenti, di un verde intenso. Più lontano il paesaggio  era invece ben diverso. Il giallo imperava sovrano nel tremolio del riverbero che saliva dal terreno arido. Il crepitio delle erbe e delle canne che scoppiavano al sole cocente ricordavano a Daniele i giorni della mietitura, quando, scalzi, correvano per i campi sgombri alla ricerca, oltre i fossati, dei frutteti di stagione.

Il rumore captato era del tutto particolare. Ascoltarono anche gli altri. Si diressero cautamente nella direzione da cui provenivano sempre più chiari fruscii di canne e di giunchi spezzati, calpestati. In prossimità di un boschetto di acacie, scorsero una famiglia di maiali selvatici. In disparte se ne stava l’animale più grosso dalle robuste zanne, grufolava e raspava nel terreno sotto i sassi, le foglie, le radici. Attorno alla madre c’erano cinque maialini ormai svezzati.

«Che graziosi!» osò dire Carla.

«Che sporchi!» corresse Sabrina.

«Se avessimo uno specchio scopriremmo qualcun’altra in disordine» replicò Patrizia.

I ragazzi avevano cercato di fare il minimo rumore possibile, ma qualche bisbiglio di troppo doveva essere giunto alle bestiole che si incolonnarono e si inoltrarono trotterellando nella savana.

«Seguiamoli!» ordinò Stefano.

«Perché?» chiese Daniele. «Dobbiamo cercare l’acqua non i maiali.»

«Loro ci porteranno all’acqua.» Convennero che l’intuizione di Stefano era ottima.

Seguirono le tracce. Gli animali se la prendevano davvero comoda. Dopo un breve fuga si erano impegnati nuovamente a scovare tuberi e radici scavando e spostando con il muso ogni intralcio, intoppo, piccoli sassi.

Non c’era un filo d’ombra. Con le labbra screpolate, la gola secca, continuarono ad avanzare in ordine sparso. Cominciavano a dubitare della riuscita della loro ricerca. Qualcuna delle ragazze cominciava a stare in retroguardia, scoraggiata. Poi avvenne un fatto inatteso. La famigliola di maialini, come scossa da un improvviso richiamo misterioso, si scosse, scattò di corsa scartando a sinistra, nuovamente verso la collina.

Senza più alcuna cautela, Stefano e gli altri si diressero pure loro da quella parte.

«Almeno ci ripareremo dalla calura nella boscaglia» pensarono.

Gli animali procedevano sempre dello stesso passo, il maschio in testa, la femmina in coda.

Era trascorsa qualche ora da quando i due gruppi si erano divisi. Le ragazze non ne potevano più. Stavano avvicinandosi alla collina dalla parte opposta a quella iniziale. Stavano avvicinandosi al promontorio roccioso, con il suo faraglione, dal lato inesplorato. Da quella sommità, di solito, Robertino e Improvvisata passavano le loro ore di guardia della baia, vigilando sulla sicurezza dei compagni.

Il terreno dapprima ondulato incominciò a degradare progressivamente. Si trovarono in un avvallamento più profondo, a ridosso delle pendici della collina. C’era una palude melmosa. L’acqua c’era, bassa, torbida, inquinata. In mezzo alla pozza d’acqua, la famigliola di maiali si rotolava beata sollevando spruzzi di fango e mandando grugniti soddisfatti da fare invidia.

«Per acqua è acqua.» Stefano arricciò il naso.

Le ragazze erano senza fiato, per la stanchezza e la delusione. «Fatica inutile» concluse Sabrina.

Cercarono invano una sorgente, ma non trovarono alcun segnale favorevole, oltre altre pozze melmose. Evidentemente l’acqua, filtrando da sorgenti sotterranee, si raccoglieva in quelle depressioni, alla fine evaporando. Si avviarono delusi e tristi verso la boscaglia, alla ricerca di frutta dissetante. Erano stanchi del solito cibo, ma non avevano alternative.

Intanto l’altro gruppo continuava le ricerche sulla collina. Superato un costone di roccia di una certa difficoltà, incontrarono uno stretto corridoio posto su uno strapiombo. Aiutandosi con le sporgenze e le fessure, con molta cautela, superarono quel difficile passaggio portandosi su un terrazzo spoglio, privo di vegetazione. Erano spazi che in tempi non recenti erano stati trasformati da mano umana. Pietre e massi ammucchiati, anneriti e incisi indicavano il luogo in cui potevano essere esistiti dei ripari con focolari. Esplorarono attentamente il terrazzo, poi ripresero a salire. Il sentiero si era fatto più agevole, il terreno più arido e screpolato. Di buon passo raggiunsero la cima piatta e allungata della collina. I due spioventi erano assai disuguali. Quello verso la savana presentava vasti tratti di boscaglia fitta e verdeggiante, quello che volgeva verso l’interno dell’isola era impervio e arido. Dall’alto non riuscivano a scorgere la savana e l’oceano, mentre potevano, dal lato opposto, vedere la piana in cui si erano organizzati e la montagna.

Con l’esperienza che ormai tutti si erano fatti, intuirono subito che la zona non poteva rivelare presenza di sorgenti. Si sparpagliarono perciò sul versante in cui la vegetazione era ricca e florida, sperando di scorgere qualche segno, di sentire qualche suono amico.

Righello, spintosi più avanti degli altri, vide con sua sorpresa diramarsi un fossato, un manufatto, della profondità di un uomo. Era una scoperta inattesa. Procedette guardingo. Ancora non lo sapeva, ma era entrato in una trincea di guerra. Se l’avesse saputo si sarebbe ben guardato, prima di avventurarsi in un luogo che poteva essere tuttora pericoloso. Il cunicolo procedeva a zig-zag e si spingeva oltre i dossi che si notavano. Era stato scavato apposta dalla mano dell’uomo.

Sarà questa scoperta inattesa, per molti versi ancora oscura, che offrirà ai nostri amici la prima chiave per svelare i misteri che apparivano sempre più frequenti, ma sempre inviolabili.

IL PASSAGGIO SEGRETO

In un boschetto di araucarie, un gruppetto di ragazzi giocavano a scacchi con i pezzi in legno lavorato. Attendevano il ritorno dei compagni dalla missione.

«Qual è la cosa che desideri più di tutto?» chiese Luca a Giuliano movendo un alfiere.

«Una cascata di acqua gelata, e tu?»

«Una montagna di gelato.»

«Per me un fiume di aranciata con lastre di ghiaccio galleggiante.» Tutti dicevano i loro pareri, sempre più fantasiosi e sempre più freschi.

«Vorrei un pallone.» A parlare era stato Robertino, sempre solitario, stonato. «Ma uno vero» precisò impassibile.

Era un ingenuo, un istintivo, diceva e faceva quello che l’impulso gli dettava al momento, senza riflettere. Aveva precisato perché sapeva che nessuno gli badava. Aveva allungato il discorso spalancando gli occhi e la bocca simulando lo stupore che pensava di avere suscitato, attendendo una reazione. Si meravigliava lui per primo nel vedersi incompreso, perché le cose che diceva erano di una semplicità e di una chiarezza esemplari. Non c’era sotterfugio o inganno nelle sue parole. Era confusionario nei giochi, nella formazione delle squadre lo lasciamo come ultima scelta. Accade spesso che il semplice sia considerato sempliciotto e che il libero sia considerato indisciplinato. Non è vero.

Era sopraggiunto intanto Lupo che propose un nuovo piano.

«Ragazzi» esordì « dobbiamo assolutamente scovare il nostro amico.»

«Tan Kiù?»

«Esattamente.»

«Non possiamo perdere altro tempo. Se la missione oltre la collina fallisce sono guai. Dobbiamo incontrare il nostro misterioso ospite.»

«Non mi sembra il caso di soddisfare le nostre curiosità, in questo momento…» azzardò Luca.

«E’ proprio in questo momento che bisogna muoversi e alla svelta.» Il tono era serio e deciso. «Non si tratta di essere curiosi, che non sarebbe affatto male, si tratta di essere pratici.»

Si era fatto silenzio intorno. «Facciamo come Fabio: ragioniamo.» Scoppiarono a ridere, ma non Lupo. «Se Tan Kiù vive in quest’isola significa che ha trovato l’acqua. Finora abbiamo cercato di capire come fanno gli animali e le piante a sopravvivere in questo ambiente che riteniamo difficile. Sbagliato! Perché non cerchiamo di scoprire come fanno gli uomini? Come fa quell’uomo? Dobbiamo incontrare Tan Kiù.»

Dopo un prolungato silenzio, convennero che prima non ci avevano pensato, perché l’avevano considerato inesistente, inavvicinabile. Ora non c’erano altre scelte.

«Non parla nostra lingua ed è molto scontroso.» Fabio poteva dirlo.

«Ci sono cose che si possono dire e spiegare, anche senza parlare: con i gesti, con la mimica…»

«Mi sembra un tipo che no si lascia avvicinare, si sa mimetizzare benissimo.»

«Dobbiamo scoprire perché, ma prima dobbiamo scoprire dov’è.»

«Se è una persona civile…»

«Ma se vive qui non è civile.»

«Anche noi siamo qui.» Parole di Robertino, semplici e chiare. Guglielmo si volse al compagno spazientito. Ma poi convenne che era vero.

«Discutiamo pure, ma alla fine non ci resta altra scelta: dobbiamo trovarlo e comunicare con lui.»

Luca si offerse a guidare un gruppo di ricerca. Furono d’accordo sull’iniziativa. Con lui andarono Paolo, Lolita e Fabio. Altri partirono in direzioni diverse. Al campo restarono solo Lupo con Robertino e Improvvisata. Aspettavano i compagni usciti in missione. Se al ritorno non avessero trovato nessuno, avrebbero potuto andare incontro soltanto a grossi guai.

Il territorio che Luca e i suoi compagni avevano scelto per le loro ricerche era uno dei pochi ancora inesplorati. Era il terreno aspro e impervio, tutto scogliere e piccole insenature che Fabio, insieme a Ivan, aveva già visto dalla piroga, quando Tan Kiù era scomparso lasciandoli soli.

Si muovevano cautamente, appoggiando pure le mani al suolo. Stavano aggirando la montagna che impettita e massiccia affrontava a viso aperto le onde che si accavallavano senza tregua, infrangendosi sull’unico ostacolo che si ergeva sul loro cammino.

Il fragore del mare era a volte superato dal frastuono assordante degli stormi di uccelli oceanici che a volte si avvicinavano alla spedizione. Certamente, senza immaginarlo, disturbavano le loro covate.

Paolo sostò un attimo asciugandosi la fronte e girando lo sguardo intorno. Prese per mano la compagna e con l’altra indicò l’orizzonte profondo, le scaglie evanescenti di spume al largo, il tuffo dei cormorani. Vicino c’era un nido carico di piume da cui emergevano due becchi imploranti verso l’insolito rumore di passi.

Ai due ragazzi parve che tutto fosse silenzio intorno. Paolo la teneva per mano con grande tenerezza. Non sapevano perché, ma era bello.

«Ecco, è stato laggiù che Tan Kiù ci ha lasciati.» Fabio aveva scorto un segnale inconfondibile: il tronco secco, lungo e sottile, sporgente a novanta gradi. Sembrava un indice.

Un’alta parete di basalto si ergeva sopra la testa di Luca. Il ragazzo sbatteva continuamente le palpebre osservandola in tutta la sua orrida bellezza. Incuranti dei compagni che non li seguivano, movendosi con precauzione sulle lastre viscide, si portarono sopra il luogo indicato da Fabio. L’insenatura, stretta e sinuosa, penetrava nella montagna per alcune decine di “liane”. Proseguendo lentamente, addossati alla parete, scoprirono inconfondibili segni di presenza umana. Sembrava un luogo impossibile, o sconsigliabile, da raggiungere, ma evidentemente non era così. Soprattutto pensando a un uomo agile come Tan Kiù. Ai loro occhi stupiti apparve una scala scavata nella roccia. Assai titubanti, scesero guardinghi i primi gradini sdrucciolevoli. Fabio stava davanti, cercava tracce, quasi il filo interrotto con l’uomo misterioso. Luca, con l’unica lente, temeva continuamente di mettere un piede in fallo, si reggeva a fatica attaccato con le mani alla parete come fosse una ragnatela. Leggeri flutti, dopo aver scivolato su una roccia lavorata, liscia, posta a livello del mare, morivano senza fretta e senza urti in fondo al piccolo fiordo scavato da chissà quanti anni.

Luca stringeva gli occhi per vedere meglio, ma non succedeva. Mordicchiava il suo fazzoletto che poi ripassava inutilmente sull’unica lente.

«Andiamo via» borbottò. Aveva notato qualcosa di confuso, di inquietante.

Anche Fabio era ammutolito. Scesi sullo spiazzo roccioso, appena bagnato dall’onda morente, videro una caverna naturale. Per entrarvi chiunque avrebbe dovuto inginocchiarsi.

«Ho paura» sibilò Luca.

«Ormai ci siamo» si lasciò scappare Fabio, che di quei luoghi qualcosa aveva visto, ma non certo tutto. Inoltre aveva fiducia in Tan Kiù. In tutte le ore trascorse insieme aveva sentito di avere vicino un estraneo, ma non un nemico.

Era certamente il ricovero dell’uomo misterioso. Lo chiamò a gran voce. «Tan Kiù... TanKiù…»

Il suono rimbombò cupo nella caverna, ma nessuno rispose. Nessun rumore fu colto, tranne il rombo dell’oceano e il richiamo assordante dei gabbiani.

«Torniamo indietro.» Detto fatto, Luca si volse precipitosamente rischiando di scivolare in acqua ad ogni passo.

Pur con gli occhi fissi al fondo della caverna, anche Fabio cominciò a retrocedere. Rifecero lo stesso percorso. Trafelati, sudati, eccitati giunsero al punto in cui avevano lasciato Paolo e Lolita. Recuperarono la ragazza.

«Arrivo subito» disse Paolo. Ma si vedeva che non aveva lacuna intenzione di rientrare.

«Andiamo, andiamo.» Luca non vedeva l’ora di trovarsi in numerosa compagnia.

Alla sera quasi tutte le pattuglie erano rientrate al campo. Ultimo ad arrivare fu Lupo. Le spedizioni, come da molti temuto, avevano dato esito negativo. Solo la scoperta di Fabio e Luca suscitò vivo interesse e grandi discussioni. Fu stabilito di ritornare a ispezionare i luoghi descritti.

«Là aspetteremo Tan Kiù» concluse il maestro, poi crollò dalla stanchezza sul suo giaciglio di foglie. «Avvisami quando tornano» disse a Giuliano che era di guardia. C’erano avvisaglie di crepe nella disciplina di gruppo. Molti rientrarono tardi.

SOLIDARIETA’

Righello fece alcuni passi nella trincea appoggiando le mani alle pareti, quasi per accertarsi che era tutto vero. Superato il primo sbigottimento, spalancò la bocca per mandare un grido, ma ne uscì soltanto un flebile lamento. Accorse Antonio franandogli addosso. Poi giunsero gli altri.

Disteso, davanti a loro, scomposto, ma inconfondibile, c’era uno scheletro umano. Il teschio piegato da un lato, con occhiaia profonde. sembrava guardarli in modo beffardo.

«Dio mio!» sospirò appena Guglielmo con voce tremante. Gli eventi precipitavano, i misteri si infittivano, le risposte che cercavano si allontanavano sempre più.

Sandro e Gianni, con un balzo repentino, si erano già ritirati sulla difensiva, fuori dal cunicolo.

«Che vuol dire?» azzardò Antonio. Strani e cupi presentimenti cominciavano ad affollare la sua mente facendo presagire nuove disavventure.

Righello era sempre bloccato con le mani alle pareti, incapace di capire, di reagire. Poi si staccò, avanzò per primo superando un dosso, una curva. In una cunetta scorse un mucchietto di ossa calcinate, vicinissime, come se prima di morire la persona si fosse raccolta in posizione fetale. «Ecco ciò che resta di un uomo!» riuscì a dire Guglielmo. Per un attimo pensò alla parola come entità universale. Pensò anche a loro. L’avventura si presentava sempre più minacciosa e preoccupante per le sue incognite.

Avevano la pelle d’oca e, se uno si fosse dato alla fuga, senz’altro gli altri l’avrebbero seguito. Avrebbero voluto sparire, scomparire, rientrare senza fare rumore, senza farsi notare, senza risvegliare alcun fantasma o spirito inquieto.

Uscirono invece in fila indiana, alla luce intensa. Si guardarono intorno e videro con raccapriccio altri segni simili ai precedenti, sparsi, scomposti, ma inconfondibili.

Superato l’iniziale smarrimento decisero di andare avanti. Guglielmo in testa camminava a passi felpati come per evitare di svegliare qualcuno. Gli altri lo imitavano.

Dopo un centinaio di “liane”, su un dolce pendio erboso fecero un’altra scoperta davvero sconcertante. Contarono venti cumuli di terra e sassi, bene ordinati, alcuni con rustiche croci di legno, screpolate, scheggiate infisse al suolo. Era certo: si era imbattuti in un cimitero.

Abituati a chiedersi sempre il perché delle cose che via via conoscevano, cercarono di dare una risposta, un senso, un significato a questa nuova scoperta.

«E’ chiaro che qui sono vissuti e sono morti degli uomini» borbottò Righello. Erano sconvolti, non avevano mai visto e neppure pensato a eventi simili.

Guglielmo andò più avanti ancora e si interrogò.

«Come è possibile, Giuseppe, che dei cadaveri siano rimasti insepolti, vicino a un cimitero?»

Fattosi ardito, si avvicinò ad uno di quei mucchietti di ossa, attratto da qualcosa di metallico sporgente dalla sabbia. Si chinò e raccolse un portasigarette arrugginito. Facendo forza sulla levetta bloccata lo aprì. Dentro trovò una foto accartocciata, giallognola. Chiamò i compagni e guardarono. Vi erano ripresi un uomo alto, sorridente, una donna che teneva con ambedue le mani un cappellino di paglia, davanti due bimbetti giocavano a terra. Tutto lasciava pensare che, tutto ciò che un giorno era stato un uomo giovane, forte, contento, ora giaceva là inerte, dissolto tra le basse erbe della collina.

Aveva letto Salgari. Per un attimo pensò di essere capitato paradossalmente in uno degli scenari decritti dallo scrittore veronese. Pensò a Sandokan. A cosa potevano mai pensare di più tragico, di più fantasioso?

«E’ una crudeltà!» esclamò colto da una improvvisa rabbia, perché si stava sempre più convincendo che qualcosa di terribile era successo in quel luogo. Lo sconvolgeva l’idea che si fosse fatta una distinzione, una cernita per la sepoltura. Non c’era stata misericordia e non lo accettava. Questo pensiero sovrastava qualsiasi altro, anche quello di capire perché molte persone erano morte insieme, contemporaneamente. Parlava a voce alta.

«Non morte!» precisò Antonio. «Uccise.» E indicò un foro nel cranio che gli stava di fronte. «Non si muore in tanti così, per caso.»

Torneremo con Lupo, daremo sepoltura a tutti, poi ci spiegherà cosa è successo, come è successo.

Si erano scordati il motivo della missione. La ricerca dell’acqua? Era diventato un fatto secondario. Anche il vivace Righello era scosso, trasformato da quello spettacolo impressionante.

«Torniamo al campo!» ordinò Guglielmo.

Fu allora che sentirono Sandro lamentarsi, come colpito da un dolore improvviso, prima di scoppiare in un grido terribile.

«Aiuto! Aiuto!»

Accorsero tutti in direzione del grido.

«Che è successo? Dov’è Gianni?»

Mentre chiedevano si sporsero sull’orlo del burrone e scorsero riverso su un cespuglio il corpo supino di Gianni. Immobile.

«Dio mio!» balbettò Guglielmo. Gli altri erano senza parola.

Era la giornata più dolorosa e difficile della loro straordinaria storia.

Gianni giaceva a una quindicina di “liane” più sotto. Ascoltarono tendendo l’orecchio. Sì sì! Era vivo. Sentirono i suoi flebili lamenti. Era un pianto di disperazione più che di dolore. Il ragazzo si vedeva in trappola. Non poteva risalire con le sue sole forze. Giù? Poteva solo precipitare in un ghiaione friabilissimo che l’avrebbe travolto.

Il cespuglio provvidenziale aveva frenato la caduta. Ma non era affatto stabile, sicuro. I ragazzi si guardarono in faccia. Non era mai capitato di dover prendere una decisione importante da soli, senza consiglio o suggerimento. C’è sempre una prima volta. Non bisogna sbagliare. E’ una occasione che ti segna per sempre. Non c’erano adulti, non c’erano libri, non c’erano esperienze. Dovevano agire al meglio. Misero alla prova forza, coraggio, prudenza. Ma sono situazioni impreviste, forti che risvegliano valori, capacità, intuizioni sopite, inimmaginabili.

Guglielmo, soprattutto, sembrava trasformato. Cercò di incoraggiare gli altri, di scuoterli dall’inerzia e dallo sbigottimento. Poteva toccare anche a loro. Ci voleva innanzitutto calma. Il ragazzo lo capì immediatamente. Parlò a Gianni con voce ferma, tranquillissima.

«Ehi, Gianni, che fai?» E dopo un attimo di attesa parlò con voce ferma. «Tieniti forte, arriviamo!»

Righello si muoveva in continuazione. Soffriva, ma non sapeva cosa fare. Parlò Guglielmo con grande calma. Aveva deciso.

«C’è una sola via per salvarlo. Bisogna scendere a valle e risalire lungo il ghiaione con prudenza, senza provocare frane.»

Non potevano andare tutti. Dovevano arrischiare il meno possibile.

«Tenterò!»  esclamò Guglielmo con un filo di voce. Era un ragazzino trovatosi in condizione di responsabilità per gli altri senza alcuna preparazione, tranne una sua innata disposizione al servizio. Scoprì in quel momento cosa significa essere solidali.

«Tutti non possiamo andare. Vieni con me, Antonio? Se mi succede qualcosa correte subito a cercare Lupo.»

In silenzio si mossero in due.

Trovato un punto favorevole, cominciarono la discesa. O meglio a calarsi giù. La parete era ripida, laterale al ghiaione battuto dal sole. Il cielo era terso, sgombro di nubi, percorso incessantemente da voli e da richiami.

Guglielmo aveva corrugato la fronte. Era determinato. Aveva deciso che nessuno, in quel momento, poteva fare meglio di lui. Era anche il più robusto e determinato del gruppo.

Martellante, incessante, una voce rintronava dentro di lui. Lo devo salvare, lo devo salvare, lo devo salvare… lo voglio, lo voglio, lo voglio… Si sentiva responsabile. Questa crescita interiore sarebbe stata per sempre.

«Ad ogni costo!» Pronunciò queste parole a voce alta, con determinazione.

Ogni appiglio, ogni arbusto, ogni radice erano preziosi. La discesa era faticosa, soprattutto per il controllo dei nervi e della paura. Guglielmo apriva la via, Antonio seguiva lento e fiducioso. Dopo un  tempo che sembrava non finire mai, toccarono il fondo, la base del ghiaione. Era una parete inclinata, un cumulo di sassi, pietrisco, scaglie rocciose staccatesi dalla parete. Era un terreno senza alcuna solidità o sicurezza, ma, con tutte le cautele possibili, era quella l’unica via da tentare per raggiungere il compagno intrappolato.

Guglielmo, pur provato dall’impervia discesa, sentiva sufficiente energia e volontà per riprendere la salita da un altro versante. Erano entrambi seduti a riprendere fiato, coperti di sudore e di polvere, lo sguardo smarrito. Poi il ragazzo si alzò, scosse la polvere. In realtà voleva sgravarsi da ogni dubbio, da ogni titubanza. Cercò di orientarsi, di scegliere bene il punto di attacco.

«Aspettami qui.» Poi indicò al compagno la via più  breve per ricongiungersi ai compagni, nel caso gli fosse successo qualcosa.

«Che cosa?» chiese Antonio.

«Qualcosa, non si sa mai.» Non volle aggiungere altro. Gli batté una mano sulla spalla. Gli passava idealmente il comando.

Respirò a fondo e attaccò la salita. L’impresa apparve subito davvero ardua. Fece però in tempo a pensare che la discesa con Gianni ferito sarebbe stata un’impresa.

«Un problema alla volta» si ordinò. «Altrimenti non si comincia mai.»

Dall’alto, dalla cima della collina, gli altri osservavano Guglielmo salire lentamente. Guardavano con apprensione e con ammirazione il loro compagno impegnato in uno sforzo difficile e pericoloso.

Ad ogni piccolo passo smuoveva sassi che rotolavano precipitando trascinandone altri. Gli occhi di tutti erano inchiodati sulla sagoma che sembrava incollata alla parete mentre cautamente saliva verso il cespuglio dove lo attendeva Gianni sfinito e impaurito. Non poterono calcolare quanto tempo Guglielmo ci mise a raggiungere il compagno sopra il ghiaione, ai piedi dello strapiombo. Certo la loro attesa non era stata meno penosa. Nel tremolio del riverbero sembrò loro di distinguere il momento in cui Guglielmo con le mani protese raggiunse il cespuglio. Mandarono un grido di gioia, ma rimase loro strozzato in gola. Fu un attimo e non videro più nulla. Una nube, come scoppiata, in alto, irruppe nell’aria, dilagò, s’ingrandì scendendo rovinosamente a valle. In un inferno di pietre, ghiaia, terra smossa videro una valanga franare a valle. In mezzo c’erano Guglielmo e Gianni. Come per un lampo li videro un attimo avvinghiati, solidali, nella buona e nella cattiva sorte.

Muto, spaventato, Antonio fece appena in tempo a sottrarsi al bombardamento di sassi che precipitavano a valanga. Si fece il segno della croce.

Quando fu tutto finito, la polvere si sollevò quasi risucchiata da una corrente calda. Antonio vide una scena che certamente mai più avrebbe dimenticato. Con ampi gesti chiamò i compagni e mostrò loro la via per scendere a valle.

«Presto presto presto .. aiuto aiuto aiuto… venite venite venite.»

Gridava a perdifiato, chino sui due compagni rovinati giù ai suoi piedi.

PRIMI SOGNI

 Quando al paese nevica è festa grande. E’ così raro. E quando succede è festa breve, intensa, gioiosa, come tutte le novità. Poi il freddo umido livella tutto, conduce tutto al consueto tran tran di chi vive in un paesaggio immutato da sempre. In apparenza immutabile. C’è voglia di vedere cose nuove, provare sensazioni nuove!

L’anno scorso è nevicato, ai primi di gennaio, chissà se quest’anno si ripeterà! Non era tanto la voglia di neve, ma l’attesa per qualcosa di cui si cominciava a sentire il bisogno, di cui si intravedeva lo spiraglio. E’ come quando si allunga il collo per vedere cosa c’è oltre una siepe, una finestra, un ostacolo che avverti di poter finalmente superare. Allunghi il collo e provi a indovinare, a pensare.

In via Calcroci e in via Brentasecca ci sono filari di viti ben allineati, salici selvatici lungo i fossati. Siamo in aperta campagna. Lunghe e sicure piste di ghiaccio erano lì ad attenderli. Rossi in viso e soffianti come mantici, d’inverno, avevano a disposizione meravigliose piste di ghiaccio su cui scivolare con slittini di fortuna e con “sgalmare” chiodate. Si superavano i confini soliti dei giochi, si incontravano altre bande di ragazzi. Che dolori, che sorpresa il freddo delle vacanze natalizie!

Paolo correva e slittava come tutti. Ma Paolo era anche un poeta. Aveva già ricordi. Aveva già speranze da districare, da precisare. Certo gli occorreva un aiuto. In quei giorni, riusciva per brevi attimi a scrutare ciò che succedeva attorno, quando spossato, di fermava a prendere fiato. Si accorgeva degli scriccioli e dei pettirossi scattanti, disturbati dalla loro invasione, infrattarsi nei cespugli innevati o coperti di galaverna; vedeva l’orma dei passeri lungo i muretti interrotti da una trappola nascosta sotto una crosta di pane.

Quando nevicava forte anche i ragazzi restavano in casa, guardavano dietro i vetri i lumi tenui delle case vicine, eppure in apparenza così lontane, avvolte da uno sfarfallio incessante di nevischio.

Lì, al caldo dei tropici, Paolo riusciva a rievocare simili ricordi. Uscì in un sospiro e in un sogno ad occhi aperti. Coraggioso, ardito, convinto.

«Un giorno avrò una casetta.»

Fu sorpreso lui stesso, ma continuò. Sarà bianca, sarà di legno, avrà tre stanze. Sui davanzali fioriranno gerani rossi. Avrà una pergola davanti. E tu sarai sulla porta a salutarmi. Chi? Non lo sapeva ancora del tutto. Ma era questo che si accingeva ad attendersi dalla vita. Poi chissà! E’ questa l’età in cui i più maturi cominciano a sognare ad occhi aperti, a piantare traguardi lontani che a  volte raggiungono. A volte no. Ma senza tracce da seguire è comunque tutto più difficile.

Questo era Paolo in quei giorni, che a volte parlava, a volte non rispondeva, impegnato sempre a scrutare lontano. Distratto. Inciampando sul mondo che aveva intorno.

A mezza costa della montagna, nel folto della foresta,  si apriva una radura. Là cresceva solitaria una maestosa magnolia. In un’escursione, qualche settimana prima, aveva scoperto quel luogo tranquillo, solitario. Il tronco gigantesco, screpolato e antico, reggeva tuttora maestosamente una fronzuta chioma, bella da ammirarsi, invitante. I suoi rami a monte toccavano il suolo. Quell’albero trasmetteva sensazioni di grande protezione, ospitalità, rifugio. Lo elesse luogo e compagno di meditazione, di riflessioni.

Salì, raggiunse facilmente il cuore dell’albero, come la prima volta che ci aveva provato. Come le volte successive, quando, da solo, era ritornato. Vi aveva costruito una capanna di canne, di rami per imprimere nella mente, e manifestare, il succo dei suoli pensieri di quei giorni. 

Era attorniato da grandi, lucenti petali bianchi. Scaglie blu giungevano tra le fronde ai suoi occhi sognanti di adolescente in fiore. Costruiva un sogno, dava uno dei primi tocchi personali a quel grande dipinto che è la vita. Più pennellate personali riesci a scegliere, ad imprimere nella tua tela, più la tua vita sarà responsabile. Non lo sapeva, agiva d’istinto. Lupo avrebbe dovuto essere lì, a fargli un cenno di capo, a dirgli: sì!

Silenzio intorno, e il rombo del suo cuore. Era bello, era tenero, era vero.

Parlava sottovoce, come se si rivolgesse a qualcuno. Ma non c’è nessun’altra persona? Avrebbe chiesto chi avesse visto la scena. Ma per lui c’era un’immagine, una giovinetta, certamente bellissima, perché le sorrideva. Vedeva una ragazzina con grandi occhi neri, con treccine nere sulle spalle che lo ascoltava estasiata.

Nessuna delle sue compagne era lì in quel momento, di ognuna aveva scelto un tocco, stava costruendo il suo ideale femminile con cui intrecciare percorsi, sia pure in  salita, come quei luoghi, ma insieme. Impossibile allora! Ma fin tanto che non lo sai, vai, Paolo! E’ bello comunque. Avanti ragazzi! Non fermatevi nei sogni.

Poi succede. Può succedere. A molti, con gli anni, potrà succedere di riconoscere orme già viste, approdare a rive conosciute, eppure nuove, inesplorate. Agognate.

Verso la fine delle scuole elementari, capita ai ragazzi di azzardare sogni come questi. Date una mano, educatori! Con dolcezza.

Non mangiò quel giorno, era sazio di felicità, di sogni liberi. Nel tardo pomeriggio, scese piano piano e prese la via del ritorno. Scacciò i fastidiosi insetti di cui fino allora non si era accorto.

Il sole era ormai basso quando rientrò al campo e trovò i compagni presi da ben altre preoccupazioni e trepidazioni.

LUPO

Il mattino seguente, ignaro di tutto, Lupo convocò i ragazzi ai piedi del baobab.

Serpeggiava in alcuni un certo malumore, perché non si trovava l’acqua. Tutte le piste erano state battute, tutti i luoghi accessibili esplorati. C’era ancora una speranza risposta nella spedizione che non era rientrata. Il ritardo tuttavia era poco promettente. Lupo attese di parlare, aspettò che ci fossero tutti, che fosse cessato ogni mormorio. Poi parlò lentamente. Nessuno fiatava.

«Temo che non riusciremo a trovare l’acqua.»

Si guardarono in faccia. Giuliano non voleva  crederci e lo disse.

«Non è possibile. Qui parliamo e basta.»

«Dobbiamo cambiare strategia. Dobbiamo assolutamente metterci in contatto con Tan Kiù. Dobbiamo rischiare.»

Lo sguardo attento a captare le reazioni dei ragazzi colse l’interesse di chi aveva già avuto contatto con l’uomo misterioso

«A che serve?» brontolò Endrio, il biondino. «E’ una persona che si sottrae, forse ci è ostile.»

Fabio fu di tutt’altro avviso.

«Tan Kiù, o come diavolo si chiama, non è da bere, ma è la nostra unica speranza. Se vive qui significa che l’acqua c’è, lui sa dov’è. Con te parlerà, ne sono sicuro.» disse rivolgendosi al maestro.  «Troviamolo!»

«Lo penso anch’io. Lo cercherò. Andrò da solo. Il problema ora non è qui. Starò fuori un po’ di tempo. Devo tentare, devo riuscire, lo capite vero?» Parlava a strappi, a monosillabi, per dire soltanto l’essenziale.

Dopo una pausa di riflessione, fece loro le ultime raccomandazioni. Non c’erano alternative.

«Durante la mia assenza, non allontanatevi troppo dal campo, sospendete la vigilanza sulla vetta della montagna, muovetevi in gruppi di tre, a turno, e solo per cercare cibo. Alla sera rientrate presto nelle vostre capanne. Tenete conto di ciò che già sapete, delle esperienze fatte, state calmi.»

Voleva aggiungere altre cose, siate prudenti! Abbiate giudizio! Ma a quel punto non era più necessario. L’essenziale era stato detto. Le regole c’erano. Ora era questione di volontà e di capacità.

Da qualche giorno Lupo era inquieto. La sua era stanchezza fisica. Le fatiche, le ricerche, le marce, gli spostamenti stavano intaccando la sua resistenza, ma soprattutto il suo ottimismo. C’era una stanchezza interiore che cominciava a minare la sua iniziale sicurezza, la sua voglia di sperimentare nuove vie che vedeva restringersi e chiudersi sempre più. Con i ragazzi poteva discutere fino ad un certo punto. Alla fine la responsabilità dell’iniziativa, della proposta, della verifica era sua, soltanto sua. Non aveva parametri di confronto, esperienze precedenti simili, ardite e innovative. L’ansia, i dubbi, la mancata immediatezza di decisioni faceva a volte vacillare il gruppo, lo faceva ondeggiare, trepidare oltre il dovuto, il necessario. Egli era il termometro, doveva segnare una temperatura esatta, ferma, non oscillante. I suoi umori, i suoi atti erano determinanti nel creare nei ragazzi una atmosfera di serenità oppure di incertezza, di allegria oppure di paura. Loro lo guardavano e capivano, leggevano tante cose, ottenevano tante risposte. Sentiva gravare su di sé il peso della responsabilità. Doveva difendere la loro incolumità, doveva vigilare sul loro sviluppo fisico, sul loro equilibrio psichico, tenere conto di tante sensibilità, intelligenze, volontà, capacità diverse.

Si scosse. Alzò la testa. Fiducioso del grado di maturità dei suoi ragazzi finora dimostrato, spinto dalle esigenze, bisognoso di un momento di riflessione nella solitudine, decise di mettere alla prova la piccola comunità.

«Vado ad incontrare Tan Kiù» disse. Ma era anche ansioso di verificare il loro comportamento, il livello di maturità raggiunto. Era un ambiente nuovo, mai sperimentato prima? Ogni giorno è nuovo, mai visto prima.

Aveva un concetto molto preciso sulla sua funzione di maestro. Doveva condurli ad essere autosufficienti, a non avere bisogno di lui. Senza correre allo sbaraglio.

L’educatore è un creatore di libertà. Era giunto a queste conclusione, dopo lunghe riflessioni. Gli era costato molto convincersi di questo. Non è facile rinunciare al piacere di vedersi riflessi negli altri. E’ un modo sottile, insidioso di perpetuare proprie convinzioni, di consolidare proprie influenze, per mantenere arbitrariamente in vita, come originali, idee personali. L’originalità delle idee non ammette copie.

«Devono essere ciò che, sia pure confusamente, già sono. Devo solo mettere ordine, ripulire ciò che intralcia il loro percorso di crescita, fare in modo che emerga, in tutta la sua integrità e originalità, l’irripetibilità della loro persona. Non devo creare modelli per loro, devono sviluppare la loro personalità come già è.»

L’ambizione, l’orgoglio, la superbia, la vanità, la mancanza di vocazione possono provocare danni irreversibili. L’educazione viene a volte sacrificata a vantaggio dell’istruzione. Le due discipline dovrebbero procedere insieme, come le gambe di una stessa persona.

Questi pensieri gli tambureggiavano nella mente, mentre si tergeva il sudore, lungo l’erta insidiosa. Costeggiò la montagna seguendo un pendio facile, osservando ogni segno, ogni ramo spezzato ogni pietra rimossa, forse dal vento, per scoprire una traccia, una testimonianza, una presenza. Cercava Tan Kiù. Cercava, verificava la validità dei suoi insegnamenti.

«Che esista davvero, poi?» E se non fosse? Grave dilemma!

E se fosse una allucinazione dei ragazzi? Ma c’erano troppi segni che demolivano i suoi dubbi: lo sparo, la piroga, il racconto dettagliato dei due ragazzi e, a ben pensarci, solo ora ricordò, la medicina che aveva aiutato Lolita a rimettersi in piedi.

Mentre si spostava cautamente, fu attratto da un pigolio frenetico che saliva da una nicchia appena sotto il costone di roccia su cui si stava muovendo. C’era un nido di albatros. Vedeva il collo lungo di un pulcino, proteso in  avanti a chiamare il cibo. Era implume, inesperto, affamato, simpatico e commovente, come tutti i piccoli degli animali del mondo. Un giorno si sarebbe gettato a picco sul mare sottostante. E quel giorno dovrà essere sicuro di saper volare, altrimenti non avrà scampo. Chi gli darà il segnale? La madre? L’istinto naturale? La fame? Il desiderio di libertà? Il coraggio o la paura di non farcela mai? Anche per l’uomo è così. Nessuno può stabilire il momento esatto in cui un bambino impara a camminare, a parlare, a pensare, ad andare da solo con sé stesso in mezzo agli altri. Dovrà essere capace, in quel momento.  Ci sono segni premonitori, poi succede. Non ci possono  più essere ritardi, errori, rimpianti.

Un po’ più avanti, tra le fessure e le crepe di una roccia basaltica, una piccola pianta a lui sconosciuta, stava inaridendo. Era quasi un miracolo che avesse potuto mettere radici e crescere in quel luogo. Come è strana la vita, anche per le piante! A pochi passi c’era l’umida, fertile terra del sottobosco. Ma le piante non hanno passi da spendere. Il seme caduto dal becco di un volatile, o trasportato dal vento, era caduto proprio là, in quella fessura a strapiombo sul mare. Era un magro, misero tronco dai rametti contorti, piegati in aderenza alla montagna. Alla dura roccia chiedeva protezione, sostegno, nutrimento. Ma anche la roccia è debole, è friabile, è soggetta ad altri eventi atmosferici che tutto modificano, cambiano. Le radici erano scoperte. Lunghe, pendenti, sottili esauste. Quel seme non si era scelto il luogo in cui nascere, ma, una volta nato, aveva lottato con tutte le sue forze, le sue risorse per poter ben figurare in questo mondo difficile. La sua bella figura l’aveva fatta fin da subito. Chissà se gli alberi sanno dire “evviva!”. A suo modo l’avrà detto di sicuro quando, aprendo gli occhi al sole nascente, ha scorto per la prima volta l’immensità del cielo e dell’oceano, e la frescura della foresta vicina, e il brulicare dei voli tutto intorno. Ma lei, piccola piantina, era tutt’altra cosa. A lei era riservata un’altra storia, e non per sua scelta. Si organizzò al meglio. Aveva saputo ben figurare.

Bianchi, sottili, appesi a tante piccole piume, i suoi semi, spinti da una leggera brezza marina, salivano più su dove la terra è buona per crescere sicuri e forti. Anche quella piccola esistenza era stata utile per conservare una specie che sarebbe rifiorita più avanti, e poi ancora. Quante cose aveva ancora da insegnare ai suoi ragazzi, prendendo esempi, spunti, suggerimenti dal mondo steso intorno come un libro spalancato.

Maestosi uccelli marini, che i ragazzi avevano paragonato alle sule, volavano basso, si tuffavano a capofitto, pescavano facile. Non erano sule. Assomigliavano molto. Le avevano incontrate studiando le scogliere delle isole britanniche. Potevano esserlo, bisognava approfondire, ma non in quei momenti. Quando l’attenzione è altissima, non bisogna distrarre, spezzare il filo conduttore unito all’ago penetrante della curiosità che si spinge a cercare, a capire. Il tempo di mettere a fuoco verrà dopo. Nella loro tumultuosa storia non sempre c’era precisione. Il loro palpitante cammino alla conquista della conoscenza non doveva essere sviato da una mano alzata che, pignola, esigeva, precisava rompendo il silenzio, la trama, il gusto complessivo. Bisognava lasciar fare. Importante era saperlo. Ricordarsi. Non si doveva distruggere la voglia, la semina. Il ripensamento frettoloso, una messa a punto puntigliosa in un momento sbagliato possono essere inopportuni, perché possono significare deviazione dal percorso, fine dell’avventura, della ricerca, smarrimento dell’orizzonte, del traguardo. La verifica sarebbe venuta in un secondo tempo. Era obbligatoria. L’aveva spiegato ai ragazzi.

«Non fidatevi di me, non fidatevi della prima impressione. Controllate sempre. Lo faccio anch’io.»

Aveva ricordato loro Galileo che aveva messo ordine in molte conoscenze capovolgendo lo scibile umano, fino all’ora creduto perfetto. In buona fede, prima di lui, gli scienziati avevano sbagliato. Dopo, non sarebbe stato più accettabile. E’ la terra che gira, non il sole! E’ l’acqua che serve, ora. Non il superfluo. Poi, per il resto si vedrà, si discuterà.

Era disceso pian piano verso il mare. Aveva davanti a sé le scogliere di cui avevano parlato Fabio e Ivan. Erano luoghi che non aveva mai visto, ma che gli sembravano familiari. Riprese a scendere. Poi, ad un tratto, dall’alto di un torrione, sopra un’insenatura, vide qualcosa che gli diede un tuffo al cuore. Dei rottami di legno galleggiavano sulle acque chiare di schiuma. Osservò attentamente e non ebbe più dubbi: erano i resti di una barca sfasciata. Arrivò in fondo e si rese conto che la sua missione stava diventando ancora più difficile: aveva di fronte la piroga di Tan Kiù. Distrutta! Restò ammutolito a guardare quei segni che tanto aveva cercato e che ora erano soltanto segnali di abbandono.

UNA NOTTE DI PAURA

 essuno avrebbe immaginato che l’insignificante rientranza che si scorgeva a pelo d’acqua nascondesse una grotta. La mimetizzazione naturale era perfetta e solo fortuite circostanze potevano rivelarne l’esistenza. Lupo si trovava ora sul piccolo terrazzo a livello del mare, scoperto dalla precedente spedizione. Era deserto e inondato dall’acqua della montante marea. Con l’acqua alle ginocchia, avanzò fino all’entrata bassa e buia. Si chinò per meglio osservare, capire. Buio fitto e il più assoluto silenzio! Fuori era tutto ben altro. Rombo dell’oceano, grida di gabbiani, sciabordio incessante di acque risalenti. Gli scoppiava la testa per i frastuoni, per i contrasti, per le decisioni impreviste che doveva prendere. Tornare indietro? andare avanti? Senza accorgersene, cominciò a parlare a voce alta. Appoggiò la mano destra alla parete della montagna e gridò verso l’antro con quanto fiato aveva in gola: oh! oooh!

L’eco della sua voce rintronò nella caverna scuotendo dalla loro quiete nugoli di pipistrelli. Fu l’unico segno di vita che ebbe in risposta. Eppure vi erano tracce evidenti e fresche di presenza umana. Pure nella penombra, scorse all’interno tracce di fumo sulle pareti, incisioni sulla roccia. Raccolse un bastone intagliato, notò rifiuti accatastati. Decise di entrare, prima che la marea chiudesse temporaneamente l’apertura della grotta. S’immerse nell’acqua e varcò la soglia.

Un’aria umida, fredda, ammuffita lo colpì in pieno. Il rombo dell’oceano gli giungeva attutito. Ebbe per un attimo la sensazione di essere in trappola. Intanto l’acqua  saliva ed entrava nella grotta.

«C’è qualcuno?» L’interrogativo gli parve obbligato e ridicolo. Tese l’orecchio. Dall’interno, silenzio assoluto.

Non erano state del tutto inutili le sue parole. La sua voce, ripercuotendosi nelle volte della caverna, gli diede l’idea dell’ampiezza di quell’antro che poteva, doveva! essere conosciuto da Tan Kiù. Uno spiraglio di luce che ancora entrava e l’assuefazione al luogo gli permisero di individuare alcuni particolari del suolo e delle pareti. Delle stalagmiti si ergevano verso l’alto come tanti paracarri appuntiti. Furono le prime e uniche cose che poté individuare con certezza. Dall’alto della volta, a ritmo regolare, gocce perpendicolari stillavano frantumandosi al primo contatto.

Si convinse che da qualche anfratto buio Tan Kiù lo stesse spiando. Per un attimo temette per la sua vita. Chi mai l’avrebbe cercato in quel luogo? E che gli importava, poi, se l’avessero trovato stecchito?

L’acqua saliva inesorabile. Doveva decidere se restare o fuggire, tornando sui suoi passi. Aveva poco tempo per decidere. L’entrata era quasi del tutto sommersa.

Decise di restare, era lì per quello: per scoprire chi era, cosa sapeva, cosa poteva fare per loro il misterioso abitante solitario dell’isola. Sarebbe uscito con la bassa marea. A meno che una coltellata tra le costole non avesse cambiato i suoi piani. No! Si vergognò di avere pensato a questo, e si incoraggiò. Se Tan Kiù avesse voluto far loro del male l’avrebbe già fatto. Non l’aveva fatto! Ma, allora perché si nascondeva, si negava così decisamente?

Aguzzava gli occhi, inutilmente. Tastava con le mani e con i piedi brancolando. Tutti i suoi sensi erano all’erta. L’unico a dargli informazioni e conoscenza era l’odorato. Coglieva solo il fastidio di muffe, di mucido. Nessun spiraglio d’aria. Si sentì solo al mondo, ed ebbe paura.

«Aiuto!» gridò.  «Vieni fuori, uomo!»

La sua voce, tradotta in echi lo spaventò ulteriormente. Capì l’orrore della solitudine e dell’abbandono. Mosse qualche passo, gli mancò la terra, ruzzolò per alcuni metri e cadde addosso a qualcosa di vivo, che si mosse e gridò a sua volta.

«Beee!»

«Aiuto!»

Che stava succedendo? Una capra, sbalzata dal suo strame, si stava lamentando nell’unico modo possibile. Lupo le rispose. Ma la bestiola non conosceva il suo nome.

Ormai rassegnato ad ogni sorta di sorprese, il maestro cadde sulle ginocchia in segno di resa, ma, con un ultimo barlume di speranza, anche per toccare, capire. Si trovò seduto. Mise il capo tra le mani, per trattenere, per comprimere pensieri e tumulti. Una lunga notte lo attendeva. Aveva cercato un uomo ed aveva incontrato una capra.

Le ore non passavano mai. Aveva perso la cognizione del tempo e dello spazio in cui si trovava. Lo stillicidio continuo, inconfondibile, martellante, all’inizio causa di irritazione, gli faceva ora compagnia. Le gocce che cadevano sulla stalagmite, ad un palmo dal suo capo, sembrava uscire da un contagocce tarato: tre cadevano veloci, poi una pausa, poi una, pausa, poi daccapo. Cose che gli sarebbero sembrate insignificanti in altri momenti, tenevano tese e impegnate tutte le sue sensibilità ed energie. La paura, ma anche la speranza, di sentire un rumore diverso, un fiato, un tocco lo tenevano desto in spasmodica attesa. Lo scalpiccio dell’animale lo rincuorava non poco. La tranquillità della capra era un segnale che avvertiva e riceveva positivamente. Si ricordò che gli animali avvertono prima degli altri i pericoli. Si distese, si rassicurò, cercò di risposare. L’umidità penetrava nelle ossa e disturbava non poco. Si rannicchiò, appoggiò il capo su un braccio in attesa del giorno. Si riscosse più volte, sudato ed eccitato; infine, senza accorgersene, cadde in un sonno profondo.

Ebbe una notte piena di incubi, con assalti di mostri indecifrabili che diventavano alternativamente lancieri a cavallo, ombre minacciose, diavoli. Aprendo gli occhi, dopo quella notte agitata, vide a pochi centimetri un diavolo in carne ed ossa, con tanto di corna, barbetta e occhi di fuoco. Ci volle un po’ di tempo per rientrare in sé e fare conoscenza con la sua compagna di stanza. La capra, che stava allattando tre capretti, lo stava guardando e annusando. Probabilmente, se avesse potuto farlo, non avrebbe avuto in quel momento pensieri di curiosità e di sospetto tanto diversi da quelli del suo inquilino, che la stava guardando ammutolito, con occhi gonfi e sbalorditi.

«Ah, sei tu!» disse infine Lupo, rassicurandosi alquanto.

Si alzò con le ossa rotte dalla stanchezza, dalla tensione e dall’incomodo giaciglio.

«Buon giorno!» gridò. Era un saluto, ma era anche un augurio che dava sé stesso.

Eh! Era un bel giorno davvero, e quindi doveva essere buono, pensò. Un fascio di luce, riflesso sull’acqua, entrava tremolante, ma deciso, illuminando la grotta. Girò lo sguardo intorno, senza fiato. Forme e riflessi incantevoli davano forma e calore alla grotta. La bellezza è speranza, è armonia. Facile da contemplare, in silenzio.

Si trovava in una grotta naturale, certamente antichissima. Meravigliose stalattiti pendevano dal soffitto, mentre dal pavimento roccioso cosparso di stalagmiti si innalzavano numerose colonne calcaree che già aveva intravisto entrando. Che meravigliosa lezione dal vivo per i suoi ragazzi! Il posto era però difficilmente accessibile per tutti, specie per le ragazze. Guardò bene tutto intorno per descrivere e raccontare. Era un modo per prendere contatto, ma anche per dominare il disagio iniziale. Si sentiva sempre più sicuro, perché ebbe tempo di ammirare. La luce del sole e il riflesso ondulato dell’acqua davano ai cristalli delle pareti l’immagine di un gigantesco scenario con drappi azzurrognoli, verde smeraldo, giallo cupo, bianco, grigio perla, rosso corallo. Stentava a credere ai sui occhi.

Nella nicchia dove era precipitato, intanto la capra allattava tranquilla i suoi piccoli.

«Da dove diavolo salti fuori? » si domandò. «Nell’isola non abbiamo incontrato capre o pecore.» Poi scherzò persino: non sarà per caso un diavolo davvero?

«Beee!» gli rispose l’animale, quasi a garantire la sua autenticità.

Rinfrancato decise di ispezionare la grotta. Un pensiero improvviso lo colse e lo spinse ad agire in fretta. Contrariamente a quanto immaginava o si studiava, le isole del Pacifico non erano tutte di origine vulcanica o corallina. Ciò che aveva davanti gli occhi gli diceva che quell’isolotto era antichissimo, forse milioni di anni prima era unito al continente, per questo le sue caratteristiche erano tutte da studiare e da scoprire. C’era pure da capire: perché?

«Perché?» si chiese. «Ma non ora.»

Prese a destra procedendo cautamente per evitare eventuali crepacci e per non provocare frane. Percorse poche decine di passi e vide, dopo innumerevoli illusioni, ciò che avevano a lungo cercato. Aveva trovato l’acqua!

Un laghetto limpidissimo, raccolto in una piccola conca, stava di fronte a lui. Da più parti, scivolando sulle pareti calcaree, rivoli silenziosi d’acqua purissima riempivano quel recipiente naturale scavato nella roccia, straripando a valle. La superficie non era mossa per niente. Era uno specchio di cristallo, rifletteva anch’esso gli stessi colori meravigliosi raccolti in così piccolo spazio. Si guardò e non si riconobbe, tanto era trasformato nella persona e nello sguardo. Non provò emozione né meraviglia per la scoperta. Era stata tanta l’attesa, erano state tante le fatiche, e urgente il bisogno, che il ritrovamento gli parve persino ovvio. L’acqua usciva dal lato opposto alla parte da cui filtrava, senza alcun rumore, con umiltà. Mai tanta ricchezza gli si era presentata con tanta naturalezza. Quasi con pudore immerse le mani e bevve a sazietà. Quando la sua immagine si ricompose, si guardò intorno come cercando qualcosa che gli indicasse una via più facile per condurre là i ragazzi. Ma le sorprese non erano finite. Fu un giorno memorabile davvero, quel giorno. Darà la svolta decisiva alla loro storia nell’isola, alla storia di Tan Kiù.

In una parete opportunamente scavata, c’erano allineate varie forme di formaggi in parte ammuffiti, vi erano alcuni recipienti con del latte inacidito e non certo di recente mungitura. Al suolo vi erano altri arnesi di cucina, utensili da falegname e da fabbro, un’otre di pelle vuota, alcuni fucili, casse di munizioni. Se non fosse stato per queste ultime, si sarebbe atteso di vedere entrare da un momento all’altro niente meno che Polifemo. Ma nessuno si fece vivo. Era chiaro che la mano dell’uomo era stata attiva e presente in quella grotta. Da vari segni sul terreno, da macchie di umidità aventi forme e contorni ben definiti, credette di capire che il materiale esistente doveva essere stato maggiore e che parte doveva essere stato spostato o trasferito altrove. Dopo lo stupore per queste ultime scoperte, il pensiero dominante di Lupo apparve quello di avvisare tempestivamente gli altri. Era combattuto anche dal desiderio, oltre che dalla necessità, di incontrare il misterioso Tan Kiù.

«Speriamo di incontrarlo. Speriamo venga. Speriamo sia solo. Speriamo abbia buone intenzioni.»

Nuvolosi pensieri si accavallavano nella sua mente. Fissò il piccolo tesoro di cibo nutriente trovato. Pensò alla loro necessità di variare la nutrizione, dopo tante diete che potevano fiaccare il fisico e la volontà. E temette di perdere ciò che aveva scoperto. Non era suo. Già, ma non voleva perderlo. Non aveva scelta. Temeva che, in sua assenza, Tan Kiù potesse trasferire le sue vettovaglie in chissà quale altro nascondiglio.

Mangiò del formaggio e si dissetò. Constatò che il cibo era persino salato.

Se quell’uomo era riuscito a ricavare il sale dall’acqua del mare, allora non era uno sprovveduto. Questo pensiero lo rinfrancò, lo incoraggiò: sono stato guidato qui, mi permette di prendere, posso!

La capretta intanto, consumata la sua poca paglia, prese a belare. Tutto sembrava spingere Lupo ad uscire, ma infine decise di restare, di attendere ancora. Continuò ad esplorare la grotta. Ora che lo stomaco era pieno, poteva meglio ragionare e decidere la scelta migliore.

La marea, indifferente ai progetti e ai timori di Lupo, aveva chiuso e aperto più volte l’entrata permettendo una continua aerazione della grotta.   

Allargando il suo raggio d’azione, superò una strettoia più in alto e un flusso d’aia fresca lo investì all’improvviso. Aveva trovato ciò che cercava: un’altra via d’uscita. Da quella strettoia avrebbe condotto i ragazzi alla fonte tanto desiderata.

Dopo un’attesa che gli parve interminabile, caricò sulle spalle più formaggio che poté, riempì d’acqua l’otre e, spingendo avanti la capretta con i suoi piccoli, uscì dal lato opposto da cui era entrato. All’aperto prese la via più lunga e più agevole. Era pomeriggio inoltrato.

«Speriamo di arrivare al campo prima di notte.» Sorrise soddisfatto,  anche se la sua missione non era stata coronata da totale successo: Tan Kiù non l’aveva incontrato.

DELUSIONE AL CAMPO

All’alba del secondo giorno dopo l’incidente, Antonio decise di inviare Giuseppe a cercare aiuto. Era stato il più pronto e il più intraprendente ed era stato accettato dagli altri con sollievo come capo. Stanchi e scoraggiati, avevano trovato rifugio nella boscaglia. Sotto un riparo ombroso, avevano preparato un giaciglio di foglie dove erano stesi i due feriti. La sete e gli insetti non davano loro tregua. Inoltre Guglielmo non dava segni di ripresa.

La frana sulla collina Letizia aveva travolto Gianni e il suo soccorritore per decine di metri. Tutti erano impreparati all’evento, ne conoscevano tecniche o avevano abilità infermieristiche per soccorrere correttamente i compagni feriti. Gianni era coperto da ematomi sul volto e sulle bracca, ma non aveva niente di rotto. Siccome credeva di stare peggio, piangeva silenziosamente, consapevole di non poter avere assistenza adeguata, oltre la buona volontà dei compagni. Tremava, e non solo per la febbre.

Il più grave apparve subito Guglielmo. Con estrema precauzione fu liberato dal terriccio e dai sassi che quasi lo avevano sepolto e adagiato su un terreno inclinato con il capo più in alto. Non si muoveva. I suoi compagni era spaventati. Per lui e perché non sapevano cosa fare. Un braccio pendeva inerte e girato in una posizione innaturale. Ampie escoriazioni sulle gambe e sulle braccia testimoniavano  la durezza e la gravità degli urti che aveva dovuto subire.

      Antonio, Giuseppe-Righello e Sandro si sentivano impotenti, senza guida, senza esperienza. Ma qualcosa dovevano fare.

«Verranno a cercarci» azzardò Righello.

Sandro era muto. Del resto parlava poco per abitudine. Aspettava. Tremava.

      «Non credo che ci verranno a cercare, piuttosto dobbiamo fare qualcosa noi. Dobbiamo correre a chiedere aiuto.» Antonio scuoteva la testa.

      Cominciarono a discutere, ad aguzzare l’ingegno per scoprire il modo migliore, rapido ed efficace, per uscire da quel guaio.

      Convennero che era meglio restare uniti. Chi andava a chiedere aiuto? Si guardarono. Era rischioso in quei luoghi. In caso di caduta non avrebbe avuto soccorso immediato. Pensarono anche di trasportare Guglielmo in barella, Gianni sia pure a stento, poteva muoversi. Non avevano vie d’uscita facili e la notte si stava avvicinando. Cominciarono ad innervosirsi.

«Stiamo calmi» disse Antonio, lo disse soprattutto a sé stesso. Cominciarono a riporre tutte le loro speranze in un soccorso esterno, nell’arrivo del maestro.

I feriti avevano bisogno urgente di acqua. E non solo loro. Rimediarono con la frutta e con noci di cocco. Gianni intanto si riprendeva poco a poco, ma restava sempre serio e imbronciato. Guglielmo respirava a fatica e non riapriva gli occhi. La fronte sudata, immobile. Era davvero strano, conoscendo il suo dinamismo.

Furono due notti indescrivibili quelle trascorse sulla collina, infine, non vedendo arrivare soccorsi, Righello partì.

Antonio lo guardò fisso negli occhi, da uomo a uomo, poi gli batté una mano sulla spalla. Era la prima volta nella loro vita che prendevano decisioni così importanti.

«Torna presto, per amore di Dio» gli disse.

Sandro guardava ciò che avveniva intorno a lui, confuso, inerte. Disposto ad ubbidire ciecamente al suo compagno. Era magro, di piccola statura. L’unica cosa che risaltava in lui erano i grandi occhi celesti spauriti, buoni, fedeli.

In maniera rocambolesca e davvero fortunosa, Righello, correndo, scivolando, arrancando, orientandosi con il sole, riuscì a guadagnare la savana. Non pensava a niente, non temeva niente per non spaventarsi oltre. Aveva fisso il miraggio del baobab. Là doveva arrivare al più presto. Incurante delle ferite ai piedi e della sete che lo attanagliava resistette alla tentazione di tuffarsi nella pozzanghera d’acqua putrida che conoscevano. Finalmente raggiunse il noto promontorio a nord, costeggiò la collina sul bagnasciuga e infine si precipitò come un razzo in direzione del campo. Vide il baobab e si sentì a casa. Si sentiva un eroe che si sacrificava per salvare i compagni. Ed era vero. Già immaginava gli sguardi, le domande, le preoccupazioni, la prontezza dei soccorsi, i complimenti per il suo coraggio, lo sguardo burbero e gratificante del maestro. Entrò nella prima capanna a precipizio, urlando con l’ultimo fiato rimasto.

«Aiuto! Correte! Guglielmo sta male!»

Nessuno rispose. Nessuno gli venne incontro. Non c’era nessuno al campo. L’unico segno di vita gli sembrò venire dall’altra capanna. Era Improvvisata che gridava. Dietro di lei apparve Robertino pallido, rassegnato, sporco di polvere e di sudore.

«Dove sono?» implorò Giuseppe.

«Via» rispose Robertino con due lacrime agli occhi. Strano in un ragazzo poco impressionabile come lui.

«Via dove? Perché?»

«Via! Non so.»

«E Lupo?»     

«Via anche lui. E’ andato da Tan Kiù.»

«Ma dove? A fare cosa?»

«Per l’acqua, altrimenti è la fine.» Anche Robertino l’aveva capito.

      «Quando è partito?»

«Eh, sarà un giorno e mezzo…»

«Ma qui cosa è successo?» Si guardò intorno per la prima volta con attenzione. Segni di disordine, di demolizione, di lotta erano ovunque.

«Mah!»

«Per carità, dimmi dove sono, presto. Guglielmo e Gianni stanno male, dobbiamo riportarli al campo, al sicuro. Bisogna trovare Lupo, subito, capisci?»

«Sì!» Rispose laconico Robertino. Teneva la scimmietta sulle spalle. Tossì, si pulì gli occhi e il naso. Sospirò più volte prima di cominciare a raccontare frammentariamente le cose accadute in sua assenza. I ragazzi, dopo la partenza del maestro, si erano sentiti liberi, sciolti. Senza disciplina credevano di essere liberi. Erano loro indisciplinati. Avevano cominciato a litigare Piccoli rancori, gelosie, rivalse erano esplose all’improvviso senza nessuna autorità che ponesse ordine, che richiamasse alla ragione. Mancando la guida, l’arbitro, il punto riconosciuto di riferimento, erano caduti nel disordine e nell’anarchia alla prima occasione. Soli, a piccoli gruppi se ne erano andati, si erano dispersi, continuando a minacciarsi.

«Proprio così» concluse Robertino. «E io sono solo.» A suo modo, il suo mondo era lui.

       Righello guardò quegli occhi smarriti e capì di essere in una situazione disperata. Si gettò a terra picchiando i pugni sconsolato. Tutta la sua fatica era stata inutile? E dei suoi compagni che si attendevano da lui la salvezza cosa sarebbe successo? Scoppiò in singhiozzi senza freno.

Fu così che nel tardo pomeriggio Lupo trovo quei tre. Come in una allucinazione, Robertino vide avvicinarsi il maestro e la sua strana compagnia. Toccò il compagno e con un sospiro di sollievo mormorò appena: «E’ qui!».

Al maestro bastò ascoltare poche parole e guardarsi intorno per rendersi conto della situazione che in parte aveva temuto. Il dolore per la disgrazia sfiorata sulla collina non era da meno.

Lupo vide infranto il suo sogno, vide dileguarsi lo scopo principale delle sue fatiche, delle sue ansie, delle sue attese. Lo scopo della sua vita: trasmettere agli altri sicurezza. A che era servita, a chi era servita la sua presenza tra quei ragazzi? Aveva davanti lo specchio del suo fallimento. La fiducia riposta nei ragazzi non aveva avuto senso. Ma perché? Se non fosse stato costretto, li avrebbe messi alla prova? Ma forse non era questo il problema. Certi rischi sono obbligati e necessari, certe prove irrinunciabili.

«Devono pur volare da soli, un giorno!» disse.

Aveva molta confusione in testa e poca voglia, poco tempo per riflettere, per tirare i fili di un ragionamento pacato e logico. Altri eventi incombevano. Doveva raggiungere la pattuglia sulla collina e portare il tanto atteso soccorso. Anche questa era una risposta ai suoi pensieri.

Affidate le capre a Robertino, lasciato cibo e un po’ d’acqua, date alcune istruzioni per raggiungere dal piano il laghetto nella caverna, partì con Giuseppe verso il punto oltre la collina dove giacevano i feriti. Nel loro precipitoso andare, incontrarono Rosetta e Michela. Gli corsero subito incontro e tentarono di spiegare cosa era successo al campo in sua assenza.

«Non ora! Non ora!» disse. «Corriamo a salvare i nostri compagni in pericolo. Delle altre cose parleremo con calma.»

Stringeva gelosamente l’otre d’acqua sulle spalle ricurve e camminava innanzi a tutti. Gli altri gli andavano dietro in frettolosa processione.

LA FOTO INGIALLITA

«Acqua! »

«Finalmente! Sia ringraziato il cielo.»

Con un panno bagnato, Lupo passò più volte un po’ di umore fresco sulle labbra dell’infermo. Era la prima parola che Guglielmo pronunciava in maniera consapevole. Lo stato di insensibilità in cui i soccorritori l’avevano trovato aveva fatto tremare tutti. Ma, ogni giorno che passava, sapevano che era una speranza in più. L’acqua, il latte di capra,  furono provvidenziali nei primi giorni, ma ancor più lo sarebbero stati ora che iniziava la convalescenza.

Antonio e Giuseppe si incaricarono di fare la spola tra la collina, il campo base, la grotta. La notizia dell’incidente si era diffusa per tutta l’isola, in ognuno dei gruppetti sparpagliati della classe 5 C.         

Dalla sua magnolia, rifugio di sogno, ogni tanto Paolo scendeva per l’acqua e per chiedere notizie. Aspettava qualcosa, non sapeva neppure lui che cosa. I sogni sono belli, ma evaporano presto se non si concretizzano. Non era contento di come stavano le cose. Altri ragazzi  oziavano nella baia. Passata l’euforia della trasgressione, non sapevano più che cosa fare. Aspettavano che qualcuno dicesse loro che cosa. Le ragazze passavano le giornate sulla spiaggia di nord-est. Tornavano al campo solo per passare la notte. Altri ragazzi si erano sistemati alle pendici della montagna da dove potevano osservare e non essere osservati. Ma tutti di tanto in tanto passavano da Robertino a lasciare e a prendere notizie.

Un certo malessere cominciò a farsi strada e a diffondersi, verificandolo in altri, ad ogni incontro. Il colpo di testa compiuto in assenza del maestro non era stato davvero un colpo di genio. Qualcuno se ne rammaricò. Luca e Roberto-Derby avrebbero voluto restare al campo, se non altro per convenienza. Riscoprirono presto il desiderio di rendersi utili. Tuttavia, per orgoglio, non vollero essere i primi  a tornare. Sembrava una debolezza, un cedimento. Era invece l’unica cosa che desideravano fare.

Endrio, Daniele e Franco aspettavano all’ora fissa la staffetta che veniva per l’acqua dalla collina Letizia e, mentre i compagni riposavano, a turno scendevano fino alla grotta di Tan Kiù, senza alcun timore. Sentivano da soli ciò che dovevano fare.

Un giorno, Endrio e Giuliano si sostituirono a Righello e partirono verso il luogo riparato, oltre la collina, dove giaceva Guglielmo. Schivo, di poche parole, con la sua zazzera rossa al vento, il Biondino accarezzò il compagno disteso, immobile, con il braccio  imprigionato in rudimentali stecche di legno. Giuliano scosse la testa. Come ingessatura era il meglio che si potesse fare in quei luoghi. In silenzio porsero l’acqua portata a Lupo. Cercarono di spiaccicare qualche parola, ma non riuscirono a dire niente. Non era necessario. Erano confusi, delusi, preoccupati.

«Ecco, noi…»

«Stavo pensando, Endrio, al giorno in cui ci sorprese quel ciclone sulla montagna…»

«Che paura, quanta acqua!» L’incantesimo era rotto. Si poteva parlare d’altro.

«Certo ne avremo da raccontare quando usciremo…»

«Oh, certamente!» Era Guglielmo.

«Ehi, ma allora ci sei! » scherzò il maestro come se il fatto fosse del tutto naturale. Era invece un miracolo. Guglielmo parlava.

Anche Gianni, coperto di cicatrici ormai rimarginate era oggetto di ammirazione.

«Cosa vuoi, succede» disse con una smorfia che voleva essere un sorriso di compiacimento.

«Aiutatemi» disse il maestro, «cambiamo il letto al nostro infermo.» Lo posarono su uno strato soffice di foglie appena raggrumate. «Se continua così potremo tornare presto al campo.»

«Ma certamente» risposero tutti.

Dell’imbarazzo iniziale non esisteva più neppure l’ombra. Rosetta e Michela erano premurose e abili nel riordinare. 

In quel momento, lì era il problema più grave e da lì Lupo non si mosse mai. Poi, per fortuna, Guglielmo cominciò a riprendersi fisicamente e anche di spirito. Lo si capì perché volle dare la sua interpretazione dell’accaduto. Solo allora corse con il pensiero agli altri.

«Avevo appena afferrato Gianni,» raccontò Guglielmo «quando sentii mancare un sostegno sotto i piedi… so che gridai, ma non mollai la presa. Quel che è successo dopo non lo ricordo assolutamente.»

«Eravate avvinghiati, un corpo solo che precipitava, in mezzo a una grandine di sassi… siete vivi per miracolo» concluse Antonio.

«Mi avete salvato» disse il ragazzo. Stava riacquistando la sua calma e la sua compostezza. Il suo sguardo si posò sui presenti indifferentemente. «Grazie!»

Poi volle sapere, essere informato, riandò con il pensiero alle varie tappe della loro spedizione, si ricordò del portasigarette.

«Dov’è?» chiese

«Quale portasigarette?» Lupo si era fatto attento.

«Come, non gliel’avete detto?»

«Avevamo altri pensieri» disse severo Antonio, ma capì il compagno.

Chi stava sulle spine era il maestro. Pian piano, a più voci, gli raccontarono degli scheletri, degli strani tunnel, del cimitero, del portasigarette.

Alle numerose preoccupazioni che lo tormentavano se ne accavallavano altre. Non le poteva evitare. Anzi capì che sarebbero state queste le bende che avrebbero rilegato e ricostruito la sua classe. La banda! stava per chiamarla scherzosamente.

Era giunto il momento di cominciare a dare risposte, non bastava più accumulare notizie, informazioni che erano soprattutto interrogativi.

Bisognava, innanzitutto, svelare e capire, l’inimicizia non dichiarata e non pericolosa, ma innegabile di Tan Kiù. Bisognava capire il significato della grotta così abilmente mimetizzata, del cimitero scoperto dagli esploratori. Di chi era il portasigarette? Non certo di un indigeno. Che nesso c’era tra tutti questo fatti, ammesso che ci fosse?

Antonio rovistò tra le foglie e tolse da sotto una corteccia l’oggetto misterioso.

Lupo girava tra le mani il portasigarette. Lo aprì, osservò una foto sbiadita e lesse con difficoltà una dedica.

«See you, my …» E più sotto un nome e una data. Ann. 7.01.’45.

«Che significa?» chiesero in coro.

Come trasognato, osservando la data e la lingua, cercò di connettere, di collegare tra loro i vari elementi che si stavano raccogliendo nella sua mente.

«E’ inglese, sta scritto  “arrivederci, a presto mio…” forse mio caro… è sciupato! »

Com’era giunta quella foto in quell’isola, trent’anni prima? Contrariamente alle apparenze, qualcosa cominciava a schiarirsi, almeno così credeva. Certo, quella casuale scoperta, ricordando in seguito gli eventi, fu un’altra pietra miliare, di svolta, nella loro storia.

Il maestro decise di rendersi conto di persona, di conoscere i segreti serbati sulla vetta della collina per così tanti anni. Sotto la guida di Antonio, dopo un lungo giro, evitando con prudenza le  pareti friabili che avevano fatto precipitare Gianni, raggiunsero trafelati sui luoghi descritti.

Lupo fu stupito, ma non ebbe dubbi.

«Sono trincee» disse, «qui c’è stata battaglia.»

«Quando?»

«Perché?»

«La risposta è nella foto che avete trovato.»

Certo! Era un interrogativo interessante quello che avevano davanti. Doveva essere chiarito e capito. Tuttavia non era questo l’assillo principale di Lupo. Situazioni gravi, contingenti avevano attratto la sua attenzione, l’aveva impegnato a trarre in salvo i ragazzi che avevano più bisogno di soccorso. Il problema che aveva allontanato, nascosto, evitato si presentava ora in tutta la sua attualità, drammaticità.

Il gruppo si era sfaldato. Alla prima prova la sua classe non aveva retto, era scoppiata. Che avrebbe detto? Che avrebbe fatto? Che margini c’erano per ricucire, non tanto la massa, ma la fiducia, la lealtà, la solidarietà di cui ognuno aveva bisogno ed era portatore per gli altri.

La convalescenza di Guglielmo procedeva rapida, presto sarebbe arrivato il momento di rientrare al campo. Ogni ulteriore ritardo avrebbe reso ancor più difficile il recupero della classe.

Finalmente venne il momento della partenza.

«Torneremo, ragazzi, studieremo tutto, troveremo una risposta. Ora però dobbiamo ricomporre al più presto il gruppo al campo. Siamo attesi. Se così non fosse, che senso avrebbe cercare qui?»

Tutti, con accenni, con sguardi, con sorrisi, convennero. E ne furono felici.

Guglielmo rinunciò alla barella che le ragazze gli avevano preparato e, con il braccio stretto al petto, si avviò fiducioso con gli altri.

Nella savana scorsero un gruppetto dei loro compagni. Andavamo a caccia, alla ricerca di nidi, di radici, di frutta. Si fermarono,guardarono, poi, a capo chino, proseguirono. Non era un bel segnale.

Un vento leggero proveniente dal mare muoveva appena appena le canne rinsecchite, le erbe ingiallite, i rami scheletrici delle acacie spinose e degli eucalipti. Solo i grandi uragani, le piogge imminenti avrebbero potuto scuotere quel mondo immobile e dargli nuova vita.

LA SPIAGGIA DELLE TARTARUGHE

 Il mare è grande.»

«Il cielo è più grande.»

«Dove finisce il cielo?»

«Laggiù, dove finisce il mare...»

Chiaro e nitido, sgombro da qualunque cirro, l’orizzonte si stagliava lontano. Sembrava dipinto da un bambino che prendeva in mano per la prima volta i colori da stemperare su una tela increspata. Non c’erano case con camini pendenti, alberi con foglie autunnali, bambini robot con le mani aperte, il collo filiforme e i capelli irti come matite Fila. C’era un unico azzurro, immenso, immacolato, deserto. Bè, voli di gabbiani solitari ogni tanto sgorbiavano il paesaggio con i loro passaggi sgraziati, mossi, poco fotogenici. Luccichii di mare apparivano per un istante e sparivano subito, come per incanto. Sempre uguale. Fruscio della risacca, che nessuno notava, perché non mancava mai. A volte stormi e onde s’intrecciavano e sparivano insieme. Così i loro pensieri e i loro sguardi: nascevano e sparivano senza risposta. Non c’era nessuno a guidarli, a fissarli, a gustarli del tutto, a sottolinearli. Dai bassi fondali sorgevano coralli, belli di forme, di colori, così vicini eppure così misteriosi. Alghe e madrepore in un abbraccio millenario spuntavano e scomparivano con altalenanti riflessi e penombre e mutevoli contorni.

Sulla sabbia finissima e assolata, poco lontano dalla scogliera, le ragazze guardavano il mare. Erano in tre. In silenzio ognuna guardava quella immensa pagina bianca su cui ogni tanto scriveva a voce pensieri e capitoli della sua storia. Ciascuno di noi ha la sua storia. Solo ogni tanto si scambiavano la parola, per accertarsi della presenza delle altre. Il loro sguardo era fisso all’orizzonte. Non cercavano niente. Non s’aspettavano niente, ognuna godeva, captava il suo livello di bellezza, di maestosità, di diversità  del grande mare quieto.

Monica, con le palpebre socchiuse, sollevando i capelli, con delicato e simultaneo gesto delle mani, guardava lontano, molto lontano. Oltre l’orizzonte.

Cosa ci sarà più in là, pensava. Ancora mare e ancora cielo, e poi? Ancora mare e ancora cielo, e poi? Ancora mare… Il mare è grande. Ma non bastava a contenere la sua curiosità. Il mare non ha confini, non ha pareti… E’ mai possibile? Dove è scritto: fine del mare? Esiste qualcosa che non finisce mai? Erano pensieri nuovi, solitari, personali, esaltanti…grandi come il mare.

Catia sollevava piccoli pugni di sabbia che lasciava disperdere dalla brezza marina.  Anche lei guardava il mare. Immaginava lunghe file di piccoli pesci che nuotavano senza fretta e senza sosta  a cercare il fondo del mare. Nuotano sempre? Ma, dove riposano i pesci? Sono liberi o sono prigionieri del loro mare? Non hanno recinti, non hanno muri, non hanno scuole, spaziano da oriente ad occidente, dalla superficie agli abissi., ma …non hanno un’isola i pesci del mare? O è il mare tutto ad essere la loro isola. Per lei, in quel momento, la parola rappresentava il massimo di libertà e di felicità.

Barbara ascoltava da una grossa conchiglia il fruscio del mare. Guardava le onde venire, con ritmo uguale, incessante.  Venivano ad inchinarsi sulla sabbia una ad una. Da dove è partita l’onda che è appena arrivata e qui si è spenta per sempre? Quante onde ci sono nel mare? Dove andrà il mare quando il suo tempo sarà finito? No, nessuno può seppellire il mare!

Problemi esistenziali, enormi e ingenui, perché puri nel loro primo apparire, affioravano per la prima volta lì, in quel luogo. Non erano in grado di dare risposta. Ma una prima conquista l’avevano fatta: si erano poste delle domande. Credevano di guadare il mare nella sua immensità, ma quello era solo un riflesso, uno stimolo, un mezzo. Stavano scrutando sé stesse, stavano guardando nel loro profondo, scuotendo bisogni sopiti che sarebbero molto presto emersi prepotentemente alla ribalta della loro vita. Le onde da dove vengono? E io chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Non c’è solo il mare… ci sono anch’io. Dalla notte dei tempi gli uomini inseguono, scavano, scrutano, formulano ipotesi, risposte a queste domande esistenziali. Suggeriscono soluzioni. Forse cercano troppo lontano.

La giornata serena propiziava pensieri diversi ai piccoli bisogni quotidiani. Il sole non aveva ancora raggiunto lo zenit rendendo l’aria irrespirabile e la sabbia cocente. Come gli altri giorni, trascorrevano le prime ore del mattino a cogliere la frescura portata dalle brezze profonde rotolate fino lì da chissà quali abissi celesti.

D’improvviso l’attenzione di Monica fu attratta da un essere mai visto. Saliva lento, deciso dal profondo del mare. Dal basso sembrava gigantesco. Inatteso e sconosciuto, a lente falcate usciva dal mare.

«Santo cielo!» esclamarono in coro, arretrando precipitosamente.

Una, due… dieci! Erano incantate ad osservare senza parole le strane creature che si radunavano, che si affrettavano sull’isola. Erano creature coperte da corazza a scaglie. In breve la spiaggia fu popolata da strane cupole semoventi. Si ritrassero ancor più, ma la paura era pari alla curiosità. Volevano capire.

«Tartarughe?» azzardò Catia sottovoce.

«Così grandi?» disse Barbara mordicchiando come sempre il suo fazzolettino.

La prima tartaruga aveva già guadagnato la sabbia asciutta e, ora, con maestosa  e solenne lentezza, girava il capo intorno, come a cercare un punto, un luogo, un riferimento. Si capì subito che era arrivata, non le interessava andare oltre.

Erano davvero alcune decine. Chissà da quali abissi venivano! Senza perdere un istante, come se recitassero una parte imparata a memoria, cominciarono a scavare nella sabbia. Le ragazze, rinfrancate, non perdevano un gesto, una mossa. Era uno spettacolo raro e forse irripetibile per loro. Le grandi zampe unghiute scavavano, scavavano senza sosta. Quando il loro lavoro parve a buon punto, scesero nella fossa e deposero le loro uova. La cocente madre terra avrebbe covato per loro.

Una legge misteriosa, ma chiara,  aveva spinto le tartarughe marine a compiere un viaggio in apparenza interminabile, per giungere nel luogo per loro meglio predisposto per rispondere ad uno degli istinti principali che caratterizza ciascun essere vivente: la conservazione della propria specie, la procreazione.

Nell’aria fu subito uno schiamazzo di grida, di richiami, uno sventolio di ali e di piume. Per i grandi uccelli del mare, quel pellegrinaggio non giungeva inatteso. Osservavano le mosse delle madri mentre seminavano la vita sulla spiaggia. Erano attese! Ora, trascorsi i giorni necessari, un mattino, infranti i gusci, scrollata la polvere, i nuovi nati sarebbero usciti al sole con l’unico intento di precipitarsi subito tra le onde, in salvo. Non sapevano perché, ma sentivano d’istinto che questo dovevano fare al più presto. Perché, dal cielo, i grandi uccelli del mare erano in attesa di piombare su quegli esseri indifesi. Molte piccole tartarughe sarebbero state nutrimento di albatros, di cormorani, di sule, ma altri avrebbero guadagnato il mare e la salvezza.

Intanto, compiuta la loro missione, colmarono le buche, poi una ad una guadagnarono di nuovo le onde. Le loro tracce scompigliate dall’aliseo scomparvero ben presto e tutto apparve liscio e piano come prima. Se non avessero visto, non l’avrebbero saputo.

«La spiaggia delle tartarughe deve essere difesa» proclamò Barbara.

«Certamente.»

«E’ giusto! Mettiamo dei segnali.»

Strapparono e piantarono rami secchi e sterpi, tracciando un grande recinto sulla spiaggia nord.

Con un dito scrissero sulla sabbia “Nido delle  tartarughe – Vietato entrare”. Niente è più labile di una scritta sulla sabbia, ma quella servì a imprimere un obbligo nella loro memoria e a comunicarlo agli altri con grande determinazione e sicurezza.

Terminato il loro appassionato lavoro, furono raggiunte da altre compagne. Raccontarono concitate ciò che avevano visto. Sembrava fantascienza! Qualcuna restò incredula.

«Vogliamo vedere» disse Sabrina. Ma le tre spettatrici si opposero decisamente.

Verremo qui ogni giorno a controllare e, quando sarà il momento, vedrai con i tuoi occhi come nascono le tartarughe.

La notizie si sparse per tutta l’isola,. Qualcuno dei ragazzi per incredulità o dispetto, minacciò di dissotterrare tutto Ma la fermezza e la particolareggiata descrizione delle tre ragazze convinse anche i più testardi a desistere e ad attendere. Da quel giorno la “spiaggia delle tartarughe” ebbe molti osservatori e curiosi diventando punto di raccolta e di richiamo degli sbandati.

Come per miracolo la piccola colonia lentamente si ricompose. Anche chi girava al largo, in tondo, alla fine venne a chiedere, a informarsi, a comunicare qualcosa.

Queste erano le notizie che Lupo apprese, strada facendo, di ritorno dalla collina Letizia, da Stefano che gli era andato incontro insieme a Righello.

«C’è una nuova legge in quest’isola, allora» disse. Vietato calpestare tartarughe!»

C’era dell’ironia nelle sue parole, ma anche una constatazione. Non c’era stata solo la contestazione, c’era anche la capacità di scelta volontaria e responsabile di norme positive condivise. A conferma di quanto Lupo stava pensando, Stefano aggiunse qualcosa.

«C’è anche un’altra regola che tutti rispettano.»

«Ah, sì!»

«Sì!» Quella di non toccare le armi.»

Dio mio! La grotta! Tan Kiù! Negli ultimi giorni, assistendo i ragazzi feriti, non ci aveva più pensato.

«Chi ha dato quest’ordine?»

«Nessuno!»

«Come nessuno?»

Il fatto è che nessuno ha toccato le armi. Tutti hanno capito da soli che era pericoloso, che non si doveva.»

Il maestro si compiacque di queste notizie. Come semi nascosti nella sabbia, invisibili agli sguardi distratti, gli insegnamenti dati, all’occorrenza, spuntavano e davano frutti profumati.

La comitiva giunse verso mezzogiorno al baobab. Guglielmo e Gianni furono festeggiatissimi. Sulla soglia Robertino e Improvvisata diedero il benvenuto.

«Ah, quanto sei stato via, Guglielmo!» Voleva aggiungere qualcosa, ma si bloccò subito.

«Già!» rispose semplicemente, reggendosi il braccio immobilizzato che gli pesava tremendamente.

Lo scimpanzè con le sue lunghe braccia ciondoloni uscì dondolandosi seguito dal suo padroncino. Si avviarono al recinto delle capre che aveva costruito poco lontano con la collaborazione di Daniele e di Roberto-Derby, disegnatore di cavalli.

RIFLESSIONI ALLO SPECCHIO

Alcuni giorni erano trascorsi. La scoperta dell’acqua aveva ridato vita e speranza alla piccola colonia. Anche se molte cose restavano ancora da spiegare e molti ostacoli da superare; primo fra tutti la ricomposizione del gruppo affiatato che tante peripezie aveva affrontato unito. Tuttavia qualcosa era nato nella piccola comunità. C’era in tutti una maturità diversa, uno sguardo diverso, una consapevolezza nuova. Equilibri nuovi si stavano stabilizzando tra gli abitatori dell’isola.

Lupo, una mattina, se ne stava all’ombra delle capanne al campo. Si godeva uno dei rari momenti di tranquillità, di riflessione. Cercò nelle tasche. Estrasse la sua Clementina che lo aiutava spesso a seguire pensieri nascosti che salivano improvvisi, come le volute di fumo. Era rimasta inefficiente per troppo tempo. Era stato rimproverato perché fumava a scuola. Lo faceva per esibizione, per darsi una formale autorevolezza. In televisione tutti i personaggi importanti, non sapendo dove posare le mani, esibiscono la pipa, la palpano, la passano di mano in mano, tentano di metterla in bocca e non fumano. Gli davano fastidio quei bravi vecchi! A fine anno avrebbe smesso, anche perché stava prendendo sempre più vigore il peso dei proibizionisti nel fumo nei luoghi pubblici. Non si sarebbe fatto cogliere in fallo, avrebbe smesso prima.

Si sentì osservato. I ragazzi si scambiavano cenni e motti tra loro. Vedevano il suo impaccio. Lasciava fare. Fingeva di non accorgersene. Era un tentativo anche quello di rientro, di recupero della normalità, con in dotazione maggiore disinvoltura e sicurezza. Sembrava che niente fosse accaduto. Non finiva di stupirsi. Dapprima avrebbe giurato che mai i suoi ragazzi l’avrebbero disobbedito, smentito così clamorosamente. Ribellandosi alle sue direttive. I suoi consigli, i suoi insegnamenti, l’affetto che li legava, l’avevano convinto che i semi gettai avevano attecchito e mai avrebbero commesso atti riprovevoli, irresponsabili. La delusione provata era stata cocente. Soltanto preoccupazioni più gravi e impreviste l’avevano distratto, impegnato su altri fronti. Mai avrebbe immaginato che Endrio, Lolita, Barbara, Stefano e tutti gli altri potessero lasciarlo solo.

La sua autorevolezza era definitivamente scossa. Pensava. Come avrebbe potuto essere ancora la loro guida, se tanto facilmente avevano potuto farne a meno? Non gli interessava più sapere che cosa era successo, che cosa avesse scatenato la loro ribellione alla corale disciplina che credeva ormai cementata e durevole. Chi erano stati i promotori? Quali i motivi scatenanti? Gli bastava sapere che era successo! Come avevano potuto decidere senza di lui, contro di lui? Che fine avevano fatti gli anni passati insieme, le reciproche confidenze, le fatiche affrontate insieme per sgretolare gli scogli che celavano la conoscenza? E gli scherzi e i giochi seminati per stemperare le tensioni e per meglio assaporare le piccole quotidiane conquiste del sapere? Aveva sempre cercato di mantenere nel gruppo un sereno, fruttuoso equilibrio.

Ma la vita, cara Martina, può essere frutto di un equilibrio perenne, statico, immobile? Questo è l’equilibrio che si pratica spesso a scuola. O deve essere piuttosto un esercizio che agevola la tua continua trasformazione, il tuo continuo divenire? Ciò che sta è già morto. Ciò che si muove e cambia, vive.

In quell’immenso, in cui il suo tumulto interiore era immerso, immaginò, ricordò le palpitanti melodie di Ravel che amava. Sentiva fiati, trombe e violini suadenti: erano i flutti che s’infrangevano sugli scogli o morivano sulla rena.

Il momento del distacco egli l’attendeva e lo temeva. Sapeva che doveva giungere. Era giunto all’improvviso. Doveva lasciarli andare. Lentamente stava scoprendo in tutta la sua dimensione e validità l’esperienza vissuta dai ragazzi. Suo malgrado! In tutto ciò la sua scuola non era affatto estranea. Il suo successo stava proprio dove credeva di avere fallito. Non aveva perduto. I suoi insegnamenti non erano caduti in terreno sterile. Al momento della prova avevano retto, avevano dato frutto. Solo le apparenze, l’artifizio, l’esteriorità erano caduti. La sostanza era emersa. Li aveva salvati al momento della prova, perché erano stati attrezzati. Il loro primo volo non era stato fatale. Avevano disobbedito agli ordini, si erano dispersi, respingendosi a vicenda. Oh, sì! Era il minimo che potesse succedere, trovandosi per la prima volta soli, completamente soli, ma in un ambiente in cui potevano, sapevano muoversi con sufficiente sicurezza. Ogni giorno lo si vive per la prima volta.

Per restare insieme occorrono vincoli. Non sempre si accettano. Consapevolmente, responsabilmente si definiscono, poi si approvano, si rispettano.

L’ordine che avevano rotto era solo formale, pur necessario, ma non esistenziale. L’ordine misterioso che ognuno di noi intimamente conosce, se vuole, che segna i confini tra il bene e il male, e che aveva pazientemente fatto crescere e sviluppare nella coscienza di ciascuno, aveva retto.

Avevano saputo sopravvivere senza sopraffarsi, senza sottomettersi. Tornavano ai consueti lavori, ai consueti impegni, ma con maggiore disinvoltura, sicurezza, coraggio di osare.

La sua assenza non era stata un’assenza di insegnamenti. Era stato un esame, una verifica. E’ l’esito poteva essere definito soddisfacente. Concluse così i suoi pensieri.

«Se ne vanno.»

Non avevano toccato le armi, perché era pericoloso. Nessuno l’aveva impedito. Solo la coscienza individuale l’aveva impedito. «Da soli l’hanno capito.»

«Addio quinta C! Ho finito.»

Da soli erano andati, da soli erano tornati. Non avevano detto niente. Lasciare i genitori, gli educatori è una esperienza, un momento che deve succedere, deve venire.

In questi passaggi ci sono spesso fasi di dispetto, di convenienza. Va bene! Purché non manchi mai il rispetto.

«In fin dei conti, che cosa è successo?»

Da un punto di vista pedagogico si sforzava di sminuire l’evento, burocraticamente normale. Da un punto di vista umano, affettivo qualcosa era successo. Per loro egli cominciava a sparire come maestro. Lentamente, il filo allentatosi si sarebbe spezzato. Doveva aiutarli ad andare da soli ancora più in là, più avanti, lontano. Era un loro diritto. Era un suo dovere.

Si ricordò di quando si era posto, come segno di vittoria, la capacità di rendersi inutile a loro. Il momento si era manifestato. Dopo l’inevitabile confusione, ribellione iniziale, si erano comportati in maniera composta, autosufficiente, responsabile. Era ciò che aveva sempre desiderato, era ciò che stava accadendo. Gioia e dolore, insieme, lo fecero arrossire tra volute di fumo sempre più frequenti, liberatorie.

La vita al campo ferveva più che mai. Si stava cuocendo un babirussa. Robertino tornava con il latte di capra. Le ragazze adornavano le capanne di fiori e di rami verdi. Sapevano cosa fare, come fare. Non finiva di stupirsi.

Quando la tavola fu imbandita, gli furono tutti intorno. Spontaneamente. Rosetta, spinta dalle compagne, gli presentò un regalo.

«Un regalo? Che sarà mai?» pensò.

Incuriosito come un bambino, con ansia e con precauzione, tolse una ad una le foglie di banano ripiegate che formavano l’involucro. Trovò uno specchio.

«Omaggio di Tan Kiù!» esclamò Luca. «L’abbiamo trovato nella grotta.»

Lo prese in  mano. Gli tremava. Si guardò senza volerlo. Non si riconobbe. La barba folta, i capelli lunghi, la fronte abbronzata, le occhiaie scavate non sembravano appartenergli. Mosse le labbra, si mostrò i denti per essere certo di essere lui. Scoppiarono tutti a ridere. Anch’egli rise, piano. Gli occhi che lo guardavano erano felici e tristi ad un tempo.

La sua storia con quei ragazzi si stava concludendo.

PARTE SECONDA

UN UOMO

LO SBARCO

 ’operazione “Equatore” era iniziata alle cinque del mattino. Era il 16 gennaio 1945. Il convoglio di navi e di cacciatorpediniere passò a meno di cinque miglia dall’obiettivo, segnato nelle carte con la sigla convenzionale X-54.

Le isole del Pacifico, nonostante la guerra volgesse a favore degli alleati, erano nidi fortificati in cui la resistenza di nuclei armati, bene addestrati e motivati di soldati giapponesi era lungi dall’essere fiaccata. Queste spine nel fianco, oltre che ritardare la conduzione delle operazioni belliche, costituivano solide basi di contenimento e di distrazione per le forze alleate.

Una ad una le numerose isole venivano attaccate dai marines, dopo un bombardamento a tappeto. Dalle, portaerei si alzavano i caccia. Al loro rientro, dalle navi si staccavano i mezzi da sbarco con forze ed equipaggiamenti adatti alle insidie del terreno, già studiato con foto aeree.

Il convoglio navale proseguiva con il suo carico di morte e di speranze. Di speranza di vedere conclusa al più presto la carneficina. Proseguiva per dispiegare un analogo piano nelle altre isole, preparando tutto per lo scontro finale con la flotta e con l’aviazione nipponica.

L’obiettivo X-54 era un’isola lunga appena 18 miglia e larga dieci. Era montuosa a sud-est, con una fascia collinare che l’attraversava diagonalmente. Era fuori dalle zone più calde delle operazioni militari. Un ricognitore, per tre giorni di seguito, l’aveva sorvolata a bassa quota più volte. Non aveva segnalato alcuna presenza sospetta. Era stato ritenuto, perciò, superfluo un bombardamento prima dello sbarco. C’era il rischio che delle bombe restassero inesplose e quindi pericolose per gli incursori.

L’isola era disabitata.  Doveva essere occupata per impedire che lo facesse in seguito il nemico. Era strano che i giapponesi non vi avessero ancora messo piede. Certamente non avrebbero tardato ad occuparla, perché costituiva comunque un anello importante della fascia difensiva che andava dalle Filippine alle Marshall. Gli alleati sapevano con quale valore i soldati nipponici difendevano gli atolli del Pacifico, autentici capisaldi di un fronte unico che non poteva smagliarsi in alcun punto.

Mancavano ancora due mesi allo scontro decisivo di Ivo-Jima, ma gli alleati avevano già condotto ripetute invasioni con scontri accaniti in cui il valore e la determinazione dei combattenti sotto la bandiera del sol levante erano emersi indiscussi. La loro volontà a resistere fino all’estremo sacrificio rendeva indeciso fino all’ultimo qualunque scontro. L’operazione in atto intendeva prevenire, se possibile, perdite dolorose, invertendo le procedure fino allora seguite, arrivando prima.

Il capitano Ferguson raccolse i suoi ufficiali per le ultime istruzioni, poi diede il via all’operazione “Equatore”. Il mare era calmo. Le onde lunghe dell’oceano facevano ballare comunque i tre mezzi da sbarco che portavano un centinaio di marines verso la costa dell’isola. La luce del giorno si faceva sempre più intensa, il cielo chiaro e azzurro prometteva e meritava tutt’altri scenari.

«Coraggio, ragazzi, siamo fortunati!» esclamò il tenente Taylor. La sua voce volò via nell’aria mossa del mattino.

«Sì! Siamo ancora vivi!» borbottò un piccolo marine con un elmetto che gli ballava sugli occhi, per le scosse del mare e per i brividi che provava lungo la schiena.

«Buono, Wilkins! Tra qualche mese tornerai nel Missouri per il taglio dell’avena.» Aveva ricevuto una raccomandazione dai suoi vecchi.

«Speriamo, signor tenente. Venga a trovarmi quando sarà finita. Vedrà che buona terra c’è dalle nostre parti. Saremo ancora noi coltivatori a rimettere in piedi l’America.»

«Stai zitto, Wilkins. Ricordati di tacere quando sbarchiamo. Sarà meglio per te e per tutti.» Il caporale  Hopkins, mancato attore di Holliwood, non perdeva occasione di rifarsi dei richiami dei suoi superiori.

Il tenente Taylor stringeva con i denti una sigaretta spenta. Guardava la costa avvicinarsi con il binocolo. Avanzavano in fila indiana. Davanti si trovava il capitano Ferguson, in coda c’era il tenente Russel. Gli uomini erano abbastanza tranquilli. Reputavano una fortuna che la loro compagnia  fosse stata inviata a presidiare l’isola definita sulle carte X-54, fuori dal fronte.

«Forse il tenente ha ragione» disse un marine, allentando l’elmetto, togliendosi con una mano il sudore dalla fronte.

«Figuriamoci se Robbins non dà ragione al tenente!»

«Lo dico sul serio. Qui siamo in vacanza. Un bel giorno arriva l’annuncio: la guerra è finita, tutti a casa!»

«Sarei contento di essere a casa per la mietitura» sospirò il piccolo Wilkins. Nessuno fiatò.

Il convoglio alla fonda sembrava una lama scura messa ad interrompere il filo dell’orizzonte. Attendeva il segnale convenuto di operazione conclusa per riprendere la rotta.

«Quelli là non sanno ancora cosa li attende» disse Robbins, piuttosto catastrofico sul destino dei loro commilitoni.

Gli occhi di tutti erano fissi alla spiaggia, ma i pensieri correvano lontano, ballavano in maniera diversa, anche se in un’unica direzione: sentivano, sapevano che ore durissime li attendevano, ma brevi. Presto sarebbero tornati a casa!

Il sergente Carter, della Florida, sogghignava guardando il contadino, che a giugno pensava alla mietitura, invece che alla spiaggia.

«Non saprai mai cos’è la vita, se questa estate non sei a Miami…»

Un ragazzo negro, della Georgia, toccò Wilkins. «Non arrabbiarti» disse e gli strizzò l’occhio. Aveva vent’anni.

Il tenente Taylor ripose la sigaretta. «Può diventare buona» pensò. Aprì il suo portasigarette laccato in oro. Lo scatto gli fece abbassare la fronte, guardò la foto della sua famiglia. L’aveva ricevuta con l’ultima lettera dall’Oregon. Faceva molto freddo lassù. «Riguardati!» le aveva scritto. Sorrise appena. Ann non sapeva niente del caldo all’equatore. Ma forse intendeva qualcos’altro. Fissò i suoi due bambini. Rimise in fretta via il portasigarette e tornò a scrutare la spiaggia.

Quando i tre mezzi da sbarco approdarono, il capitano convocò i due ufficiali. Diede l’ordine di scaricare alla svelta armi e munizioni, vettovaglie, canotti di gomma. Avevano scorte per due mesi.

Si trovarono di fronte un terreno piatto, una savana, con rari alberi e cespugli, erbe alte e secche. La mimetizzazione era impossibile in quel luogo.

«Come previsto è deserta» esordì il capitano. «Siamo in zona di guerra, ogni sorpresa è comunque possibile» azzardò. «Procediamo in ordine sparso fino alla collina che ci sta di fronte. Sergente Carter, prenda con sé tre uomini e ci preceda.» Se avessero incontrato segnale sospetti, l’ordine era di retrocedere, ma di non sparare. Non avvisate! Scherzò. Ma non era il caso. Nessuno ora rideva più.

«Se i giapponesi sono già qui, ci hanno sotto tiro comunque. Abbiamo bisogno di prendere posizione mantenendo la calma. La sorpresa la faremo noi.» Non credeva a nessuna delle parole che pronunciava, gli sembravano superflue, ma, in quel frangente, erano necessarie.

Due infermieri e un portaferiti neozelandese passarono di corsa con cassette di medicinali e attrezzature sanitarie.

Il radiotelegrafista inviò il messaggio convenuto alla nave ammiraglia.

«Obiettivo X-54 raggiunto. Tutto ok!» Poi il comandante ordinò il silenzio radio.

Ogni squadra si formò, quindi si mise in marcia verso la collina. L’ala destra fu assegnata al tenente Taylor. La giornata era splendida. Veniva voglia di viverla. Stormi di gabbiani schiamazzavano alle loro spalle. Ovunque c’era fervore di vita.

Ahimé! Molti di quei ragazzi non avrebbero visto tramontare il sole.

La staffetta, già da lontano, con ampi gesti comunicava il via libera.

«Andiamo!» Il capitano si avviò con gli altri.

Le tre colone procedevano distanziate. Ferguson occupava la parte centrale.

«La savana è deserta» comunicarono quelli della staffetta. «Ci siamo addentrati anche nella boscaglia, diventa presto fitta e impraticabile. Non abbiamo incontrato sorgenti.»

«Per l’acqua bisognerà esplorare la montagna.»

Arrivati alla collina, ben presto l’avanguardia si accorse che la ripidità e la friabilità delle pareti, aggiunte all’infittirsi della foresta, costituivano un problema non previsto sul loro cammino. A sinistra la collina digradava leggermente per finire con un promontorio. Trovarono facilmente un passaggio a nord.

«Taylor ci precederà.»

«Agli ordini, capitano.»

«Vi seguirò fra tre ore. Russel fra sei. Non voglio sorprese in quel budello stretto tra terra e mare. Il nostro obiettivo resta la vetta della collina, da lì si controlla l’arenile.»

L’obiettivo finale era la vetta della montagna. Con calma! Nella giungla sarebbe stato facile mimetizzarsi e installare la stazione radar e la radio. Una volta ispezionata l’isola, per non avere sorprese alle spalle, avrebbero scelto la vetta come sede di comando, lasciando dei distaccamenti nella savana e sulla collina.

«Le coste devono essere sorvegliate giorno e notte, ogni sbarco nemico deve essere impedito.» L’ordine del generale Mac Arthur, attraverso i fitti canali gerarchici, era giunto fino a loro chiaro e forte.

«Tenere l’obiettivo X.-54 ad ogni costo. »

Il soldato semplice Eddy Wilkins giungeva a considerare il “qualunque costo” ad un costo personale di un dito perduto. Purché mignolo e della mano sinistra. Le altre dita gli servivano tutte. Poi pensò che, piccolo com’era, sarebbe stato comunque una grossa perdita. Forse neppure necessaria, in una guerra mondiale!

«Se tutti ragionassero come te, sai dove sarebbero ora i giapponesi?»

«Lascia perdere, caporale» disse Charlie, il negro della Georgia. «Ognuno ha le sue idee. Poi il nostro dovere lo facciamo tutti, no?»

«Le idee sono roba fine, ragazzi. Lasciate perdere. La questione è una sola: di non lasciarcela tutta, la pelle, con tutte le dita attaccate.»

Eddy sentì un  repentino attacco di pelle d’oca. Eppure l’aria bolliva. Gli insetti non davano tregua. Ignaro, riprese a muoversi dritto verso il punto dell’isola che il destino gli aveva assegnato. Là sarebbe caduto il piccolo contadino del Missouri.

L’ATTESA

Lassù, in prossimità della vetta della montagna, occhi attenti videro il convoglio passare, fermarsi, ripartire. Un imponente apparato di attacco e di difesa era preparato e mimetizzato. Trincee e caverne, punti strategici nella giungla nascondevano, ben distribuita nei compiti, una agguerrita e ben preparata squadra d’assalto giapponese. Da un  mese attendevano quel giorno. Dopo che i pochi indigeni erano stati evacuati, avevano nascosto ogni segnale, ogni traccia, ogni indizio sospetto. Il bestiame era stato requisito, nascosto in un recinto, a sud, riparato  alla vista da spuntoni rocciosi sporgenti sopra una fitta, bassa vegetazione.

Durante le ricognizioni aeree, l’isola era apparsa deserta. Gli incursori era annidati in tane e caverne, non avevano trascurato di cancellare tracce rivelatrici. L’ammiragliato nipponico aveva emanato ordini severissimi.

«Tenere l’isola ad ogni costo.»

Con squadre piazzate in punti strategici, formate da pochi uomini, motivati e bene addestrati all’attacco di sorpresa, i responsabili militari del settore volevano impegnare un più ampio fronte avversario, sperando di rallentarne l’avanzata, se non di fiaccare la loro volontà. C’erano molte altre isole occupate e con gli stessi scopi.

Il momento atteso era giunto.

«Sono qui!» aveva detto l’ufficiale comandante, che dal suo bunker spaziava il mare con il cannocchiale.  

«Comandi, signor tenente!» Il suo aiutante lo seguiva come un’ombra.

L’ufficiale radunò i sottufficiali e ordinò il silenzio radio assoluto.

«Nessuno si muova, la sorpresa deve essere totale e risolutiva.»

«Quando agiremo, signor tenente?»

«Oggi stesso, forse domani, forse tra due giorni, dipende dagli yankees.»

Sappiamo che se per un ragazzo del Missouri, resistere ad ogni costo significava al massimo essere ferito, per un soldato della prefettura di Yokohama significava tutto, anche offrire la propria vita all’imperatore, alla patria.

Non solo in guerra, l’esito delle imprese umane dipende sì dalle abilità, dalle competenze, dai mezzi a disposizione, ma anche dalla determinazione, dal livello di convinzione di chi agisce.

Il tenente Kematsu aveva ventitrè anni. Proveniva dalla prefettura di Kyoto. Suo padre era impiegato. Era di umile famiglia. Con notevoli sacrifici, aveva potuto studiare alla accademia militare ed era stato addestrato alla guerriglia nella foresta con corsi accelerati. Si trovava in prima linea per la prima volta. Comandava trenta uomini, come lui, decisi a tutto. Lo spirito combattivo era al massimo. Come se le sorti della guerra nel Pacifico fossero dipese da loro, erano pronti a combattere, a morire, sicuri della vittoria finale. La loro vita e la loro morte avevano uno scopo nobile. Questo pensava.

Accarezzò l’elsa della sua spada, come un guerriero antico. Non sarebbe mai caduto prigioniero, con la sua fedele arma da ufficiale al fianco. Certo, non era sua intenzione morire. L’ordine non era questo, era di tenere l’isola con ogni sforzo, e questo lo poteva fare solo da vivo. Però, in caso estremo, l’arma che il padre e la madre gli avevano fatto dono sarebbe servita a non cadere prigioniero. Ma quest’idea era talmente remota e la certezza della vittoria così incrollabile, che sorrise e si a apprestò a compiere i soliti riti. Estratti da un tubo di bambù alcuni bastoncini di incenso, li accese si inchinò e pregò. Rievocò momenti felici trascorsi in famiglia e alla scuola di kendo dove aveva appreso i primi rudimenti delle arti marziali.

Il caporale Shimaru, dopo una rispettosa attesa, quando lo vide muoversi, gli si avvicinò. Era sulla quarantina. Aveva famiglia. Veniva dalla prefettura di Hiroshima. Da due anni non riceveva notizie da casa. Il lungo periodo di guerra, in Indonesia prima e nelle Filippine poi, non aveva fiaccato il suo spirito patriottico. Tuttavia il ricordo della moglie e dei figli gli tornava spesso nella mente, in quelle lunghe giornate di attesa.

In un momento di pausa, il giovane tenente gli aveva chiesto se aveva notizie della famiglia. Aveva sorriso e gli aveva risposto che aveva una figlia bellissima.

«Dovrebbe affacciarsi ora ai primi corteggiamenti» osò dire.

«Non preoccuparti, siamo tutti sotto le armi. I giovani sono tutti qui.»

Il soldato semplice Katoda faceva il pescatore nell’estremo nord dell’isola di Hokkaido. Aveva passato la sua giovane vita in mare. La prima volta che era andato a Sapporo era stato per il suo arruolamento. Vivere ancora in un’isola non costituiva per lui alcun problema. I limiti di spazio e della disciplina militare non erano inferiori a quelli dell’obbedienza alle regole del mare.

«Come si chiama tua figlia, caporale?» chiese il soldato.

Il caporale Shimaru si sentì per un attimo intenerire. Ma non ebbe tempo di covare ed esprimere una risposta gradevole, perché si notava una certa agitazione intorno. Mormorò appena. «A casa la chiamiamo Farfalla.»

«Caporale!» Il tenente irruppe ferreo e deciso nei suoi pensieri.

«Comandi!»

«Questi ordini subito al gruppo Aquila alla grotta est.»

Prese il messaggio e sparì nella giungla. Quella fu l’ultima volta che il soldato Katoda vide vivo il caporale Shimaru.

Nel suo bunker il tenente consultava con i suoi collaboratori la carta topografica dell’isola. Qualcosa stava avvenendo. Le truppe sbarcate, contrariamente a quanto si sarebbe aspettato, non era dirette alla montagna dove loro erano annidati in forze, ma alla collina. Questo li avrebbe costretti ad uscire allo scoperto. Non era previsto. Doveva aggiornare i piani. Se doveva essere, avrebbero deciso loro quando. Era scattato il piano di riserva. Loro avrebbero atteso ancora sulla montagna. Intanto una squadra suicida avrebbe seminato strage tra i marines sulla spiaggia.

Nella piccola baia alcuni soldati facevano tranquillamente il bagno. Giungeva l’eco delle loro risate e delle oro voci. Nella foresta la vita si svolgeva come sempre. I pappagalli mandavano i loro suoni gutturali, le cime si inchinavano al passaggio dell’aliseo, il mare era liscio e luccicante. Da vacanze! La giornata si annunciava afosa e umida come tante altre giornate precedenti. Niente lasciava presagire l’inferno che presto si sarebbe scatenato.

Il più tranquillo di tutti era il soldato semplice Iroshi Mitsuhara. Aveva l’incarico di vigilare e governare alcuni ovini, sotto lo spuntone di roccia che fungeva da nascondiglio al loro deposito di  provviste e di armi. Aveva l’ordine di custodire il bestiame che forniva loro carne, latte, burro, formaggio. Per un uomo che aveva fatto solo il contadino nella vita, non era certo un  compito difficile o ingrato. Per nessun motivo doveva abbandonare il posto. L’ordine gli era stato dato direttamente dal tenente Kematsu. Gli aveva detto che il suo era un modo diverso, ma essenziale per servire degnamente il Paese, alla pari dei combattenti. All’occorrenza, anche lui sarebbe stato un combattente.

A tutti soldati nipponici del loro reggimento, il colonnello Tomoshiwa aveva impartito ordini altrettanto severi e inflessibili.

«Nessuno deve cadere prigioniero, ciò significa che dovete combattere sempre, senza desistere un solo istante.»

A loro era stato fatto presente che sarebbero potuti venir meno i canali di informazione. Non cambiava nulla. Nulla cambiava l’ordine di resistere. Qualunque ordine diverso sarebbe stato una astuzia del nemico.

«Anche se, in una posizione avanzata, uno solo di voi restasse vivo, dovrà continuare la sua missione di combattente con i mezzi e le astuzie che il terreno  e il nemico gli permettono.»

«Tenere l’isola!» Questo era il chiodo fisso di Mitsuhara. Nient’altro! Per quel che gli competeva lo stava facendo, l’avrebbe fatto sempre.

Anche quel giorno Mitsuhara, in divisa, era intento al suo lavoro. Vide apparire il caporale  Shimaru trafelato.

«Attento, Iroshi, il nemico è sbarcato, evita qualsiasi rumore, tieni riparato il bestiame.»

Il soldato non parve impressionato, porse una tazza di latte al caporale che rifiutò. In un attimo lo vide scomparire in direzione dell’avamposto “Aquila”. Lesto, era entrato in una stretta galleria scavata nella montagna dalla dinamite. Il tunnel, dopo breve percorso all’aperto, tra una bassa vegetazione pressoché impenetrabile, metteva in comunicazione con una caverna naturale, la cui entrata principale scompariva sotto il pelo dell’acqua, durante l’alta marea.

La caverna naturale era uno dei punti di forza nei piani strategici del tenente Kematsu. Vi erano concentrati, in grande quantità, materiali bellici, armi, vettovaglie, tutto ben protetto da involucri  impermeabili contro l’umidità. Dalle pareti stillavano, infatti, rivoli d’acqua, preziosi in una stagione secca come quella. I rivoli confluivano in un bacino, che costituiva un autentico serbatoio idrico di riserva. Con opportuni scavi e derivazioni aveva fatto defluire parte dell’acqua, che usciva dalla pendenza, verso lo spiazzo, sotto il costone di rocce, dove stazionavano gli animali. Là Mitsuhara accudiva alcuni ovini requisiti ai nativi.

Il fatto di essere sbarcati per primi, aveva permesso ai giapponesi di aggiornare le carte in loro possesso e scoprire nascondigli e grotte sconosciute e provvidenziali. La loro difesa, in teoria, era sostenibile a lungo. Solo che non dovevano difendersi, ma attaccare e distruggere il potenziale nemico. Dovevano scoprirsi per primi, sorprendere.

Gli indigeni residenti, una cinquantina di pescatori, che stazionavano ai margini della piccola baia e della collina erano stati evacuati. Ogni loro avere, dal bestiame agli attrezzi, alle capanne era stato requisito o distrutto. In poche settimane la rigogliosa vegetazione tropicale aveva cancellato ogni traccia della loro recente presenza.

Sulla montagna la vigilanza era continua e attenta. Il tenente, indossata una divisa nuova fiammante, attendeva con assoluta fermezza e calma il momento dell’azione.

Il soldato Katoda, agli ordini di un caporale, con altre tre compagni, era rintanato, faccia a terra, in una macchia di alte felci. Sentiva le tempie pulsare dolorosamente. Il cuore schiacciato al suolo sembrava farlo balzare ad ogni battito. Pareva estraneo alla sua paura e alla sua consegna. Erano due sentimenti in lotta. Aveva paura di morire!

«Non dovete avere paura di morire!»

In una giornata così bella! Alle soglie della primavera e della giovinezza? Quali follie sanno mai organizzare e condurre a termine gli uomini? Perché la guerra? Alla fine gli uomini sanno trovare accordi impensati. Perché non si fanno prima? I pensieri di Katoda, erano invisibili, per fortuna. Poteva essere accusato di tradimento. Conosceva la consegna. Sarebbe stato fedele alla sua consegna!

Le brume in Hokkaido, lo sciabordio delle onde contro la chiglia della barca, il grido del capopesca, le sciabolate luminose delle luci del faro erano ricordi lontani. Sempre più evanescenti, come le brume. Non lo sapeva, ma erano tutte esperienze che non avrebbe mai più rivissuto.

La morte violenta, l’unico timore degli uomini su questa terra, era affannosamente, rabbiosamente cercata e inferta. Alla pari subita. Follia!

Perché?

Bisogna rispondere. La morte era la regina, in quell’isola, in quel gennaio 1945.

Niente è più iniquo e assurdo della guerra.

E’ una azione imperfetta, innaturale. Spinge uomini contro altri uomini. Sogni contro altri sogni. Speranze contro altre speranze. Lacrime contro altre lacrime. Gioventù contro altra gioventù venuta al mondo per altre cose. Non sono eventi imponderabili, non sono terremoti, non sono meteoriti che cadono sulla terra, non sono vulcani disastrosi, sono azioni studiate, programmate, condotte a buon fine! Poi, sulle macerie, si firmano gli accordi, i patti, si fa la pace, si elevano i monumenti, si permettono le concessioni che si ritenevano impossibili.

Ragazzi miei, non andate alle commemorazioni! Cosa dico? Sì, avete capito.

I vecchioni che oracolano, che vi dicono ancora che qualcuno aveva ragione, loro!, e qualcuno aveva torto, gli altri, vi usano. Vi aizzano. Agitano l’indice, ammoniscono, si commuovono, si fingono saggi.

I vostri coetanei, sì!!! erano vostri coetanei! con le occhiaie spente sotto i marmi lucidati dalle lacrime delle madri esangui, non vogliono altre parole. Non vogliono sentire l’offesa di altre parole. Tra inni e coccarde, trombe e vessilli si fanno vibrare corde di insane voglie, di valori altrimenti meritevoli. Attenti!

Appartatevi, ragazzi, chinate il capo riverente, da soli. Pregiamo per loro così.

In cimitero si sta raccolti, si sta pensosi, non in tripudio.

No! I morti non vi vogliono sentire, oratori!

GLI ESPLORATORI

 Gli esploratori procedevano lentamente. Le insidie della giungla potevano nascondersi ovunque. Con il machete si aprivano la strada verso la vetta della montagna. Le scimmie spaventate schiamazzavano in continuazione. Le lunghe liane attorcigliate ad alberi possenti e altissimi sembravano rettili antidiluviani. Erano partiti in sordina, subito inghiottiti dalla boscaglia.

I cinque esploratori avanzavano con cautela. Il terreno era difficile e le sorprese potevano essere

sempre in agguato. Il caldo umido era opprimente, ogni passo era una sofferenza. Oberati di armi e di apparecchi per le trasmissioni radio, procedevano lentamente.

«Fermiamoci qui» ordinò il sergente che comandava la pattuglia, a ridosso di una spalletta muschiosa.

«Era ora» mormorò un soldato di colore, alto e grosso come un macigno. Scacciò alcuni insetti

che s’attardavano sulla sua pelle madida di sudore. Posò a terra la carabina. Tolse lo zaino e bevve avidamente dalla borraccia.

«Vai piano Grosso Bill, la giornata è lunga.»

«E’ quasi vuota, dobbiamo trovare una fonte.»

Rari raggi di sole, scovando un varco tra la fitta vegetazione, filtravano fino a terra squarciando piacevolmente la vasta penombra.

Seduto su un masso, il sergente Harris studiava la posizione con il caporale Stevens.

«Fin che siamo in salita non possiamo sbagliare. La montagna è fatta a punta, e là che dobbiamo andare» scherzò.

«Già, purché non finisca in cielo questa montagna.»

A petto nudo, uno dei marines brontolava scuotendo la testa. Brontolava perché era obbligatorio! Tutti brontolavano. In realtà era il più tranquillo e pacifico di tutti.

«Che c’è cow boy?» chiese il sergente.

«Mai visto foreste simili!»

«Avevi visto solo le praterie del Texas, vero?»

«Oh, il Texas!» mormorò socchiudendo gli occhi e immaginando le cavalcate al seguito delle mandrie al pascolo. Pur in quella terribile situazione, i suoi pensieri erano tutt’altro che bellicosi.

In disparte, silenzioso, ancora con lo zaino in spalla, occhio vigile sotto l’elmetto, il quinto esploratore non partecipava alle conversazioni. Era un pellerossa. Viveva in città, faceva il muratore a Chicago, conservava tutti i sensi attenti e vigili dei suoi antenati. Sapeva ancora sentire l’arrivo della pioggia, a distinguere suoni in mezzo ai rumori, a fiutare la pista, a capire i silenzi.

«Non mi piace» sussurrò.

«Cosa hai sentito, Joe» chiese Grosso Bill.

«Ascolta…»

«Non sento niente.»

«Già! Sembra che la foresta sia diventata di pietra. Non un uccello, non un grido, non un movimento, perché?»

«Davvero strano, così all’improvviso… »

«Non impressionatevi, ragazzi!» Intervenne il sergente. «Tra poco riprenderemo la marcia, così il rumore lo faremo noi.»

Però le osservazioni di Joe non erano campate in aria. Ognuno per conto suo ci pensava. C’era un silenzio innaturale intorno. Metteva a disagio. Avevano combattuto in prima linea, avevano visto compagni, divenuti fratelli, cadere immoti. L’aridità del loro cuore, che scambiavano per forza d’animo, aveva consumato la corda della pietà: provavano solo una pena passeggera. Eppure fecero silenzio.

S’udì ad un tratto un suono. Al girar del vento. Ma sì! Era un fruscio familiare, era acqua che gorgogliava tra le ghiaie.

«Viene di qua!»

Si diressero eccitati verso il suono amico. La salita, la vegetazione, il carico non permettevano loro di correre. Tuttavia giunsero ben presto in una radura. Ai suoi margini, tra i sassi, scorreva l’acqua. Fresca, purissima sgorgava da una sorgente nascosta tra gli anfratti e si dileguava a valle assorbita da muschi e licheni sparsi ovunque. Gridando e schiamazzando come bambini si gettarono sul ruscello.

Joe avanzava cauto, guardingo. Era rimasto indietro. La strana sensazione che l’avevo reso guardingo non era del tutto dissipata dalla gradevole scoperta.

Grosso Bill, dopo essersi dissetato, si mise in testa l’elmetto pieno d’acqua mandando alte grida di soddisfazione.

«Ragazzi, dobbiamo portare a termine la missione» disse il sergente richiamando tutti alla realtà. «Andiamo, la vetta è vicina.»

Appena raggiunta la vetta della montagna, avrebbero piantato la tenda e installato la stazione radio.  Poi, Stevens e il cow boy sarebbero ritornati al campo a dare la notizia ok! e avrebbero fatto da guida agli altri.

I loro destini si dividevano per sempre.

«Sergente!» gridò Joe. La sua voce aveva avuto un suono metallico, rapido. Inconsueto.

«Che c’è!»

«Venite.»

Accorsero tutti. Vicino all’indiano, sulla riva del ruscello, dove l’acqua stagnava appena, prima di essere assorbita dalla bassa vegetazione, scorsero nitida e fresca l’impronta di uno stivale. Dai contorni fu chiaro che non era in loro dotazione.

«Giapponesi!» mormorò il sergente, e la voce gli morì in gola.

«Al riparo. Sono qui.»

«E pensare che sembrava una vacanza » ribadì Grosso Bill.

Furono immediatamente consapevoli del grave pericolo che incombeva. Su loro e sui compagni ignari. Ci sono varie sfumature di solidarietà. Quella sublime è pensare agli altri, prima che a sé stessi.

Il sergente ebbe istanti, non minuti! per prendere una decisione. Non c’era tempo davanti a loro. La radio? Non c’era tempo. I Giapponesi, vistisi scoperti, avrebbero attaccato subito e per i loro compagni non ci sarebbe stato scampo.

«Stevens, Cow boy tornate alla base immediatamente. Avvisate il comandante. O noi o loro sull’isola.» Si guardarono fissi, consapevole che difficilmente si sarebbero rivisti a questo mondo. I due si dileguarono in un attimo.

La missione doveva continuare, fingendo. Tentando di fingere di essere ignari della trappola in cui stavano cadendo, provavano a dare tempo e respiro al comando.

Grosso Bill continuava a prendersela con  le zanzare e a grattarsi. Aveva il collo e i polsi gonfi.

«Temo tremendamente gli insetti» riuscì a dire.

La piccola pattuglia riprese a salire. Tutti e tre sapevano che il loro compito era ormai ridotto a sensazioni da trasmettere, più che da stazione radio da installare. Dovevano dimostrare che non si erano accorti di niente. Come in trance, in religioso silenzio ripresero a salire. In altre circostanze una situazione simile avrebbe scatenato il più ovvio istinto di reazione, di tentativo di sottrarsi a morte sicura. Subdola si era insinuata la certezza che quello! che altro sennò? è ciò che attende il soldato. Normale! Una morte violenta, assurda.

La guerra non solo aveva offuscato i loro sentimenti, ma li aveva stravolti al punto da renderli immuni al richiamo del più profondo degli istinti: salvare la vita.

Cari ragazzi di quinta C, la guerra non dovrebbe essere materia di studio. Non ha giustificazioni. I monumenti  sono scuse tardive dei superstiti.

Quando furono circondati, in prossimità della vetta, neppure se ne accorsero. Furono pugnalati proditoriamente. L’unico ad accennare una difesa fu Joe. Deviò appena la lama. Era il più selvatico, il più naturale. Cadde morente, gli altri erano rimasti sul colpo.

Agonizzante, ebbe la forza di alzare la testa. Non c’era nessun altro. Scorse vicino Grosso Bill. Che strano! Grandi formiche nere correvano a scatti sul suo volto e lui non le scacciava. «Che strano» pensò. Un fascio di luce gli entrò dagli occhi e scese fino in fondo alla sua anima. Da quel varco immaginò la sua anima salire in cielo. E fu così.

Dal suo bunker intanto il tenente Kematsu ascoltava il rapporto dei suoi esploratori

«Erano in tre» riferì il capo pattuglia.

«Ne siete certi?»

«C’erano soltanto quei tre, signor tenente.»

«Allora il tempo gioca ancora in nostro favore. La loro assenza non desterà sospetti per almeno 24 ore. Il margine è sufficiente per portare a termine il mio piano.»

Man mano che il momento dello scontro decisivo si avvicinava, anche in campo nipponico cominciò a serpeggiare nervosismo e grande tensione.

Tra le insenature della scogliera, ad est, piccole piroghe a  bilanciere cariche di reti da pesca, con uomini suicidi, attendevano l’ordine di salpare, di dare il via al piano d’attacco preventivo.

LA TRAPPOLA

 Gli uomini di pattuglia del tenente Russel erano di ritorno. Scoperta una via, erano riusciti a raggiungere la cima della collina. Sulla carta era segnata punto “D”. La loro relazione dettagliata e precisa era seguita attentamente. Ci furono domande e spiegazioni brevi..

«Un baluardo formidabile.» All’occorrenza, con munizioni e viveri, si poteva esistere ad oltranza da lassù. «Solo l’aviazione potrebbe snidarci.»

Russel fece alcuni passi intorno e guardò la collina. Cera qualcosa che non lo convinceva.

«Non le sembra strano, sergente, che, a differenza delle altre isole, qui non ci sia un villaggio, non ci sia una capanna…»

«Un villaggio?  Beh, non dico proprio un villaggio! Sì, abbiamo notato dei pavimenti in pietra con segni di fumo. Però l’erba tra le sconnessure è alta. Rozzi strumenti di lavoro, brandelli di reti da pesca sono sepolti in una buca. Gli abitanti? Potrebbero essere fuggiti in altre isole più tranquille, all’avvicinarsi del fronte di guerra.»

«Esiste un posto così? C’è qualcosa che non mi convince. Bisogna avvisare il comando.» Stilò una nota. «Inviate subito una staffetta a riferire.»

Sotto una tenda da campo, in boschetto di acacie, il tenente Russel  ebbe la sensazione che la situazione fosse del tutto anomala, innaturale. Tutto era stato troppo facile, fino a quel momento. Non per quello che avevano scoperto, ma per quello che non si vedeva, che non si capiva.

«Questa è una trappola» disse.

Il tempo intanto scorreva senza apparenti intoppi. Il sole cominciò a declinare ad occidente. Prima di notte si sarebbero ricongiunti al grosso delle truppe, come d’accordo. Attendeva con impazienza l’ora stabilita.

Le sue riflessioni furono ad un tratto interrotte da un vociare confuso e concitato proveniente dalla spiaggia. Un marine entrò trafelato.

«Tenente, venga!»

Il tenente Russel, impugnando la pistola d’ordinanza, si slancio all’aperto. Ciò che vide lo colpì come un pugno in faccia, perché servì, inaspettatamente, a sgonfiare la tensione interiore che andava paurosamente crescendo.

A meno di mezzo miglio dalla costa, alcune piroghe di pescatori rientravano lentamente nella baia. Si vedevano chiaramente gli uomini a torso nudo manovrare timoni e remi per superare la risacca. Sparivano negli abissi e apparivano subito sulla cresta delle onde. Visti da lontano, sembravano tanti piccoli ragni aggrappati a gigantesche ragnatele lucenti. I riflessi disturbavano la vista.

«Molte cose si spiegano ora» sospirò. Giunse trafelato alla spiaggia, dove già erano radunati i suoi uomini. Cinque leggere imbarcazioni si stavano avvicinando. Si udivano voci concitate e incomprensibili intervallate dai fragori delle onde che risalivano con la marea. Alcuni si tolsero l’elmetto e salutarono agitando le braccia gli straccioni che stavano approdando.

«Scommetto un dollaro che arriva prima la barca di sinistra.»

«Tre dollari che arriva la piroga di centro.»

«Ci sto!»

«Basta, ragazzi.»

«Si fa per dire, tenente. Tanto non abbiamo nessun dollaro.da giocare.»

La piroga di centro approdò per prima.

«Mi devi tre dollari» disse il marine che aveva vinto. «Lo scrivo nel mio libro.» Aveva davvero il foglio delle scommesse.

I cinque pescatori scesero con fatica dalle loro imbarcazioni spossati e impauriti. Sembravano sorpresi. Erano seminudi. Avevano vistosi perizoma annodati ai fianchi e ampi fazzoletti fasciavano il capo.

«Sono polinesiani» disse il sergente.

«Come faremo a comunicare con loro?» disse il tenente.

«C’è un interprete filippino di guardia alla base.»

«Fatelo venire!»

I pescatori intanto, lasciate le loro imbarcazioni, sembravano rinfrancati. Scaricati reti e pescato, si strinsero in gruppo.

«Non spaventiamoli, ragazzi.»

«Spaventarli? Sono loro a spaventare noi. Sono tutto pelle e ossa. Sembrano già scheletri.»

«Conduceteli qui.»

Quello che sembrava il capo, con  ampi gesti della mano e ripetuti inchini, salutò il tenente.

«Chi siete? Come ti chiami?»

L’uomo continuava ad esprimersi a gesti senza parlare.

«Da dove venite? Dov’è il vostro villaggio?»

Il capo sembrava smarrito, confuso. Fece cenno di non comprendere. I marines incuriositi e divertiti accerchiarono il gruppetto di pescatori. C’erano quasi tutti.

«Ecco Morales, tenente.»

Il filippino, ansante, si fece largo. Parlò. I pescatori si irrigidirono, cambiarono volto.

«Come li avete catturati?» Impugnò la pistola e la puntò verso il capo dei pescatori.

«Sei impazzito?»

«Tenente, sono giapponesi. Attenzione, sono cariche esplosive viventi. Kamikaze!.»

«Calma Morales! Chi vuoi disarmare? Degli uomini nudi?»

Come presi  dal panico, approfittando della curiosità e della disattenzione dei soldati, i cinque pian piano si stavano allargando, come se ognuno cercasse una via di fuga separata.

«Ehi, un momento!» Disse il marine che masticava tabacco «chi di voi mi ha fatto vincere tre dollari? ?» Offrì la sua sigaretta accesa.

Furono le sue ultime parole. Con un gesto fulmineo, il capo dei pescatori gli tagliò la gola. Impugnava una lama corta comparsa come per incanto dalla stoffa annodata alla testa.

«Addosso!» urlò il tenente.

In un attimo furono presi e immobilizzati. Quegli occhi pacifici, quei volti inespressivi si erano trasformati: erano l’immagine di una ferocia disperata, assurda, finale.

«Certamente non sono soli, tenente» disse Morales, guardandosi in giro guardingo.

Il soldato che aveva perduto la scommessa guardò il compagno caduto. Che strano! La bocca aperta era immobile, mostrava i denti anneriti dal tabacco. Non blaterava più! Mandò un ghigno atroce e si avventò sul primo dei nemici colpendolo a calci e pugni, poi impugnò una lama.

«Non perdete la testa! Sono prigionieri di guerra!» urlò il tenente.

Richiamati dalle urla, quasi tutti si erano ammassati sul posto.

I pescatori si scossero all’unisono. Esplosero insieme. Erano davvero granate viventi. Schegge micidiali furono proiettate in tutte le direzioni.

Sulla spiaggia ovest, che il comando militare indicava come punto “Zero” dell’obiettivo X-54, nessun uomo era più in piedi. Coloro che non erano morti erano spaventosamente mutilati. Il tenente Russel era stato decapitato.

Il piano di Kematsu era perfettamente riuscito. Con poche perdite era riuscito a decimare una parte importante degli incursori alleati. Seminando il panico tra i superstiti che non si rendevano nemmeno conto di cosa fosse successo, senza scontro aperto.

Il commando suicida, camuffato perfettamente da pescatori, era riuscito ad attirare un gran numero di invasori attorno a loro, senza sospetto alcuno, prima di far scattare i potenti esplosivi nascosti dai loro perizomi.

Quando i soccorritori giunsero sul posto trovarono una carneficina. Solo qualcuno si lamentava a terra.

«Troppo tardi! Siamo giunti troppo tardi.» Il capitano era sconvolto.

I due esploratori, scesi dalla montagna, avevano portato a termine la loro missione, ma non era servito a salvare la pattuglia Russel.

Il primo giorno sull’isola non era ancora trascorso. Molti dei giovani che all’alba, irridenti del pericolo, avevano calpestato la molle sabbia, prima del tramonto ne venivano ricoperti per sempre.

C’era in tutti i superstiti una grande angoscia.

Il capitano capì di avere di fronte un nemico astuto, cinico, invisibile. Di esso non conosceva neppure l’entità e la posizione. Si adunarono al campo di fortuna appena eretto. Raddoppiò le sentinelle.

Quella notte nessuno era disposto a chiudere occhio. Ogni fuoco era stato spento.

Nella sua tenda, con i suoi stretti collaboratori, il capitano Ferguson era l’immagine statuaria del generale imbarazzo. Un tic nervoso gli faceva ballare il mento.  Venticinque uomini, un quarto del suo contingente, era fuori combattimento, tra morti e feriti. L’azione che aveva portato alla distruzione della squadra Russel era iniziata e si era conclusa senza che venisse fornita loro la benché minima idea delle future intenzioni del nemico. Da dove avrebbe colpito ancora? Spiegò ai suoi che nuove azioni si sarebbero succedute a breve, per approfittare del loro naturale sbandamento e dell’effetto sorpresa. Le congetture furono diverse, nessuna sostenuta da elementi concreti e precisi.

«La guerra non è fatta di supposizioni, di queste si muore» tagliò corto il capitano. «Non possiamo fungere da bersaglio. Dobbiamo agire.» Seguì un lungo silenzio. Era quello il problema.

«Dobbiamo cercare di intuire quali potranno essere le loro prossime mosse conseguenti. Ebbene sono venuti dal mare! Ma non si viene da lontano con quelle imbarcazioni. Le piroghe sono partite da qui! Il nemico è ben saldo qui. E’ rintanato sulla montagna, l’unico nascondiglio ampio e sicuro, per chi se ne è impadronito per primo. Bisogna costringerli a modificare la loro strategia, togliere loro l’iniziativa. E’ la collina il nostro punto di forza. E’ dalla montagna che dobbiamo guardarci!»

«Questo è certo» confermò il tenente Taylor.

«La missione del sergente Harris sarà portata a termine entro domani, allora ne sapremo qualcosa di più. Anche se, a questo punto, mi assilla un altro timore sul suo esito. Gli esploratori hanno riferito di tracce trovate lassù, ma ciò non significa che non sia un diversivo. Tutto dobbiamo temere.»

Tali espressioni del comandante contraddicevano le sue avversioni per le supposizioni. Ma nessuno fiatò. Si sarebbe trattato di altra supposizione.

La situazione era molto complicata, perché rallentava qualunque azione sensata, in mancanza di indizi certi sulla posizione e sulla consistenza del nemico. Data anche la natura del terreno, non si trattava certo di truppe inquadrate, ma di guerriglieri che potevano benissimo agire per squadre scelte e autonome. Erano davvero disorientati e impantanati. Riuscì anche a sogghignare per l’ardito paragone.

«Capitano, dobbiamo individuare un posto più sicuro, più difeso di questo esposto a qualunque attacco da qualunque punto.» Il tenente Taylor camminava su e giù inquieto.

Entrò il sergente Carter, scattò sull’attenti facendo il saluto.

«Che c’è Carter?»

«Gli uomini sono inquieti, capitano.»

«Hanno ragione. Date ordine di sparare a vista. Non si fanno prigionieri.» Fece una pausa. Era un uomo di cinquant’anni, di aspetto atletico, giovanile. Gli tremava il mento continuamente. Per chi non lo conosceva, quello sarebbe stato un elemento estremamente pericoloso per il morale della truppa.

«Ordinate loro la calma» urlò.

«Signorsì!»

Uscendo il sergente Carter era molto scosso dalla assurdità del comando. Come si può dire a un uomo che teme di essere ucciso a tradimento: calma! Quell’ordine era una palese conferma che i timori della truppa erano motivati e confermati anche a livello di comando.

«Capitano!» disse d’improvviso il tenente Taylor, estraendo una sigaretta dal suo contenitore laccato. «La prego di prendere in seria considerazione la mia proposta »

«Quale proposta?»

«La collina! Dobbiamo scompaginare l’evidenza. Dobbiamo scompaginare i piani troppo scontati del nemico. Dobbiamo costringerlo a scoprirsi. E’ l’unico modo per poter capire e contrattaccare con qualche probabilità di successo.

«Buonanotte, tenente. Buonanotte signori!» Fu questa la sua risposta. Congedò i suoi collaboratori e si distese sulla piccola branda da campo.

Il tenente spense la sigaretta e uscì all’aperto. I sottufficiali raggiunsero i loro uomini.

«Guardi che luna, tenente!» Era una voce uscita dalla penombra.

«Sei tu, Wilkins?»

«Sono io, tenente.» Era i piccolo contadino del Missouri.

«Scorderò che una sentinella non può parlare. Ma hai ragione. Però guarda che qui le lepri siamo noi. All’erta!»

Discese nella sua buca e, con il pensiero alla famiglia lontana, chiuse il portasigarette rimanendo con gli occhi socchiusi.

MISSIONE COMPIUTA!

Il trasferimento sulla collina fu deciso. E avvenne senza altri incidenti. Fu molto faticoso, non solo per l’asperità del terreno, molto friabile, e la pendenza, ma anche per il trasporto dei feriti da medicare in un clima difficile per la calura. Le trincee scavate sul crinale della collina impegnarono durante gli uomini. Per alcuni giorni. Dovevano essere terrazzate per impedire ulteriori frane. La cima invece era di granito.

«Piuttosto interessante» pensò Taylor. In altra occasione avrebbe voluto sapere perché una simile differenza in spazi così ristretti.

Durante il trasferimento non ci fu alcun segno  di presenza nemica.

Il ritorno della spedizione dalla montagna fu atteso invano. Fu chiaro che i tre uomini erano da considerarsi perduti.

Il capitano, all’inizio riluttante ad ordinare il trasferimento sulla collina, era ora convinto che la nuova posizione raggiunta li metteva in condizioni favorevoli in uno scontro con i giapponesi. Era quello che si era sempre ventilato, del resto. Dall’alto, con un fuoco di mitraglia avrebbero dominato le due zone pianeggianti dell’isola.

Ma i giapponesi non si vedevano. Era ormai evidente che si trovavano bene asserragliati e nascosti sulla montagna.

«Perché non vi fate vivi?» si chiedeva il capitano.

«Probabilmente sono in inferiorità numerica, attendono una nostra mossa.»

Il capitano s’infuriò.

«Probabilità, supposizioni, eventualità… tenente, non siamo alla roulette, siamo in guerra.»

«Comandi capitano!» disse secco il tenente. Batté i tacchi e si congedò.

Le indecisioni del comandante, le sue fantasticherie cominciavano a pesare e a tenere sulle spine i suoi ufficiali e sottufficiali.

Il tenente Taylor percorse lentamente la cima della collina tra i soldati impegnati a completare le fortificazioni. Alcuni, nonostante tutto, era allegri e scanzonati, lavoravano con la pala e la piccozza di buona lena. Anche in maniera forsennata. Per scacciare la paura, i cattivi presentimenti.

La macchia imponente della montagna era là,  immobile, stampata contro un cielo azzurro scuro. Racchiudeva, serrava segreti e minacce. I pensieri del tenente erano come tanti cavalli imbizzarriti. Il loro comandante era come paralizzato in una penosa, pericolosa impotenza. Si erano trovati di fronte a eventi inattesi e gravissimi. Che fare?

Già! Non solo in guerra questa domanda è di una importanza dirompente e determinante. La paralisi non è una attesa di scelta, è già una scelta. La peggiore.

«Non possiamo stare fermi all’infinito. Dobbiamo stanare il nemico» pensava.

«Tenente!» Era la voce di un ragazzo che stentava a parlare, a deglutire.

«Che c’è ragazzo?»

«Qui manca l’acqua.»

Il problema cominciava già a farsi sentire. Avevano trascurato il fatto. Avevano calcolato altrimenti.

La sistemazione sulla collina, intanto, andava concludendosi. Le loro postazioni erano difendibili. Avevano munizioni e viveri in abbondanza. Solo una carenza prolungata di acqua avrebbe potuto rendere precaria la loro posizione. Erano ben piazzati, pronti a difendersi e a contrattaccare con successo. Ma chi? Dei giapponesi, dopo il tragico evento sulla spiaggia, non c’era nemmeno l’ombra.

La calura e il sudore rendeva impacciati i movimenti. Mentre camminava tra gli sterpi e le trincee, a testa bassa, il tenente maturò una sua idea. Ritornato sui suoi passi, entrò nella tenda del comandante. Lo trovò sveglio. Se ne stava pensieroso, con la camicia sbottonata, in disordine come chi si è girato e rigirato in  branda senza chiudere occhio.

«La sua idea, tenente? Bella idea!» Era fermo ancora al precedente colloquio.

Non rispose. Aspettò che finisse il suo sfogo.

«Una trappola! Ecco cos’è questa collina! Dove si trova l’acqua? Mi dica? Dove? Siamo come assediati qui. Ecco cosa siamo.»

Ripeteva i concetti per comunicarli, ma anche per confermare sé stesso. Il cambio di opinione è frequente nelle persone titubanti. Il capitano continuò a brontolare, ad accusare, a porsi interrogativi.

«Sono seriamente preoccupato, tenente» sbottò infine. «Se fossimo in contatto con il nemico sarei meno preoccupato. Ecco! Capisce cosa voglio dire?»

Il tenente compì un gesto abituale. Aprì il portasigarette, ne tolse una, ma non l’accese subito.  Seduto su uno sgabello, la picchiettava sulla scatola metallica, come per ricompattarla, prima di accenderla.

«Capitano» disse infine «temo abbia ragione lei.» Aspettò per vedere l’effetto delle sue parole. «Qui siamo assediati. Ma non dai giapponesi. Dalla nostra inazione.» Silenzio. Aspettò ancora per vedere la reazione alle sue affermazioni, forti e imbarazzanti. Il capitano lo guardava sbigottito, incuriosito.

«I giapponesi non verranno ad attaccarci. Ci aspettano nella giungla,  ben riparati e fortificati. E’ là che siamo costretti ad andare per stanarli, perché questa è la nostra missione e perché sulla montagna c’è l’acqua. La conquista dell’isola è lo scopo della nostra missione. Chi tiene la montagna tiene l’isola! Ora noi siamo svantaggiati. Già! Dobbiamo trovare la via per uscirne.» Si fermò per vedere la reazione del capitano.

«E’ questo il punto sospirò» intuendo dalle parole del suo ufficiale che stava per suggerirgli qualcosa di importante.

«La radio!» disse il tenente.

«La radio? Non la dobbiamo usare, non la possiamo usare, il nemico…»

«Il nemico sa già, non le pare?»

«Eh, a questo punto!» Sembrava una frase banale, invece stava aprendo gli occhi e lo disse così.

«Dobbiamo chiedere l’intervento dell’aviazione, dare la posizione del nemico e farci così spianare la strada per la montagna. Altrimenti cadremo tutti sotto il loro tiro a metà pendio.»

Il capitano si abbottonava e poi si sbottonava la camicia. Si muoveva a scatti. Stava convincendosi. Ma voleva verificare che anche il suo primo ufficiale fosse convinto della sua proposta. Temeva un esercizio intellettuale di indicare una strategia, senza esserne responsabile.

«Cosa suggerisce, tenente?»

«Diamo le posizioni in codice, chiediamo l’aiuto dell’aviazione. Non vedo altra scelta. E’ assurdo mettere a repentaglio la vita degli uomini, con possibilità scarse o nulle di raggiungere l’obiettivo.»

«Qui intorno ci sono le nostre unità navali, le nostre portaerei, di devono essere… altrimenti…»

«Altrimenti cosa?»

Il marconista, fatto chiamare, era lì pronto. Guardava il capitano.

«La zona è un formicolio di navi. Lo sappiamo!» Azzardò.

Il capitano Ferguson si scosse. Diede l’ordine di lanciare via radio la richiesta di intervento rapido dei caccia.

Il messaggio fu captato da un convoglio diretto a nord, a più di cinquanta miglia a ovest. Avrebbero chiesto ordini al comando superiore. Era un modo normale per dire: arrangiatevi!

Il marconista continuò per un’ora a martellare i suoi pulsanti, a lanciare richiami di soccorso in codice. Ma non ebbe più segnali di risposta.

«Ci hanno sentito, questo è certo. Vedrete che tutto andrà per il meglio.»

La cosa era stata fatta, ma il capitano si rabbuiò ugualmente e uscì in un’esclamazione terrificante per chi lo ascoltava.

«Bah!»

Era quasi mezzogiorno. Già da due ore gli uomini avevano smesso le operazioni di movimento. Se ne stavano riparati ai bordi della boscaglia. Solo le sentinelle camminavano sul costone infuocato. Avevano il cambio ogni ora.

Wilkins e Smith, dopo aver consumato il pasto, seduti vicini, pensavano al modo migliore per dissetarsi. Non era difficile! Il bisogno era tanto e la guardia si abbassava paurosamente. Bastava spostarsi inosservati di qualche centinaio di metri e procurarsi gli ananas che già avevano scorto in precedenza. Ma la consegna era severa. Nessuno doveva allontanarsi, per nessuna ragione!

I due soldati guardarono i movimenti delle sentinelle e, appena parve loro di essere inosservati, si gettarono nella boscaglia sottostante. Procedettero a zig-zag strisciando sulle pareti dove il pendio era ripido. Giunti a un boschetto si rifornirono copiosamente di frutta succulenta che addentarono avidamente. Stavano già rientrando quando a Smith parve di vedere tra il fogliame qualcosa che si muoveva in maniera innaturale.

«Giù Wilkins!» bisbigliò

Appiattiti sul terreno, spiarono nella direzione indicata.

Circospetto, come chi sta per sorprendere una lepre rintanata, un soldato giapponese armato, con la baionetta in canna, si muoveva tra le alte felci senza inclinarle. Non poteva essere solo. I due erano stati notati? Erano cercati?

«L’abbiamo scampata bella» sussurrò Wilkins.

«Stai buono! Non è finita. Aspettiamo che se ne vada, poi rientriamo e diamo l’allarme. Qui cambia tutto.»

«Gli sparo» disse Wilkins. Come avrebbe fatto, incollato al suolo com’era? Non lo sapeva nemmeno lui. Ci pensò e si sentì paralizzato, impotente.

«Sei matto? Potrebbero essercene altri e per noi sarebbe finita.»

«Sì, ma … e i nostri?»

«Pensa  a te, ora!»

Il giapponese li sorpassò a distanza. Non pareva insospettito. Lasciarono passare alcuni minuti. Ma proprio quando stavano per muoversi, per lo steso sentiero videro avanzare altri tre giapponesi.

«E’ un agguato!»

«Ci attaccano!»

Era un’ora impossibile per la calura e il bagliore accecante. Al campo stavano riposando. Le sentinelle stordite dal sole e dalla sete camminavano lentamente scrutando i margini impenetrabili della boscaglia senza convinzione.

«Spara! Dobbiamo avvisarli» implorò Wilkins.

«Sì! Tienti pronto! Il primo che passa lo facciamo secco. Poi…» Non concluse. Gli mancava il fiato, la saliva.

Passarono ancora alcuni minuti senza alcun segnale, alcun movimento sospetto. Poi, su tutta la collina, sembrò scatenasi un uragano. L’attacco giapponese nel luogo e nel momento più imprevedibile era scattato. Udirono urla, lamenti ordini, richiami tra il crepitare della mitraglia e dei mortai. Pallottole sibilavano da tutte le parti.

I due marines si guardarono in faccia, bianchi come la morte. Poi, come morsi da serpi, scattarono in avanti sparando all’impazzata alle spalle degli attaccanti e gridando come forsennati.

Smith cadde a metà scarpata. Rotolò con un grande grido sotto una roccia, all’ombra.

«Destino infame!» ghignò. Quello stesso masso l’aveva appena scavalcato con un solo balzo.

Non spirò subito. Fece in tempo a pensare che se fosse stato più debole non sarebbe giunto puntuale all’impatto con la traiettoria del proiettile vagante che gli aveva aperto la testa. Come sono strani i pensieri!

Willkins stava un po’ più avanti. Neppure se ne accorse. Con lo zaino colmo di ananas scomparve nel polverone della mischia, rischiando di restare fulminato dai suoi.

La lotta, accanita e atroce, finì all’arma bianca.

Quando scesero le prime ombre della sera, sulla collina calò anche il sipario su quella rappresentazione tragica.

Non ci furono più attori, testimoni, spettatori. Tutto fu!

Fu tutto inutile.

La guerra! Questo micidiale gioco degli uomini, con le sue regole e le sue convenzioni, stabilite e sottoscritte prima, come per un normale incontro di rugby o di calcio, aveva aggiunto un altro capitolo alla lunga storia aperta da Caino.

Sì!

Ragazzi!

Parlo a voi, ragazzi di quinta C. Un giorno leggerete queste pagine. Lo spero. Finirò allora la mia lezione. Finirò di spiegarvi la fine e la morale di questa storia.

Dovete sapere che le guerre vengono celebrate per anni per dimostrare quanto si è stati bravi nello sconfiggere qualcuno! Ovviamente motivati da grandi ideali. E’ questo amor di patria? Che cos’è la patria? E’ la terra dei nostri padri con la gente che vi abita. Ci sono altri modi per essere patrioti? Credo di sì. Con il lavoro, con la solidarietà, con la cultura… Vengono eretti monumenti che elencano i valorosi caduti. Giustificazioni postume,  fredde, di pietra. Sappiate che nessuno di loro voleva essere rimembrato in quel modo: con caratteri di piombo su una lastra di marmo in ogni paese, destinato a colombaia per tutto l’anno, escluso il IV Novembre. Ci siano cerimonie pietose senza schiamazzi, senza esibizione di celebranti!

Che ne dici Wilkins?

Eddy Wilkins, gravemente ferito da un colpo di baionetta al basso ventre, si stava dissanguando. Non poteva muoversi. Non poteva far niente. Scoprì che non gli interessava. Era già lontano da sé. Consapevolmente. E intuì la sua schifosa condizione di assenza del gusto della vita.

Per alcune ore sentì altri lamenti, imprecazioni, preghiere, nomi di donna. Pianse per sé e per gli altri. Tutti. Si ricordò del tenente Taylor, sempre con la sigaretta in mano e non fumava mai. Fece una smorfia. Che stupidaggine sparire così!

«Ehi, Eddy, che fai?»

Si chiamò! Si esaltò. Si alzò sui gomiti. L’aveva invaso un improvviso, inatteso ritorno di voglia di resistere, di vivere. Di tenere duro. Di sperare oltre ogni ragionevole evidenza. Fu quasi una scoperta. Sorrise. Forse poteva farcela. Solo se avesse potuto fermare l’emorragia! Quando capì che tutto era inutile. Fu colto da nuova disperazione e urlò tutta la sua ribellione. Vide alti gabbiani allontanarsi. Capì.

«Dio mio, pietà di me!» Lo disse più volte sempre più piano. Stava raschiando dal fondo del suo cuore ricordi d’infanzia che sapevano d’incenso. Poi non ricordò più nulla. Passò il vento sulla collina. Portò odore di salsedine e di frescura. Inutile ormai.

A notte fonda Eddy ebbe un barlume ancora. Sperò di essere un altro. Credette di essere altrove. Non era una cosa da poco.

Sentì la febbre spaccargli le tempie. Ma non gli importava più. Non erano più sue. Ebbe sete. Chiamò invano i compagni. Nel delirio gli parve che qualcuno gli avesse risposto. Non capiva chi. Qualcuno premuroso gli era accanto.

Ebbe la sensazione che gli sollevasse il capo. Sentì persino la frescura dell’acqua tanto invocata bagnare le sue labbra arse. E la lingua infuocata e la gola secca. Era una benedizione! Nella penombra batté le palpebre e vide accanto a sé un volto. Vide un volto nemico. E non ebbe paura. Là c’era un uomo. Con gli occhi avidi chiese ancora un sorso, certo di averlo. Gli fu dato in abbondanza, con  delicatezza.

«Tank you!» sorrise appena.

Si nasce e si muore soli. Nessuno può sostituirti.

Però se qualcuno ti sta accanto è tutta un’altra cosa.

Fu quello il suo ultimo pensiero su questa terra.

Il contadino Iroshi Mitsuhara lo compose.

Si alzò. Guardò intorno la carneficina. Nessuno era più vivo.

Quando si rese conto di quale immane insulto all’umanità fosse stato perpetrato gridò all’universo il suo rifiuto, la sua rabbia, la sua impotenza.

Il suo incontenibile disgusto per quella follia gli fece emettere un urlo impressionante.

La foresta l’assorbì come niente fosse. Come una roccia precipitata in mare! Un tonfo e poi silenzio per sempre. Ma lo squarcio aperto nel suo cuore creò un rombo senza più quiete.

Cadde spossato, umiliato, divelto.

Poi la foresta inghiottì pure lui.

Là, da quel giorno, più nessuno parlò.

UN UOMO SOLO

  Venne finalmente la stagione delle piogge. Grandi nuvole bianche apparvero ad oriente, alte sul mare. Passarono veloci sull’isola e si dispersero sfilacciandosi a sud-ovest verso l’equatore. Giunse il grande monsone con gli enormi cumuli neri, con gli uragani e le piogge torrenziali.

Tutto sembrava risplendere e rinascere. L’acqua abbondante cominciò a scorrere nelle vene della piccola terra riarsa. Nella foresta riprese l’esplosione di vita, di colori, di profumi. Anche gli animali dimostravano la loro felicità con grida continue. Le scimmie erano irrequiete per il richiamo naturale della procreazione. Ma un vero miracolo si notò nella savana. Il giallo e il grigio disparvero per lasciare posto a un verde nuovo, magnifico, esaltante.

La grande montagna, con i suoi vapori, subito dispersi, con la sua umidità protettrice, sembrava anch’essa svegliarsi da un lungo letargo. Sulle sue pendici i grandi alberi secolari scricchiolavano possenti sentendo scorrere dentro nuova linfa. Le canne e le felci crescevano a dismisura occupando gli spazi liberati nell’intricato sottobosco.

Alti nel cielo, bianchi stormi di migratori dalle grandi ali distese tracciavano scie nere, traiettorie sicure verso nord-ovest.

Lassù sulla vetta, come tutte le mattine al levar del sole, anche quel giorno di settembre, la bandiera nipponica garriva gagliardamente al vento. Di fronte, in perfetta tenuta militare, un soldato presentava le armi. Dopo l’iniziale ritrosia e il naturale riserbo, passati i mesi, agiva con spavalderia e sicurezza.

Il soldato Iroshi Mitshuara, unico sopravvissuto, continuava a compiere le operazioni militari consuete per le quali era stato addestrato. Ci metteva l’impegno e lo zelo di sempre.

Fedele agli ordini dei suoi superiori, egli continuava a occupare da solo l’isola.

«Anche se uno solo di noi restasse su questo lembo di terra sperduto, egli vi rappresenterebbe l’imperatore, vi rappresenterebbe la patria. Niente ci dovrà distogliere dal nostro giuramento. Il nemico è astuto. Ricordatelo! Se il caso, adotterà ogni mezzo per farci capitolare, per costringerci alla resa. Sarà quello il momento della prova. Quanto più grandi saranno le tentazioni, quanto più evidenti saranno le lusinghe per convincerci alla resa, tanto più forte dovrà essere la nostra forza d’animo, la nostra determinazione di proseguire nella lotta. Lotta che potrebbe durare anni! Guerriglia alle spalle del nemico! Tra le file del nemico! Dobbiamo tenere alto lo spirito ed essere pronti allo scontro finale. Ognuno deve fare la sua parte. Ovunque si trovi, in qualunque condizione.»

Le parole del suo comandante erano scolpite a caratteri di fuoco nell’animo semplice e fedele del soldato Mitshuara. Inesperto di arte militare, aveva scoperto in sé delle capacità sconosciute che l’avevano spinto a vincere difficoltà inaudite. Era l’inizio di una tragedia personale. Impensabile, inimmaginabile. Impietosa.

Dopo la battaglia sulla collina maledetta, aveva trascorso due giorni senza toccare acqua né cibo, senza posare il capo su un giaciglio. Aveva girovagato sconvolto e disperato per l’isola. Nascondendosi. Così doveva avere fatto Caino. Eppure, lui, non aveva sparato un colpo. Ma la forte disciplina rendeva un tutt’uno, corresponsabili, tutti gli uomini della spedizione.

Le immagini orribili di tanti corpi scomposti nella rigidità della morte aveva toccato pericolosamente l’equilibrio psico-fisico della sua persona. Decise di darsi la morte. Fu il ricordo del richiamo forte, sonoro, addirittura bello, del suo giovane comandante a tradurlo in senno, in carreggiata.

«Dobbiamo colpire, fino all’ultimo!»

Dopo aver girovagato insensatamente e senza meta per due giorni, era tornato sulla collina. Già un fetore ammorbante l’avvolgeva. Il caldo, l’umidità, le piogge stavano disfacendo i cadaveri. Aveva capito che un nuovo pericolo gli stava di fronte: un’epidemia. Dare sepoltura ai caduti in quel luogo, con le sue sole forze, in tempi brevi era un’impresa impossibile. L’aveva capito subito. Contro la sua volontà fu costretto a fuggire ancora da quel luogo di dolore. Quando si rese perfettamente conto della sua reale situazione, decise di resistere ad oltranza.

I suoi sentimenti personali cozzavano con gli ordini. Gli ordini non si discutevano! Prevalsero.

La sua scelta, pur dolorosa, non aveva scampo.

Si sistemò dall’altra parte dell’isola, sotto il costone di roccia e nella grotta. Con il suo bestiame. Là aveva riserve di cibo, aveva l’acqua.

Ogni giorno saliva a compiere il rito dell’alzabandiera.

Ma all’inizio stette attento, ebbe riguardo. Studiò, programmò la sua giornata.

Una volta un ricognitore nemico aveva sorvolato a lungo l’isola a bassa quota, piegandosi per favorire le fotografie del suolo.

Iroshi Mitshuara sentì scattare in sé la responsabilità del suo stato e del suo giuramento. Si preparava uno sbarco di altri nemici? Li avrebbe accolti a dovere! Di sorpresa! Avrebbe continuato da solo il servizio integro e intatto al suo Paese.

L’iniziale ritrosia, l’inevitabile spavento, i nobili singulti stavano lasciando spazio al risveglio di un naturale rancore alla vista dei caduti della sua parte.

Per tutta la vita aveva ubbidito. Improvvisamente, senza alcun preavviso e preparazione, si era trovato comandante. Mutuò gesti, atteggiamenti, pensieri,  comportamenti del tenente Kematsu.

I compagni caduti, contorti, inespressivi gli stavano lanciando il messaggio che tutti i Caduti trasmettono.

«Non dimenticateci!»

Che vuol dire?

Preghiera?

Basta così!

Vendetta?

Attenti!

Tutti questi lampi attraversarono la sua mente, ma, alla fine, uno solo si fermò, prevalse: guerra!

Mai e a nessuno si sarebbe arreso.

Avrebbe combattuto da solo.

Un paio di settimane dopo il volo di ricognizione, una mattina, scorse vicino all’isola una nave appoggio. Sentì arrivare il momento della prova. Vide staccarsi dalle nave delle scialuppe che sbarcarono sull’isola una ventina di uomini. Erano in divisa, erano alleati, ma c’erano anche degli asiatici con loro. Lo capì da alcuni ordini gridati. C’era personale sanitario in divisa bianca. Incredulità e stupore!

Si irrigidì per sempre. Si convinse che si trattava di una messinscena per farlo uscire e catturarlo.

Dall’alto della montagna, dal suo posto di osservazione, con il potente cannocchiale del tenente, seguì i loro movimenti, fin che non li perse di vista.

Incurante del pericolo, armato di tutto punto, seguendo tracce e sentieri soltanto a lui noti, decise di scendere contro il nemico.

Fu così che le quadre della sanità, inviate sull’isola a dare sepoltura a tutti i caduti, furono assalite all’impazzita da quella furia scatenata. Che nei rapporti definirono “ingiustificata”. La loro pietosa opera fu interrotta, fu rimandata. I soccorritori non lasciarono altri caduti sul terreno, perché l’assalto fu descritto come disordinato, senza criterio.

Tornarono altre due volte squadre di militari, sotto la protezione della Croce Rossa, ma furono egualmente bersagliati da un fuoco intenso. Tornarono anche i nativi dell’isola. Con gesti e segni di pace, con corone di fiori e microfoni. Annunciarono in giapponese le loro intenzioni pacifiche. Annunciarono la fine del conflitto. Era il segnale che aspettava. Si confermava tutto quanto il tenente Kematsu aveva preannunciato e definito pericoloso. Era il segnale previsto dell’inganno. Si convinse che era in atto un diabolico piano per catturarlo. Capì di essere temuto, rispettato. Non gli era mai capitato. Quegli indigeni dovevano essere senz’altro dei nemici, dei collaborazionisti. Non sarebbe caduto nel tranello. In breve tempo anche gli indigeni erano stati costretti ad abbandonare precipitosamente l’isola. Non fecero più ritorno.

I giorni trascorrevano lenti, uguali. Nessuno sembrava più ricordarsi di quel piccolo mondo sperduto. Iroshi Mitshuara diede una interpretazione a questo fatto. Le operazioni guerra si erano spostate in altri settori. Certamente gli alleati erano stati respinti. Per questo non si erano più fatti vedere. Certamente i suoi compagni stavano respingendo lontano la flotta nemica. Come potevano ricordarsi e occuparsi di lui, in un’isola che aveva ormai perduto la sua importanza strategica? Fremeva per non essere con loro al fronte. Non era un vile, un imboscato. Non gli restava che compiere il suo dovere nel luogo assegnatogli dal destino. La sua missione avrebbe avuto comunque uno scopo, e forse una menzione dello Stato Maggiore. Per fedeltà alla consegna. Avrebbero compreso il suo servizio. Da solo aveva tenuto l’isola! Da combattente!

Iroshi aveva perduto la parola. Non c’era nessuno con cui parlare. Pensava. Pensò di ardire troppo: i suoi superiori avrebbero riconosciuto il suo valore, non conoscendo i fatti? Decise che non gli sarebbe importato. Tuttavia non era facile il suo compito. Si era fatto ancor più vigile e prudente. Completava ogni giorno il servizio di guardia su tutta l’isola o di persona o dall’alto con il cannocchiale. Si era stabilito dei turni,  degli orari regolati dal sole, dalla luce, dalle stelle. Seguiva percorsi che cambiava ogni giorno per non lasciare tracce visibili, custodiva  e badava al bestiame, saliva sulla montagna, cercava e preparava il cibo. Ora conosceva l’isola perfettamente in ogni suo anfratto. Solo sulla collina aveva deciso di non tornare più per motivi sanitari e per non risvegliare le sensazioni di tremendo disagio e di malessere che aveva provato.  

Il suo corpo si era fortificato. Il suo animo si era indurito per la fatica, le privazioni, i tormenti del dubbio che ogni tanto si insinuavano tra le sue incrollabili certezze. Di giorno lavorava. Di notte tentava di risposare, in realtà vigilava. Stentava a dimenticare un uomo. Un nemico! Anche ora a distanza di tempo, ricordava il suo gesto di pietà verso un nemico. Quella notte, sulla collina compì un  gesto ingiustificato di cui non andava fiero, come soldato. Eppure non riusciva a dimenticare il lamento dell’uomo morente, le sue parole incomprensibili. Ma no! Erano chiare. Due uomini, passati sotto il lavacro della tragedia comune, non potevano che intendersi. Aveva sollevato un morente e questi l’aveva ringraziato. Così fanno gli uomini.

«Tank you!»  Ricordò, ripeté le parole di Eddy. Aveva raccolto il suo addio, il suo testamento. Quel ragazzo americano aveva osato ringraziare il mondo che non lo voleva più.

Questo evento l’aveva impressionato. Possibile che i nemici non siano i mostri di cattiveria di cui aveva sempre sentito parlare? Possibile che abbiano anch’essi sentimenti?

Per molti mesi si arrovellò intorno a questi pensieri. Infine dimenticò tutto. Altre vicissitudini lo attendevano.

IL NAVIGATORE

Osservatore attento della luna e delle stelle, Iroshi Mitshuara contava le stagioni guardando il cielo e la terra. Dai suoi calcoli era trascorso un anno da quando era rimasto solo.

Compiva ogni giorni i lavori e i percorsi che si era prefissato. Si sentiva sano e in perfetta salute mentale. Si comportava in modo da non ferire questo suo status. Il cibo non gli mancava. Più il tempo passava, più sentiva diventare importante la sua missione, più essa acquistava valore ai suoi occhi.

Sì! Era trascorso un anno, il primo di molti altri lunghi anni di una guerra che gli condurrà da solo contro tutti e contro ogni evidenza. La guerra era finita, ma non lo seppe mai. E se qualcuno glielo avesse detto o comunicato non gli avrebbe creduto. Era l’inganno di cui era stato preavvertito. Vaccinato!

Il Giappone sconfitto e distrutto era in ginocchio. Le bombe atomiche avevano cancellato Hiroshima e Nagasaki. Il mondo disorientato e sconvolto contava le ferite. Vincitori e vinti avevano sacrificato milioni di vite umane e risorse enormi. Città, industrie, campagne erano distrutte, popoli sconvolti… Nuovi monumenti! Nuovi ideali! Nuovi rancori mascherati! Nella polvere in cui era caduto il mondo tutto stentava a rimettersi in moto. Ma la natura e gli uomini solo pieni di risorse. Ecco in pochi anni nuovi segni di vitalità, di ripresa, di rinascita, di nuovi rapporti cominciano a delinearsi, a consolidarsi. Gli Stati si accordano. Gli uomini si parlano. Si scambiano merci, informazioni. Si creano progetti comuni. Nuovi orizzonti si aprono. Si volta pagina. Si va avanti.

Ma…

Ehi, dell’ultimo uomo chi si ricorda, chi si interessa?

Nell’isola, Iroshi ignorava tutto. Presidiava! Imperterrito, composto, fiero continuava ad esser il soldato di sempre.

In quel primo anno mai lo sfiorò l’idea che la guerra potesse essere conclusa e tanto meno con la sconfitta del suo Paese. Fedele alla consegna ricevuta continuava a comportarsi da soldato, rispettando il giuramento di fedeltà all’Imperatore. Visse perché aveva fissa una legge, un comandamento davanti a sé. Uno scopo!

Resterà prigioniero volontario in quell’isola, in attesa di un ordine che non arriverà mai, per trent’anni…. trenta… anni… anni…!

L’unico contatto con il mondo avrebbe potuto essere la radio. Non la sapeva usare. Mai l’avrebbe toccata comunque. Valeva sempre l’ordine del tenente che aveva imposto il silenzio di ogni comunicazione via etere. Con il passare del tempo, senza manutenzione, esposta all’umidità della caverna si era avariata. Non avrebbe neppure potuto casualmente ricevere messaggi.

La vita solitaria e randagia che conduceva non gli pesava. Aveva uno scopo che lo sosteneva, che lo stimolava nei momenti difficili. Imparò a conoscere le erbe e le piante, a sperimentare e ad applicare i loro benefici effetti medicinali. Imparò a scavare, a far bollire radici commestibili, a ricavare fibre da cortecce, a intrecciare fili e foglie, a prepararsi sandali per camminare, a rammendarsi gli abiti con aghi ricavati da fili i ferro, a riparare reti da pesca abbandonate dagli indigeni, a costruire piroghe, a ricavare il sale, a cuocere i cibi in luoghi riparati per non emettere fumo.

Nella caverna aveva  ammassato le vettovaglie a lunga conservazione, le armi e le munizioni ben custodite in involucri impermeabili e tutte le attrezzature, gli arnesi e il vestiario in dotazione alla squadra incursori. I momenti di riposo erano rari e brevi. Cambiava sovente capanna. Dormiva con il fucile a portata di mano.

Per il bestiame ovino aveva costruito un solido recinto che impediva la fuga agli animali, anche se la sua assenza si prolungava. Spento il fuoco, faceva disperdere le ceneri. Sotterrava meticolosamente i propri rifiuti. Gli unici periodi di distensione e di svago li passava nei giorni in cui i suoi spostamenti lo portavano a sostare nella caverna o sotto il costone di roccia a strapiombo sul mare che, in una nicchia ampia riparata, custodiva alla vista, e dalle intemperie, i suoi piccoli ovini. Erano luoghi che si sarebbero potuti scoprire solo per caso o dopo una meticolosa, generale perquisizione dell’area. Avrebbe potuto sostare definitivamente in quei due rifugi, ma non si fidava. La solitudine lo rendeva sempre più diffidente, sospettoso, scontroso, irascibile. Non aveva nessuno con cui misurarsi, cimentarsi, sfogarsi. La verifica dei propri pensieri, delle proprie azioni è un bisogno naturale. Devi sapere, controllare se ciò che dici, se ciò che fai è giusto, se occorrono correzioni, modifiche. Se sei da solo ti aiuta la tua coscienza. Ma l’uomo non è nato per essere solo, è un animale socievole. Ha bisogno di misurare sé stesso, ma anche di commisurarsi con gli altri.

La sua ribellione interiore gli si rivoltava contro. Aveva sempre qualcosa da rimproverarsi. Si sostituiva al suo prossimo, al suo superiore.  Non era mai contento di quello che faceva. Dimenticò di sorridere. Per sempre. Si fece di animo duro, pronto a colpire chiunque. Il suo fisico si faceva sempre più sottile, flessibile, scattante, sensibile ad ogni vibrazione della natura.

Imparò a scolpire il legno. Questa attività gli serviva a riempire i vuoti di tempo nei giorni di pioggia, quando i suoi movimenti erano bloccati. Si era fatto prudente, non si metteva  rischio. Temeva di infortunarsi, di ferirsi, di ammalarsi. Sarebbe stata la fine. Doveva essere paziente.

Aveva dimenticato il suono della sua voce, gli bastava pensare. Sentiva enormemente il bisogno di un’altra opinione. Di un rimprovero. Di un incitamento. Di un affetto.

Le ore più lunghe erano quelle della sera quando lo assalivano gli incubi, la paura di essere sorpreso, il timore di essere inferiore al compito che il destino gli aveva assegnato.

Due, tre, cinque anni passarono così, senza avvenimenti degni di nota. Era confortato dal fatto che il suo fisico si era irrobustito, si era adattato al clima, alla dieta, al ritmo di fatiche.

Ogni giorno, di primo mattino, scrutava il cielo, scrutava il mare. Fiutava il vento e avvertiva in tempo le mutazioni meteorologiche. Fissava l’orizzonte, attendeva l’apparire di una vela, di una ciminiera, di un rombo amico. Quando, sconsolato, scendeva la montagna, provava un grande dolore pensando ai suoi compagni combattenti, ai durissimi sacrifici cui certamente erano sottoposti, alla lotta che stavano conducendo contro un nemico, certamente valoroso e deciso a non cedere, visto la durata del conflitto. Ecco, le sue rinunce, i suoi sacrifici disumani gli apparivano, infine, insignificanti, sopportabili. Aveva trent’anni ormai. Da cinque viveva nella giungla.

A volte il pensiero andava alla sua famiglia, alla sua terra. Pensava a suo padre e a sua madre. Certamente erano orgogliosi di lui! O forse lo pensavano caduto! Provò ad immaginare i loro volti tristi e addolorati, ma non ci riuscì. Anche quelle immagini care cominciavano ad apparirgli in sogno con lineamenti sfumati e confusi. Non ricordava più com’erano.

«Non è possibile!» Parlò! No, fu solo un lungo lamento.

Chissà se godevano ancora tutti e due di buona salute. E suo fratello di due anni più anziano? Combatteva ancora in Birmania? Desiderava, ardeva di desiderio. Voleva sapere qualcosa di loro. Dopo anni di silenzio, desiderò di parlare, di parlare con qualcuno. Invece era solo. Pensava. Gioiva e soffriva così, pensando.

Ed ecco che a scuotere la monotonia della sua vita e dei suoi pensieri quotidiani avvenne un fatto clamoroso, inatteso. Una mattina, sostava sulla montagna dopo l’alzabandiera, gli si presentò una scena incredibile, sbalorditiva. Nella baia era ancorata una barca. Lo choc fu tale da procuragli una improvvisa accelerazione di palpiti. Lo avvertì e fu doppiamente preoccupato. Indistintamente, con il cannocchiale, individuò qualcuno o qualcosa che si muoveva a poppa. Era un uomo. Sembrava solo. Fu preso da una rabbia incontenibile. Si colpì la testa con i pugni. Qualcuno era approdato con estrema facilità, senza che se ne accorgesse. Dov’erano finite la sua esperienza, la sua vigilanza, la sua astuzia? Seriamente preoccupato, trasse una conclusione severa.

«Mi sto infiacchendo!»

Non succederà mai più! Questo pensò con determinazione, aggiornando il suo livello di vigilanza. Intanto doveva scoprire chi fosse e cosa volesse quell’intruso. Amico o nemico?  Guardingo e bene armato, si portò il più vicino possibile alla barca. Un individuo seminudo armeggiava con le vele ed il timone. Assolutamente tranquillo.

Studiò il suo comportamento, i suoi movimenti, i suoi gesti. Erano di una tranquillità e di una disinvoltura incredibili. Intuì che stava riparando. L’albero era spezzato. Anche le vele erano un groviglio di stracci. La randa era a brandelli. Lavorava sodo d’ascia e di martello fischiettando. Era un bianco, un europeo. Era un nemico. I termini delle sue scelte erano alternativi, ed erano istantanei. A poppa sventolava una bandiera inglese. C’erano altri invasori? Gli tremarono le labbra per la vergogna. Se fosse stato vero, avrebbe meritato la fucilazione.

Incredulo, indeciso e sbalordito fissava la scena che si svolgeva sotto i suoi occhi. Da anni ormai non vedeva un suo simile. La sensazione che provò fu un misto indescrivibile di piacere e di orrore. C’erano ancora uomini a questo mondo, e l’avevano sorpreso! Gli giunse un suono dimenticato. Musica! C’era una radio accesa a bordo. Una donna cantava. Come due fili di un unico intreccio dolore e delizia lo invasero. Poi la disciplina prevalse su tutto, si eresse nel busto, affinò la sua intelligenza.

Il navigatore solitario intanto lavorava alacremente, ignaro del pericolo che incombeva su di lui.

Era nei guai per problemi suoi. Non solo l’albero e le vele erano fuori uso, ma anche il timone non reggeva più il mare e aveva bisogno di una messa  a punto.

L’isola era capitata a proposito. L’inglese, partito da Plymouth, aveva doppiato capo Horn e stava dirigendosi verso Singapore. Attraverso Suez sarebbe rientrato in Inghilterra.

Le imprese di questi navigatori transoceanici, amanti del mare in solitudine, sono personaggi forti di fisico e di temperamento. Impavidi! Compiono imprese gratuite che hanno qualcosa di romantico e di pazzesco, di eroico e di fantastico. Affrontano volontariamente i rischi e le incognite della circumnavigazione della terra, in balia di venti e di tifoni, che solo in teoria conoscono, su un guscio di noce. Perché ? Per competizione o per un premio. Quasi sempre per pura sfida, per vincere la noia di una vita indecifrabile, monotona, ingrata. Indifferenti ai pericoli, trovano allegrezza dalla vita, rischiandola. Io, autore, li ammiro. Non li seguo. Sono un po’ vile, lo ammetto. Penso sia la stessa indescrivibile pace degli alpinisti che scalano vette di sesto grado. Perché? Per vincere un ostacolo apparentemente insormontabile, per superare un limite impossibile ai comuni mortali, per darsi uno scopo, quando forse nella monotonia quotidiana non se ne hanno più. Senza forti motivi, impegni, interessi, ragioni, passioni che senso ha vivere? Bisogna avere ogni giorno un chiodo da piantare sulla montagna per salire. E se non ce ne sono più, si inventano. La sfida agli dei, al limite delle possibilità umane, da Prometeo in poi, continua. La curiosità, la volontà, il gusto, la penetrazione nell’inverosimile ha permesso, spesso, a pochi eletti di superare barriere credute invalicabili e aprire nuovi orizzonti all’umanità.

In un mondo dove tutto è catalogato, classificato, dove tutto ha un limite, un prezzo, i personaggi che sfuggono alla regola vengono ammirati e compatiti. Ma ciò a loro non interessa. Vivono la loro scelta di vita in autonomia e libertà perfette. Sì, liberi e felici!

L’inglese intento a riparare la sua barca era uno di questi strani e rari personaggi. Tre giorni prima era stato investito in pieno oceano Pacifico da un violento uragano e trascinato dai venti fuori rotta. Il fortunale aveva seriamente danneggiato la sua imbarcazione, spingendolo contro la sua volontà su quella spiaggia. Una volta fatto il punto con il sestante e la bussola, aveva deciso di provvedere alle riparazioni più urgenti e indispensabili per riprendere il mare, di rifornirsi d’acqua e di frutta.

Lavorava e faceva un chiasso d’inferno. Parlava da solo, a voce alta. Chiamava per nome gli attrezzi che usava come se avessero potuto rispondergli. Aveva tagliato un albero adatto e lo stava installando. Era un’impresa non facile per un uomo solo. Per questo esaltante. Con leve, corde, argani piano piano  fissò il nuovo albero. A lavoro concluso mandò un fragoroso hurrah! A questo punto, dopo aver ammirato, visibilmente contento, il suo lavoro, si sgranchì le membra e si apprestò a prepararsi la colazione intorno a un fuoco improvvisato.

Dal suo nascondiglio Iroshi Mitshuara aveva più volte puntato nel mirino il corpo agile e abbronzato dell’inatteso ospite. Ma ogni volta che lo sentiva parlare, abbassava il fucile. Un inconsapevole bisogno di sentire il fiato, il suono, l’ombra di un altro essere umano gli aveva fatto abbassare il fucile. Sentiva che lì c’era qualcosa di sé. Non poteva spararsi. Non doveva. La parola, il legame che distingue e unisce tutti gli uomini, l’aveva fatto desistere, li aveva salvati entrambi. Tuttavia doveva capire.

 Passò ancora una giornata senza che nulla accadesse. Mitshuara controllò attentamente la zona dei movimenti del navigatore solitario. Stabilì che era molto limitata per essere sospetta. Il suo comportamento tuttavia era davvero strano. Se era una mossa del nemico per confondergli le idee, ebbene! Non ci sarebbe riuscito. Doveva controllare se vi erano stati altri sbarchi. Francamente non riusciva a comprendere quale tattica si stesse usando contro di lui. Forse l’uomo della barca era un diversivo, una distrazione. Probabilmente l’azione più importante stava svolgendosi proprio altrove. Con questo pensiero fisso abbandonò il suo posto di osservazione e intraprese una nuova, minuziosa esplorazione dell’isola.

LA RESA

La permanenza dell’inglese si protrasse per una decina di giorni. Durante questo periodo, il giapponese aveva ispezionato l’isola da cima a fondo. Niente! L’unico intruso era là, nella baia sulla sua barca.

Giunto al termine dei lavori di riparazione, il navigatore pensò di procurarsi una scorta di viveri più consistente del previsto. Sicuro di sé, a passo svelto, dopo un breve orientamento si diresse verso il pendio più dolce della montagna a cercare una fonte. Fino allora aveva raccolto l’acqua piovana.

Mitshuara decise di rompere gli indugi. Non avrebbe permesso al nemico di controllare l’isola e magari di disegnarne una mappa aggiornata. Doveva intervenire. Fu così che, uscito allo scoperto da un intricato canneto di bambù, il navigatore solitario si trovò di fronte un soldato giapponese armato fino ai denti. Lo guardava con una determinazione e una ferocia impressionanti. L’incontro, dopo un iniziale sbigottimento, lo fece scoppiare in una risata incontenibile.

«Ehi, amico! Che fai così conciato?»

Il giapponese fece vibrare l’arma. Un colpo era entrato in canna.

L’inglese cambiò tono, cambiò cera. Impallidì. Balbettò. Capì che c’era poco da scherzare. Gli conveniva essere gentile. Tuttavia doveva capire.

«Di’ un po’, ma che diavolo fai qui? messo così?»

Si rese conto di non essere compreso. L’unica comunicazione era data dal suo tono ironico, pericoloso in quel frangente. Fece il gesto di tendergli la mano.

Mitshuara era sconcertato. Non aveva mai incontrato agenti nemici. Comunque non potevano essere così scoperti e imprudenti. Poteva ucciderlo. Preferì spaventarlo, farlo scappare senza indugio. Se avesse fatto resistenza l’avrebbe ucciso. Scaricò l’arma in aria, avanzando e lanciando urla impressionanti. L’inglese fuggì a precipizio. Si scagliò sulla barca, levò l’ancora e prese il vento. In breve fu al largo.

Il giapponese sulla spiaggia continuava a sparare in aria gesticolando e minacciando con la voce e con le braccia. Attendeva le reazioni del nemico, ma non vi furono. La vela ben presto fu fuori tiro. Ancora una volta era soddisfatto del suo lavoro. Toccava a lui ora: rise a crepapelle. Non gli succedeva da tanti tanti anni. Ben presto però tornò ad assumere l’atteggiamento di un uomo investito di grande responsabilità.

Era stato davvero imprudente! Avrebbe potuto ucciderlo! Sarebbe stato meglio. Non l’aveva fatto. Due uomini, due comportamenti contrari, incredibili, irresponsabili. Ora avrebbe avuto una grande barca in grado di prendere bene il mare per la pesca. Rifletteva mentre tornava al suo rifugio di turno.

No! Meglio così! Avrebbero saputo che l’isola era difesa bene e che non sarebbe stato facile catturarlo. E se fossero tornati in forze? Ebbene avrebbero trovato pane per i loro denti!

Per prudenza decise di rinunciare al rito dell’alzabandiera e di diminuire i suoi spostamenti per non lasciare tracce. Pensò che si sarebbe parlato di lui. Non si sbagliava.

Trascorse un mese dalla fuga precipitosa e drammatica del navigatore solitario. Un pomeriggio, vide una lancia d’alto mare avvicinarsi. A quella, vista il suo cuore tremò. Batteva bandiera giapponese. Cadde in ginocchio. Cadde in ginocchio e dopo tanto tempo prego. Intimamente. Finalmente stavano arrivando i  soccorsi! Forse una nuova guarnigione veniva a presidiare l’isola. Sarebbe potuto tornare a casa per una breve licenza. Vide la lancia approdare. Ma l’innato istinto sospettoso lo trattenne. Non si precipitò incontro ai suoi. Fu quella esitazione, concluse in seguito, a salvarlo.

Gli uomini che sbarcarono erano indubbiamente giapponesi. Erano in borghese. Parlavano a voce alta, ridevano, si muovevano senza alcuna precauzione. Non era naturale, in guerra. Seguì le loro mosse. Si piazzarono in una radura poco lontano da un grande baobab, installarono potenti altoparlanti. Una voce chiara e distinta cominciò a parlare in giapponese. Raccontava l’avventura occorsa all’inglese un mese prima. Dissero che c’era stato uno spiacevole equivoco. Poi dissero altre cose inverosimili. La guerra era finita. Si invitava il soldato ad uscire allo scoperto, a consegnare le armi e a tornare in patria. Il Giappone era stato sconfitto. C’era ancora bisogno di lui, ma su un altro fronte, quello civile, quello della ricostruzione. L’impegno categorico di tutti era di lavorare per la pace.

«Incredibile!»

Era incredibile ciò che sentiva. Ma perché dei fratelli tentavano di ingannarlo? Perché quella messinscena?

«Chi sei?» chiedevano dal microfono. «Vieni fuori. Siamo venuti a salvarti, per riportarti a casa.»

Con le lacrime agli occhi ascoltava il suono della sua lingua, dopo tanti anni. Era una sensazione commovente. Allettante! Era il significato delle parole, oscuro, a confonderlo, a turbarlo.

I richiami si succedettero per tutto il giorno. Alla sera, vicino ad una tenda, vide dei fuochi, delle persone muoversi. Si avvicinò il più possibile, con circospezione. Non c’era alcun dubbio! Erano suoi compatrioti. Ma perché agivano così? Per tutta la notte non chiuse occhio un solo istante. All’alba si fece luce anche nella sua mente.

«Ho capito tutto!» sibilò.

Intanto dagli altoparlanti cominciò ad irradiarsi della musica. Era una musica che non conosceva, anche se era caratteristica della sua terra. Ritmi diversi, arrangiamenti sconosciuti. Il richiamo era comunque irresistibile. Stentava a frenarsi. Tuttavia resistette. Gli inviti ad uscire corrispondevano esattamente alla descrizione che i superiori, in partenza per la missione, avevano preannunciato. Sarebbero stati lusingati ad arrendersi, ma quello sarebbe stato il momento di maggiore attenzione e responsabilità. Il messaggio per lui era chiaro. Andava applicato al contrario. Bisognava resistere! Non bisognava cadere nella trappola del nemico. La sua consegna era nota al comando. Un contrordine non sarebbe mai stato dato a quel modo. Ciò che vedeva e sentiva doveva senz’altro servire a trarre in inganno gli alleati. Avrebbero captato le trasmissioni, avrebbero dovuto credere che l’isola era abbandonata. Per quanto inverosimile possa sembrare questo comportamento, a posteriori, dobbiamo sapere che questo avvenne. Capì che poteva, che doveva essere ancora utile al suo Paese. Se fossero sbarcati un’altra volta,gli americani sarebbero stati colti nuovamente di sorpresa. Avrebbe dato la sua vita per l’impresa! Confusamente pensava anche a eventi assai tormentati, che lo sconvolgevano. Quei suoi compatrioti avrebbero potuto essere dei traditori, dei prigionieri costretti a recitare.

La spedizione di salvataggio rimase ancora qualche giorno. Lasciò dei messaggi, dei viveri, dei giornali che parlavano di lui.  Nelle pagine interne si vedevano immagini di un Giappone nuovo. Si vedeva gente gaia, frettolosa, disinvolta. Non si  vedevano soldati. Non c’erano bollettini di guerra. E’ vero si parlava di un soldato disperso e ritrovato, si parlava di lui, ma non si citava il nome, perché nessuno riusciva a identificarlo.

La sua interpretazione fu di tutt’altro tenore. Non sapevano il suo nome? Che importava? Importava il suo valore di soldato inflessibile, indefettibile.

Capì che le cose stavano mettendosi bene per il Giappone, se i volti della gente erano così distesi, così sicuri nelle espressioni. Lo colpì che non ci fossero informazioni dagli altri fronti. Ma questo poteva spiegarsi perché le notizie che lo riguardavano venivano riportate nelle pagine di cronaca dall’estero. Le pagine dall’interno mostravano immagini di un popolo forte, fiero, giovane, laborioso, difficile da piegare. Chiarissimo!

Quella fu la prima di molte altre spedizioni di salvataggio. Dai messaggi ascoltati o letti sulla stampa che veniva appositamente abbandonata gli parve di capire che altri suoi commilitoni resistevano, nelle sue stesse condizioni. Evidentemente la guerra continuava.

Passarono gli anni.

Lenti, inesorabili, immutabili.

Il suo dramma si svolgeva, scorreva nel tempo come un fiume impetuoso che si snoda tra due argini ostili tra loro. Da un lato c’era la sua fede incrollabile, dall’altro  c’era la lusinga, a volte la preghiera, c’era l’appello affettuoso dei familiari di molti compagni caduti, venuti appositamente nell’isola per indurlo a mostrarsi e a rinunciare a quella vita insensata.

Ma tutto era stato inutile, anzi controproducente. Fatta una scelta di vita convinta, egli credeva che tutto ciò che potesse distoglierlo, distrarlo dal suo dovere di soldato fosse frutto di inganno, di menzogna., di debolezza.

Una volta s’imbatté incautamente con uno dei suoi soccorritori. Era un fotoreporter. Si guardarono pochi istanti, ma bastò al giornalista per impressionare le sue lastre e a riportare sui giornali giapponesi l’immagine del soldato resistente. Dai tratti somatici si scoprì la sua identità. Lesse che ormai era l’unico soldato giapponese che ancora resisteva in armi. Lo invitavano a consegnarsi.

Arrendersi? Cosa assurda! I miei superiori non darebbero mai un ordine simile! Bisognava resistere ad oltranza.

Follia? Certamente!

Ma non di un uomo. Follia degli uomini che avevano pensato di portare benessere, giustizia, avanzamento di civiltà con la guerra.

«Non mi arrendo» ringhiò.

Le vicissitudini quotidiane, i tormentosi pensieri, le angosce umane, i dubbi e l’inflessibile volontà martoriavano quello spirito indomito da molti anni ormai.

Dai suoi conflitti interiori era sempre uscito vincitore, sicuro dell’efficacia, della necessità della sua battaglia.

Poi… un giorno avvenne un fatto.

Poi un giorno avvenne un fatto che spezzò di schianto la sua resistenza  e la sua fede.

Volgeva il trentesimo anno di quella assurda, volontaria, angosciosa lotta. Tenace e solitaria. D’improvviso si sentì vecchio, scarico, stanco, malato. Finito! Il sospetto di essersi sbagliato, di avere crudelmente ingannato sé stesso, si insinuò come una lama terribile e impietosa a squarciare veli intimi, incancreniti, marci. La realtà che gli si presentava, che faceva a pezzi la sua fede e la sua intelligenza, era  crudele. Di schianto temette di morire, di scoppiare.

Il suo corpo, ubbidiente e fedele servitore della sua mente raziocinante, aveva scoperto di essere stato costretto a  sopportare sacrifici disumani inutilmente, si ribellò contro sé stesso. Rabbia e rancore indicibili aggiunsero altri tormenti, improvvisi e insopportabili, a quella vita esausta, consunta. Deluso e affranto, avvertì che qualcosa si era definitivamente spezzato dentro.

Come una grande quercia, folgorata ai margini del bosco, racchiude i suoi rami e s’inchina all’ultimo tramonto, così Iroshi Mitshuara raccolse il suo spirito e si apprestò a morire. Al più presto. Senza violenza. Per dissolvimento.

Il suo destino era segnato.

Il fatto chiaro che squarciò le tenebre della sua mente, facendo crollare ogni dubbio, fu la presenza di una colonia di ragazzi sull’isola.

Non gli parve importante indagare come e perché fossero giunti là. Dalle sue meditate riflessioni aveva capito subito una impressionante novità, verità. Per la prima volta degli esseri umani giungevano sull’isola non per cercarlo, per invitarlo, per minacciarlo. Non lo cercavano, non si interessavano di lui. Non sapevano neppure che esistesse. Ciò che per giorni vide, lo convinse che quelle erano scene di pace e non di guerra, che non nascondevano pericoli. Erano normali esplosioni di vita giovanile che nessun popolo osa buttare in mischie feroci, come quelle che si erano svolte su quei lidi.

Non c’era più ragione per combattere o di arrendersi o di vivere.

Nella sua disperazione e nel suo dolore, pensando alla sua vita, pianse a dirotto. Non sapeva si potesse ancora fare. Poi assalito da un grande spietato interrogativo urlò il suo disgusto e il suo rifiuto.

«Perchééé?....»

 

Il suo lamento s’inabissò nella giungla. Nessuna eco rispose in quella dimora che gli era diventata estranea.

 PARTE TERZA

EPILOGO

 Si era ormai alle soglie dell’estate astronomica. Gli alisei dell’est lasciavano sempre più posto ad uragani improvvisi. La stagione delle grandi piogge era vicina.

Nella piccola colonia accampata ai piedi del grande baobab si respirava davvero un’aria nuova. Il nuovo tipo di organizzazione, così faticosamente nata, dava i suoi frutti. I compiti distribuiti secondo le abilità e le attitudini  venivano svolti serenamente e con regolarità. L’antico spirito di emulazione, di rivalità si stava tramutando in desiderio di collaborazione. Il gusto di superare i compagni in bravura si stava tramutando in soddisfazione di lavorare insieme, disinteressatamente, senza calcoli.

Soprattutto in Guglielmo si notava un grande cambiamento. La sua costante ricerca di competere, sicuro di primeggiare, era diventata una garanzia per il gruppo, non più una esibizione. In molti altri prevaleva la voglia di partecipare, non già di sopraffare. Era diffusa la convinzione che era importante fare bene quello che si sa, migliorando così l’affidabilità e la qualità del gruppo in cui ognuno portava una briciola della sua personalità. La loro straordinaria avventura collettiva stava lasciando segni positivi, di equilibrio, di buon senso, senza diminuire la vivacità o mortificare la voglia di proporre, di suggerire, di fare.

Anche il maestro nei nuovi rapporti maturati in situazioni non  sempre previste, stava traendo insegnamenti e motivi di riflessione da questa avventura con la classe quinta C. I ragazzi crescevano, maturavano. Nei loro riguardi doveva collocarsi in posizione diversa da quella iniziale. Lo chiedevano con i loro comportamenti, lo meritavano. Continuava sempre ad insegnare, ad ammonire, a guidare. Le lezioni era ascoltate, seguite, apprezzate, spesso sollecitate. Ecco! Le lezioni avevano un coinvolgimento più ampio e diverso, non più subito, ma partecipato. La sfera degli interessi palesava margini allargati, desiderio di conoscenze nuove, non sempre previste, programmate. Il maestro cominciò a dire sempre più spesso: non lo so, devo approfondire anch’io, devo verificare, forza!, cerchiamo la risposta insieme. Non c’era meraviglia. Questa riflessione gli serviva per prendere tempo, per verificare quanto erano interessati a certe tematiche: le avrebbe sviluppate con loro. Già emergevano problemi riguardanti la sessualità, ma non nello stesso momento e non per tutti. Bisognava dosare, interpretare, rispondere con misura. A quel punto dell’anno scolastico, con l’invito, l’abitudine diffusa alla riflessione, molti interrogativi sarebbero stati ignoti, mai posti, se la lezione fosse dipesa esclusivamente da lui. Occasioni  di apprendimento fortuite, decisive, sarebbero rimaste inesplorate con non poco pregiudizio sullo sviluppo complessivo di una persona. L’atmosfera vivace, ma equilibrata e confidenziale, favoriva conversazioni solide, mature, indispensabili. La scuola che conta porta luce e mostra traguardi ambiti, possibili.  

Alla sera, attorno ai fuochi, era bello parlarsi, confidarsi, esprimere dubbi, cercare conferme. Fu un’esperienza indimenticabile. Conduceva i ragazzi a valutare sé stessi, a formarsi una opinione su sé stessi. I meriti sono importanti. Ma più ancora è da ricercare la serenità interiore che deriva non già dall’ammirazione per il tuo operato, ma dall’accettazione, dalla fiducia che sei riuscito a guadagnarti nel lavorare per il bene comune. Là, nell’isola, molti avevano lavorato per il bene comune e non si attendevano niente, erano stati già gratificati per averlo potuto fare.

Il maestro aveva chiari questi traguardi da proporre, da far intravedere, per farli scoprire. Il suo obiettivo era di condurre ciascuno alla convivenza che sa accogliere e rispettare, alla sua liberazione dai lacci dell’ignoranza e della paura delle cose che non si conoscono. Bisogna conoscere più cose possibili.

Tutte le avventure finiscono. Anche la loro, in qualche modo, sarebbe finita. Tutti avevano motivo di essere soddisfatti, fieri della loro crescita, così come stava avvenendo.

«Che fortuna!» disse una mattina Stefano. Era sempre stato parco di parole, andava al sodo.

«Quale fortuna?» gli chiese Lupo.

«In questi giorni avremmo dovuto sostenere le prove di esame di licenza. Forse siamo gli unici scolari al mondo a non sostenere le prove quest’anno.»

«Ti sbagli, Stefano. Gli esami li stai già sostenendo, da più di sette mesi. Sei stato promosso. E, come te, tutti gli altri.»

«Meno male!» sospirò Stefania che non aveva mai avuto in simpatia l’ortografia.

Stavano salendo sulla montagna dell’Urlo a gruppetti.

Alcuni erano più avanti. Nella radura, prossimi alla vetta, cinque ragazzi si stavano riposando dopo la faticosa salita. Dovevano rilevare Roberto e Giuseppe che avevano concluso il loro turno di guardia alla garitta. C’erano Fabio e Sandro che dovevano dare il cambio. Daniele e Giuliano e Robertino erano di compagnia. Già stavano rimettendosi in marcia quando, quasi rotolando videro Giuseppe scendere affannato, pallido. Disse solo una parola.

«Correte!»

La voce arrivò anche agli altri. Non ci fu tempo per chiedere spiegazioni. Certamente qualcosa di grave, di importante stava accadendo. Giuseppe faceva strada. Parlava a tratti, a monosillabi, e non era solo per l’erta impegnativa. L’emozione si era trasmessa ai compagni. In fila indiana, i primi raggiunsero la cima.                                                     

Correndo dietro a tutti, Lupo giunse nel luogo da cui Roberto con ampi gesti delle braccia chiamava. Maestosi alberi di palissandro si ergevano dal versante di ponente, superando con le loro cime la vetta.

Era là.

Uscendo dal buio della foresta e dal suo mistero, Tan Kiù era venuto a morire guardando il sole.

Stava adagiato in una nicchia di terreno con il capo reclinato sul soffice muschio. Trepidante e impotente Roberto gli stava accanto. Avrebbe voluto essere medico. Fabio e Ivan-Muscoletto  erano gli unici ad averlo già veduto. Si  sentivano in diritto più degli altri di stargli vicino. Erano giunti tutti. Erano di fronte all’uomo che tanto avevano desiderato incontrare ed ora erano senza parole. Il momento era drammatico.

Era vestito da soldato. La sua divisa era stata conservata per l’occasione. Era in ordine. Aveva gli occhi socchiusi. Il respiro affannoso gli sollevava il petto in sussulti e sobbalzi innaturali. Il maestro gli toccò la fronte. Aveva la febbre alta. Gli aveva dato un saluto, una carezza.

«Ieri sera, dopo il tra-monto, l’abbiamo visto salire fin qui.» Roberto era commosso. «Ci è quasi caduto tra le braccia. Non sapevamo come avvisarvi. Ha mormorato qualcosa di incomprensibile, poi è svenuto. Ha ripreso conoscenza solo a brevi tratti.»

Gli bagnarono la fronte e i  polsi con un panno umido. L’agonia si protrasse per tutto il giorno e la notte.

I ragazzi e le ragazze erano tutti là. Raccolti, in silenzio. Guardavano ed ammiravano la persona che li aveva aiutati senza mostrarsi, senza nulla pretendere, che avevano imparato a chiamare senza conoscere il suo nome.

Il suo stato apparve subito grave. Non era dovuto a ferite o a particolari evidenti malattie. Era un rottame, una barca che ha rotto gli ormeggi, che i marosi hanno scagliato contro gli scogli. Non l’aveva impedito.

«Quando crollano i ponti interiori, le ragioni etiche su cui si ispira la nostra vita, su cui si regge la nostra esistenza, perdiamo l’orizzonte. Senza nobili ragioni, senza traguardi degni, meritevoli di sacrificio ci coglie lo smarrimento. Restiamo confusi.» Questo riuscì a dire ai suoi ragazzi.

I ponti di Iroshi si erano infranti. Nessuna medicina l’avrebbe salvato.

L’uomo misterioso, oggetto delle loro ricerche, dei loro discorsi, dei loro timori, l’uomo che tutti credevano forte e invincibile era là di fronte, piccolo grumo di ossa che andavano irrigidendosi. Era di una magrezza spettrale.

Nessuno parlava. Con gli occhi, con il respiro, con i gesti partecipavano al dramma. Volevano aiutare, ma non sapevano come. Sapevano che era inutile.

Di quell’uomo non conoscevano niente. Eppure bastava per ammirarlo, per inchinarsi davanti al suo spirito forte. Il maestro intuì molte cose, le collegò ad altre che aveva appreso dalle cronache: riportavano saltuariamente notizie di combattenti sperduti rimasti isolati nelle giungle dell’estremo oriente. Lo spiegò appena ai ragazzi attoniti. Ai loro occhi apparve subito uomo di rara, esemplare bellezza, purezza, fedeltà. Nel loro giudizio non c’entrava la guerra di cui ancora nulla sapevano.

Il giorno seguente, a mezzodì, il sole era allo zenit, nel suo massimo splendore. Sembrò riprendersi. Fece cenno di volersi mettere seduto. Tutte le mani erano protese verso di lui. A fatica posò le sue su Fabio e Ivan. Quelle mani tanto ostili del loro primo incontro. Tra le ragazze vide Lolita, le sorrise con un leggero moto di labbra. Poi, chiusi gli occhi e raccolte le braccia, incominciò a parlare sottovoce, in raccoglimento, sempre più piano.

«Prega.»

Il sole tramontava in un incendio di fuoco, sepolto nel mare pacificato e quieto, quando sopraggiunse la fine.

Il maestro reggeva con una mano quella piccola testa pallida. Aprì  gli occhi per un attimo.

«Tank you!» disse in un sospiro. Più non parlò.

La morte dell’uomo sconosciuto, dell’uomo che loro avevano chiamato Tan Kiù, gettò tutti nella più profonda costernazione. Era uno di loro. Anche Robertino, in disparte, guardava commosso a bocca aperta.

Si parlava sottovoce, si comunicava a gesti. I movimenti non erano mai affrettati. Gli sguardi erano d’intesa. Ci sono molti modi per rispettare, onorare, amare. Li stavano scoprendo da soli.

 Diedero sepoltura ai resti mortali del valoroso soldato. Fu avvolto con dignità, con cura nella sua bandiera. Fu sepolto nella piccola tomba scavata da Franco, Antonio, Stefano e Luca, con l’aiuto di alcune ragazze volonterose, nello stesso luogo dove era spirato.

Barbara, Carla, Patrizia, Monica, Catia e le altre l’adornarono di fiori.

Erano accovacciati in cerchio, muti. Aspettavano.

Nel silenzio generale il maestro si alzò in piedi e, a braccia aperte, pronunciò questa preghiera.

«Padre nostro, padre di tutti, accogli lo spirito di questo tuo figlio che si presenta a Te. Non conosco la sua lingua e la sua fede, non conosco la sua gente e la sua casa, ma conosco il nostro cuore di uomini, o Signore. Egli era un uomo, un fratello nostro. Tutti temiamo di essere soli nel momento di lasciare questo mondo e di presentarci al tuo giudizio con le mani vuote e gli occhi chiusi. Abbi misericordia. Le sue mani, o Signore, hanno avuto misericordia. I suoi occhi hanno cercato la luce. Il suo cuore è stato  saldo, fedele, coerente. Non prolungare la sua attesa.  Perdona le sue debolezze e i suoi errori, dona la pace al suo spirito, perché è meritevole. Siamo testimoni. Ha camminato lungo i sentieri della sua morale senza tentennare, con fierezza, dignità e senso dell’onore. Questo ha creduto. Fin dove ha sbagliato tu lo sai. O Signore, ti prego con le mie parole, ma il loro spirito sia quello della sua fede, perché l’accompagni nell’ultimo viaggio una preghiera, la sua preghiera, se lui la vuole. E il giorno del giudizio accoglilo, non lo dimenticare, troppo a lungo è rimasto solo su questa terra. Così sia.»

«Amen» risposero in coro.

--- * ---

 La loro storia si concluse anch’essa, e felicemente. Una motovedetta della marina giapponese approdò, poco tempo dopo, per riprendere le ricerche di Iroshi Mitsuhara. Mai si erano dimenticati di lui. I soccorritori furono informati sulla storia recente di Iroshi. I ragazzi e il maestro lo furono sui fatti lontani. A tutti, il piccolo uomo apparve nella sua aureola di enorme, inutile fascino di eroe sfortunato. Degno di inchino. La salma del valoroso soldato fu riportata in patria con tutti gli onori. Sulla tomba vuota, ai margini della foresta, fu eretto un cippo con un nome e una data.

 

---  * ---

 

Torna dal viaggio tremendo col premio vinto la nave;

rive esultate, e voi squillate, campane! (W. Whitman)

 

---  * ---

Dalla tolda della nave,

i ragazzi vedono allontanarsi la loro isola.

La loro infanzia.

Non hanno rimpianti, stanno  a prua, guardano avanti.

Affrontano la brezza. Sicuri, sorridenti.

Unico rimasto a poppa è Robertino.

Ha lasciato laggiù Improvvisata, perché quella è la sua casa.

Sente una mano amica toccargli la spalla.

E’ Guglielmo, perfettamente in forma.

«Vieni, andiamo.» Gli sorride e vanno con gli altri.

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INDICE

Lettera a  una giovane maestra                           

Proemio

PARTE PRIMA

La tromba d’aria

La terra sconosciuta

Il mistero della montagna

La spedizione

Il segreto della radura

Finalmente insieme

Caccia nella savana

La festa

Due coraggiosi

Tan Kiù

Primi passi

La sorgente è secca

La collina Letizia

Il passaggio segreto

Solidarietà

Primi passi

Lupo

Una notte di paura

Delusione al campo

La foto ingiallita

La spiaggia delle tartarughe

Riflessioni allo specchio

PARTE SECONDA

Lo sbarco

L’attesa

Gli esploratori

La trappola

Missione compiuta

Un uomo solo

Il navigatore

La resa

PARTE TERZA

Epilogo

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                                                              articolo a cura di Luigi Zampieri     

Ultimo aggiornamento (Giovedì 06 Febbraio 2014 10:10)