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DAL MEDIO EVO ALL'OTTOCENTO - EVANGELIZZAZIONE

SAMBRUSON  E  LA SUA PIEVE SI AFFACCIANO ALLA STORIA

Primi segnali

L'esistenza del paese o, come allora si diceva, della villa di Sambruson, chiamato alla latina Sancto Ambrosone, è attestata per la prima volta il 15 giugno 1117, giorno in cui il monastero dei Santi Ilario e Benedetto acquistò centocinquanta masserie afferenti alla curia di Porto Menai. Bisognosi di denaro liquido per pagare i debiti lasciati dal padre Rambaldo, conte di Treviso, da poco defunto, i suoi giovani figli conte Ansedise e Widotto chiesero all'imperatore di poter vendere "una curia di nostra proprietà che possediamo nel comitato di Treviso nella località chiamata Porto, con ciò che è di pertinenza di detta curia, dai tempi dell'ava nostra contessa Gisla"44. Il sovrano dette il suo assenso, così i due fratelli cedettero all'abate Pietro di Sant'Ilario per la somma di ottomila lire di denari veneziani "le cappelle e le masserie con tutte le cose immobili pertinenti alla predetta curia di Porto dai tempi della loro ava Gisla". Per evitare possibili contestazioni, le singole masserie e cappelle vennero dettagliatamente elencate nell'atto, precisando le ville in cui erano collocate e i nomi degli uomini che le coltivavano o vi prestavano servizio. Ciò, in particolare, perché quelle proprietà non erano fra loro contigue o riunite in un blocco unitario attorno a Porto, ma erano invece sparse a macchia di leopardo in territori anche relativamente lontani, a partire da Orsignago e Borbiago fino a Scaltenigo, Pianiga, Albarea, Tombelle, Sarmazza, Fosso. Di seguito alle indicazioni sulle masserie di Porto (paese in cui Sant'Ilario acquisì anche la cappella di San Michele, con la relativa masseria "e la replatana"45) ed alle terre comperate a Cunio e Curano46, il documento si sofferma con queste parole sui beni acquistati dai benedettini a Sambruson: "In Sancto Ambrosone sunt massaricie decem et septem et medietatem de silva et medietatem ecclesie..."

"In Sambruson sono [e vengono acquistate] diciassette masserie e metà bosco e metà della chiesa con la masseria che è condotta da prete Domenico, mentre le altre masserie sono rette da Bonaldo e Dodo e Ambrogio e da Adamo Rustico, da Giovanni Balbo, da Pizolo figlio di Rodolfo e da Pietro da Banchello, da Antonio e Martino da Vigonovo, dai fratelli Menego da Belun e Vittone, da Bianco e Vitale chiamato Pisasegala, e da Belluta e Vitale, [masserie] le quali fanno tutte capo alla predetta curia di Porto, con la corte domenicale e con tutti i prati e gli ampli dell'intera sopraddetta villa di Sambruson".

Il documento fa sapere che a Sambruson c'era allora una chiesa, che diciassette sue masserie erano condotte da quindici agricoltori e lavoranti di cui vengono riportati i nomi (ed un soprannome) con, talvolta, il nome del padre, la provenienza o i legami di parentela (due erano fratelli, altri -quelli fra loro congiunti da una "et"- erano probabilmente membri di una stessa famiglia), che il territorio coltivato era inframmezzato da selve, prati e ampli (terreni già incolti approntati per la coltura) e che aveva una corte dominicale. Relativamente a questa, va notato che la specificazione "curia donicali" (per "dominicali") segue "curiam de Porto" e sembrerebbe dover essere attribuita a questa villa, ciò anche in considerazione che a tutt'oggi il nome di questo paese è seguito dalla specificazione 'Menai'. Data l'incertezza, è ipotizzabile che, essendo, il castello di Porto eccentrico rispetto alle ville che facevano capo alla sua curia, nel tempo gli edifici di stoccaggio delle derrate che vi dovevano confluire fossero stati spostati a Sambruson con la conseguenza che si continuava a parlare nominalmente della curia di Porto, pur se il centro di raccolta era ora a Sambruson. A questa ipotesi porta anche la constatazione degli stretti legami che allora legavano fra loro le chiese dei due paesi.

Come abbiamo visto, a Porto esisteva un edificio religioso dedicato a San Michele e definito cappella. Dell'altro edificio sacro che si alzava a Sambruson il documento afferma che era una ecclesia, una chiesa retta da prete Domenico (il primo sacerdote presente a Sambruson di cui si ha ricordo), e che solamente metà di essa fu acquistata da Sant'Ilario. Ma perché venne indicata con quel titolo generico e non con quello, che ci si aspetterebbe, pieve?

La chiesa di Sambruson e le pievi del territorio

Poiché le pievi e le cappelle differivano fra loro per il servizio religioso pieno o limitato che offrivano alla popolazione, viene da chiedersi quale fosse l'attività religiosa verso la sua plebs Dei della ecclesia di Sambruson. Nel secolo VIII con l'appellativo ecclesia si designavano le chiese battesimali, ma poi questo valore pregnante venne acquisito dal termine pieve48, per cui sembra che da allora con ecclesial chiesa si indicasse in modo generico qualsiasi costruzione religiosa: e nei due documenti del secolo XII in cui, con altre del territorio, vediamo citata la chiesa di Sambruson (precisamente il testamento dettato il 2 ottobre 1192 da Speronella Dalesmanini ed il codicillo che essa vi aggiunse il 21 giugno 1199), il termine viene utilizzato proprio nel solo senso di edificio religioso50. Ciò non permette di comprendere quale fosse la posizione giuridica della nostra chiesa, né migliori spiragli offre un ulteriore documento del 1221, la Cartula dathie del vescovado di Padova, in cui sono elencate chiese della diocesi obbligate al pagamento di una contribuzione. La chiesa di Sambruson dovette versare 10 soldi, ma ciò che attira l'attenzione è il modo in cui viene citata: "Ecclesia Portus et S. Broxonis solidos X"51. Meraviglia che qui l'ecclesia in prima linea sia la cappella di Porto, la quale sembrerebbe costituire in quella data un'unica entità religiosa ed economica con la chiesa di Sambruson.

A questo punto sembra opportuno riassumere la situazione e proporre delle ipotesi.

•   Dato che non conosciamo il valore religioso da attribuire al termine ecclesia con cui la chiesa di Sambruson viene presentata nei documenti dal 1117 al 1221, non è possibile dedurre se essa fosse già costituita in pieve. Considerato, inoltre, che nel 1117 prete Domenico viene indicato come presbiter e non come archipresbiter, non si riesce ad individuare la tipologia dei servizi che egli era incaricato di prestarvi. Non è neppure possibile dedurre se la 'massaria' a lui affidata fosse assegnata alla sua gestione come bene personale, o se fosse invece un bene annesso alla chiesa di cui costituiva il beneficio.

•   Nel 1117 la chiesa di Sambruson era di proprietà privata, metà della quale, già possesso dei conti di Treviso, passò in proprietà, ma non si sa per quanto tempo, del monastero dei Santi Ilario e Benedetto. Non si conosce il proprietario dell'altra metà, anche se si può pensare che fosse dei da Curano52. 'Privata' era pure la chiesa di Porto, che fu acquistata per intero dal monastero ilariano con tutti i suoi diritti e prerogative.

•   Nel 1221 la chiesa di Sambruson era in un qualche modo unita alla cappella di Porto:ciò può far pensare che o si stesse costituendo una pieve di Porto-Sambruson, o che alla già costituita pieve di Sambruson fosse allora momentaneamente unita, per motivi a noi ignoti, la cappella di Porto (forse a causa dell'assenza del sacerdote rettore?). Non deve destare meraviglia il riferimento al sorgere di pievi in questo periodo in quanto, nel solco del rinnovamento delle diocesi in atto da tempo, fra l'XI e il XIII secolo si evidenziò un po' ovunque nei territori delle loro giurisdizioni la presenza di nuove pievi, la maggior parte delle quali erano in precedenza cappelle di altre più vaste pievi alle quali avevano eroso territorio e piena dignità parrocchiale; inoltre, altre forse già da tempo esistevano come sedi pievane pur senza venir mai ricordate, per cui solamente da ora si comincia ad avere notizie su esse. E così che solo adesso vediamo comparire in diocesi di Padova le pievi di Sarmazza (nel 1073; nel 1221 aveva sotto sé le cappelle di Campoverardo, Villatora, S. Pietro di Stra, Premaore, Camponogara, Fosso e la chiesa di San Genesio), di S. Giustina di Lova (nel 1161; nel 1221 aveva a cappelle Prozzolo e Campagna Lupia) e, attorno al 1230, di Sambruson. Ma, quest'ultima, quando è effettivamente sorta? Non è possibile proporre alcuna data. In ogni caso, qualora si fosse costituita verso il secolo XI, da quale altra precedente pieve recuperò il suo territorio? Considerando la situazione politica del tempo (e cioè l'allargamento di Padova a spese di Treviso) e la tendenza a far coincidere territorio politico e territorio diocesano (cosa che, invero, non è mai riuscita a Padova, la cui diocesi ha sempre avuto un territorio molto diverso da quello del comune), si potrebbe pensare da una pieve della diocesi di Treviso. Ma oltre la formulazione di quest'ipotesi non si può andare53.

E' certo, invece, che nel suo testamento del 1192 Speronella legò alla chiesa "de Sancto Brosone" la somma di 20 soldi, da consegnare alla sua morte perché i fedeli del luogo pregassero per la sua anima; inoltre, lasciò due campi alla chiesa di Curano, che sarebbero stati individuati fra le terre da lei detenute a Camponogara ad opera del priore del monastero portuense di Vigonza. A Sambruson fanno riferimento pure due clausole del codicillo che essa aggiunse nel 1199, poco prima della morte. Nella prima la "villa Sancti Ambrosonis" è indicata come limite geografico di possessi assegnati al vescovado padovano, mentre nella seconda Speronella esplicitò la volontà di lasciare a Spinabello da Zianigo tutto ciò che possedeva a Martazaga e Sambruson, segno evidente della penetrazione dei Dalesmanini nel paese54. Quei beni erano gestiti direttamente da Speronella tramite lavoranti e servi di cui non vengono riportati i nomi: "Ed ancora al domino Spinabello da Zianigo lascio tutto ciò che possiedo a Martazaga e a Sambruson e che è lì tenuto a mio nome, e due mansi a Cazzago che conduco in forma diretta".

Il primo pievano noto di sambruson : l'arciprete Giovanni

Nel terzo decennio del secolo XIII troviamo improvvisamente presente, funzionante e strutturalmente ben organizzata la pieve di Sambruson. Ce ne parla un documento non datato, ma non più tardo del febbraio 123555, in cui sono raccolte testimonianze rese durante una causa mossa da Giovanni, arciprete di Sambruson, contro le monache benedettine del monastero padovano di Santo Stefano56.

Attorno al 1222 Giovanni, che almeno dal 1213 era rettore della chiesa di San Lorenzo di Padova57, riuscì a farsi nominare arciprete della pieve di Sambruson. Non gli era stato facile perché a quell'incarico era già stato designato prete Felice,  ma contro la nomina di questi e contro i chierici di Sambruson ed altri pievani che avevano sostenuto tale designazione egli fece ricorso al papa affermando che lui, e non Felice, era arciprete di Sambruson. Il santo padre delegò a dirimere la questione tre ecclesiastici padovani (l'abate del monastero di S. Stefano di Carrara58, il canonico padovano magistro Salione Buzzacarini59 ed il priore del monastero della Santissima Trinità60): essi si pronunciarono a favore di Giovanni e lo immisero nel possesso dell'arcipretato. Felice e Giovanni a quel punto addivennero ad un compromesso alla presenza dei domini Acerbo e Pietro Romano, ai quali Giovanni presentò un atto redatto dal notaio Rustico in cui si attestava che il priore Melodia lo aveva investito dell'arcipretato di Sambruson, anche su parere e volontà dell'arciprete Floriano e di magistro Egidio61, che allora erano i vicari del vescovo. Melodia era priore della canonica portuense di S. Sofia di Padova62, la quale, evidentemente, a quel tempo deteneva il diritto di designare l'arciprete di Sambruson e di presentarlo al vescovo per l'investitura canonica63.

Il diritto di presentazione dei sacerdoti di San Lorenzo spettava, invece, alle monache di Santo Stefano a seguito di designazione da parte di un'assemblea popolare. Quando fu presentato alla badessa di quel monastero, Roza, per la nomina formale a rettore di San Lorenzo64, Giovanni si impegnò a far funzionare al meglio la cappella cittadina ed a portarsi a celebrare riti religiosi nella cappella monastica di Santo Stefano in alcune solennità dell'anno liturgico65: dimostrazione tangibile, questa, del suo rapporto di sudditanza dal monastero. Egli era un uomo di vasta cultura e dalla forte personalità. Nel 1215 fu designato sindaco della fratalea cappellanorum di Padova66 e nel 1217-1231 fu in primo piano contro il tentativo dell'oratorio di Santa Margherita di trasformarsi in cappella67. Era amico di 'magistri' (professori) della nascente Università; anzi, teneva anche lui una scuola di preparazione culturale presso San Lorenzo, da cui uscivano giovani avviati al sacerdozio o al notariato68. Ma volle aumentare il suo prestigio, e i propri proventi, acquisendo la nomina ad arciprete di una pieve: quella di Sambruson, appunto. Da allora in città, nella curia episcopale, durante le cerimonie religiose in cattedrale venne chiamato e rivestì le insegne di arciprete, e come arciprete sedette a dare udienza assieme al suo patrono, il priore Melodia, sotto il portico di Santa Sofia. A lui, proprio perché arciprete, il papa inviò una o più bolle incaricandolo di dirimere una vertenza per questioni di interessi insorta fra Giacomo da Sant'Andrea ed alcuni usurai: Giovanni convocò in giudizio gli interessati procedendo allo svolgimento della sua funzione sotto il portico della chiesa di SanLorenzo;in seguito nessuno

La chiesa di San Lorenzo in Padova, di cui era rettore l'arciprete di Sambruson Giovanni, in un disegno del secolo XVIII. Sulla sua facciata erano appoggiate le tombe di Antenore (a sinistra) e di Lavato Lavati (a destra).

seppe, però, indicare se (e come) la causa si fosse conclusa. Egli partecipava attivamente alla vita della curia69 e venne incaricato di missioni anche di una certa rilevanza da ecclesiastici importanti, come nel 1228, quando ebbe procura dal beato Arnaldo da Limena (abate di Santa Giustina) e dal primicerio della fratalea cappellanorum di trattare a Venezia sull'elezione del vescovo di Padova70. Come vedevano queste sue attività le monache di Santo Stefano? Inizialmente forse non reagirono: in fondo i sacerdoti che ufficiavano a San Lorenzo erano tre e non c'erano manchevolezze nella risposta che assieme davano alle esigenze spirituali dei fedeli. La situazione di Giovanni offriva loro, tuttavia, un serio motivo di critica, in quanto la posizione che aveva voluto conseguire era in contrasto con le disposizioni del concilio Lateranense IV che vietavano il cumulo di benefici ecclesiastici cui era annessa la cura d'anime71. In quegli anni, volendo conseguire una vera riforma nella Chiesa coinvolgendo per primi gli ecclesiastici, contro quel cumulo tuonavano di continuo nelle loro prediche i frati degli ordini mendicanti. Secondo tali norme, qualora si fosse riconosciuto che Sambruson e San Lorenzo erano ambedue parrocchie a pieno titolo, Giovanni era da considerare in condizione di incompatibilità per l'uno o l'altro incarico. Comunque per alcuni anni le monache non si opposero ai doppi impegni di Giovanni, o forse non trovarono lo spunto per farlo.

In quanto capo della nostra pieve, Giovanni presiedeva a Sambruson le funzioni sacre e i riti liturgici con l'autorità propria degli arcipreti. Egli raggiungeva a cavallo la sua lontana parrocchia e, vedendolo partire da Padova, la gente lo salutava augurandogli buon viaggio: "Bene vadat, archipresbiter". Se si portava in paese "quandocumque placebat", egli vi era sicuramente presente il giorno della Candelora, per benedire e distribuire le candele; la domenica delle Palme, quando procedeva alla benedizione dell'olivo; il Sabato Santo, giorno in cui benediceva il sacro fonte e di seguito, aiutato dai sacerdoti responsabili delle cappelle filiali (Rolando, Giovanni da Prozzolo e Ambrogio cappellani rispettivamente di Curano, Paluello e Porto)72, battezzava i bambini della pieve; il 7 dicembre, per festeggiare il patrono Sant'Ambrogio. Inoltre, vi si recava pure in altri momenti, come mostra il fatto che un 29 settembre, festività di San Michele, si presentò a Porto e qui, di fronte alla negligenza del cappellano che nella ricorrenza del santo patrono nemmeno aveva celebrato la messa, lo richiamò al rispetto dei suoi obblighi ecclesiastici; oppure, anche, quando veniva chiamato ad assolvere i casi a lui riservati nelle confessioni73. Inoltre, egli esercitò la prerogativa di presentare al vescovo candidati, della pievania e non, per l'ammissione agli ordini sacri74. Quando si trovava lontano da Sambruson veniva sostituito da prete Omobono, il primo "cappellano" del paese di cui resta ricordo, che quasi certamente era da lui designato e stipendiato.

A remunerazione dei suoi impegni a Sambruson Giovanni veniva compensato col quartese. Non era lui a girare di casa in casa a raccogliere "messi e redditi come arciprete", e precisamente "frumento, miglio e sorgo", ma aveva dato mandato a Pietro, fratello di prete Felice, di raccogliere la sua "parte del beneficio". Tuttavia per un certo periodo egli non si potè recare in paese e godere del quartese, perché vi fu impedito da Uberto Dalesmanini. Prete Rinaldo attestò che "nel tempo in cui Uberto di domino Dalesmanino stava a Sambruson, l'arciprete Giovanni non vi andava né osava andarci, ma dal tempo in cui domino Artusino ebbe la villa in poi lo stesso prete Giovanni andò a Sambruson". La notizia venne confermata dal chierico Luciano di San Lorenzo, il quale affermò che "mentre domino Uberto stava a Sambruson egli [Giovanni] non percepiva le messi della chiesa di Sambruson, ma dopo si". Uberto e Artusino erano fratelli, figli di Giacomo di Dalesmanino75, magnate di tale prepotenza che nel 1228, quando morì, i cittadini di Padova provarono grande sollievo76. Probabilmente in quello stesso 1228 Uberto si sostituì al padre nei beni fra il Brenta e Camponogara e qui, in disaccordo con Giovanni o perché voleva usurpare il quartese dell'arciprete e impossessarsene, oppure perché non riconosceva Giovanni come arciprete legittimo in quanto favorevole a prete Felice, gli vietò di recarsi a Sambruson e di raccogliere le messi della pieve. Probabilmente a seguito della divisione dei beni di Giacomo fra i suoi quattro figli77 la nostra zona entrò nella sfera d'influenza di Artusino, il quale non frappose divieti all'operato religioso di Giovanni e alla riscossione del quartese.

L'assorbente, frenetica attività di Giovanni ed alcuni suoi sgarbi indussero pian piano le monache di Santo Stefano ad interrompere il loro rapporto con l'arciprete; tuttavia, prima di provvedere a licenziarlo, rimasero in attesa di una sua mancanza formale. Come sappiamo, Giovanni era tenuto ad ufficiare la chiesa monastica di Santo Stefano in alcune particolari ricorrenze liturgiche, fra le quali era compresa la festività del santo titolare. Ebbene, il 26 dicembre 122978, forse perché le celebrazioni per il Natale trattennero Giovanni a Sambruson oltre quanto aveva stabilito, o perché il cattivo tempo gli impedì un tempestivo rientro a Padova, o per un qualsiasi altro imprevisto, nella ricorrenza di santo Stefano egli non si recò a celebrare le funzioni liturgiche nella chiesa delle monache. Queste non si fecero sfuggire l'occasione e reagirono alla scorrettezza in modo plateale: la badessa Roza gli fece portar via le chiavi della chiesa di San Lorenzo, dalla quale ordinò che fossero asportati i libri liturgici ed ecclesiastici. Ricordando più tardi questi fatti, prete Gerardo affermò che in seguito Giovanni e la badessa giunsero ad un compromesso, attestato con atto notarile79, ma il notaio Litaldo, prete Cato e la stessa badessa raccontarono in modo diverso quanto allora successe.

Ormai decise a dichiarare Giovanni decaduto da rettore di San Lorenzo ed a sostituirlo con prete Giovanni, responsabile dell'oratorio di Santa Margherita, le monache si riunirono a capitolo il seguente martedì 1° gennaio 1230.

A questo si presentò anche l'arciprete Giovanni, accompagnato   dal   magistro  Arsegino80,   dal giudice domino Prando81, da Alberto Arsalonis ed altri. Prendendo la parola, egli si rivolse ali'incirca in questo modo a Roza: "Abbadessa, ho sentito dire che intendete assegnare ad un altro sacerdote il beneficio che ho nella chiesa di San Lorenzo. Vi prego di non darglielo, perché non lo voglio lasciare, dato che non ho fatto nulla perché lo debba perdere". Roza gli rispose: "Come! Tu hai sparlato di noi davanti al vescovo e ci hai offese ed infamate in città, ed hai accettato l'arcipresbiterato di Sambruson [senza il nostro consenso], e non celebri le funzioni nella chiesa di Santo Stefano!". "Ma io", disse Giovanni, "quello che ho detto al vescovo l'ho riferito con l'autorizzazione delle monache!". "Non certo la mia", gli sibilò contro, adirata, una monaca. "Va bene", disse lui. "Sappiate, comunque, che se voi darete ad un altro il mio beneficio io mi appellerò al vescovo, al patriarca di Aquileia, al papa e a qualunque altra autorità cui possa presentare appello". Appena Giovanni e i suoi accompagnatori furono usciti, il capitolo delle monache dichiarò  "Giovanni arciprete di Sambruson" decaduto dall'incarico a San Lorenzo, ed investì in suo luogo Giovanni di Santa Margherita. Il notaio Litaldo rogò l'atto ufficiale.

Naturalmente Giovanni interpose appello. Non sappiamo a chi lo inoltrò per primo: ciò che il documento del 1235 mette in evidenza è che, a distanza di circa cinque anni, la soluzione della vertenza era nelle  mani  del  canonico magistro  Salione  Buzzaccarini,  al  quale  era stata delegata dal papa (si trattava dello stesso canonico che una decina d'anni prima, si era espresso a favore della nomina di Giovanni ad arciprete). Come ci si aspetta da un giudice imparziale, Salione ascoltò i testi indicati dalle parti e ne fece registrare le dichiarazioni82. Salione doveva asseverare se Giovanni fosse o meno responsabile di accumulo di benefici ecclesiastici incompatibili, e giudicare se la sua assenza dalle funzioni il giorno di Santo Stefano era un motivo valido per dichiararlo decaduto da rettore di San Lorenzo. Però, della causa non sappiamo nient'altro: nessun ulteriore documento sembra parlarne, per cui per ora non è possibile sapere come si sia concluso. Certo

La pievania di Sambruson al tempo dell'arciprete Giovanni (circa 1230).

è che il 16 dicembre 1233, ancora nel pieno della causa, durante il sinodo generale degli ecclesiastici della diocesi di Padova convocato in cattedrale dal vescovo Giacomo di Corrado, Giovanni era ancora arciprete di Sambruson83, e certo è anche che, alla conclusione della causa, le monache reintegrarono Giovanni nell'ufficio di rettore di San Lorenzo da cui lo avevano allontanato. Ne è dimostrazione il fatto che nel 1238, proprio perché era il responsabile di San Lorenzo e, in quanto tale, faceva ancora parte dell'associazione dei cappellani di Padova, fu designato primicerio della fratalea cappellanorum. Inoltre, egli potrebbe essere vissuto fin oltre la metà del secolo, se fosse riferibile a lui l'attestazione che il 24 febbraio 1250 un cappellano "prete Giovanni di San Lorenzo" era presente come testimone alla stesura di un atto notarile84. Nessun'altra notizia permette, in ogni caso, di conoscere se fu dichiarato colpevole di accumulo dei due benefici e se fu obbligato a scegliere fra essi (per cui, da quanto appena detto, egli dovrebbe aver rinunciato a quello di arciprete di Sambruson), e comunque di sapere quando, per rinuncia o per morte, egli lasciò l'incarico a Sambruson.

LA PIEVANIA NEI SECOLI XIII-XIV

Le vicende dell'arciprete Giovanni permettono di individuare l'espansione territoriale della pieve di Sambruson al suo tempo. Mentre la cartula del 1221 aveva segnalato che alla chiesa di Sambruson era unita la cappella di Porto, dalle testimonianze della causa appena vista si viene a sapere che, verso il 1230-1235, nella pieve erano comprese anche le cappelle di Curano e di Paluello. Ulteriori notizie ci sono fornite a fine secolo dalle Rationes decimarum (o resoconto delle decime), un documento compilato nel 1297. Si tratta di un elenco di pievi, parrocchie, monasteri e benefici con indicata la somma che i pievani, i rettori e coloro che godevano di rendite ecclesiastiche erano tenuti a versare alla camera apostolica, in due rate, per ottemperare all'imposizione straordinaria prescritta da papa Bonifacio VIII "in subsidium regni Sicilie". Accanto ai nomi dei sacerdoti elencati è posta molto spesso

l'indicazione "Excusatus", con cui si segnalava che erano stati esonerati dalla contribuzione a causa dell'esiguità dei loro proventi. Per noi è un segnale che la loro situazione economica era quantomeno disagiata. La "plebes S. Brusonis que subest monasterio S. Sofie"85 (indicazione che evidenzia come nel 1297 giuridicamente essa dipendesse ancora dal monastero portuense di S. Sofia) era retta dall'arciprete Aicardino, il quale era coadiuvato nella sua azione pastorale dal chierico Donato. Alla pieve facevano capo la cappelle periferiche di:

-   S. Maria di Albarea, retta da prete Corrado;

-   S. Pietro di Carpene, retta da prete Savere;

-   Santa  Trinità   di   Fiesso,   retta   da   prete Lorenzo;

-   Sant'Antonio abate (o di Vienne) di Paluello, retta da prete Alberto;

- S. Maria di Curano, retta da prete Corrado.

Mancano indicazioni relativamente alla cappella di Porto, forse perché essa era ancora unita alla chiesa pievana, come nel 1221, oppure - ma con minore probabilità - perché la sua segnalazione fu omessa per errore86. È da far presente che nessuno dei sacerdoti indicati, nemmeno il pievano, pagò allora alcunché, dato che accanto al nome di ciascuno compare la scritta "Excusatus", indice che o si trovavano tutti in condizioni economiche precarie87, oppure e più probabilmente perché, essendo la pieve di pertinenza del monastero di Santa Sofia, fu quest'ultimo a pagare la tassa per tutte le chiese dipendenti da esso.

Il documento mette in risalto la notevole ampiezza della pieve di Sambruson alla fine del secolo XIII, facendo però sorgere la domanda se questa situazione era tale già in precedenza, oppure se essa si era venuta a creare nei circa sessantenni successivi all'uscita di scena dell'arciprete Giovanni, con l'inserimento solo allora entro l'orbita di Sambruson88 delle cappelle di Carpane89, Albarea90 e Fiesso. La ricostruzione di quanto è avvenuto in quei decenni risulta di fatto impossibile, ed è resa difficile anche dal fatto che, nemmeno vent'anni dopo, un estimo diocesano del primo secolo XIV (attribuibile al 1315 circa)91 indica che solamente tre cappelle dipendevano allora dalla pieve di Sambruson:

"Plebes S. Broxoni extimant libras XL parvorum; clericatus diete plebis XX parvorum; ecclesia S. Antonii de Paludello libras XVII parvorum; ecclesia S. Trinitatis de Flesso libras XVII parvorum; ecclesia S. Marie de Curano libras XVII parvorum".

("Il reddito de la pieve di Sambruson è stimato lire 40 di piccoli; il chiericato della detta pieve [lire] 20 di piccoli; la chiesa di S. Antonio di Paluello lire 17 di piccoli; la chiesa della S. Trinità di Fiesso lire 17 di piccoli la chiesa di S. Maria di Curano lire 17 di piccoli").

Il documento non registra più le cappelle di Carpane ed Albarea fra quelle della pieve ambrosiana e continua a tacere, come il recedente, su quella di Porto, mentre segnala che continuava a permanere a Sambruson la cappella della Santissima Trinità di Fiesso. Esso, poi, mette in evidenza un interessante aspetto economico: cioè che la prebenda annua del pievano era più che doppia rispetto alle rendite dei cappellani delle chiese filiali (quella dell'arciprete era di circa quaranta lire di piccoli veneziani contro le diciassette lire di cui era accreditato ciascuno dei tre cappellani). La ricchezza della pieve è evidenziata anche dalla rendita di lire venti di piccoli assegnata al chierico della sede pievana, che era superiore di ben tre lire rispetto a quella dei cappellani periferici92.

Gli attuali oratori di Carpane (in alto) e di Albarea (sotto), anticamente cappelle della pievania di Sambruson.

L’ ecclesia Sancti Ambrosonis era un edifìcio di origini bizantine?

L'indicazione del 1117 non permette di desumere alcuna notizia sulle caratteristiche architettoniche della chiesa che sorgeva a quel tempo a Sambruson. Rifacendosi alla descrizione che nel 1489 il vescovo Barozzi dette della chiesa che allora si alzava nel paese, è stato affermato che quella cui fa cenno il documento del 1117 aveva una struttura tardo-bizantina1. Nessun indizio attesta, però, che la chiesa visitata dal Barozzi fosse la stessa esistente nel primo secolo XII. Ciò, fra l'altro, perché proprio il 3 gennaio 1117 un forte terremoto provocò danni gravi in tutto il Veneto, fino a far crollare, a Padova, il tetto della cattedrale ed a distruggere la basilica di Santa Giustina costruita fra i secoli V e VI dal patrizio Opilione2. Pesanti ripercussioni si ebbero pure nella nostra zona, dove andò in rovina la basilica doppia dei Santi Ilario e Benedetto, della quale si hanno notizie solamente fino al 1110. In suo luogo i benedettini costruirono una nuova basilica, dedicata al solo Sant'Ilario, che risulta eretta già nel 11363. Questa, come si è potuto rilevare a seguito di scavi effettuati verso il 1880 che hanno portato alla luce il suo pavimento, era a tre navate (come quella di Sambruson del 1489) ed aveva tre absidi (che però quella di Sambruson non aveva). Si può, pertanto, pensare che la chiesa di Sambruson vista dal Barozzi fosse altra rispetto a quella del 1117, e che fosse stata eretta magari poco dopo questa data dai monaci ilariani secondo i moduli bizantineggianti con cui fecero costruire la nuova chiesa di Sant'Ilario (i quali, a loro volta, mostrano somiglianze con la di poco precedente basilica di San Marco, a Venezia, fatta costruire dal doge Domenico I Contarini). Questa ipotesi sembra suffragata da alcune osservazioni del vescovo Barozzi, il quale segnalò che la porta centrale d'accesso della chiesa era eccentrica rispetto alla navata cui dava adito, che era sormontata da una finestra oblunga e che più in alto, nella parte centrale della facciata, c'era l'apertura rotonda di una finestra ad occhio. Ciò porta a pensare che, in passato, prima della chiesa vista dal Barozzi, sorgesse sul luogo un'altra più piccola chiesa di cui, al momento di un ampliamento o di una ricostruzione (forse proprio a seguito del terremoto del 1117), furono mantenute ed utilizzate parte delle strutture.

1) ZAMPIERI 1998, p. 2. Il riferimento a moduli bizantini non può essere sufficiente per datare un edificio di cui non si hanno altre indicazioni. Basti ricordare che, proprio nel secolo XII, vennero alzate numerose chiese che ripresero quei moduli: a titolo esemplificativo faccio richiamo alla chiesa Santa Sofia a Padova (BELLINATI 1982; LORENZONI) ed alla basilica dei Santi Maria e Donato a Murano (DE BLASÉ 1980). Nel secolo XI, poi, prese avvio la terza ricostruzione della basilica di San Marco, a Venezia (la cosiddetta basilica contariniana), al cui modulo, oltre che a quello della cattedrale di Jesolo, la chiesa di S. Sofia sembra in qualche modo rifarsi (PUPPI, p. 15-20; ZULIANI, in particolare p. 147-158).

2) BELLINATI 1982, p. 20; La diocesi di Padova, p. 61 ; PEPI, p. 23. Per lungo tempo gli storici hanno attribuito ad esso, e al maremoto che ne seguì, la scomparsa in Adriatico del porto venetico e romano di Malamocco, ma studi recenti hanno dimostrato l'infondatezza di questa antica tradizione (DE BIASI 1984, p. 21-30).

3) MARZEMIN, p. 58 dell'estratto.

Pievi, cappelle e chiese private

Le pievi. I numerosi studi e convegni che da alcuni decenni hanno richiamato l'attenzione sulla comparsa, le funzioni e la dislocazione nelle diocesi delle pievi, o chiese battesimali deputate al servizio religioso di un territorio di una certa ampiezza, concordano che nell'Italia settentrionale esse furono organizzate nel periodo carolingio, quando le diocesi vennero organizzate con le strutture attuali1. Il loro nome deriva da plebs, sottintendendo Dei: termine con cui si indicava l'insieme dei fedeli o popolo di Dio di un luogo. Il territorio su cui allargavano la loro azione religiosa era chiamato pievato (o pievado o piovado: da plebatus), ma anche piviere e pievania. Erano rette da un sacerdos maior o archipresbiter (arciprete), in quanto aveva attorno a sé altri ecclesiastici che lo coadiuvavano e ufficiavano la chiesa pievana col nome di 'canonici', 'ordinarii' ed anche chierici. L'azione dell'arciprete veniva remunerata con i frutti del beneficio di cui la pieve era dotata e, solitamente, col quartese, una contribuzione cui erano tenuti tutti coloro che ricavavano benefici economici dalla coltivazione di terre e fondi agricoli locali.

Le cappelle. Solo le pievi potevano esercitare la cura animarum (cioè la piena assistenza religiosa dei fedeli del luogo), ma nel loro territorio esistevano chiese di rango inferiore in cui venivano prestati alla popolazione servizi religiosi sussidiari. Chiamate ancora nel X secolo oracula od oratoria2, esse acquisirono poi l'appellativo di cappelle (od anche titulì). In quanto 'figlie' di una pieve 'madre', queste chiese vennero giuridicamente definite filiali della pieve e questa, nei loro confronti, vantava il titolo di matrice. Per secoli l'autonomia delle cappelle e dei loro sacerdoti rispetto alle prerogative delle pievi e dei loro arcipreti fu molto limitata3, ma col tempo le cappelle erosero alle matrici i diritti parrocchiali; tuttavia, furono sempre obbligate a riconoscersi legate verso di loro con atti formali che ne evidenziavano la soggezione4. Oggi, caduta ogni prerogativa di superiorità delle matrici, le filiali continuano a riconoscere loro tale antico titolo come appellativo d'onore.

La 'chiesa privata'. Nel medioevo molte chiese erano 'private', nel senso che erano state erette e dotate da un signore, un monastero (anche di diocesi diversa), prelati (come i canonici della cattedrale), ecc. rimanendo di loro proprietà. Ai proprietari era riconosciuto il diritto di esercitare un largo potere di controllo sui beni di cui quelle chiese disponevano e sui loro interessi, ma religiosamente esse dipendevano dal vescovo diocesano, cui spettava il diritto di assenso o di rigetto del sacerdote designato dal proprietario a farle funzionare5. Questo sistema si venne evolvendo nel formale ius patronatus, o diritto di patronato6.

1) Per i riferimenti bibliografici rinvio solo ai volumi Pievi e parrocchie in Italia nel basso medioevo e Pievi, parrocchie e clero nel Veneto dal XalXVsecolo, oltre, specificamente per Padova, a BORTOLAMI 1996_2 e sua Nota bibliografica.

2) Alle assemblee sinodali diocesane di Padova del 964 e del 978 intervennero anche sacerdoti "de singulis plebibus vel oraculis" (CDP I, doc. 47 e 63, p. 69 e 88).

3) Poiché la pienezza dei diritti ecclesiastici spettava alla sola pieve, nelle cappelle non si poteva battezzare (tranne che nei casi di necessità), né esse potevano disporre di un camposanto proprio in cui seppellire i morti. Inoltre, solo il pievano aveva pienezza di condono nella confessione (tanto che i sacerdoti delle cappelle dovevano inviare a lui i penitenti che si presentavano loro esponendo determinati peccati), ed era lui che presentava al vescovo gli aspiranti agli ordini minori e maggiori del pievado per l'inserimento nella carriera ecclesiastica.

4) Sulla diversità di funzioni religiose fra pievi e cappelle in diocesi di Padova rinvio a SAMBIN 1941, 1953 e 1954 (in particolare p. 53-60), e BORTOLAMI 1996_2, p. 61.

5) II CASTAGNETTI 2005, p. 140, così riassume le motivazioni che spingevano alla costruzione di chiese private: certezza di procacciare per sé, i propri defunti e i discendenti un'abbondante messe di preghiere e di uffici divini per la salvezza delle anime; accrescimento del prestigio sociale del fondatore e della sua famiglia; ulteriore radicamento della famiglia nel luogo; maggior coesione fra i discendenti, cui erano affidate la chiesa e la scelta del sacerdote officiante dopo la morte del fondatore; speranza di aumento delle dotazioni in beni terrieri della chiesa mediante donazioni da parte delle popolazioni locali e l'afflusso di altri redditi da gestire, costituiti da offerte in denaro e prodotti della terra; possibilità di offrire servizi religiosi in loco ai dipendenti che lavoravano i poderi padronali e le terre dipendenti.

6) Veniva riconosciuto con atto formale a chi possedeva una chiesa, o prometteva di curarne gli interessi, o finanziava importanti lavori ed opere per la sua manutenzione, restauro o ricostruzione, ecc.; al diritto era connessa la prerogativa della presentazione al vescovo, per l'investitura ecclesiastica, del sacerdote che l'avrebbe retta. Nell’accettare il diritto, il giuspatronante o giuspatrono si impegnava a difendere la chiesa a lui affidata in tutti i modi contro chiunque avesse attentato ai diritti ed alle prerogative di cui essa godeva; nel contempo, egli veniva autorizzato ad ingerirsi negli affari economici e negli altri aspetti non ecclesiastici che la riguardavano. Sui patroni e i giuspatronati si veda almeno GRECO, e relativamente a quelli sulle parrocchie della Riviera del Brenta, fino a tempi anche recenti, POPPI 2005_b, 18-19.


Dal volume "IN SANCTO AMBROSONE"

di MARIO POPPI (Associazione Culturale Sambruson La Nostra Storia)


articolo a cura di luigi zampieri 

Ultimo aggiornamento (Mercoledì 26 Febbraio 2020 18:10)