ANTOLOGIA DI RACCONTI inediti di Andrea Zilio
SAMBRUSON. CULTURA, COSTUME, TRADIZIONI, AMBIENTE. - LETTERATURA A SAMBRUSON (I) |
Caro Luigino,
qualche anno fa ho pubblicato “Novelle dolesi”, che in realtà sono racconti. E’ la mia misura ideale per raccontare cose “intense”.
I primi quattro racconti che ti invio sono inediti. Motivo? Esclusivamente tipografico. Scompaginavano il numero di pagine nella rilegatura. Così mi dissero. Non ho mai capito. Sono rimaste nel fondo del mio computer per otto anni. Meglio così.
Se credi di dar luce a questa piccola ”Antologia di racconti” sarò felice.
Ti do una mano ad interpretare.
C’ERA UNA SARESARA. Fatto vero successo quando eravamo ragazzi, e proprio a due passi da casa tua, ora. Cambio i nomi. Ma il personaggio principale lo puoi individuare facilmente. La fontana al “Ponte”…c’era.
LA CATENA DEL FOCOLARE. Gli uomini, fittavoli, la raccontavano al lume a petrolio, nelle stalle, a filò, d’inverno. Ricordando i loro vecchi. Anche noi eravamo fittavoli.
LETTERA a DINO B. Storia vera, datata.
LA STORIA DI ANSELMO. Luoghi e tempi veri. A filò. Assemblaggio, con nomi cambiati.
TESTIMONIANZE. Pubblicato da AVO- Dolo.
Ciao, grazie comunque.
Andrea
Dolo, 9 novembre 2013
C’ERA UNA SARESARA. Fatto vero successo quando eravamo ragazzi, e proprio a due passi da casa tua, ora. Cambio i nomi. Ma il personaggio principale lo puoi individuare facilmente. La fontana al “Ponte”…c’era.
di Andrea Zilio
C’ERA UNA SARESARA
I Moesini erano stati assai numerosi, prima dell’ultima guerra. Avevano lavorato molte terre oltre Brenta a sorgo e a vigna, si racconta tuttora di loro. Sono passati gli anni, la grande famiglia si è ristretta, ma le terre sono ancora là, troppo larghe per barba Jache e suo figlio Sc-iopetin, sposato con la Mariangela dei Morari, brava lavoratrice anche lei, con un figlio da scuola e con nessuna voglia di lavorare la terra. A dispetto del loro cognome, era gente spiccia, sbrigativa, affatto molle.
”Hai dodici anni e nessuna voglia di far ben” brontolava suo nonno.
Neanche i libri li ama abbastanza, gli piace girare a bande per i campi, saltare fossi, spaccare tronchi lanciando una corta accetta, la menara, e fiondare rondini solo perché gliel’hanno vietato. Torna spesso a casa con qualche botta o gonfiore, ma soddisfatto della vita che fa. Suo nonno non è affatto contento, non ci vede chiaro e brontola da solo, perché, dopo che è rimasto vedovo non c’è nessuna donna paziente a sopportarlo. Certamente la venderanno, la cederanno, la molleranno quella campagna; non possono continuare a farcela da soli, questo si dice in giro. Avranno pure le macchine e le opere, però l’impegno si sta facendo troppo pesante, anche perché, a barba Jache, gli anni cominciano a pesare. Ha fatto tagliare molti alberi lungo i fossati per permettere alle macchine di girarsi meglio quando vanno ad arare; anche nel frutteto ha fatto S.Martin. C’erano troppi alberi che da anni facevano solo ornamento di fiori a primavera, ma frutti niente, perché nessuno li cura, li difende dagli afidi e dalle muffe. Solo un ciliegio è di buon cuore, ogni anno è puntuale, presente, ricco di ciliegie rubiconde, vere marosticane; fanno gola a molti ma lui non ne dà a nessuno.
La saresara, sul limitare degli orti attorno alla casa, apre le carreggiate che vanno nei campi. E’ un bell’albero solitario, bene esposto al sole e ai venti per l’impollinazione, è l’emblema della casa.
Barba Jache è goloso e geloso del suo ciliegio. Ogni giorno vuole una terrina di ciliegie fresche in tavola, e mostra i pugni ai merli e ai tordi che si accomodano a piacimento a tutte le ore senza chiedere. La raccolta la fa il nipote Giancarlo, che tutti chiamano Tavanèa, perché è molesto e fastidioso come un tafano che tormenta la cavalla attaccata alla timonella.
“Vammi a prendere una terrina di ciliegie” ordina incrociando le sopracciglia.
C’è una scala di cinque metri appoggiata al fusto, serve per arrivare alle prime forcelle, poi lì dentro ti perdi nel fogliame. Tavanèa è lesto di gambe e di braccia, ma neppure lui è capace di scalare la saresara, il fusto è troppo ampio, non ce la fa ad abbracciarlo e a stringerlo con le cosce. La scala è l’unica via di accesso a quel pergolato rubicondo che dondola, occhieggia, invita. Molte ciliegie sono irraggiungibili, ma non importa, la saresara ne dà in abbondanza e quelle che non si prendono marciranno al suolo o le mangeranno i tacchini e le oche.
Da lassù, mentre vendemmia, guarda la campagna intorno e studia, studia un piano. Si vede tutto da lassù, il canale dove vanno a nuotare, il campanile, le strade e gli argini dove vanno a fare battaglia tra bande, le anguriare dove andranno a fare man bassa di notte tra poche settimane. Tavanèa ha una banda, appartiene a una banda, ma non è un capo, deve accodarsi agli altri e correre tanto, a volte senza sapere dove vanno. Che importa? Stare insieme ai propri compagni è una necessità vitale, chi è emarginato sta male da morire. Corre questo rischio, allora cerca di intervenire, di proporre, di interferire, ma nessuno gli dà retta, perché è un rompiscatole. Per conquistarsi la simpatia di qualche compagno gli ha proposto sottobanco di venire a rubargli le ciliegie, lui avrebbe fatto da palo, perché nessuno se ne accorgesse in famiglia. Ma neanche questo ha funzionato, non gli danno proprio retta. Eppure non passa giorno che le bande non calino a gruppi scelti nei frutteti sparsi e fuori mano.
Da sotto il cane uggiola, mugola, abbaia, vorrebbe giocare, rotolarsi, mordicchiare il suo padroncino, farsi tirare la coda, le orecchie, inseguire i tacchini e farsi rincorrere minacciosamente.
“Smettila!”
Coso non la smette affatto, adesso che è riuscito ad attirare l’attenzione. Tavanèa gli tira le marostegane, ma quello le cattura al volo. Coso è tuttora un cane senza nome, è capitato alla fattoria non si sa come o scartato da chi, randagio in ogni caso. In un modo o nell’altro là è cresciuto, non sapendo che nome avesse, cominciarono a fargli domande, oh, coso come ti chiami? Ehi, coso vattene fuori dei piedi! Oh, coso corri corri acchiappa la gatta! Così per ridere o sul serio, considerato una cosa, un oggetto, infiltratosi per chissà quale accidente, Coso è diventato di famiglia. Fa i suoi servizi, abbaia di notte quando sente rumori molesti, di giorno quando in corte appare qualche estraneo, insegue le oche che spesso si voltano indietro e lo mettono in fuga, saltella come un matto quando gli grattano la testa. Tavanèa è suo amico, gli gratta spesso la testa. Coso lo sa e lo cerca dappertutto, spesso fiuta l’aria, sente dov’è e corre come una palla che rotola sollevando la polvere delle carreggiate. Insieme vanno a nuotare, ma quando Tavanèa va a bande, Coso sta a casa, capisce che c’è qualcosa che non gli appartiene, non si azzarda ad uscire dai cancelli. Uggiola, chiama, latra al vento, poi si gira e va a cuccia inquieto e insoddisfatto.
La terrina è colma, scende pian piano e pensa. Berti gli ha chiesto di venire a ciliegie a casa sua con alcuni della banda. Ne è lusingato, ma Berti non è il capo della sua banda. E’ un bel guaio, è una bella responsabilità. Ah, se glielo avesse chiesto Franco! Ma Franco è troppo orgoglioso, non vuole inviti, gli ha già detto che se un giorno decidesse di accomodarsi sulla sua saresara, ci andrebbe senza preavviso.
“Sei o non sei dei nostri?” gli aveva intimato.
“Certo che sono dei nostri” aveva ammesso Tavanèa. Sembrava una confessione estorta.
“E allora, che problema c’è?”
“Guarda che Coso sente, abbaia e mio nonno spara se è di notte.”
“Chi sente?”
“Coso.”
“Un cane che non sa neanche lui chi sia! Va là, Tavanèa ! Quando sarà, sarà, e bocca chiusa.”
L’aveva liquidato con grande sufficienza suscitando il ghigno storto di Marco, un grassoccio prepotente e lesto a menare le mani, ombra di Franco. Non si dividevano mai. Marco aveva la forza che Franco non aveva, ma il capo era dotato di quell’astuzia che il suo vice neppure sognava per cui aveva dalla sua l‘obbedienza cieca di un subalterno gratificato di cui si faceva scudo beffardamente.
Farsi rubare le ciliegie era normale: il proprietario di solito sapeva, collaborava, aumentava il suo credito nella banda. Qui non gli si voleva concedere neppure l’onore delle armi. Franco si poteva permettere questi soprusi, poteva prendere quello che voleva, quando voleva e a sua insaputa. “Eh, no!” si era detto Tavanèa. Un guaio c’era in ogni caso o perdere la banda o perdere le ciliegie, se non entrambe. Perché la banda del Canale era forte e numerosa e per molti era un onore solo dire che si era di quelli. A fiondate non li batteva nessuno.
Se il nonno avesse solo intuito quello che macinava nella sua testa ne sarebbero successe delle belle, senza contare l’ira di suo padre che s’arrabbiava di brutto e quando meno te l’aspettavi: aveva troppi lavori, troppi impegni, non poteva arrabbiarsi lentamente.
Era giugno, faceva già caldo e i ragazzi nei pomeriggi andavano a canali, a nuotare. I piccoli andavano alla fossa del Palo dove l’acqua era bassa e si poteva fare un grande chiasso con le braccia e con le gambe senza rischio di annegare. I grandi invece andavano in canale, si tuffavano a più riprese, a volte pescavano tinche con le mani. Là in quelle ore non c’era banda che tenesse, tutti andavano a nuotare e ognuno badava a sé. Gli scontri di banda erano una necessità, una competizione di cui non si poteva fare a meno, se non c’era un motivo di confronto lo s’inventava.
“Che facciamo stasera?
“Cosa fanno quelli del Canale? Andiamo a vedere.”
Dall’altra parte si facevano gli stessi discorsi e così nascevano gli scontri per il possesso di un argine, per la conquista teorica di una campagna da visitare e depredare di albicocche o prugne.
Tavanèa si tuffava già da una decina di volte urtando i suoi compagni, ma anche quelli dell’altra banda, che poi erano compagni di scuola come tutti.
Marco l’aveva urtato violentemente e spinto in acqua un paio di volte sghignazzando. Aveva finto di non accorgersene.
“Ehi, Coso!” lo interpellò Franco. Ancora finse di non sentire. Lo trattava come uno scarto, come un povero cane. Alcuni apprezzavano queste sgradevolezze perché significavano riconoscimento di appartenenza sicura alla banda e alle sue conquiste. Tavanèa si stava stancando, non era da meno dei suoi familiari, era un Moesin, un sangue caldo. Incominciò ad innervosirsi lentamente e in maniera irreversibile, così, quando il capo gli disse che gli avrebbe rubato tutta la saresara e nessuno se ne sarebbe accorto, gliela giurò.
Tra una nuotata sott’acqua e una serie di schiaffate rumorose attraversavano il canale più volte, si avvicinavano, si allontanavano, si cercavano. Dopo un tuffo, sbuffò fuori dall’acqua e si trovò muso a muso il ghigno di Berti. Pure lui sbuffava, ma tra un soffio e l’altro gli sillabò due parole.
“Vengono sabato.”
Berti sparì sottacqua e rispuntò dieci metri più avanti, navigava a grandi bracciate verso l’altra riva. Berti è uno di quelli che ti guardano e ti tagliano, capisce subito se uno è sciocco oppure no e glielo dice con un sorrisetto che fa male e uno screcolare di risata eh, eh, eh! che senti appena eppure ti brucia.
Molti vorrebbero essere della banda del Ponte alto, anche Tavanèa vorrebbe, ma la scelta la fa non il cuore bensì la contrada, nessuno tradisce la contrada. Tuttavia i pensieri a volte corrono, anche perché nessuno li vede e ci puoi fare quel che vuoi e ci puoi filare un bel po’.
Tavanèa ci aveva filato molto quando Berti gli aveva detto, molto amichevolmente, parole chiare e nette.
”Gianca, tu sei uno sciocco, ma, siccome non lo sai, non ci pensi.”
Tavanèa invece aveva annuito, perché anche lui aveva questo dubbio, giacché non reagiva mai alle umiliazioni che subiva da Franco e da Marco Tàpara. Era meravigliato che Berti gli leggesse dentro in quel modo e questo accrebbe la sua ammirazione per il capo dell’altra banda che si permetteva di offenderlo per il suo bene, perché si disincantasse.
Berti aveva un piano in testa, quello di andare a ciliegie dai Moesini, con la complicità di uno di casa, regolarmente insomma. Che diamine, perché farla tanto difficile come Franco? I discorsi svolazzano, si sentono, si riferiscono, si commentano e poi tornano indietro. Tutti nella banda sapevano, meno l’interessato: sabato sera, alla vigilia della processione del Corpus Domini, Franco, Marco Tàpara e altri due sarebbero andati a rubare le ciliegie sulla saresara maestra dei Moesini, senza che nessuno sapesse. Tutti sapevano, tranne Tavanèa. Berti glielo ripeté, mentre si asciugavano alla belle e meglio, tutti parlavano, vociavano, nessuno si intendeva tranne quelli che volevano intendersi. Tavanèa sentì un filo di gelo percorrere la schiena, era l’acqua, ma erano anche rabbia e indignazione.
“Te la vogliono fare!”
Tavanèa sentiva che tutti gli sghignazzi erano per lui e se la legò a un dito. Avrebbe avvisato suo padre che avrebbe sparato in mezzo al fogliame e lui avrebbe aizzato dietro il cane. Poi per lui sarebbe stata finita, ma era finita lo stesso. Se nella sua banda avevano deciso di farsi beffe di lui, che gli serviva una banda? Era robusto abbastanza, aveva deciso come fare, come prendere Franco da solo e menarlo ben bene. Ma cambiò presto idea, perché non avrebbe mai potuto cambiare paese nei successivi cinquanta anni. Certe vendette si praticavano a regola d’arte, lui non si era tirato indietro le poche volte che era riuscito a rifarsi su qualcuno più isolato.
“Se ci stai, il tiro a quello glielo facciamo noi. Oh, sempre se ci stai! E non pensarci nemmeno un attimo: in ogni caso tu non sei dei nostri. Noi vogliamo soltanto assaggiare le tue ciliegie. E dare una lezione a Franco, come te.” Berti aveva la capacità di farsi ringraziare per i danni che procurava.
Si trattava di decidere in fretta, troppo in fretta, senza nessuno con cui consigliarsi. Berti lo guardava con il suo sorrisetto beffardo, con una fessura di occhietti aperti che frugavano e capivano che la diga stava crollando, perché la spinta era stata data al momento giusto e sul punto giusto.
Tavanèa non disse niente, si accoccolò ai piedi di Berti, sotto l’argine per non farsi vedere e guardò in su, pronto ad ascoltare. Berti capì che avrebbe mangiato le ciliegie dei Moesini senza colpo ferire; continuò a sorridere a mezz’asta senza proferire parola. Nessuno parlò, nessuno vide niente. Il patto fu siglato con gli occhi, con gli atteggiamenti, con i silenzi. Con l’indice della mano destra che girava in tondo trinciando l’aria il capo comunicò che si sarebbe fatto vivo in seguito, gli voltò le spalle e senza salutare discese l’argine. Attraversò apposta un gruppetto di quelli del Canale, Marco gli lanciò una zolla, ma Berti non fece una piega e se andò.
Sc-iopetin era indaffarato con le opere stagionali, donne e uomini ingaggiati a mesi o a settimane a seconda della scadenze dettate dall’andamento della stagione. Semine, raccolte, pulitura dalle gramigne, cura del bestiame, concimazione delle terre esigevano una presenza di manodopera che si trovava facilmente perché c’erano molti contadini che avevano una piccola cesura.
In quei giorni, in attesa di passare alle trebbiature, Sc-iopetin aveva deciso di anticipare la concimazione dei vigneti. Era un lavoro fastidioso, ma che non si poteva evitare, prima lo affrontavi meglio era. Le donne dovevano concimare con letame fresco le aiuole dell’orto per aiutare la crescita dei pomodori, delle melanzane e dei peperoni, tutta roba sana venuta su al naturale, con letame autentico di vacca. Spesso spaccavano le fette con una vanga poi con le mani lo sbriciolavano ai piedi della piantina di pomodoro che sarebbe cresciuta alta e carica. Facevano molto uso di pomodoro perché era sano e nutriente, e costava poco, a loro dire. Gli uomini invece erano impegnati in un lavoro piuttosto antipatico, dovevano spargere i liquami delle stalle sulle piante delle viti per aiutare le vecchie vigne spossate ed esauste dal troppo dare. Loro volevano bene alle loro piante e così le aiutavano nel modo più naturale possibile. In quel giorno un fetore insopportabile aleggiava per i campi, perché le puzze delle urine al sole diventano ancora più irritanti., bruciano gli occhi e la gola. Barba Jache era trionfante perché vedeva la grassa sparsa nella sua campagna in modo omogeneo e al momento giusto. Poi aspettavano una pioggerella, che a volte capitava a proposito senza acquazzoni così la nutrizione della terra era filtrante, lenta ed efficace. Barba Jache cantava le cavatine del Barbiere di Siviglia e le donne lo prendevano per matto, per loro c’era poco da ridere.
Anche Tavanèa aiutava, portava l’acqua e la bevanda, un misto di vinaccia torchiata ed acqua di pozzo, che sembrava rosolio perché era frizzante. Sembrava una provocazione, nel mentre ingrassavano le vigne, ne bevevano il succo peggiore. I contadini erano così, il meglio lo vendevano per guadagnare di più per cui il gusto delle loro fatiche spesso se lo godevano coloro che non se lo meritavano. Tra una corsa fra i trami e la corte di casa, con Coso dietro saltellante e appiccicato alle gambe, si era quasi scordato della saresara, che, invece, incombeva bella e ardita sopra la sua testa ogni volta che prendeva la carreggiata per i campi.
Coso a un certo punto si impennò, incominciò ad abbaiare e a correre avanti e indietro. C’era qualcosa di insolito, Tavanèa drizzò il collo, guardò in giro e, lungo la riva che faceva da confine con le proprietà dei Pessati, vide dei rami di salice ondeggiare. C’era qualcuno che andava a funghi, spostando rami e frugando tra le tapare, grossi ceppi di pioppo. Strano davvero, non era stagione con quel caldo. Poi capì. Fece un giro largo e arrivò alla riva dei Pessati. Incontrò Berti che con un bastone spostava le erbacce in cerca di funghi. Era una ricerca ammessa anche su proprietà altrui.
“Brutta annata quest’anno, non si trova niente.” Poi si acquattò e pescò una tartarughina dall’acqua corrente.
“La vuoi?” disse a Tavanèa. Il ragazzo accettò e ringraziò. Neppure per un attimo pensò che era sua, perché stava nel suo fossato.
“Sono qui per sabato” tagliò corto Berti. “Te l’hanno detto? Franco, Marco e altri due verranno a rubarti le ciliegie.” Attese per vedere l’effetto. L’effetto ci fu, perché Tavanèa mandò via il cane e azzardò a pelo asciutto.
“Li aspetterò.”
“Da solo non ti conviene, sono qui per darti una mano, in cambio ci facciamo una scorpacciata delle tue ciliegie, con il tuo permesso, s’intende.”
“Ti do il mio permesso, ma come li fermiamo?”
Berti sogghignò con il suo sorrisetto sprezzante e rassicurante. Poi gli spiegò il piano. Tavanèa scoppiò a ridere per l’arditezza dello scherzo e per la soddisfazione di dare una lezione a chi ne aveva date a lui fin troppe. Berti si spiegò in ogni dettaglio e alla fine raccomandò silenzio.
Il piano era piuttosto semplice e ingegnoso ad un tempo. Avrebbero atteso loro due sopra la saresara, appostati fin dall’imbrunire sopra la scala, unica via di accesso alla vendemmiata. In mano avrebbero avuto un secchio colmo di liquame di stalla. Il tanfo aleggiava sulla campagna impregnata già da due giorni di lavoro fitto. Avrebbero atteso gli ignari scavezzacollo della contrada del Canale e il primo che avesse messo il naso nel fogliame si sarebbe trovato il secchio in testa, per gli altri in fila indiana ce ne sarebbe stato a sufficienza comunque. Per la sorpresa era previsto che gli assalitori si dessero a precipitosa fuga, altrimenti sarebbero stati guai grossi per quei due uccelli di frasca.
Mai segreto fu così segreto, perché nessuno fiutò nulla e gli eventi si avviarono alla loro naturale conclusione, con effetti devastanti per la banda del Canale.
La sera della trappola era serena, una falce di luna sembrava occhieggiare curiosa. A Tavanèa il cuore andava a mille per l’emozione, per il coraggio che non sapeva di avere, per la considerazione che Berti gli trasmetteva. Si appollaiarono per tempo tra il fitto fogliame della saresara. Tavanèa teneva il secchio di liquido puzzolente tirato su con una funicella per non versarlo durante la salita e dare così un involontario allarme. Berti vendemmiava ciliegie a piene mani e le metteva in seno e in una sporta di paglia piuttosto capiente. Quando fu buio aguzzarono gli occhi, trattennero il respiro, immobili, in attesa. Non si vedeva niente là sotto, si sentiva Coso latrare, ma era alla catena.
A un certo punto la scala tremò, oscillò: qualcuno la stava toccando. Tavanèa provò la stessa emozione di quando vedeva il sughero affondare durante la pesca dei pesci gatti. Erano arrivati, capitati da chissà dove. Erano in quattro. Riconobbero Franco, Marco Tàpara, Virgola e Sergio dei Faenzani.
“Salgo io” disse Franco stringendosi la cinghia e allargando la camicia per rendere il seno più capiente.
“Mi sembra giusto” argomentò Marco stranamente sospettoso. Guardava continuamente in giro, non lo tranquillizzava la facilità con cui erano arrivati fin là. Seguirono Virgola e il Faenzan.
“Sto sotto di guardia.” Marco si assegnò un compito facile e di pronta fuga in caso di emergenza. Nessuno obiettò, perché bene compreso nella sua parte ardimentosa da raccontare.
Franco aggredì la scala sicuro e cominciò la salita, gli altri dietro a testa china per controllare gli scalini. Arrivato alle prime forcelle, pescò le prime ciliegie, sputò l’osso e sogghignò trionfante. Fece un altro gradino. Berti disse di sì e Tavanèa gli rovesciò in testa il secchio che già tremava e rischiava di precipitare anzitempo. La colata micidiale annichilì Franco, gli mancò il fiato. Poi gridò.
”Ma… ma è m….!”
Marco Tàpara credette fosse un’imprecazione. Fu un attimo, capì subito che erano attesi, che erano caduti in trappola. Se la svignò quatto quatto, unico intatto. Gli altri annaffiati dalla testa ai piedi, Franco irriconoscibile, se la diedero precipitosamente a gambe tra i campi saltando come capretti sperando di liberarsi in qualche modo di quell’orribile tanfo che li aveva marchiati. Per vie diverse, si trovarono alla fontanella di una viuzza che loro frequentavano spesso per dissetarsi, ma anche per confabulare. Disgraziatamente erano attesi da altri della banda che brontolavano per il ritardo, pronti a fare una memorabile scorpacciata delle marostegane dei Moesini.
Quando i tre sventurati arrivarono alla fontanella, Marco aveva già impietosamente descritto la scena della sorpresa, non mancando di aggiungervi particolari poco esaltanti per l’ideatore di quella sfortunata impresa. Franco fu accolto da un gran silenzio. Si lavarono a casaccio, poi ognuno tornò a casa silenzioso e cupo. Quella generazione di banda del Canale finì quella sera, in modo triste e imprevisto. Altri ragazzi premevano, avrebbero preso il loro posto. Tutti seppero ma nessuno commentò. Tavanèa fu mandato in collegio e perse i giorni migliori della sua prima giovinezza. Franco sparì letteralmente. Marco tentò inutilmente di tenere in piedi la baracca asserendo, vigliaccamente, che era stato l’unico a sconsigliare l’avventura, ma che non era stato ascoltato. Nessuno gli credette e così completò lo scioglimento della vecchia banda del Canale.
Berti con gli amici del Ponte alto andò ancora sulla saresara, ma non parlò mai dell’avventura di quella notte famosa. Era andata così, non era il caso di infierire.
Sorride tuttora spostando appena il baffo pigro.
Sono stato coetaneo di Berti, ma di un’altra banda e questa storia l’avevo sentita sempre riportata. Sono passati sessant’anni e ancora si racconta tra i vecchi ragazzi di un tempo, senza acrimonia e senza rancore, perché ognuno a quell’età aveva combinato qualche marachella, per fortuna, anche se non così bella. Sta male Berti, è disteso sul divano di casa sua, svogliato. Non ci siamo mai frequentati, eppure mi ha mandato a chiamare. Mi ha parlato delle sue tele e delle sue opere in ferro battuto, strano uomo quest’uomo.
“Cosa vuoi, Berti?”
“Fatemi una mostra e poi scrivi quella storia della saresara.” Me la raccontò in originale. Sorrise come non faceva da mesi, dopo che il male l’aveva aggredito. Mi mostrò le sue numerose tele con angoli noti della Riviera del Brenta, tele cariche di colore e di passione, mi mostrò il ferro domato dandogli un’anima: guardo e sento profumo di azalea, scorgo il balzo di un cerbiatto, il becco di un’aquila, un airone in volo. Era orgoglioso di un tronco pescato dal fiume, l’aveva dipinto, vi vedeva dieci animali, me li mostrò: due garzette, un elefante, un cervo, un ippopotamo… me li elencò tutti. Era un artista e nessuno lo sapeva, eppure uno così lo era sempre stato.
E’ morto l’estate scorsa, ai primi di agosto, la chiesa era piena di vecchi bravi ragazzi, suoi coetanei. Nessuno era triste pensando a Berti.
7 agosto 2004.
LA CATENA DEL FOCOLARE. Gli uomini, fittavoli, la raccontavano al lume a petrolio, nelle stalle, a filò, d’inverno. Ricordando i loro vecchi. Anche noi eravamo fittavoli.
di Andrea Zilio
LA CATENA DEL FOCOLARE
I giorni che contano non sai mai quali sono, li scopri dopo, e sono una sorpresa. Forse è meglio così. La vita è una sola, basta e avanza, per il soffrire che c’è. La pensava così Redento Cattarin, un salariato ambrosiano dei signori Doria della Marca. La pensava così non per partito preso, ma dopo riflessioni e meditazioni che si faceva e si condiva da solo. L’avevano chiamato Redento perché speravano che avesse sì una vita di lotta, come tutti, ma alla fine ci fosse il riscatto dalla povertà. Erano poveri i contadini di una volta; quelli di ora non so, non ne vedo, non ce ne sono più. Brava gente. Si privavano di un uovo per il vicino che stava peggio, si aiutavano a vicenda nei grandi lavori, non potevano chiamare in aiuto opere se erano già loro operai della terra.
Erano chiamati brava gente, erano maltrattati impunemente, anche per questo erano derisi, calpestati, erano ignoranti dopo tutto. Mancava loro la forza, ma soprattutto la parola. Lavoravano molto, faticavano sempre, si lamentavano qualche volta, pagavano appena potevano, avere debiti era una vergogna, non arrischiavano più di tanto, erano destinati a lungo al loro servaggio.
Erano bravi, oh sì! era gente brava e onesta quella. Le parole sembravano un premio, ma non significavano niente.
Tutto era nato alla fine di ottobre di uno di quegli anni, anni trenta, che ti colgono tra capo e collo quando hai formato da poco famiglia, con entusiasmo, e il giorno dopo dici oddio! Perdi il conto e non sai più che giorno è, che anno è, che santo è, quanti anni hai. Dove vado ora senza casa e senza lavoro? Così lavori sempre come capita e dove capita come un matto, senza ricordarti delle feste e dei sacramenti, che non li dici più, al massimo li tiri senza sapere cosa dici. Hai bisogno e non puoi permetterti che la gente pensi che sei un incapace. Poi, capita a tutti l’occasione, non bisogna perderla, l’occasione della tua vita. Era andata proprio così.
“Cattarin?”
“Siorsì, sissior!”
“C’è l’occasione della tua vita. Dove stai ora?”
“Dove sto?” Gli disturbava la domanda, voleva conoscere l’occasione.
Il fattore lo guardò fisso e si confermò ulteriormente nella sua idea che quei salariati, saranno stati anche bravi lavoratori, ma erano proprio scemi. Che poteva farci? Beh, trattarli per quel che erano! D’altronde non aveva alternative.
“Vuoi una casa?
“Una casa?” Ci sono dei lampi durante i temporali in cui uno vede tutto e subito dopo niente. Per la durata di un lampo sognò.
“Cattarin, capisci quel che dico?
“Sissior.”
“Cattarin, non sono il sergente di giornata, capisci? Non dirmi continuamente sior sì!”
Eppure anche il fattore era costretto a guardare da sotto in su i suoi padroni e sapeva cosa significava sudare freddo per il timore di trovarsi su una strada dalla sera alla mattina. Il fattore Geminian si rifaceva su chi stava ancora più sotto e trattava i poveracci alla stessa stregua di come era trattato. Redento, al di sotto di lui, non aveva nessuno, quindi era il parafulmine di tutte le ire, le ingordigie, le arroganze dei potenti e dei mezzani che lo sovrastavano. ”Siamo il seciaro del regno” mormorava, perché era tristemente consapevole della sua posizione. Tutte le sporcizie del mondo si riversavano su di loro. Faceva il tragico, perché sperava che così non fosse, sperava che tra loro e la speranza ci fosse sufficiente margine da scoprire. A quei tempi, margini a lui favorevoli non ce n’erano.
A Redento non apparivano all’orizzonte occasioni o disgrazie altrui tali da selezionargli qualche eliminatoria sulla scala della elevazione sociale, da permettergli di saltare qualche gradino. Poi ti capita un colloquio fulminante come un morso di vipera che non sai chi è a mordere. Potrebbe essere il contrario, allora sarebbe la salvezza. Certo ci vuole coraggio, ma se non sei allenato non ce l’hai. Vede l’occasione del salto del gradino. Con calma e pazienza il fattore Geminian spiegò che c’era la possibilità di occupare un casone, con tanto di contratto verbale, da S. Martin a S. Martin, lavoro fisso, eccome!, alloggio fisso, metà raccolto, verze e fagioli a volontà. “A fine anno si vedrà.”
Erano nelle terre alte, in leggero pendio, al sole, stava a opera, a giornata, lavorava a bocconi, a spizzichi, quando lo chiamavano. Vendemmiavano, lavorava con due mani ed era come se fossero quattro. Voleva che lo vedessero, che si ricordassero di lui, che qualcuno gli dicesse: bravo Cattarin, sei libero domani? Vieni da noi che ci sono delle terre da preparare a semina. Ma nessuno gli diceva una parola di miele in quel fogliame che sapeva di verderame e di mosti maturi.
A Redento Cattarin prudevano le bale dei oci, dirà in seguito, dalla commozione quando fu interpellato, così di brutto che non se l’aspettava in quei termini, dal fattore Geminian mediatore e factotum in varie fattorie di pochi signori della sinistra Adige e della gronda lagunare. Un cason? Tutto per lui? Incredibile!
“Accetto.” Disse e firmò il suo destino.
Lasciò il granaio che l’ospitava per tacito consenso, ma soprattutto in cambio di tanta fatica e andò nelle terre della bassa padovana sopra l’Adige dove c’erano solo campi e cielo, aperti e infiniti.
Noleggiò un carrettiere, con promessa di pagamento, e si trasferì con tutte le sue strasse nella campagna dei Foscarini Lanza, mille campi e tante catapecchie e casoni, dentro c’erano altri disperati contenti di un approdo. Avevano trovato un tetto e un pane per la famiglia.
I Cattarin erano in quattro, la Bicia e i due bambini, uno appena desgradà e uno più grandicello. Fu un giorno intero di viaggio, arrivarono a notte, stracchi morti e prima ancora di prendere possesso del cason fu mandato a finire la mungitura in aiuto ai boari, sfatti da una fatica fatica gua, un fatica senza tregua, immersi in un fetore acre di urine. Si guardarono di sbieco, mandibole serrate e dita allenate a stringere e a strizzare latte, non si dissero parola, ma sapevano di essersi salutati.
La Bicia appena entrata nell’abituro cercò la catena, il cuore della casa, vi appese una caliera d’acqua, accese il fuoco, si fece su le maniche e preparò la prima polenta da padrona di casa. Avrebbe voluto cantare, ma i piccoli frignavano e fiato da sprecare non ne aveva proprio.
“Povera anema.” Pensò a suo marito che aveva avuto una casa e non aveva ancora potuto gustarsela, ma almeno avrebbe trovato polenta calda al ritorno. Ecco i giorni che contano nella vita di un uomo, pensò. Pensò che erano così rari, li ricordava tutti i giorni importanti: il giorno della medaglietta di latta della prima comunione, il giorno che vide il suo uomo alla sagra delle ciliege in un paesotto sotto lungo il Brenta, il giorno in cui capì che stava per diventare madre, madre con lo stesso profumo e la stessa ebbrezza della terra che trasforma con amore il seme che accarezza.
Il cason era isolato, aveva un pozzo con tanto di vera e carrucola, un recinto con orto, un casotto di canne per i bisogni, un andito per due bestie accanto all’entrata della cucina, sopra un fienile. Il pavimento senza livelli per l’uso e l’abbandono. Dove si spandeva l’acqua, o si passava con più frequenza, il terreno era pressato o scavato, aveva bisogno di una vangata, di una spianata. Le foglie palustri del tetto erano disuguali, sollevate dal vento, si vedevano sprazzi di sereno. La porta appoggiata alla parete esterna doveva essere immessa nei gangheri, ma uno mancava.
“Non importa” si disse “almeno c’è da fare sul nostro.” Era così infame quel luogo che non poteva essere di nessun padrone, l’avrebbe messo a posto lei.
Redento dormì di gusto quella notte su paglia fresca e sua moglie lo ascoltò russare gualivo, si tranquillizzò, i ragazzi parevano angioli. Il cielo è piccolo e può bastare a volte, ma se è troppo piccolo basta una nuvoletta per far venire notte.
La stagione era aperta, i lavori si accavallavano, giorni di falce a torso nudo in file a scalare con altre decine di lavoranti a falciare erba medica e fieno sulle rive per il bestiame, giorni di zappa per scalzare le gramigne dal granoturco che si estendeva in un mare di cime bianche senza fine. Il latte e la polenta non mancavano, le verdure neppure. Un bicchiere di vino lo sorseggiava come rosolio alla domenica nella bettola del paese dove andava con una bicicletta in prestito portando un amico sul ferro. Ridevano persino. Che avevano mai da ridere? Eppure ridevano. Bisogna pur ridere ogni tanto, altrimenti le rughe del volto prendono la piega dei vecchi anzi tempo. Redento ci pensava, per questo rideva forte alla domenica e i suoi erano contenti, erano segnali buoni.
Passò il fattore Geminian nel suo giro di ispezione e si complimentò con il bravo figliolo.
“Sei un lavoratore.”
Redento disse di sì. Che altro poteva dire? Era uno che si lasciava sfruttare e non parlava a vanvera, non inveiva, non si lamentava. Visitò il casone e si complimentò con Bicia, perché aveva vangato il pavimento, tolto le erbacce dai muri, messo la porta nei gangheri, riparato il tetto facendosi aiutare da uno dei piccoli a tenere ferma una scala mentre si arrampicava pericolosamente.
Bicia gradì, si pulì sul grembiule le mani sporche del paston di crusca per le sue gallinelle e chiese se voleva favorire. Il fattore per fortuna rifiutò e ringraziò. Oltre a una buona siera non aveva nient’altro; furono contenti entrambi.
“Mi raccomando.” Prima di andarsene con il suo biroccio elencò le sue raccomandazioni. Se c’erano delle lamentele dovevano prima parlare con lui. “Non dovete ospitare foresti.” “Figurarse.” Bicia abituata a tacere, addirittura a pensare sottotono non fece trapelare alcun segnale sul suo volto. “Vigilate sul filare di olmi, cresceranno bene, puntelleranno le vigne del raboso l’anno prossimo.”
Redento promise. “Dopo …” Il fattore con quel sospeso lasciò intendere che, dopo, alla fine, a lavori terminati, magari un qualcosa in premio l’avrebbero avuto. C’erano dei divieti assoluti: non manomettere la casa, non ospitare estranei, non tagliare gli alberi. Redento lo sapeva e promise subito, avrebbe controllato anche la malattia delle foglie, avrebbe dato del solfato di suo per combattere gli insetti che provocavano le galle.
Passarono giorni e stagioni durissime, normali, i figli crescevano gagliardi, erano quelli i giorni buoni e non lo sapevano. Poi, un pomeriggio, in piena mietitura, arrivò la cartolina portata da un brigadiere. Redento fu spedito a fare la guerra a dei poricani, così li definì nell’unica lettera che riuscì a spedire dall’Etiopia, prima di sparire per sempre inghiottito dalle sabbie in qualche amba selvaggia. Divenne ignoto, scolpito per sempre su una lastra inutile nella piazzetta del paesino.
Bicia prese i piccoli e si avviò oltre il loro fiume. Prese per carreggiate sconosciute e arrivò al Po. Vide l’immensa distesa d’acque e si sentì morire prima del tempo, era quella l’immagine sconvolgente che aveva sognato per tre notti. Prese le creature, si avviò all’acqua. Oltre che morire niente le restava. Poi una mano li pescò, li trasse su una barca e quindi a riva. Per un mese campò di pietà e di misericordia nelle campagne. Alla follia fece seguito un’inquieta serenità, allora si alzò in piedi e, come una lupa che, dopo l’incendio del bosco riscopre la capacità di fiutare il vento buono, abbrancò le sue creature e tornò al casone. Non c’era nessuno. Un temporale aveva scoperchiato il tetto, una trave ormai marcia s’era spezzata. Andarono a esche per i fossi, a canne palustri, a tagliare vimini da intrecciare. I ragazzi impauriti obbedivano senza fiatare, capivano che la loro vita era in bilico, non avevano niente da chiedere, erano contenti di obbedire, temevano le risposte.
Bicia osò. “A una donna non faranno niente” pensò. Tagliò un olmo, il più adatto, e lo spinse, sollevandolo con enorme fatica e rischio, sui due muri frontali, sistemò il tetto sostituendo la trave marcia. Poi andò ad offrirsi come lavorante al posto del marito.
Dopo tre giorni scoppiò la tragedia, immensa come la perdita di Redento, eppure pensava che niente avrebbe potuto superare una morte, invece vennero ad annunciare quella sua e dei figli.
“Andatevene.” Il fattore non pronunciò queste parole, ma compì in silenzio il gesto sacrilego che ogni contadino temeva. Il fattore Geminian era passato di giorno e aveva contato gli olmi, dopo avere visto a terra una schiuma di schegge.
Entrò nel casone al buio, di sera, si avviò al focolare e staccò la catena. Era quello il segnale orrendo, l’ordine muto di partire, di abbandonare il luogo di rifugio della famiglia. Non c’erano ordini scritti, non c’erano difensori civici o forze dell’ordine, quel gesto nella tradizione era più forte di una grida notarile, era la maledizione.
Quindici anni dopo, passata la guerra, conquistata la democrazia, quei figli sopravvissuti come naufraghi spinti da scoglio a scoglio, prima di approdare ad una riva sicura, resi forti dal coraggio incosciente forgiato dal dolore continuo, guidarono le prime rivolte contadine nella bassa padovana e anche per loro merito si ebbero nuovi patti agrari e a nessun contadino fu più tolta la catena dal focolare. Persino i pagani avevano gli dei Lari attorno al fuoco a loro protezione, eppure ci fu un tempo in cui un’opulenta, rispettabile borghesia osava andare oltre ogni limite sopportabile, osava senza alcun tremito staccare la catena con la caliera ad altra gente il cui unico pane era quella polenta.
LETTERA a DINO B. Storia vera, datata.
di Andrea Zilio
LETTERA A DINO B.
Caro Dino, ti scrivo per informarti che sono in pigiama. Affronto abbastanza serenamente questa circostanza. Desideravi che ci fosse corrispondenza tra vecchi compagni di scuola? Eccola. Più di mezzo secolo è passato da quando, al Palazzo dei Leoni, imparavano gli ablativi. Prima avevo poco tempo, ora ce l’ho, facciamoci compagnia. Scrivimi pure. Come ti dicevo, vivo dentro ad un pigiama tinta unita. Da un po’ di tempo è così. Mi va stretto in tutti i sensi. L’abbiamo acquistato un mese fa, in Romea, c’era una svendita, pensavo di indossarlo in casa davanti ad un libro, per la lettura di un giornale e invece mi tocca indossarlo e basta. Non ho voglia d’altro, mi basta stare al caldo. Guardo gli scriccioli, naso alla finestra, occhi sbarrati da cassaintegrato, di uno che stenta a decifrare la potenza e la durata della sberla che l’ha colpito. Sono anch’essi precari, nell’attesa frullano di rametto in rametto, rimbalzano, di più non possono, non trovano appiglio sufficiente. Mi sento anch’io provvisorio, precario. Aspetto una lettera, liberatoria, poi ritornerò alle solite responsabilità. Non mi lusingo più di tanto. C’è di mezzo un evento. Senti come parlo a balzi? Un pensiero lungo non mi viene più. Dovrebbe nevicare, così sento dire. Pensa, sono ancora sotto esame. Con tutti quelli che abbiamo sostenuto! Credevamo d’averla fatta franca per sempre, di essere stati promossi senza nuovi appelli. E invece? Eccomi a ripetere i soliti esami. Non si tratta di geografie o scienze, ma di glicemie, azotemie, potassiemie e via così. Al mattino, già alle sette e trenta, siamo in tanti in corsia, silenziosi, davanti a una diagnostica, in attesa di un ordine felpato: “avanti il prossimo”. Prima o poi tocca a tutti sentirsi ordinare “respiri… non respiri.”. Potessi andare a ripetizione da qualche parte, avere qualche aiuto. Sono cose che uno deve affrontare da solo, altroché! Se ce la fa, bene, altrimenti non ci sono ripetenze.
Ricevo molte telefonate, qualche volta esco, incontro persone. L’approccio, lo sguardo, i silenzi sono cambiati. Sono grato ai molti amici che mi ricordano in maglione girocollo piuttosto che in pigiama. Ci sono due modi di guardare le persone: quello di vederle come appaiono; poi c’è lo sguardo retroattivo dell’amico preoccupato. L’occhio si ritrae nell’orbita, si nasconde mentre guarda. Dietro la vetrata della pupilla, il pensiero scruta, sfoglia le memorie, cerca le parole. Non sa cosa dire, come dire e così dice tutto. Te ne accorgi e capisci molte cose. Il nastro fluttuante della solitudine comincia a girarti intorno, a carpirti, a delineare nuove circonferenze, nuove distanze, capisci che ti studiano, cercano il modo appropriato per dirti qualcosa che sia leggero, passeggero, svagato. «Bella giornata, oggi!» Bella giornata? Dipende. A far bella una giornata non è mica soltanto il sole. Ci sono anche gli umori, i sentimenti, i referti, le scadenze, le ricorrenze. Cercano di mantenere lo stesso livello di dimestichezza, di amicizia, ma è il linguaggio del corpo che è diverso. C’è fretta di comunicarti solidarietà e lasciarti.
E’ venuta a trovarmi la signora Letizia. Non la conosci, è un’amica di mia moglie, si sono conosciute dal dentista. Sono le uniche attese che si possono permettere e così si raccontano di canini, di bambini, di mariti, di gerani e martingale. Ci conosciamo bene, ci raccontiamo quasi tutto. Ha saputo che mi trovo in pigiama ed è venuta solerte a salutarci. Appena entrata si è asciugata una lacrima, ci siamo baciati sulle guance. Non era mai successo. L’iniziativa è stata sua. Anche da questo ho capito che sono nei guai. Certamente sa qualcosa che non so. Così mi fa intendere.
«Federico, non preoccuparti» mi dice, senza guardarmi. Per prima cosa ho ritenuto doveroso preoccuparmi, di rabbuiarmi, se non altro per darle soddisfazione.
La nostra familiarità è vissuta su standard generici, consueti, di buona vicinanza, di discreta amicizia, di qualche serata insieme, una pizza ogni tanto, pagata alla romana, nipotini accompagnati a scuola una volta noi, una volta loro. Lo scatto in avanti, inatteso, e per me ingiustificato, mi urta, m’insospettisce. Stringo le labbra, innervosito. Vogliono dire boh! senza dire. Letizia avanza le braccia, come a respingere un orribile pensiero.
«Federico, non fare così, ti prego.» Non riesco a immaginarmi cosa ho fatto, incomincio a provare fastidio, tento di defilarmi. Pian piano ci riesco, rimescolo libri su uno scaffale, mi avvio al bagno. Mi chiuderò dentro per una buona mezz’ora. Il disturbo che mi costringe in pigiama è coerente con i miei presunti bisogni, quindi plausibile. Mia moglie porta il suo tè decaffeinato alla pesca, dei biscotti pan di stelle. Letizia bagna le labbra appena. Dai silenzi di mia moglie, sento che sta ricevendo una specie di condoglianze preventive. Lo deduco dalla frase. «Con i tempi che corrono.» Potrebbero riguardare il carovita, la disoccupazione giovanile, l’abbandono dei vecchi, le separazioni coniugali o anche il guaio alla prostata che mi perseguita. Un sacco di cose. Ma io sento che quei tempi mi riguardano. Seduto sul water, origlio. Sono davvero curioso. Colgo un’altra frase sibillina. «Cara, non è poi detto.» Sento che romperò l’amicizia con lei e la sua famiglia. Penso al turbamento e all’imbarazzo che sta creando a mia moglie. Tiro lo sciacquone solo quando sento che si accomiata. Esco solo quando mia moglie viene a vedere come va. E’ rattristata. Una persona che era venuta a portare una buona parola l’ha invece sconvolta. Mi sento agitato ancora di più. Certo che le stupide buone intenzioni spesso arrecano più danno del danno.
Due tortore con volo felpato si sono poste sulla betulla più alta. Sono ferme, immobili, sembrano stampi. Penso sia dura anche per loro con la bora che viene di traverso e il nevischio che si prepara. Prima di sera o trovano da mangiare o saranno mangiate, domattina troverò le loro piume tra la betulla spoglia e l’agrifoglio. C’è un transito di gatti randagi che non ti dico lungo la muretta. Dimmi se faccio bene, con questo freddo che tira, a pensare quel che penso. Anche queste bestiole possono dire che è dura, con i tempi che corrono. Dimmi, tu che hai girato il mondo da emigrante, da Mira a Buenos Aires, eh, ne hai viste di vicende! Dimmi se faccio bene a portare una ciotola di riso avanzato, a dare un vantaggio alle tortore, una chance per oggi, e poi domani si vedrà? Non sai mai quando un’azione è veramente buona. Perché, vedi, amico mio, così facendo lascio i gatti randagi alla disperazione. Loro non mangiano riso e non ho avanzato altro per oggi. Domani si vedrà, se arrivano a domani. Dicono che abbiano sette vite, spero per loro. Tuttavia il dilemma resta. Il bene e il male non sono sempre chiari, dipende da che parte stai. Interferire nel destino degli altri è una grossa responsabilità, non è neppure lecito.
Avevamo quattordici anni quando ci siamo visti l’ultima volta. Com’eravamo diversi! Non dico certo una novità, ma a questo punto di rievocazione, penso che una considerazione sì fatta ci voglia. Ho visto la foto che mi hai mandato e non ti avrei riconosciuto, se non me lo dicevi. Penso ti sia successo la stessa cosa quando hai visto la mia. Ti racconto un fatto. Il Gianni che tu sai è riuscito a riunirci per una pizza a Gambarare, due estati fa. Eravamo una quindicina di ex-compagni di classe. Chissà com’è riuscito a scovarci! Ci siamo presentati con la carta d’identità in mano, un po’ per scherzo un po’ sul serio, perché siamo molto cambiati, visto che stiamo precipitando sui settanta! C’erano anche le ragazze, signore discrete e sorridenti.
Una mi fa un sorriso. «Ti ricordi che mi mandavi i bigliettini?» «Io?» Mi sembra impossibile. Mi confonde con un altro, forse eri tu, caro Dino. Mi sarebbe piaciuto, però, averlo fatto. Già in un’altra lettera mi hai chiesto di lei. Lascio stare i nomi. Tra noi ci intendiamo. Ci hai più filato dopo? Mi piacerebbe saperlo. Mi facevi rabbia a quei tempi. Poi ci siamo persi di vista tutti. Per incontrarci ancora ci presentiamo con la carta d’identità in mano. Te la pensi? Che serata memorabile! Le signore ci hanno fatto i complimenti. «Quanti anni avete?» ci hanno chiesto. E noi a rispondere quanti. «Però, portati bene.» Siamo gli stessi allocchi di allora. Insomma, gratificati, abbiamo pagato le loro pizze. Belle e brave figliole, ancora. Non c’è che dire. Vuoi che ti dica? Le più belle di allora lo sono tuttora. Che rimpatriata, amico mio! Tu da Ambivere in quel di Bergamo ci avresti messo troppo a venire fino in Riviera e tornare in serata, ma non mancherà una prossima volta. Dillo a Gianni e a Giampaolo, tu che scrivi a tutti. Mi chiamano ogni tanto, sono io il distratto. Certo che non potrò presentarmi in pigiama. Spero proprio, per allora, di non averne più bisogno.
A volte lo cambio, me ne metto un altro, rosso granata con fiori blu, sembro un copriletto. Non lo sopporto. A volte mi vesto normale e cambio aria, vado a prendere il pane o in farmacia o in biblioteca. Sono cose che posso fare. Poi torno nel mio pigiama tinta unita, lavato e stirato. Resto in attesa della liberatoria, della lettera dell’asl che mi dichiari abile: puoi andare.
Sai come sono le voci, si spandono, come una macchia di gasolio in canale. Entro in panificio, stacco il numero, la gente si allarga, mi danno precedenza.
“Prego.” Non tocca a me. Guardo in giro. Occhiate di assenso. Credono di aiutarmi e mi fanno morire prima. Lasciatemi in pace, non toglietemi il turno. Che cosa mi sta succedendo perché meriti questi inutili riguardi? Era meglio se stavo a casa, se respiravo aria nuova dalla veranda che guarda le betulle. Vorrai sapere dei gatti, immagino, dopo la tiritera che ti ho suonato. Ebbene, non ci sono piume per terra. Le tortore volano ancora, i gatti fanno la posta, come sempre, a ogni foglia che si agita, pettirosso o scricciolo che sia, se non ci pranzano ci giocano. Sono più vispi che mai, si godono uno spiraglio di sole. Siccome non hanno padrone, qualcosa o qualcuno avranno divorato. Chi ci ha rimesso? Vedi come va il mondo, e io che mi perdevo in riflessioni sulla liceità o meno di modificare i loro eventi!
Ho il pane caldo tra le mani, ma porto ugualmente i guanti. Mi è stato caldamente raccomandato. Incontro un carissimo amico, ha la consuetudine di stringere la mano in qualsiasi circostanza. Tento di togliermi il guanto.
«Ma per carità! Vuoi scherzare?» Mi agguanta il guanto, mi scuote il braccio. Pacca sulla spalla. Sguardo felice, appassionato, lo sento in procinto di lanciarmi addosso una buona novella.
«Ti ricordi di Gino B.?» Non mi ricordo. «Il cugino del cognato della nuora del fratello… non ti ricordi?» Non mi ricordo. «E’ tanto che non lo vedo in giro» dico, e chiudo le spalle a coppo. Sento il vento della tegola che sta arrivando. «L’hanno seppellito il mese scorso, il giorno di S. Michele. Eh, ma è durato cinque anni!» E pensare che gliene avevano dati quattro. Avverto il parallelo e che dovrei gioire per l’abbuono. E allora? Su, coraggio! Mai abbattersi. Fin che c’è vita c’è speranza. «Forza e coraggio.» Ha esaurito la carica di ottimismo. Se ne va a testa china.. Me ne vado anch’io. Ma l’innesco delle filastrocche, dei motti, degli aneddoti, delle frasi fatte sentite, mescolate a rabbia repressa, mi ha fatto scattare qualcosa dentro che non mi conoscevo. Torno a casa dicendo a voce alta cose che mai mi sarei sognato. Canto. Chi la dura la vince… Tanto va la gatta al lardo… Se te la pigli troppo grassa…Meglio un giorno da leoni…All’osteria numero uno…Quarantaquattro gatti in fila per sei… Non passa lo straniero … zum zum.
Scarico così il malumore, assumo un antidoto alle indesiderate dosi consolatorie propinatemi da amici benevolenti. Vedo sguardi rattrappiti che all’improvviso si distendono. Una suora della Piccola Opera appiattita al cinema Italia mi scruta per 180 gradi e mi segue con lo sguardo ben oltre il consueto, non è riuscita a rispondere al mio saluto. Certamente sta pregando per me. Qualcuno, ne sono sicuro, starà pensando che dovrei cambiare il pigiama in camicia di forza. Oh, non mi meraviglio! C’è da impazzire, ti assicuro, caro amico, a pensare ai dispiaceri che la gente procura in buona fede..
Devo avere allarmato il quartiere, perché, al ritorno, mia moglie mi aspetta al cancello. Non succede, di solito.
«Che c’è?» chiedo. «Dimmi tu, che c’è? Mi ha telefonato la signora Luigina e mi ha chiesto se stai male. Come mai canti?» «E tu che cosa le hai risposto?» China la testa, entriamo insieme.
Caro, Dino, tu capisci come per me sia dura andare a prendere il pane, ricevere gente che mi vuole aiutare. E’ l’unica trasgressione che mi sono concesso oggi. Domani starò a dieta, è ora che mi riguardi ulteriormente. Mancano pochi giorni. Martedì prossimo entrerò in sala operatoria, mi toglieranno l’adenocarcinoma. Sarò senza pigiama in quel momento e nei giorni a seguire. E’ questo l’evento di cui ti ho fatto cenno. Come tornerò non lo so. Non venire in visita, per piacere, non venire a chiedermi: come stai? Potrei non avere parole e sarebbe davvero imbarazzante per entrambi. Stai zitto. Ti saprò dire personalmente. Sarà un buon segnale, se succederà. Riguardati.
F., il tuo vecchio compagno di seconda A.
Riviera del Brenta, 15 dicembre 2005.
LA STORIA DI ANSELMO. Luoghi e tempi veri. A filò. Assemblaggio, con nomi cambiati.
di Andrea Zilio
LA STORIA DI ANSELMO
Il giorno in cui Anselmo raggiunse i suoi zii nevicava. Le bestie nella stalla calpestavano inquiete la paglia senza apparente motivo. Il cane Fiorin annusava l’aria. Fiutava qualcosa da tutte le direzioni. Non l’aveva mai fatto a quel modo. Il secchio del pozzo, riempitosi di ghiaccio, si mosse, poi scarrucolò, precipitò in fondo senza alcun rumore.
Serafino era un vicino di casa, abitava a qualche centinaio di metri. D’inverno si osavano, si passavano qualche notizia. D’estate invece si prestavano una mano, un attrezzo, si scambiavano qualche giornata. Una mattina, erano passati tre giorni, non sentendo niente, non vedendo fumo dal camino, s’infilò gli stivali da valle e andò a vedere. Le bestie in stalla sbaulavano, tiravano la catena per strapparla. Entrò in casa. La camera era una porta oltre la cucina. Lo trovò stecchito. Solo, com’era stato fin dall’inizio. Accovacciato ai piedi del letto, Fiorin languiva, solo anche lui. Un mistero gli era successo e non capiva. Guardava Anselmo e lo aspettava.
Serafino abitava in fondo alle Baccanelle, strada fangosa che penetrava nei campi e finiva nelle risaie. Ma Anselmo stava ben oltre. C’era un viottolo da pigliare prima di arrivare alla sua corte. Là finiva il mondo. Così diceva la gente che si muoveva a piedi. C’era un moraro all’ingresso, poi la tettoia, quindi la stalla e l’abitazione affiancate con sopra il fienile.
Ci furono poche persone al funerale, per lo più anziane, parenti degli zii Contran, da qualche tempo defunti.
L’anziano parroco, don Delfino, era nato in paese, aveva fatto i suoi tirocini di cappellano in paesetti sui colli Euganei e nella bassa padovana, prima che il vescovo lo insediasse nel suo paese natio. Era lì da vent’anni. Dall’alto dei suoi settant’anni ne conosceva di persone e di storie. Conosceva anche quella di Anselmo. Da ragazzini si erano scambiati anche amichevoli fiondate. Poi uno era andato in seminario a Thiene. L’altro aveva frequentato la prima e poi basta. Otto chilometri a piedi, andata e ritorno, erano troppi. Aveva imparato a scrivere a stampatello il suo nome, poi era andato a brughi nelle barene, a calare trappole ai finchi.
Il poco di sapere che aveva conquistato gliel’aveva insegnato proprio lui, Delfino, quando, tornando dalla scuola di catechismo domenicale, frequentata a strappi per vedere dei compagni, gli aveva spiegato meglio la storia di Abramo, Isacco e Giacobbe. Tutte le storie hanno un inizio e una fine. Nella Bibbia le storie dei grandi uomini finiscono con il racconto della loro morte. «Si riunì ai suoi antenati.» Così scrive il biblista.
La vita di Anselmo era stata piatta, uniforme. Altro non aveva conosciuto o desiderato. Pur vivendo al margine delle paludi, era vissuto felice. Diceva che il giorno in cui avesse raggiunto i suoi genitori adottivi ci sarebbe stato un nuovo grande incontro. Erano stati gli unici al mondo ad amarlo veramente, non l’aveva mai dimenticato. Gli avevano offerto tutta la loro povertà, ma di cuore. E queste cose, appena le capisci, non le scordi. Su tutto quanto ricevi c’è qualcosa, o manca, che non pesa, eppure è indispensabile a rendere il gesto gradito, eccelso. E’ l’amore, la gratuità dell’offerta, di qualunque grandezza essa sia. A lui gli zii Contran avevano offerto un nome, una paternità, un asilo. Era figlio ignoto. Ancor prima della guerra, una mendicante si era fermata a ristorarsi al loro pozzo. Aveva chiesto un po’ di latte. «Per carità.»
«Vado a prenderlo» aveva detto la sposa. Quando era uscita con una tazza di latte caldo, fuori non c’era nessuno. Anzi no, vicino al pozzo grondante, in un cesto per le pannocchie, c’era un fagotto. Là dentro un bimbo aggrovigliato in panni sporchi chiamava per fame, strillava. Giuseppina se lo strinse al seno, guatò in giro. Non c’era nessuno davvero. Lo portò in casa stretto. Lo mostrò a suo marito, implorante. Non avevano figli. Fecero ricerche, denunce alle autorità. Sempre fiduciosi che nessuno si facesse avanti. Così fu.
Queste cose accaddero alcuni anni prima della guerra del fascismo, spiegò don Delfino dal pulpito. Le vecchiette fecero di sì con la testa e completarono le loro conoscenze, perché molto avevano intuito, ma non tutto avevano saputo. Il prete mantenne la promessa. Alla fine dell’omelia funebre aggiunse poche parole. «Preghiamo per il fratello Anselmo che ha raggiunto in cielo i suoi zii.» Niente di più stonato, niente di più vero. Tutti risposero lo stesso: amen.
I Contran avevano allevato il bimbo come un figlio. Gli avevano imposto il nome di Anselmo, in memoria di un antenato di Guido. Non appena fu in grado di intendere gli spiegarono tutto. Gli dissero che loro erano zii. Anselmo continuò a chiamarli ugualmente mamma e papà. Però un velo di tristezza calò sugli occhi del bimbo. Quella nebbia piombata sulla sua infanzia l’avrebbe accompagnato per tutta la vita. Non si sposò mai. Si fidanzò una volta sola. Ma qualunque figliola rinunciava al bel ragazzo ostinato a vivere come un maschio di anatra selvatica, libero e disordinato, pronto ad alzarsi in volo quando vuole.
Anselmo adorò la zia, mamma adottiva, amò lo zio che gli faceva da maestro e da padre. Gli aveva insegnato pian piano a mungere, a catturare le anguille nelle valli della laguna assai vicina, ad andare a caccia di uccelli di passo. Facevano sagra in cucina quando potevano aggiungere qualche novità alla solita polenta e al solito grasso di maiale. In barena vi andavano in autunno, a tagliare brughi e canne per sistemare la lettiera al bestiame e risparmiare così la paglia da mischiare con il poco fieno rimasto agli inizi di primavera.
Era cresciuto bello e selvatico, padrone del suo destino, contento di sé e del suo mondo dove c’era da mangiare e da lavorare, da mostrare la sua forza e la sua iniziativa. Ebbe la capacità di migliorare le condizioni di vita della famigliola di contadini che l’aveva accolto. Negli anni erano riusciti a riscattare i due ettari in affitto, ottenendone la proprietà, e ad aggiungere qualche vitella all’unica mucca dei Contran. Era andato spesso a giornata in altre fattorie e aveva contribuito alla serenità dei suoi genitori di fortuna. Li aveva assistiti nella malattia, li aveva accompagnati nella tomba con le lacrime agli occhi. Di ritorno dal funerale, camminando a fianco del vecchio amico prete, si era fatto promettere.
«Morirò prima di te e mi accompagnerai a raggiungere i miei zii. Sono il meglio dell’umanità che ho conosciuto. Lo dirai a tutti. Non parlare di me.»
«Nessuno conosce le vie del Signore, Anselmo. Ma, se così sarà, ti prometto. Lo dirò.»
Alla sera Guido Contran fumava tabacco trinciato in una pipa di terracotta, seduto su una seggiola di paglia, di sbilenco, per dondolarsi. Si sentiva signore della sua casa. Giuseppina, vestita di nero da sempre, da quando era morta sua madre, il che era accaduto appena sposata, molti anni addietro, era onnipresente. Se occorreva una mano, uno sguardo, un richiamo, una fatica da far scansare lei c’era. Aveva sempre le maniche fatte su, perché impegnata a pulire, a lavare, a mettere ordine ad aiutare nei campi. Rubiconda e stanca. Cantava sottovoce cantilene apprese da bambina. Puliva il vetro alle immagini nere degli avi di suo marito che tappezzavano le pareti, miste a cuori immacolati pugnalati, toglieva ogni sera la carta moschicida, rattoppava ogni cosa con l’aiuto dell’uovo di legno. Batteva la panna nella boccia per ottenere il burro e ad ogni mossa diceva: turris eburnea, domus aurea, phoederis arca, janua coeli. Il piccolo Anselmo rispondeva: ora pro nobis. Nessuno capiva quel che diceva. Sapevano però che era un rosario. Non capivano l’italiano e parlavano in latino.
Nei lunghi pomeriggi invernali, sepolti dalla neve, al calduccio del focolare, le nonne raccontavano storie da sempre. Tra i campi si raccontavano filastrocche in rima, ma anche i fatti di Mosè e di Noè. Con aggiunte e aggiustamenti che, cambiando casa, le spose portavano o assumevano. Anselmo aveva conosciuto da Giuseppina la storia di Mosè e aveva detto qualcosa.
«Sono anch’io come Mosè, arrivato in una cesta sull’acqua.»
«Tu sei meglio di Mosè» aveva detto orgogliosa Giuseppina.
Aggiungeva queste storie a quelle che l’amico Delfino gli raccontava. Un giorno chiese a sua madre, che gli aveva appena detto di Abramo. «Raggiunse i suoi antenati nel seno del Padre.»
«Quando sarà la mia ora di chi chiederò? Chiederò dei miei genitori. Chi si presenterà?»
«Non temere, caro, troverai chi ti aspetterà.»
Questo non l’aveva rasserenato del tutto, perché non aveva capito chi l’avrebbe atteso. Aveva deciso da solo. Chiederò dei miei zii. Da adulto queste cose non le aveva più dette, ma non le aveva certo dimenticate.
Molti anni dopo sarebbe morto di broncopolmonite fulminante, non prevista, anzi ignorata e trascurata.
L’ultimo giorno di vita, Anselmo l’aveva vissuto come sempre, tranquillamente. Da qualche giorno era tormentato da una tosse secca che lo faceva andare in angoscia, beveva un po’ d’acqua e gli passava. Tutto era iniziato con una faticaccia da giganti a spaccare legna in maniche di camicia, nonostante la bora. Sudava e si raffreddava, e lui a picchiare sui tronchi di robinia, di platano e di gelso. Voleva passare al caldo quell’inverno. Mai avrebbe immaginato che l’avrebbe passato al freddo. E che freddo. Si era messo a letto quasi vestito, con tre coperte, la porta della cucina comunicante con la camera aperta, il fuoco acceso.
«Se faccio una sudata mi passa» si era detto. Fu colto da febbre altissima, sentì il bisogno di aiuto, ma non sapeva chi chiamare, come chiamare.
«Serafin!» Urlò, chiamò più volte il vicino di casa che era assai lontano. Inutilmente. Il cane Fiorin sentendo quelle grida entrava e usciva, uggiolava. Gli leccava la mano, poi tornava sulla paglia sotto il portico lasciando la porta d’ingresso spalancata. Si era alzato febbricitante, con la testa che gli girava. Non gli era mai successo, non sapeva cosa fare, come comportarsi.
Uscì dal letto, grondante di sudore per andare a chiudere la porta. Ci riuscì e si raggelò ulteriormente. Gli fu fatale. Non ce la fece ad attizzare il fuoco che si spense. Ben presto nella stanza, con spifferi di vento che entravano dalle travi del fienile, dalle fessure degli infissi, fu gelo. Il fiato diventò brina sul lenzuolo. Temette di morire. Ma così forte e ancor giovane, come si considerava, si convinse che sarebbe guarito presto.
Tuttavia, nel delirio, invocò sua madre. E’ questa la parola che, nei momenti di paura, di dolore o di pericolo, sale alle labbra, a qualunque età.
«Mamma mia, quanto male!» esclamò. Non gli riusciva di respirare. Gli scoppiava la testa. L’assalivano degli incubi, delle visioni. Una caduta di pietre senza fine, armonica, continua, ossessionante. Asfissiante. Poi un rotolare di biglie che cadevano e rimbalzavano sempre alla stessa altezza, senza rumore, senza rompersi. Senza sosta, perfettamente organizzate, troppo. Sentiva che stava per uscire di senno. Cercò con una mano il bicchiere d’acqua sul comodino, ma lo rovesciò.
Vide allora un volto di donna, raccolto in un fazzoletto grigio. Non l’aveva mai visto.
«Chi sei?» chiese ansimante. «Mi hai chiamato.» «Non ti conosco.» «Sono tua madre.»
Pur nel delirio, sentì la commozione salirgli agli occhi che s’inumidirono.
«Giuseppina è mia madre.»
A fianco della misteriosa donna apparve zia Giuseppina. Alzò una mano e mostrò la donna. Disse qualcosa che non udì, ma lesse le sue labbra e capì. «E’ lei tua madre.»
«Perché?» Dove sei stata? Cosa hai fatto? Mi hai lasciato solo? Quante cose voleva dire in un solo fiato. La donna misteriosa allungò le braccia, non finivano mai di avvicinarsi, eppure le dita non riuscivano a toccarlo.
«Ti spiegherò.» Alle sue spalle, Giuseppina a mani giunte faceva di sì con la testa. «Ascoltala.»
Allora Anselmo lasciò cadere ogni resistenza. Attratto da quelle immagini si abbandonò al suo destino. Allungò pure lui le mani, si toccarono. «Voglio andare da mia madre» sospirò. Così fu.
Nessuno seppe questa conclusione ed è un peccato. Però Anselmo fu a lungo ricordato ugualmente perché, tutti dicevano che, in punto di morte, aveva nominato i suoi zii.
Su questo tutti giuravano, l’aveva detto persino il prete dall’altare.
Le belle fatiche di Anselmo si ridussero in cenere in pochi anni, distrutte dagli avvocati chiamati dai lontani parenti, cugini inesistenti, che vantavano una parte. L’unico a salvarsi dal caos, sia pure per poco, fu Fiorin. Serafino se lo portò a casa, lo mise nella stessa cuccia del suo cagnolino. Resistette qualche settimana, poi sparì.
Fu trovato a primavera, per caso. Un pescatore di cefali aveva urtato una barca semisommersa in una canaletta vicino alla valle Averto. Nel disincagliarsi aveva visto cadere in acqua la carcassa di un cane. Fece in tempo a vedere il pelo e la mole. Lo raccontò in paese, lo sentì Serafino che andò in cerca. La barca semisommersa era ancora là, era stata dei Contran. L’avevano usata per traghettare i brughi, quando era stagione. Fiorin era rimasto ad attendere Anselmo, inutilmente, sino alla fine per inedia, nell’ultimo luogo dove, forse, avevano giocato e nuotato insieme. Storie di filò, storie contadine di tempi lontani, storie di uomini e bestie, di quelle che non passano.
TESTIMONIANZE. Pubblicato da AVO- Dolo.
di Andrea Zilio
TESTIMONIANZE
Sono passato un tardo pomeriggio di questo ottobre che si spegne presto. La sera precipita e ti trovi solo a percorrere i viali coperti di foglie morte. Ci sfioriamo e tiriamo dritti. Ognuno ha il suo cruccio, il suo infermo da visitare. Non ci si saluta. Non ci conosciamo, ahimè! Eppure siamo fratelli di dolore. Se siamo in ospedale a quest’ora un motivo c’è. Ed è comune. «Buonasera.» Provo a salutare. «Lo conosci?» Incrocio un signore, tiene una signora a braccetto. «No.» Proseguono.
Salite le scale della vecchia geriatria, secondo piano, giro a destra. Semibuio. Non c’è nessuno. Arrivo all’ultima sala. Apro la porta. Ripostiglio! Sosto appoggiato allo stipite. E piango. In solitudine. Non sono pazzo, credetemi. Mi è venuta nostalgia di mio padre. E sono salito a vedere gli spazi, il luogo dove ha lasciato questo mondo. L’inizio della mia vita è morto qui, secondo letto a sinistra. E’ tutto vuoto intorno e silenzio. Eppure rivedo le sue ultime ore. E non lo sapevo. Rimasi in piedi tutta la notte, quella notte. E lo rimproveravo perché non stava fermo. Non trovava fiato. Davo la colpa al caldo. Era un luglio afoso. Stava morendo e non lo capivo. Si stracciava le vesti. E lo richiamavo, burbero. «Svegli i malati, stai buono. Ti prego.» Era sempre stato buono, per tutta la sua vita laboriosa nei campi, in famiglia, tra la gente di contrada. Che gli dicevo mai? Non capivo. O mio Dio! Ti prego, perdonami, padre.
Sento passi felpati. Abbraccio lo stipite per non cadere. Un uomo, colto in flagrante, tentenna. Qualunque cosa stia facendo, se si sente sorpreso. Una voce mi chiama. «Non si può restare qui.» Capisco. Ma non oso girarmi. Sono in grave difficoltà. La stessa voce ha una mano. Sento quella mano leggera su una spalla e un flebile suono femminile. «Stai pure.» Intravedo un camice. Forse è un medico, forse è un’infermiera. Non so. Ecco una delicatezza che non m’aspettavo. Ti ringrazio donna ospedaliera, chiunque tu sia. Sono rimasto ancora un poco a rievocare.
Ricordo che, verso mattina, s’era acquietato. Venne Letizia, mia sorella, a darmi il cambio. Anche lei mi aveva toccato leggermente la spalla. «Vai» mi disse. Quasi fuggii, tanto ero sfatto.
Appena a casa, chiusi un attimo le palpebre e già Silvana mi scuoteva. «Che c’è?» Mi abbracciò senza parlare. Occhi sbarrati, attesi. Mi parlò con grande tenerezza. «Tuo padre è morto, ora.» Gridai. Corsi di nuovo là. Era steso sereno. Baciai la fronte, ed era calda. Ma non si scosse. Poche volte ti ho baciato, padre. Perdonami. L’infermiere di notte, in piedi, sulla porta, mi fissava. Il turno è finito, ma non scappa. Mi aspetta. Ci conoscevamo, è vero. Ma attese a lungo, poi mi abbracciò e mi interrogò.
«Non avevi capito che era in agonia?» La parola mi ferì. «In agonia? No.» Non pensi mai che possa toccare a te, ai tuoi cari. «Aveva i piedi neri.» Dopo un attimo aggiunge parole di balsamo sulle mie ferite aperte. «E’ morto sereno, in pace.» Oh, grazie amico! Sai cosa hai fatto? Mi hai trasferito intatto e certo quello che avrei voluto vedere e non avevo visto. Mi hai detto cose che vanno oltre la professione. Mi hai parlato da uomo forte a uomo ferito. Mi hai dato fiato, mi hai sollevato nel momento della caduta, hai dato un senso e un alt al mio dolore. Non li avrai avuti computati nello stipendio, quei minuti in cui hai atteso che mi ricomponessi, ma in umanità, sì. Che Dio ti benedica, e si ricordi di te, ovunque tu sia, amico mio.
(Pubblicato da AVO – Incontro all’ospite – Dolo – 2006)
“Ciao, grazie comunque.”
E’ la frase che usi costantemente quando mi trasmetti le tue “cose” da pubblicare.Sono io che devo ringraziare te per l’arricchimento che ogni volta aggiungi alle testimonianze di “SAMBRUSONLASTORIA”. Luigi.
a cura di Luigi Zampieri
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Ultimo aggiornamento (Sabato 23 Novembre 2013 13:58)