TRE PINI E UN LUPO volume inedito di Andrea Zilio
SAMBRUSON. CULTURA, COSTUME, TRADIZIONI, AMBIENTE. - LETTERATURA A SAMBRUSON (I) |
Questo libro è, come scrive l’amico autore Andrea Zilio, un dono letterario agli amici, ex colleghi, maestri delle scuole elementari di Sambruson. Dopo averlo letto, e constatato che il libro è inedito, ho pensato che meritasse di essere messo a disposizione di chiunque. Così, l’idea di metterlo in rete tramite questo sito, si è concretizzata con un semplice e cordiale scambio di mail.
Caro Andrea
spero tanto che tu stia bene.
Scusami per il disturbo.
La Renata, dopo il vostro incontro (conviviale) di qualche settimana fa’, mi ha passato il dattiloscritto del tuo libro/racconto “ TRE PINI E UN LUPO” che ho letto con molto piacere e per il quale ti faccio i complimenti. Ho visto che non è stato pubblicato.
Senza nessun impegno da parte tua, ti chiedo di poterlo inserire/pubblicare nel sito internet “SAMBRUSONLASTORIA”, da me curato e gestito. Il sito è di mia proprietà ed è esclusivamente di carattere storico/culturale e di informazione.
In attesa di un tuo cenno di risposta e scusandomi per il disturbo, ti saluto sentitamente.
Luigi Zampieri
Caro Luigino
ti ringrazio per le tue parole e della tua richiesta. Chiunque scrive lo fa perché qualcuno legga, altrimenti gli basterebbe pensare. Ti ringrazio per avere letto "TRE PINI E UN LUPO". Duro, difficile, ma purtroppo vero. Poche pagine, ma che mi sono costate anni di riflessioni, di pensieri, di pentimenti, di determinazione. Ci sono molti ragazzi incompresi o non ascoltati o non avvicinati nel momento giusto che riempiono le cronache in modo tragico. Non c'è abbastanza attenzione tra gli educatori e soprattutto nelle famiglie. A questo punto, che mi interessa? Parlo e penso da maestro. Sia pure elementare. Non ho mai cessato di esserlo. Quindi mi interessa. Per verificare, per capire, per comprendere, per interrogarmi. Lo faccio per me. Ho trovato il tuo sito "SAMBRUSON LA STORIA". Lo leggerò con calma. Complimenti.
Un bel ciao a te e alla tua famiglia.
Andrea
Per te, Fausto.
Andrea Zilio
TRE PINI E UN LUPO
Racconto
Premessa
Questi pensieri fissati sulla carta hanno una data di nascita: 2002.
Molti anni per correggere, per togliere, per aggiungere, per abbandonare.
Li ho ripresi casualmente in questi giorni. Pensando a questo incontro. Ho aggiornato qualcosa.
Li ho rilegati in 15 copie.
Carla Menin ci ha riuniti a lieto convivio.
Che idea hai avuto!
Porto il mio dono letterario perché a tua volta, gentilmente, ne faccia dono agli invitati.
Piccolo “dessert”.
Non parlerò più di scuola.
La “nostra” scuola fu affascinante, esplosiva, corale, innovatrice, ricca di passione, di entusiasmo, di gioia, di comprensione.
Teniamoci il ricordo.
Guardo alle amiche e agli amici maestri di quei giorni con il solito sorriso.
Dolo, 20 giugno 2013
TRE PINI E UN LUPO
di Andrea Zilio
Proemio
Con queste riflessioni era mio desiderio continuare a insegnare. Ma non ho colto molte sintonie. Volevo raccomandare ai colleghi più giovani di trattare con grande comprensione i piccoli che accorrono a loro fiduciosi. Che diamine! Ma questo si sa già, lo sanno tutti. Davvero?
Così ne parlo con voi, care amiche e cari amici della scuola elementare Daniele Manin.
Una conversazione su temi di pedagogia e di sociologia è diventata, con il trascorrere delle righe, e per precisa, successiva volontà, una parabola, un romanzo breve. L’hanno suggerito i frequenti fatti di cronaca che travolgono ragazzi incerti. Mi hanno ispirato l’esperienza, la speranza e il forte desiderio di aiutare i bambini ad incamminarsi sicuri sul sentiero della vita.
Il nostro soggiorno su questo tappeto di terra è breve. Ragazzi, non fatevelo strappare da sotto i piedi. Fatevi largo, difendetevi. Un’altra occasione non c’è. Non disperate mai.
Scrivo di ragazzi, ma mi rivolgo agli adulti, in particolar modo ai genitori, agli educatori, alle persone sensibili. Sono cambiati i tempi? D’accordo! Ma l’uomo “nuovo” è sempre quello.
Racconto il dramma di un bambino che non viene capito. Che vive, per necessità, due esistenze, assume due personalità: una vera e una sognata, ambita. Nessuno se ne accorge, perché tutti, attorno, sono impegnati nella loro storia personale, nel loro lavoro, nelle loro tardive passioni. Non pensano che anche i bambini abbiano desideri, paure, speranze o disperazioni dissimulate.
E’ terribile per un bambino scoprirsi solo davanti al buio da attraversare, senza una guida adeguata, pronta, fedele.
La solitudine non si può tollerare a lungo.
Frequenta palestre. Altre discipline. Gli mancano tempi e luoghi per il gioco libero tra coetanei con cui misurarsi e commisurarsi.
Troppo spesso non ci si preoccupa di ciò che un bambino pensa, desidera, teme. Si crede che il problema non esista. Solo perché non si esprime in parole adatte? Guardatelo negli occhi.
Orazio, il piccolo protagonista, si mimetizza, sogna il suo avvenire, in termini adatti all’età. Poi avverte che da solo non ce la può fare. Tenta di aggrapparsi a compagni più anziani. Ma nessuno si rivela in grado di alzarlo dalla posizione di inferiorità in cui brancola. Il suo status è di uomo dimezzato: occhi a livello di cintura di suo padre. Nessuno lo guarda occhi negli occhi. Da uomo a uomo.
Chi lo ama gli offre il benessere materiale, ma non sa chi egli è. Non pensa minimamente di aiutarlo ad estrarre “il succo della vita” dalla sua anima, perché ne goda. Altri intuiscono l’esistenza di un dramma interiore, ma non sanno come entrare nella fiducia necessaria. Attendono troppo.
Finirà male. Lo si avverte, lo si teme, c’è un crescendo allarmante, irresistibile. Nessuno interviene. Succede. I giornali riportano i drammi finali. Nessuno sale a ritroso a cercare, a interrogarsi: perché?
Il lettore all’ultima pagina deve porsi necessariamente questa domanda: e allora, che fare?
Qualunque consiglio è inopportuno, deviante.
Ogni persona responsabile chiuda gli occhi, rifletta: per quel sentiero è già passato. Se vuole sa.
Cerchi, scoprirà da sé la risposta.
TRE PINI E UN LUPO
di Andrea Zilio
1. capitolo
Il giorno in cui abbatterono gli alti pioppi, il picchio volò via e non tornò più. Uscirono tutti dall’aula a guardare, poi spaventati tornarono indietro, a stormo. Poveri vecchi pioppi, che schianto la loro caduta, che malessere vederli svenire!
Storia acerba, come il morso ad una mela cotogna. E’ questa la storia che vado a raccontare. A denti stretti. La dedico a Orazio B., bambino. E’ la storia di un giovane uomo, che si addentra inerme nel bosco della vita per la prima e unica volta senza conoscere niente.
C’era gente in strada, guardava ammutolita. Vedere qualcuno cadere non è mai bello, quei pioppi poi! Avevano fatto ombra a tutti i padri di quel quartiere, durante i giochi della ricreazione e i corsi estivi di recupero, perché tutti erano andati in quella scuola ad imparare a leggere e a scrivere. Davano una linea al cielo in quella via. Un nonno andò via ingobbito nascondendo al nipotino la maceria. Un pensionato venne a chiedere se li davano via e a quanto. Una ragazza scarmigliata richiamò il cane Buck. «Oh, Buck! Hai visto?» Doveva aver capito perché simulò uno scatto rabbioso, poi invece si acquattò mugolando piano. Tornò indietro trafelata, addolorata. Un angolo di cielo le era stato sconvolto in un attimo e per sempre, lì davanti a casa sua. Due massaie agitate, con la borsa della spesa in mano, passarono oltre gesticolando sul carovita. Quante cose ti possono accadere in un lampo di tempo, di quelle che ti sconvolgono e magari, un attimo prima di quell’attimo, neppure te le immaginavi.
Questo pensò la ragazza triste, scarmigliata più del solito.
Un ragazzino che sapeva del picchio cominciò a sillabare: buck buck buck! La tragedia era globale e pensò che quella doveva essere la parola per dirla. Il labbro gli tremava, intuiva che era successo qualcosa di irrimediabile. Quegli occhi azzurri di donna, sbarrati, come due bottoni serrati a stringere uno squarcio irrimediabile di cielo, non si dimenticano facilmente. Balbettò buck, buck, buck, sempre più piano. Era un verso incomprensibile per dire di un gesto incomprensibile.
Stavano marcendo, i rami cadevano a pezzi. Si lamentavano tutti del pericolo, anche due genitori che nelle assemblee scolastiche si imponevano, e i confinanti soprattutto.
«Le foglie morte inceppano le grondaie.»
La ragazza con Buck abbandonò al vento un lungo nastro nero di lutto avvinto alla ringhiera. Ma venne l’assessore al patrimonio a spiegare e a portare nuove piantine.
“Cresceranno” disse sorridendo. “Cresceranno con voi. Che diamine! Un giorno porterete i vostri bambini a scuola e direte… io li ho visti piantare.” All’ultimo istante gli venne un’ispirazione e cambiò la parola «piantare» con «mettere a dimora». Gli parve di avere pronunciato un degno discorso. Non cambiò niente. Accennò un inchino all’insegnante. «Buon anno, figlioli!» Ne accarezzò due, i più vicini. Uno era Orazio B. che neppure lo notò, il mento gli tremava ancora.
La maestra Mori lasciò che il lutto sventolasse a lungo in quell’ottobre indimenticabile. Vennero le nebbie, nessuno uscì più sui prati della scuola, gli alberelli stecchiti, addossati a forti pali tutori ressero l’inverno, se la cavarono. Tutti se la cavarono, compreso un ulivo, perché piantarono pure quello in segno di pace con la natura, con i condomini confinanti, con i cuori teneri impazziti per così poco. Ma non tutti capirono, infatti qualcuno parlò.
“Il picchio?”
Orazio B. alzò la mano e parlò alla maestra Mori, che insegnava poesie e a scrivere le doppie giuste. La signorina Lanza invece insegnava le divisioni, i numeri decimali e altre cose che ad Orazio B. non piacevano, perché non gli piaceva la maestra.
“Il picchio?”
“Dove è andato, il picchio?” insistette Orazio B., bambino.
La maestra lo accarezzò con gli occhi. Stava pensando la stessa cosa. Non aveva trovato alcuna risposta, così prese tempo. Erano in classe quarta da un mese, da quando era iniziato il nuovo anno scolastico e tutti i giorni, alle dieci in punto, il picchio iniziava la sua processione di colpi secchi sulle scorze in alto. La maestra Lanza si lagnava, perché disturbava, distraeva, era un’ossessione quel ticchettio. Oh, bè, durava fino a mezzogiorno, se è per questo! Chiese un cambio di turno. La maestra Mori spiegò e invitò ad osservare che non c’era solo quel suono ad entrare in aula dalla finestra aperta. C’erano molti altri suoni e segnali. Il treno dell’alta Italia, Roma-Trieste, le campane di Sambruson, il vento che faceva vibrare i fili dell’alta tensione e cadere una pioggia di foglie dalle acacie, un “nessun dorma” di Pavarotti da una radio oltre il cortile, l’odore marcio dell’ultimo fieno tagliato, il profumo del pane caldo di un forno non molto lontano. La signora Elvira, grassoccia, e con un vocione da far tremare i vetri, gridava ogni due tre minuti: Antonio, Antonio cosa fai? cosa hai combinato?
Orazio B. è un bambino molto sensibile, molto curioso e si chiedeva cosa mai facesse Antonio. Non lo saprà mai perché poi i brontolii si affievolivano. Ecco, se si esclude lui, quello che dice e fa la signora Elvira non interessa a nessuno. E’ antipatica, non saluta, brontola con tutti, non rilancia la palla se piomba tra le sue aiuole, se la ritrovano in cortile il giorno dopo. La maestra Mori ha consigliato di ringraziarla, perché non ha ancora bucato la palla. Orazio B. ci ha provato e si è preso una ramanzina. “Ah, tu sei stato!” gli ha urlato. Anche la maestra ci è rimasta male, per solidarietà con Orazio B., che altrimenti si sarebbe trovato solo in un’incresciosa situazione. Ai suoi compagni non importava niente di quella grassona. Voleva tenersi il pallone? Che se lo tenesse, ne avrebbero portato un altro. Per Orazio non era questione di palla sì o palla no, era questione del perché, del come mai quella donna se la prendeva con i bambini che giocavano. Giocavano così poco. A casa mai, a scuola a patto di non mettere in agitazione i confinanti. Era opinione diffusa tra le maestre che gli alberi fossero stati abbattuti per l’insistenza dei confinanti, brava gente che s’impegnava molto nel sociale e nel consiglio di quartiere. D’inverno quando soffiava il vento, e le foglie non c’erano, sembravano un bosco, quei rami sferzati dalla bora. La ragazza scarmigliata, a quel suono, leggeva “Cime tempestose” e sognava, altri andavano a protestare in municipio “che non si può più vivere”. Com’è strana la vita, la stessa cosa non è la stessa cosa per tutti.
“Chiudiamo gli occhi ed impariamo ad ascoltare le voci, ad immaginare” diceva spesso la maestra Mori.
Orazio B., bambino, chiudeva spesso gli occhi ed immaginava. Era innamorato della sua maestra, di lei si fidava, per questo chiese notizie del picchio. Era stato loro amico per tante ore durante le lezioni, gli aveva fatto compagnia, gli aveva fatto immaginare un mondo visto di lassù, bello, libero, diverso insomma. Erano andati spesso a spiare le cime, a capo rovesciato, ma solo qualcuno l’aveva scorto mettendo a fuoco il punto da cui partiva il tocco. Una ragazzina affermò che, una domenica, andando a messa, l’aveva sentito picchiare pur essendo festa, ma la sua compagna non le credette, tanto quell’uccellino era parte integrante dell’arredo, dell’orario e del calendario scolastico.
Un picchio può andare dove vuole, però alla fine deve possedere una casa. Se gli togli la casa, dove va?
“Certamente ha trovato un altro albero, lontano da qua.” Una maestra trova sempre una risposta.
Orazio B. fu contento, quel picchio era lui, e senza casa non ci si vedeva proprio. Tentennò ed abbozzò un sorriso lungo e fermo, scolpito. Immaginò. Sognò. Volava sfiorando le cime e guardando giù. Nessuna paura, nessun effetto strano, tutto normale: era un picchio. Trovò finalmente un albero, probabilmente un pioppo, ma non ci fece caso, era un bell’albero, oh sì sì! Provò a cinguettare, a muovere le labbra, perché pur essendo un picchio sapeva benissimo che era lui, Orazio B., bambino. Ebbe l’occasione singolare di picchiettare la scorza e provare l’emozione e la bravura del picchio. Gli sembrò di sentire un’eco o forse era l’amico che gli rispondeva. Si eccitò, si agitò, allungò il collo, chiamò come meglio poté: si sta meglio in compagnia. E poi aveva bisogno di capire tante cose, di imparare. Si mise a picchiettare, a muovere il capo avanti e indietro contro la tastiera del letto. Venne sua madre e ne fu impressionata. Chiamò il marito. “Il bambino sta male.” Gli tastarono il polso, la fronte, il respiro. Niente, tutto normale.
“Sarà la sesta malattia?” Era un malanno citato frequentemente, i cui sintomi erano ignoti, di fatto non esisteva, ma il passaparola la rendeva obbligatoria.
“Non credo, non vedo puntini rossi o pustolette o sudore, bè è un po’ sudato, ma lo sono anch’io.” Suo padre parlava di cose che non conosceva come se le conoscesse.
Orazio, svegliato di soprassalto dal suo sogno, si guardò in giro, si tirò le coperte sugli occhi, come se fosse stato scoperto nudo.
“Sono preoccupata” suggerì la madre.
“Di cosa?”
Orazio B. fu lasciato solo. Sentiva che lo stavano ascoltando di là. Provò e riprovò a volare dall’alta cima, a ritrovare le perdute emozioni, a scoprire un mondo sconosciuto, curioso, ma non ci riuscì, quella notte non ci riuscì. Tuttavia l’incursione nel mondo fantastico dei picchi era stato illuminante, salutare: aveva capito che poteva andare dove voleva o provare, almeno.
La sua giornata era stata molto faticosa. Divertente secondo suo padre, perito elettrotecnico, molto impegnato e molto apprezzato, ben pagato nel suo settore: aggiustava ascensori per conto di un’impresa di cui è socio di minoranza; trattava pure la vendita di appartamenti.
“La vita è fatta di alti e bassi” soleva dire, suscitando l’ilarità del barbiere, del fornaio, del barista, delle persone che incrociava. Scherzava volentieri sul lavoro e sul suo quotidiano scendere e salire in condomini sempre più elevati dotati di ascensori bisognosi di continua manutenzione. “Che rotture!” si lamentava scherzando, ma erano la sua fortuna, quelle rotture.
Sua madre era cassiera ai supermercati di generi alimentari della cittadina, studi liceali interrotti. Delusa di quel posto, fisso. Alla sera la sua testa era una tastiera rotta, una cassa rimbombante con numeri e resti, codici, pin, ribassi, buoni sconto, tariffe a memoria. A letto, scherzando, diceva “grazie, arrivederci” al posto di buona notte, lo diceva mille volte al giorno, quasi quasi non sapeva dire altro. Bella donna, ci teneva a ben figurare, gli piacevano i complimenti. Suo marito le diceva “tieniti su”. Lei faceva del suo meglio, i capelli soprattutto, sempre in ordine e la frangetta sugli occhi da scuotere quando sentiva di essere osservata. Il marito era uno dei tanti anonimi borghesi di quartiere che avevano scoperto il sistema del vivere sotterraneo, non facendosi notare, non impegnandosi in niente, lamentandosi sempre secondo prassi e costume. Faceva parte del folto gruppo di coloro che dicevano “siamo sempre noi a pagare”. Aveva scoperto la grande efficacia dell’invettiva: “Ladri, ci mangiano tutto!”. E’ vero, è vero! Attorno gli davano ragione e guardavano altrove. Detto questo era salvo, era a posto. Si era collocato in quella categoria di persone che hanno la tutela garantita e la possibilità di evadere tranquillamente essendosi autodefinite povere. Di fatto si accodava alla fascia dei veri perdenti. Non conosceva l’iva, faceva lavoretti extra senza fattura, scroccava fin dove poteva, “in fin dei conti non rubo e non ammazzo”, si giustificava, mimetizzandosi in una vasta marea di anonimi e prudenti colleghi. Era affezionato alla sua famiglia e faceva del suo meglio per tirare avanti con dignità, con molti affanni, per non avere altri tipi di affanni; la povertà, ad esempio. Sotto qualunque punto di vista Filippo Braschi era un brav’uomo, non aveva dubbi. Se lo diceva da solo.
Andava via un ottobre stupendo, giornate solatie, tramonti imbronciati, ma niente pioggia, solo nebbioline al mattino. Nei parchi, aceri indiavolati di rosso sfuocavano lentamente spogliandosi. Coppie di garzette planavano sui pantani del fiume in secca. Non pioveva da mesi. Tanto bastava per lamentarsi delle burrasche che sarebbero venute. “Chissà che invernata avremo!” Parlare del tempo è un diversivo, un argomento di discussione facilissimo, poco impegnativo, puoi dissentire annuendo, puoi dire quello che vuoi, possono risponderti quello che vogliono, nessuno ascolta nessuno, perché non gli interessa. Gli argomenti interessanti del resto erano sempre meno, i silenzi molto eloquenti, anche in casa si parlava poco. Di cosa si dovevano parlare Filippo Braschi e sua moglie? Del lavoro? Eh, no, per favore! Del calcio, pensiero dominante dei più, aveva un’opinione originale di cui si vantava ma solo in casa: è un allevamento di cretini, guarda come se le danno! Guarda che imbrogli! Di politica? Meglio di no, meglio non compromettersi e poi, tanto fanno tutto gli altri, sempre gli stessi. Il tempo libero lo passava in tuta correndo lungo gli argini, andando a funghi, seguendo un collega che pescava trote addormentate in un laghetto artificiale lungo l’autostrada. Sì, era il suo divertimento preferito, alla domenica.
“Meglio farsi gli affari suoi!” diceva asciutto con un colpetto affermativo del capo. Gli affari suoi erano musica classica, qualche telefilm, clienti da visitare. Il quotidiano che acquistava all’edicola sottocasa veniva sfogliato alla sera, in fretta. “Tutte notizie superate, a quest’ora” mormorava e piegava il giornale, guardava i titoli in borsa, aveva messo via qualcosa perdendo regolarmente, non sapeva come tirarsi fuori. Ecco, questo era un suo cruccio, e tutto perché aveva ascoltato un esperto, un suo amico della banca popolare. “Senza crucci non si può vivere” scuoteva la testa parlando da solo ed era, dopo tutto, contento di portare il suo contributo al malcontento generale per come andavano le cose. A lui andavano abbastanza bene, “a dirla tra noi”. Quel tra noi era tra lui solo, perché non si fidava di nessuno. Andavano a teatro, quando ne valeva la pena, o in casa di qualche collega di Teresa, anche se si annoiava da morire. “Mi raccomando parliamo di tutto, tranne che di lavoro”. Non parlavano d’altro: ferie, contributi, turni, preferenze, capoufficio, corna, aspirazioni frustrate e “ogni giorno questa vita qui!”.
Gli uomini guardicchiavano spezzoni di partita, qualche coscia lunga strizzata in mezzo a lampi di pubblicità per non sembrare morbosi, reminiscenze di vacanze e di qualche cena con portate speciali, pagate care! Era un vanto citare la fregatura.
“Detta tra noi!”
“Eh, è capitato anche a me, al mare, eravamo in otto, ti ricordi, Maristella?” L’amico Giuliano Marchesan, impiegato al Consorzio Agrario, chiede sempre conferma alla moglie di quello che dice. “C’erano pure i cugini di Pisa, se ben ricordo.” No, Maristella non ricordava. Il tutto finiva nel grappino centellinato per tirare notte fonda, nel commiato guancia a guancia tra le signore, nella solita pacca sulle spalle e via a dormire. Neanche a peso d’oro qualcuno avrebbe saputo ripetere quello che s’erano detti. Era stata una serata diversa, ugualmente inutile. “Con tutto quello che avevo da stirare!” C’era addirittura un rammarico, obbligatorio, riparatore, assolutorio. Ma dopo tutto era andata bene così.
Orazio era un ragazzo esemplare, stava tranquillo in casa con la sua playstation e non si muoveva per nessuna ragione al mondo. Quando rientravano, chiave a quadruplice mandata, lo trovavano tranquillamente addormentato al calduccio sul divano, lo portavano a letto che neanche si muoveva. “Neanche se ne accorge” si sussurravano. Orazio B. se ne accorgeva, eccome! Ma stava zitto per fare contenta la mamma.
Teresa, come tante ragazze della sua età, aveva sognato di fare la modella, poi la cantante, da ragazzina le era piaciuta Patty Pravo, “infatuazione infantile!” si giustificava, quasi fosse stata una cosa riprovevole. Poi aveva deciso di fare l’attrice. Era finita ai supermercati generali, in buona compagnia con ex-sognatrici. Aveva sposato quel bravo ragazzo di Filippo Braschi, conosciuto fin da ragazzino, le dava i pizzicotti fin dalla quinta elementare. Suo figlio, Orazio, era in quarta, fra un anno avrebbe potuto fare altrettanto, di lì a poco? santo cielo! tra un anno? Di già? Come passava il tempo! E si chiedeva se potevano ancora succedere quelle cosette maliziosette, che ti segnavano per tutta la vita, inconsapevolmente. Ma non lo vedeva intraprendente quel bamboccione del figliolo: troppo sognatore, troppo sempliciotto, sempre a rimorchio dei suoi compagni, restio a farsi notare. Avrebbe voluto sapere, curiosare. Lo interrogava con prudenza, ma il bambino appariva lontano mille miglia dai suoi timori o ambizioni. Orazio non sarebbe caduto in nessuna trappola. L’avrebbe tenuto d’occhio, avrebbe messo sull’avviso anche le maestre perché vigilassero sui comportamenti degli altri compagni. Già si chiedeva chi avrebbe potuto sposare e quale mestiere, anzi, si dice professione, ora!, avrebbe potuto esercitare.
Filippo Braschi prese sonno subito, doveva alzarsi presto il mattino seguente, lo aspettavano a Mestre in un condominio di tre piani, quattro ascensori per quaranta appartamenti. Teresa restò a sbrigare in cucina e a guardare la fine di un film che aveva visto tante volte ma fino a metà perché non le piaceva. Ora si era decisa di andare fino in fondo.
Orazio B. nella sua cameretta, sotto le coperte, in attesa di prendere sonno, si mise a seguire il filo dei suoi pensieri; era un filo teso su cui camminava a tentoni, braccia aperte per non perdere l’equilibrio. Si vide assorbito da una nube e capì di essere solo e libero, in viaggio.
2.capitolo
A differenza del picchio, Orazio B. una casa l’aveva, e bella anche, in via Vincenzo Bellini 71. Musicista, si precisava sotto. Che sconcezza, per suo padre, che disappunto abitare in una via con un cartello simile. Ma cosa volevano insegnargli? Chi era Bellini? Tutti sanno che fu un musicista. Lapalissiano, no? Eppure Orazio B. non lo sapeva. Chiedere informazioni a suo padre? Come avrebbe potuto? Sciolse il dilemma in maniera molto semplice. Dopo aver scartato l’idea di bruciare la tabella indicatrice, bruciò la casa giacché raggiungeva anche altri obiettivi. Se ce l’aveva fatta il picchio ce l’avrebbe fatta anche lui. Quello della sua fantasia era l’unico bisogno e l’unico segreto che poteva permettersi, nessuno l’aveva finora scoperto, neppure la mamma così ansiosa e curiosa. Si sentiva scrutato, pedinato, ma aveva imparato già a sopravvivere. Neanche la maestra Mori aveva subodorato niente. Doveva stare attento a quella donna, le voleva bene e poteva imprudentemente svelarsi. No no! Non voleva, non poteva, non doveva, soprattutto.
Orazio B. sentiva un grande bisogno di crescere, di mettere un piede sopra il banco e invece era costretto a guardarlo da sotto in su. Nessuno se ne accorgeva. Aveva bisogno di respirare a pieni polmoni, di sognare, di scappare, di giocare con i pensieri, almeno. Con i compagni era impossibile. Aveva voglia di combinare qualche birichinata, qualche guaio, magari piccolo senza essere prevenuto, blandito, perdonato. Desiderava essere.
Insomma bruciò la casa, intanto. O meglio delegò un fulmine. Tornò a casa e non la trovò più. Così aveva deciso. Non si spaventò. Aprì gli occhi e, vigliaccamente, guardò che tutto ci fosse, che tutto fosse in ordine, poi si permise di scappare dalla realtà, di buttarsi beatamente in un sonno profondo fino il giorno dopo. Sognò partendo da dove era rimasto la notte precedente, gli riusciva questo difficile procedimento.
Nel villaggio di Ohperbac ogni cosa era al suo posto. Soprattutto a misura di bambino. Non conosceva ancora il suo nome esatto e dove si trovasse, ma lo chiamò con la prima espressione che gli era uscita quando l’aveva scoperto: “Oh, per bacco!”. Gli piacque subito perché era in buona compagnia, c’erano i suoi amici e le sue compagne di scuola e molta altra gente interessante. Tenere un segreto a otto-anni-quasi-nove è molto difficile, ma Orazio B. ci stava riuscendo, bastava mantenere la sua solita aria sorniona, da addormentato-sveglio. Era necessario sopravvivere nell’attesa di potercela fare da solo. Era dura per un bambino campare in un mondo fatto a misura degli adulti, con orari fatti su misura di maestri e madri, con prevaricazioni fatte su misura di padri e televisori, paternali sacerdotali sul peccato in agguato, puntuali e insistenti, per questo si sentiva colpevole di cosucce mai pensate. Era obbligatorio, infatti, pentirsi di qualcosa ogni sabato sera in vista della confessione.
Nel villaggio di Ohperbac c’erano case, scuole, una maestra che assomigliava in maniera impressionante alla maestra Mori, solo che era alta come lui e quando gli parlava lo guardava direttamente negli occhi e non dall’alto in basso. Gli alberi erano alti uguali e sull’ultima cima un picchio aveva scavato la corteccia e deposto il suo nido. Che fosse il suo amico? Era lui, ne era certo. Ora era in buona compagnia. Senti senti il suo toc toc, toc toc? Sì, la sua voce, il suo richiamo… Cercò a lungo i suoi genitori, ma non li trovò, non gli riusciva a ficcarceli dentro in quel suo mondo piccolo piccolo grandiosamente bello e sereno. Ah, come si stava bene! Ma, ne era certo, almeno la madre sarebbe riuscito a tirarcela dentro, con suo padre avrebbe faticato un po’, non era tipo da restringersi, da adattarsi. “Speriamo bene” si rincuorò, e non andò oltre.
Il cielo si andava schiarendo su Ohperbac. Dopo una nottata di pioggia, l’arcobaleno era ovunque e le bianche campanelle, non appena cadeva l’ultima goccia di rugiada, tintinnavano mettendo allegria e buon umore. Orazio d’istinto si mise a saltellare lungo un viale alberato che certamente conduceva da qualche parte. Cosa incredibile, e mai fatta prima, cercava tutte le pozzanghere, ci balzava in mezzo schizzando l’acqua che era una meraviglia. Il senso di libertà, di pienezza, di felicità che provava era indescrivibile. Fece per gridare, forse gridò, perché sua madre venne a vedere. Orazio si finse morto, morto di sonno e fu grazie a questa sua determinazione che riprese a sognare da dove era rimasto. Nessuno lo sgridava, nessuno lo rimproverava per niente. Incontrò un compagno intento a impastare terra umida e a lanciare le palle con un rametto flessibile di sanguinella. Mirava a qualcosa, ma non vedeva dove finivano. Forse andavano direttamente sul sole. Non riuscì a guardarlo, non alzò neppure la testa, era intento a non perdersi nemmeno una pozzanghera. Neppure per un attimo lo toccò il pensiero dei rimproveri della mamma, perché sapeva benissimo che stava sognando, sapeva di avere due vite da vivere, ed era una gran fatica: ad una non voleva rinunciare, all’altra non poteva.
S’imbatté nella maestra Lanza. Aveva un ombrello fiorito aperto per evitare gli schizzi delle pozzanghere. Molti altri ragazzi guazzavano come lui; cose mai fatte prima; e questo lo rinfrancò. La maestra Lanza era inviperita perché non riusciva a salvarsi dagli schizzi. Il colore del suo volto era violaceo, quasi nero, anzi tenebroso, ma non parlava, non riusciva a far smettere qualcuno, non rimproverava neppure. Era sulla difensiva a tutto spiano. Le passò accanto, le diede una grande schizzata, però la sua buona educazione non gli impedì di salutare.
“Buongiorno, signora maestra Lanza.” Non era sposata, ma era difficile chiamarla signorina, aveva l’imponenza, l’autorevolezza, la stazza di una signora di mezzaetà.
La maestra Lanza lo fissò con occhi sbarrati e spaventati e mormorò appena qualcosa. Se l’aspettava. Quelle parole suonarono come un premio.
“Anche tu, piccolo Orazio B.?”
“Sì, signora maestra Lanza.” Mai risposta fu più ossequiente e soddisfatta.
Orazio B. arrivò in una piazza allagata, oltre vide la sua scuola, trasferitasi là chissà come, ma non gli interessò, era proprio la sua scuola. Decise di accorciare il percorso. Attraversò il piccolo lago sbattendo le scarpe inzaccherate e sollevando spruzzi a non finire. I suoi compagni facevano altrettanto. Giunto a riva, insomma dall’altra parte, vide la maestra Mori uscire dal portone della scuola, entrare in acqua e chiamare a voce alta.
“Su, bambini andiamo che è tardi.”
Andò a scuola a cuor leggero, sentendosi a posto con la coscienza, con la vita, aveva fatto qualcosa che nessuno gli aveva ordinato, anzi qualcosa di molto proibito. Chissà perché erano proibite le cose belle! I grandi certamente lo sapevano. Ma, allora, valeva la pena diventare grandi?
“Ah, che bello!” sussurrò a Giustino, del banco a fianco. Il compagno lo guardò impassibile, non lo capiva e non lo badò. Che diamine, cosa si sognava di dire? Ovvio, no! Cosa mai sapeva Giustino del suo mondo di favole, della sua galleria di personaggi fantastici?
La voglia di uscire dalla solita noia, di scappare dai soliti binari, di vivere un angolo di mondo a misura di bisogni di un bambino di quarta lo rese felice e gridò di nuovo. Venne sua madre, gli misurò la temperatura: 36 e 4!
“Questo bambino mi preoccupa” ripeté di nuovo a suo marito tornando a letto. “Domani sento il pediatra.”
Il padre si svegliò di soprassalto, interrompendo un ronzio fastidioso, un russare penoso di cui nulla sapeva, che negava ripetutamente.
“Ma che dici!” brontolava risentito a sua moglie che si lamentava.
“Orazio mi preoccupa, non passa notte che non gridi, che non rida da solo. Sentiamo uno specialista dell’età evolutiva?”
“Ma cosa ti metti in testa? E’ svogliato, piuttosto, non ha alcuna considerazione delle fatiche di suo padre! Quando rientro alla sera neanche mi bada.” Si badò da solo. Volevo dire: si riaddormentò. Il mattino dopo si alzò presto, lo attendeva un nuovo cantiere, in una laterale di via Cappuccina a Mestre. Stavano installando quattro ascensori in un nuovo condominio a quattro piani: 45 gabbie umane pronte, come minimo altrettanti futuri bambini prigionieri pomeridiani, o anche il doppio, non di più in ogni caso, non ci starebbero né nel bilancio familiare e tanto meno in quegli angusti spazi che chiamano vani. Questa città piena di gonfiori e di bollori è come una camera d’aria, si affloscia da un lato, come dire Venezia per esempio, e tende a scoppiare dall’altra parte del comune, Carpenedo, tanto per dire. Congetturava in piena notte, in pieno sonno. Si alzava già stanco.
“Appunto!” Filippo Braschi sosteneva che la povera gente si sacrificava invano. “Spende una vita di risparmi per avere spazi costosissimi e mingherlini.” Provava compassione a volte per le giovani coppie che venivano a chiedere in cantiere quanto costava un appartamentino “due vani e un servizio”. Li guardava e sparava i costi, sempre alti. Li vedeva rabbrividire e rabbrividiva con loro, si sentiva solidale. Il mondo è largo e vigliacco, si sa, c’è spazio per tutti, anche per tipi come lui che si commuovono quando ti mangiano.
Per questo, quando rientrava alla sera, frastornato, irritato, a disagio, con nessuna voglia di incontrare gente, desiderava vedersi la moglie e il figlio accanto, disposti a contemplarlo, a compatirlo. Amava molto sentirsi dire parole compassionevoli. “Poveretto, quanto lavora!”
Ma anche sua moglie rientrava stanca, spesso irritata con il traffico, con la collega che le aveva soffiato l’anticipo delle ferie o non aveva apprezzato l’ultimo coup de vent della solita parrucchiera.
“Antipatica!” La collega è davvero antipatica, però ha deciso che cambierà parrucchiera. Torna con il broncio e vorrebbe un po’ di attenzione di affetto, di comprensione, una pentola già messa sul fuoco, la tovaglia già distesa, come gesto gentile. E chi dovrebbe salvare i genitori dallo stress quotidiano? Orazio B., bambino! Che Orazio B. abbia anche lui desideri, sogni, vendette, rancori, delusioni, speranze e stress? Nessuno ci pensa. E’ ancora troppo piccolo. Eppure Orazio B. è un uomo completo, perfetto per la sua età, un mondo in continua esplosione, in continua espansione. I bambini sono spesso la valvola di sfogo di tanti malumori adulti.
“Che cos’hai da lagnarti, sentiamo?”
Orazio B. non credeva di lagnarsi, ma, piuttosto di lagnarsi, come dicono, non parla più. Già due volte, vista la porta aperta, è scappato fuori fino al cancello in strada a guardare il mondo com’è. Poi ha preso paura ed è tornato subito a respirare le ansie dei pasciuti e insoddisfatti genitori, l’odore di cotechino lesso che piace tanto a suo padre e che impregna la casa chiusa di cattivo odore per tre giorni. Il più pasciuto e insoddisfatto è lui. E allora di notte scappa e fa la sua vita. Poi, un giorno, da grande, si vedrà.
3.capitolo
Quando Orazio B. va a dormire si gira e rigira più volte e non sa perché. Ha un bel letto caldo, la cena è stata soddisfacente, ha una stanzetta tutta per sé con computer, musicassette, videogiochi, un tavolino con scacchiera e pezzi in marmo, origine controllata “Marostica”, da guardare e non toccare, sta imparando il gioco con pezzi in legno. L’istruttore è suo padre, quando è rilassato. Non sa perché non gli riesca a prendere sonno, sente che gli manca qualcosa, ma non sa cosa, per questo scappa via appena può. Vola via appena le palpebre chiudono il sipario su questo mondo che, sarà anche bello, ma è troppo grande, distratto, evanescente, gli scappa via, e lui non sa dove e come appigliarsi per salvarsi, per sentirsi solido, sicuro.
Orazio B. non si sente sicuro, traballa spesso, si sente indeciso e non sa come fare. Ha provato a chiedere a suo padre un po’ di attenzione gratuita, di quell’ attenzione che non è richiesta tuttavia, ma che è elargita così come viene, spontanea. Come la carezza al gatto che neanche se l’aspetta, ma è quello il bello. Si aspetta che gli guardi il quaderno delle poesie, bello ordinato, con la lettera caporiga scritta in gotico (la maestra Mori è una appassionata). Ma sta sfogliando il Gazzettino con gesti veloci, si ferma sulla pagina economica. “Le piastrelle sono in rialzo!” brontola e scuote la testa. “Per fortuna ho chiuso i contratti.”
“Filippo, è pronto! Orazio, lavati le mani!” Teresa ha fretta per la cena, c’è un teleromanzo a puntate che racconterà sul lavoro e non può perdersi l’attenzione di quelle due tre colleghe che pendono dalle sue labbra. Sa raccontare, sa drammatizzare! Quelle non hanno tempo per queste cose. Poverette! Lei crede di saper recitare.
Orazio gira tra le mani il quaderno delle poesie, lo mostra al babbo e attende che scopra da solo, che veda quanto è bravo, così per caso, senza che sia costretto a dirglielo. Che gusto c’è altrimenti.
“Fai ancora le orecchie alle pagine come in prima?” lo redarguisce bonariamente movendo un indice minaccioso. Orazio raddrizza le orecchie del quaderno e va a lavarsi le mani. Gli rimane dell’amaro in gola e pensa sia la cattiva digestione di cui parla spesso sua madre. Sta troppo tempo chiuso in casa.
“Povero Orazio, questa estate le vacanze le faremo più lunghe, così potrai saltare un po’ ed allungarti.” Lo vede un po’ ingobbito. “Fate ginnastica a scuola?”
“Qualche volta, mamma.”
“Passami il pane, Orazio, grazie.”
A sentire che la parola “poveretto” è trasferita altrove, Filippo si drizza, “e io, allora?” Anche lui sta rinchiuso in ufficio, in condomini in costruzione, in trombe di scale fredde e umide con vecchi ansanti che s’informano ogni minuto “e allora?”. “Fra poco, abbiate, pazienza.” Quanta pazienza, poveretto!
Orazio vorrebbe prendere a calci il mondo, ma non per cattiveria. Sente crescere dentro una forza nuova, voglie nuove, sete di affetto, di quell’affetto vero che viene da solo, inatteso, per niente. Ha voglia di far vedere a tutti che lui c’è, che non è un arredo, un accidente. Ha voglia che qualcuno lo prenda a pugni per sentirsi importante. Almeno per qualcuno.
A scuola l’ha combinata grossa, ha fatto lo sgambetto ad una ragazzina di quinta C, la Barbara Bordin, la bella del cortile che snobba tutti e ride sottovoce con le compagne, appena qualche bulletto della sua classe le gironzola attorno. E’ insopportabile e inavvicinabile, tutti le danno fastidio, ha il suo crocchio di compagne succubi, ma che traggono a loro volta prestigio facendo corte alla reginetta. Correvano, le ragazze, Orazio era seduto, appoggiato al muro a guardare il cortile prima vuoto ed ora altrettanto vuoto in quel correre apparentemente inutile e senza senso. Allungò di proposito una gamba per vedere cosa succedeva. Erano tre giri che la Barbara e il codazzo lo rasentavano, lo saltavano e andavano oltre, manco lo vedevano. Al quarto giro, alzò uno stinco quel tanto che bastò e la ragazza andò per le ghiaie, scorrendo un bel po’ – non se l’aspettava proprio dal quel tipo! – escoriandosi ben bene le mani. Non parliamo delle grida, dei pianti, delle minacce, delle goccioline di sangue che, inevitabili! le apparvero, e parvero come un Piave in piena. Lo minacciò con i pugni. Annunciò tregende. “Lo dico alla mia mamma.” La signora Bordin era una signora, nel senso di ricca e benefattrice in tante cose. Era anche la rappresentante di classe. Orazio B. imperterrito, appoggiato al muro si godeva quel finimondo e provava una soddisfazione immensa per essere stato autore di qualcosa, e di molto grosso anche: aveva toccato un mito ed ora aspettava di vedere il seguito. Stranamente, si sentiva tranquillissimo. Venne la maestra Lanza con le mani ai fianchi.
“Orazio B!”
“Sono io.”
La maestra si morse le labbra e si mangiò il burro cacao rimasto. Si sentiva presa in giro, ma non ne era sicura, era troppo imbambolato quell’Orazio B.!
“Cosa hai fatto alla Barbara?”
“Mi è venuta addosso, che stia più attenta.”
“Non ci posso credere! Orazio B. sa parlare? Sa anche pensare a quanto vedo, l’hai studiata apposta.”
Orazio B. convenne che la maestra Lanza era antipatica e brutta, ma non sciocca, era più intelligente di suo padre e da allora la stimò. Aveva riconosciuto le sue capacità, i suoi meriti, il suo coraggio e anche un certo sprezzo del pericolo. Mica tutti avevano il suo coraggio!
Nessuno sapeva che la trappola era stata studiata nei minimi particolari, provata e riprovata in uno dei suoi sogni, quando faceva le prove per tante cose.
Si alzò altezzoso, incurante dei rimproveri, che per lui erano tutta manna. Passò accanto alla Barbara attorniata, tutta accartocciata e lamentosa e le diede un’occhiata dall’alto in basso, almeno nelle intenzioni. Erano alti uguali, ma lui sapeva cosa significava essere guardati dall’alto in basso: significava essere umiliati. Nella sua intenzione c’era il desiderio di fare vedere che lui era meglio, che di lei non gli importava niente. Per la Barbara ciò era insopportabile e lo investì di parolacce. Orazio disse qualcosa a un suo vicino, in un orecchio, perché nessuno sentisse. “Fammi l’asino che ti do la mia merendina.” Era lo stesso parlottare delle ragazzine a cui seguivano i sorrisini allusivi. Barbara vide quel confabulare, attese, e Giustino ragliò. Barbara svenne, convinta che fosse per lei.
Le quotazioni di Orazio B. crebbero enormemente, perché si stava facendo mascalzone. In realtà il bambino stava tentando di galleggiare in un mondo in cui era tanto difficile trovare la propria collocazione, essere aiutati a trovare la propria strada, la propria sponda.
Venne Aurelio Spiazzi, un bulletto di quinta C, con la sua smorfia preferita, un continuo dilatare di narici per l’emozione. Venne a dare una pacca sulla spalla ad Orazio che si sentì promosso di categoria.
“Ehi, Orazio!” Non disse altro, ma era la concessione di una patente di credito non indifferente.
“Ehi, Aurelio!” Abbozzò una mossa da ring, come fanno i grandi quando si complimentano a vicenda.
Questo fatto provocò un nuovo riallineamento dei livelli di considerazione tra le varie persone del piccolo mondo di questa storia. Tutti interessanti, anche se non tutti positivi, ma anche qui è questione di punti di vista. Tutto si concluse comunque come previsto: qualche sgridata, qualche raccomandazione, qualche voce grossa e qualche sorrisino.
La maestra Mori guardò a lungo in silenzio quel ragazzo, mentre, quasi disteso sul banco, tracciava linee sicure e pennellava colori giusti incorniciando la E di “Ei fu, siccome immobile”.
Era dispiaciuta nel constatare a cosa era costretto a fare un bambino per farsi notare, per acquisire credito in quella piccola società che era la scuola. Lo chiamò alla lavagna.
“Porta il tuo quaderno, Orazio.”
Orazio B. s’interrogò. Che cos’altro aveva combinato? Cosa poteva ancora succedere?
“Vedete, ragazzi, la E di Orazio non è ancora finita, ma già si nota la sua futura perfezione, perché Orazio ce la sta mettendo tutta e si vede, si sente, e questo succede per chiunque s’impegni al massimo. Quando avrai finito vedremo, e se mancherà qualcosa ti darò una mano, ma di certo non ce ne sarà bisogno.”
Orazio sentì dentro di sé una grande forza, sentì che il suo credito era salito, lo capiva da certe labbra deluse, pendenti, dei più spavaldi, dagli occhietti vispi e lusingati dei più timidi che intuivano che la strada c’era anche per loro.
Durante la ricreazione Barbara Bordin gli passava davanti con il solito codazzo e gli faceva le linguacce. Orazio godeva un mondo. Lo vedevano e lo consideravano. A nessuno le ragazze facevano tanti dispetti. Molti ragazzi si avvicinarono a lui, dandogli una pacca sulla spalla, lui rispondeva alla pari. Faceva parte ormai di quella evanescente, strana, ma anche pericolosa squadra che in gergo si dice “dei nostri!”. Sei dei nostri e quindi tutto ti è permesso, sarai difeso e scusato.
La maestra Lanza fu meno compiacente, fu più severa e pretese molto di più. Aveva capito che era più scaltro, più vispo di quello che sembrava e nei calcoli con i numeri decimali non accettò più scusanti. “Puoi fare di più” lo ammoniva. Ma Orazio l’aveva sempre saputo, aveva bisogno di qualcuno che gli desse una mano, che lo spronasse, di una guida, che diamine!
Teresa andò a scusarsi apposta dalla mamma di Barbara, perché le sembrava doveroso, perché pensò che avrebbero apprezzato, perché era un modo di rinverdire rapporti allentati di amicizie d’infanzia. Fu tutto inutile, non successe niente, perché la Bordin più ricca che signora, aveva intuito che la messinscena aveva secondi fini e quasi quasi le tolse il saluto. Teresa attribuì tutto a quello sventato di figliolo.
“Guarda cosa mi va a combinare questo discolo!” S’ingrugnì ancor più nei confronti del figliolo che non era per niente riconoscente per i loro sacrifici.
I Bordin erano costruttori di mobili, s’incontravano spesso nei cantieri, erano gente pratica, badavano agli affari e ai soldi, non guardavano in faccia a nessuno. Erano potenti. Filippo Braschi se li teneva buoni, molti affari s’intrecciavano e, dopo il fattaccio a scuola, s’accostò a loro molto remissivo, quasi sottomesso per ottenere maggiore benevolenza, considerato il suo atteggiamento bonario. Fu invece estromesso da alcune trattative. Filippo pensò che ce l’avessero con Orazio per via dello sgambetto alla loro figliola. Neanche immaginava che a quei mestieranti, interessava solo il fatto che un concorrente aveva preventivato e contrattato da duro i prezzi migliori e quel suo strisciare per ottenere credito, aveva in realtà diminuito la sua immagine commerciale.
Filippo Braschi tornò a casa infuriato e per poco non diede uno scappellotto al figliolo che lo stava aspettando per mostrargli l’incipit decorato dell’ode di Alessandro Manzoni.
La maestra Mori nel suo registro di classe, nelle pagine di cronaca didattica, annotò l’episodio aggiornando le note caratteristiche degli scolari. A proposito di Orazio Braschi scrisse testualmente: “Orazio B. sta mostrando capacità di iniziativa, non era mai successo, vedremo; nonostante tutto è un buon segno”. In classe c’erano due Orazio: il primo era Braschi, il secondo era Giancarlo che faceva Orazio di cognome. Per la consuetudine di abbreviare e siglare qualunque cosa erano chiamati semplicemente B e A. Per lei però la B. significava bambino con la maiuscola, un bambino bello, pieno di creanza, di normale intelligenza, volonteroso, curioso, affettuoso, il classico bravo figliolo, il bambino perfetto per antonomasia. Orazio era il Bambino ideale che lei avrebbe voluto avere, ma non aveva avuto figli. Dopo il fattaccio in cortile, nessuno dubitava della volontarietà del gesto di Orazio. Anche lei si interrogò, mordicchiò la penna e pensò. C’era qualcosa che le sfuggiva, che doveva capire, poi capì: Orazio invocava aiuto.
La maestra Mori sapeva leggere e spiegare le odi dei poeti, sapeva pure aprire e capire i cuori dei suoi scolari. Era lì per quello, se lo ripeteva spesso. Orazio? Credeva di averlo capito, invece no.
Erano in cortile durante la ricreazione, nell’ora ideale in cui tutte le barriere cadono, le attenzioni si allentano distratte e ognuno mostra sé stesso nella sua nudità nei rapporti con gli altri, perché sa di non essere oggetto di valutazione, di misurazione, di osservazione speculare, ognuno è svagato, naturale, puro. E’ quello il momento di osservare i bambini allo stato brado e di capire come meglio avvicinarli per aiutarli. La maestra Mori seguì con gli occhi Orazio B.: era sorridente, guardava gli altri intenti ai giochi e alle corse, mentre triturava un rametto raccolto nella siepe vicina. Il ragazzo godeva dei giochi altrui, nessuno lo chiamava e lui non si decideva. Poi si buttò in mezzo al gruppo e non successe niente, fecero il giro della scuola, emerse per primo dall’angolo opposto impugnando per trofeo un fazzoletto puzzolente. Tutti lo applaudirono. Molti gli dicevano: stai con noi, sei dei nostri! C’erano tante squadre che si improvvisavano, molte duravano. Non se n’era mai accorto.
Alcuni dei suoi compagni si ritrovavano al pomeriggio, fuori orario scolastico, e ne combinavano, oh se ne combinavano! Ma parlavano talmente sottovoce che non volle credere di aver capito bene. Sentì di certe loro imprudenti imprese. Alcuni di loro giocavano di nascosto. E lui non lo sapeva, non sapeva dove, non sapeva quando.
Ma anche lui aveva i suoi segreti, i suoi giochi e le sue corse fantasiose. Nessuno sapeva niente e mai avrebbero saputo niente.
Un giorno, Aurelio Spiazzi si vendicò, ma tutto era sembrato regolare. Aveva mal sopportato l’ingresso proditorio e inatteso di Orazio B. tra i grandi, i prepotenti dei gruppi. Aveva atteso pazientemente, l’aveva sfidato a lotta e gli aveva fatto sanguinare il naso. Orazio B. aveva creduto che, una volta arrivato, nessuno ti potesse spingere indietro, invece era successo. Peggio ancora aveva capito che mai più avrebbe potuto risalire la china della considerazione altrui. Avevano tutti ripreso a guardarlo dall’alto in basso; materialmente non era possibile più di tanto, ma idealmente tra chi comandava e chi soggiaceva c’era un abisso. Orazio B. si stava convincendo di essere un perdente fisso.
Barbara lo cercava apposta e gli faceva marameo con le dita sulla punta del naso e tutte ridevano. Disgraziatamente la maestra Mori, vide tutto e intervenne, sgridò chi doveva, di fatto codificò la sua condizione di vittima bisognosa di tutela. Per un attimo aveva toccato il cielo. Ora non gli interessava più.
4.capitolo
Aveva deciso di smettere di sognare. Beh, sarebbe stata la sua fine!
Per fortuna i sogni vengono e vanno quando e come vogliono, indipendentemente dalla nostra volontà. Così si crede. Sognò di nuovo, ma con meno soddisfazione delle altre volte, perché i sogni un po’ li subisci, ma, suvvia! anche un po’ li guidi. Orazio non li guidò più e così accettava quello che veniva. Poi una sera fece un sogno che, al risveglio, definì: forte!
C’era una barca in mezzo al mare, sembrava un’arca tanto era grande. Poi si trasformò in zattera, insomma galleggiavano. Apparivano, sparivano, poi ritornavano come lampi i personaggi della sua vita. Sembrava tutto vero, anche il mare mosso e la burrasca, ma nessuno si preoccupava più di tanto. Le dimensioni della barca variavano continuamente. A volte sembrava piccola, quando agiva soltanto con qualche compagno, appariva grandissima, quasi un paese galleggiante, quando la sua fantasia vedeva trasferite scene di vita normale.
Si vide a scuola, era in cattedra. Gli veniva normale e non provava alcun disagio. I suoi allievi erano i suoi genitori, le sue maestre. In fondo c’erano Aurelio Spiazzi, in castigo, dietro la lavagna. In un angolo, Barbara Bordin e le sue compagne. Si comportava con la determinazione della Lanza, ma, dentro, l’animo era quello della Mori. Aveva una bacchetta in mano, come si usava, ma non per picchiare le dita degli allievi, soltanto per darsi un contegno, per trasmettere autorevolezza. Con la bacchetta in mano si sentiva sicuro, al sicuro. Era la stessa impressione che trasmetteva la maestra Lanza quando passava tra i banchi facendosi precedere dal ticchettio della bacchetta che picchiava sul suo anello. Chiamò alla lavagna proprio lei. Le chiese qualcosa di cui non riusciva a percepire il senso e il nesso, ma sapeva, voleva che fosse una domanda difficile, provocatoria, di quelle che a volte la maestra rivolgeva infuriata agli scolari sapendo che, paralizzati dal suo atteggiamento minaccioso, non avrebbero risposto; lei aveva pronta la risposta ossia la punizione ossia i compiti in più ossia copiare cinquanta volte qualcosa ossia niente ricreazione. Era una persona che provava piacere ad esercitare la propria autorità.
Orazio B. si erse in tutta la sua altezza, toccava il soffitto, vedeva laggiù in basso la Lanza tremare, come aveva sempre desiderato. Alla fine le disse stentoreo: “Domani venga accompagnata dai suoi genitori”. Aveva mantenuto il rispetto.
“Sì, signor maestro Orazio.” Orazio aveva deciso che non avrebbe mai fatto il maestro, gli sembrava un mestiere che fa soffrire gli altri, un mestiere di persone curiose, insaziabili, sempre pronte a interrogare, a rimproverare. Si aspettava dalla maestra Mori – ma un giorno o l’altro succederà – un sorriso e una frase del tipo: Ciao, Orazio, come stai? ti vedo bene.” Frase neppure difficile, i grandi la ripetono monotonamente e non aspettano neppure la risposta, ma agli orecchi di chi la sente è musica, è considerazione, è un incontro fuori schema, voluto e sincero. Chiamò proprio lei.
“Maestra Mori, alla lavagna.” Vide la maestra alzarsi e venire avanti a capo chino, più si chinava, più la faceva chinare, più si sentiva gratificato. Era tanto che aveva voglia di dire quello che sperava sentirsi dire.
“Signora maestra Mori, la perdono, a patto che non si intrometta quando sto imparando.”
Mai erano state avanzate simili richieste in quella scuola.
La maestra lo guardò stupita, meravigliata non tanto del freddo trattamento quanto per il peso di quella richiesta perentoria, chiara, decisa. Restò interdetta, rifletté, arrossì perché non capiva.
“Caro Orazio, mai più … mai più …”
Orazio B. è un bambino buono, le andò incontro, si confuse pure lui per il suo ardire.
Caspita! Come si fa a dire a una maestra che si faccia gli affari suoi! Non sapeva neppure lui come spiegarle che la lotta tra lui e Aurelio era buona, che era uno sfogo, era per stabilire delle graduatorie, delle future amicizie, durature perché nate sofferte, delle priorità nel gruppo, per scoprire delle capacità ad esercitare proprie volontà e scelte. Tutte queste idee le sentiva confusamente, ma non seppe dirle bene e la maestra restò con la bocca aperta, smarrita.
“Stia più attenta un’altra volta.” Era l’unico modo per darle una speranza, una ulteriore prova d’appello.
Sua madre lo salutava con una manina da sotto il banco complimentandosi con lui. La zittì con la bacchetta sbattuta ripetutamente sulla cattedra.
“Signora Teresa non fare gestacci, per questa volta faccio finta di non averti vista.” Ebbe compiacenza per sua madre, una debolezza che si perdonò.
Suo padre dall’ultimo banco non dava segni di partecipazione alla lezione. Lo interpellò a voce alta.
“Signor Braschi!”
“Presente!”
“Così va bene. Cosa stavamo dicendo?”
Suo padre si smarrì, almeno così gli sembrò. Parlò in gergo di cifre, percentuali, fatture, preventivi, borbottava. Non capì niente, perché così aveva deciso.
“Lei è sempre distratto quando parla con suo figlio.”
Non fu sicuro di aver detto queste parole, anzi non le pronunciò proprio, ma era questo che voleva dire, era questo che sentiva. Tuttavia un pensiero così conciso era in grado di formularlo, ma non di esprimerlo, troppo difficile, troppo complicato, troppo irriguardoso parlare così a suo padre, che faceva tanto per lui. Decise che mai le avrebbe dette sul serio (si rendeva conto di stare sognando). Gli voleva troppo bene. Scosse solo la testa guardandolo fisso, ma più lo fissava più l’immagine sfumava; non poteva mettere un brutto voto a suo padre. I maestri devono essere anche buoni e attendere sempre una prossima volta prima di bocciare una persona. Non bocciò suo padre.
Chiamò alla lavagna Aurelio Spiazzi.
“Tu, Aurelio, hai dato un pugno al tuo maestro Orazio qui presente.”
“Sì, signor maestro” confermò il compagno per nulla turbato. Aveva deciso che così doveva essere la risposta.
“Promosso” disse Orazio, “perché hai insegnato al tuo amico che il coraggio se lo deve cercare da solo se vuole provare qualcosa”.
“Barbara Bordin, alla lavagna!” Vide la compagna alzarsi in piedi, venire verso la cattedra, mettere un pollice sulla punta del naso e fargli marameo. Non gli riuscì a bloccare l’evento. La barca cominciò a ondeggiare paurosamente, ad affondare, decise di salvarsi a nuoto, gli altri già lo facevano. Non sapeva nuotare eppure galleggiava, muoveva le braccia con ampi gesti; approdò sfinito a riva, solo, gli altri già correvano avanti. Si svegliò di soprassalto in un bagno di sudore e con il fiatone, gli era costato fatica quel sogno, confuso, disordinato, come i suoi pensieri, i suoi desideri che a stento cercavano di farsi strada, di trovare uno spiraglio per uscire alla luce del sole. Certe cose devono essere prima pensate e poi fatte, lui in sogno pensava molto, viaggiava molto, si sfogava e si divertiva, si stancava, perché a farti venire certi pensieri occorrono coraggio e un bello sforzo.
“I pensieri non ti vengono se non li pensi.” Grosso modo si espresse così, ed era un gran pensiero per uno di quarta.
Il giorno dopo a scuola, incontrando molti protagonisti della sua avventura notturna, fece fatica a mettere a fuoco la realtà, a distinguerla dal sogno.
Aurelio, quando lo vide gli strizzò un occhio e gli diede una gran pacca sulla spalla, era una pacca che faceva bene, era di quelle si danno ad un amico. Aveva vinto una prova, anche se le aveva prese. Non si era lamentato, non aveva portato il muso, perché lo scontro l’aveva cercato, gli serviva per passare di categoria, tra quelli che sopportano, perché se lo possono permettere. A casa l’avevano rimproverato e chiuso il discorso con un distratto commento.
“Diventi pure attaccabrighe, adesso?”
Vide Barbara Bordin entrare a scuola imbacuccata e infreddolita, le attraversò la strada.
“Beh?” le disse guardandola di sottecchi e sfregandosi le mani con fare minaccioso. Quella scappò via e non gli fece affatto marameo. Capì che non glielo avrebbe fatto mai più, neppure in sogno.
Queste avvisaglie, questi comportamenti anomali non sfuggirono alla maestra Mori intenta ad accogliere gli scolari delle varie classi all’ingresso.
“Coraggio, avanti” disse la maestra chiamando i più lenti.
Orazio B. a capo chino tradusse il messaggio in un invito a continuare il suo risveglio e sorrise alla maestra per motivi che solo lui conosceva; lei, pur esperta psicologa, vide e non capì. La seconda vita di Orazio manco se l’immaginava.
Alla ricreazione ebbe un invito da Aurelio e soci.
“Vieni con noi oggi?”
“Certamente.” La risposta fu immediata e convincente. Dove e a fare cosa non se l’immaginava affatto. Comprese però che stava crescendo, che stava imparando a muoversi, ad agire, ad avere un’opinione: lo cercavano.
5.capitolo
Quel “certamente” era del tutto arbitrario e fuori luogo. Era sì un giorno in cui non c’erano lezioni pomeridiane, ma Orazio B. aveva una consegna tassativa.
“Non devi uscire, non devi aprire la porta, se suona il telefono rispondi. Gioca con il computer. Queste sono le nuove cassette di Braccio di ferro e di Paperino matematico, guardale che sono istruttive, e poi leggi leggi leggi. Ascolta la maestra.” Questo diceva la mamma. La maestra diceva il rovescio o quasi. Il suo era tutto un ascoltare, che poi non era un udire, bensì un ubbidire. A parole sembrava tutto facile, in realtà nessuno ubbidiva e si agitavano tutti a scuola e a casa. Alla fine le uniche persone agitate erano le maestre e le mamme.
“Ai nostri tempi era diverso.” Il lamento è universale, condiviso, mette il cuore in pace, ma non risolve nulla.
Molti ragazzi cominciano a chiedersi: cosa era questo diverso?
Anche i giochi erano diversi. Anche gli orari scolastici, anche i rapporti con i propri coetanei, anche i pericoli della strada. Tutte cose che i piccoli non sanno e i grandi hanno dimenticato.
Orazio B. ruppe la consegna, disubbidì. Andò a vedere cosa voleva Aurelio. Abitava cinque isolati più in là, ma c’erano due strade da attraversare. Non successe nulla e arrivò al cancello indicato. C’erano altri due infreddoliti ad aspettare Aurelio, che arrivò puntuale con suo cugino. Frettolosi, come tanti carbonari, si introdussero in uno scantinato che conduceva ai garages, ai ripostigli, ai depositi di materiale di scarto. In fondo, al buio, c’era uno spazio condominiale comune, un deposito sgangherato, semiabbandonato con grandi bidoni vuoti (c’era un camionista tra i condomini).
Un finestrone in alto, senza vetri mostrava le griglie e le scarpe di chi camminava sul marciapiede soprastante. Venne una vecchia signora spettinata con un mozzicone di sigaretta stretta da labbra andreottiane, invisibili. Ci fu uno sguardo d’intesa tra la portiera e Aurelio, che le contò dieci sigarette, poi ne trattenne una e se l’accese. La vecchia, prima di girare le spalle lentamente, lo ammonì con un dito alzato, non si sa per la trattenuta o per il gesto precoce. Se la passarono di mano in mano, anche Orazio B. l’ebbe per un attimo, tentò una tirata e la restituì. Era troppo per lui, ma abbastanza per darsi una regolata, un contegno adeguato al rango cui era stato chiamato. Dapprima cominciarono in sordina toccando i bidoni con mazze leggere, poi presero dei martelli e picchiarono e urlarono all’impazzata. Orazio B., dalla notte dei tempi suoi, forse già dal grembo di sua madre, aveva immensamente desiderato di gridare a squarciagola senza regole, sereno, senza divieti per dire che a questo mondo lui c’era, per sfogarsi, per liberarsi da vincoli invisibili, per stare bene, per sciogliere forze e umori impigliati e imbrigliati, per sentirsi pronto a volare. Dopo un attimo di sorpresa si scatenò e urlò fino allo sfinimento. Si guardavano e si eccitavano a vicenda e quando uno desisteva un attimo per respirare c’era qualcuno che urlava per gli altri. La follia durò molti, moltissimi, lunghissimi minuti, poi ripresero, ma in modo fiacco, pasciuto, soddisfatto. E sorridevano, caspita se sorridevano!
Orazio B. guardò Aurelio che ansimava, aveva gli occhi dolci, non sembrava il solito compagno di scuola, sembrava uno che avesse divorato un bastone di cioccolata lungo un chilometro. Era questo il massimo dei desideri di Orazio B. Ma anche lui doveva essere nelle stesse condizioni, e lo era, perché uno dei ragazzi gli batté forte una spalla e gli disse bei complimenti.
“Ci mancava uno come te.”
“Vieni ancora con noi?” chiese il cugino.
Cadde un silenzio tombale, rotto da respiri frettolosi, affannati. Dalle inferriate entrò il chiasso del traffico e dei clacson di via Morgagni. Era il luogo giusto per ristorarsi, difficile disturbare qualcuno, difficile essere disturbati, una volta pagato il pedaggio.
Orazio B. si guardò le mani, tremavano per l’eccitazione, per l’agitazione, per lo sforzo, però si sentiva leggero come una piuma, aveva commesso una grandiosa trasgressione e non era successo niente. Anche gli altri ragazzi e chissà quanti altri ancora avevano le stesse difficoltà di crescita ordinata, regolare e corretta, nonostante le soverchie attenzioni dei loro educatori. Dovevano sempre parlare educatamente, a bassa voce, senza disturbare. Mai un incontro libero tra coetanei!
Gigi e Berto se se andarono per primi dandosi appuntamento. “Fra tre giorni.” Aurelio e suo cugino Elio seguirono.
Orazio andò loro dietro. Aveva scoperto la stanza delle grida, la tana dell’urlo, così la battezzò, il luogo sacro inventato dai ragazzi dove poter andare a sfogarsi liberamente. Impuniti e solidali, se ne andarono ognuno per la propria strada, dopo sguardi d’intesa. Orazio non capì niente, ossia capì tutto. Sarebbe tornato dopo tre giorni. Se tutto andava bene. Ma tutto non andò bene.
Tornato frettolosamente a casa aprì il libro di lettura e lesse la pagina assegnata di storia antica. Dovette leggerla più volte perché non riusciva a capire niente, la testa gli fumava, le tempie gli battevano, aveva ancora delle energie represse, del fiato da spendere, mandò due urli da far tremare i vetri, poi esausto e felice si addormentò sulla piramide di Cheope. Sognò di essere tornato nella tana dell’urlo, nel sotterraneo a cinque isolati di distanza, sognò dei tamburi, sognò lo scantinato impegnato in uno sforzo incredibile per dilatarsi e trasformarsi nella valle dell’eco tra gole profonde e montagne altissime. Vide Aurelio urlare a squarciagola e le cime dei pini piegarsi dalla violenza dell’urto. Anch’egli gonfiò il petto e gridò dalla parte opposta, i pini presero ad ondeggiare come scossi tra maestrale e grecale Poi il cielo si oscurò, si riscosse e vide che si faceva sera davvero, mise ordine, si lavò la faccia, le mani, si schiarì la voce, riprese l’approccio di conoscenza con il famoso faraone. Sua madre entrò in punta di piedi, stanca morta. Per non disturbare quelli di sotto si tolse le scarpe con i tacchi e andò in bagno.
”Tutto bene?” chiese.
Il ragazzo accennò di sì. Sua madre non sentì proferire verbo, suppose che tutto fosse andato bene quel pomeriggio. Come poteva essere altrimenti?
Sentì l’acqua scorrere. Niente di nuovo, quindi tutto bene. Sì! Ma quest’ultimo è il pensiero di Orazio B.
6.capitolo
Il giorno della Festa della Primavera è un giorno che va scritto con lettere maiuscole, perché è il più bel giorno di scuola di tutto l’anno, anche se cade di domenica. Nessuno è costretto a parteciparvi, ma ci vanno tutti lo stesso. Cade in aprile e sparge per i campi le scolaresche con tute colorate e magliette sgargianti.
Ci sono le mamme normali e quelle apprensive. Le prime vogliono mostrare alle maestre che anche loro ci sanno fare e perciò tentano in tutti i modi di tormentare i figlioli con divieti e raccomandazioni inutili “non sporcarti, mi raccomando”, “fai il bravo”, “non stare in mezzo alla strada”, “non spingetevi” ecc. Le seconde tengono le bambine per mano. Poi, grazie al cielo, alla prima curva, alla prima strettoia le mamme si trovano sole, così si consigliano, si consultano, si raccomandano, aspettano la maestra per chiederle alla spicciolata, sotto banco “come mai ….”.
Già, c’è sempre il sospetto che la propria bambina sia trascurata. La maestra di solito in questo giorno è svagata, straniata, sorride a tutto e a tutti, perché tutti la salutano chiamandola direttamente per nome e questo fa molto democratico. Poi ci sono sempre le eccezioni.
Ci sono bambine che raccolgono viole e si siedono sull’arzariva che, essendo appunto nuova anch’essa, e per di più sull’orlo dei fossati, agevola la scivolata di qualche piede in acqua. Qualcuna grida spaventata, non per l’acqua, ma per la mamma. Poi vede che anche a qualche nonna succede la stessa cosa, allora scappa e le passa subito.
Insomma, una volta all’anno, grandi e piccini, tutti d’accordo, passeggiano per le strade e i viottoli a conoscere gli angoli più nascosti, le siepi dimenticate e fiorite, le raganelle immobili al sole; puoi prenderle e lasciarle cadere in acqua e solo allora se ne accorgono.
Orazio B. vorrebbe che la vita di un bambino avesse una primavera a settimana e un giorno così da vivere in santa pace e libertà. Che poi non vuol dire far niente. Eh, no! Si chiacchiera, si parla sotto voce e ci si mette d’accordo, ci si rotola sull’erba con la tuta nuova, fatta apposta per salvaguardare il resto del guardaroba, si mangiano panini senza che nessuno te lo ordini, perché la voglia ti viene da sola.
Ognuno si ingegna a combinare qualcosa, ma le stranezze ci sono anche qui. Barbara Bordin, ad esempio, tra i capelli ha il più bel nastrino rosa della festa, calza un paio di scarpette di color nero laccato, cammina al centro della strada per non sporcarsi d’erba; di polvere, invece, si può.
La maestra Lanza è contraria a questo tipo di sceneggiate, anzi contrarissima.
“Sceneggiate!” ha esordito nel collegio dei docenti. “Adesso c’è il gusto, il compiacimento per il disordine.”
Le giovani colleghe che vengono da fuori, non conoscono le tradizioni locali, e non vogliono sciupare una festività, le danno ragione. Poi vince il buon senso e la maggioranza delle canute. Insomma da anni questa festa si fa. In futuro non si sa. Cambiano le persone, cambiano i campi, e, chi è vissuto sempre tra i campi, preferisce prendere la macchina e scappare al mare, anche a Sottomarina o in montagna. Basta anche Pedavena. A godere di più sono i bambini che non hanno mai conosciuto i campi di camomilla e le scampagnate e gli aquiloni alzati su prati di trifoglio, il salto di un fossetto con un palo infilato in mezzo, a rischio, si sa! di caderci dentro, ma è questo il bello.
Il direttore didattico, è sempre lui, ma lo chiamano dirigente e quindi si dà da fare per dirimere le piccole inoffensive controversie tra le maestre e l’unico maestro, il merlotto solitario, lo chiamano così!, sempre all’angolo, paziente e consenziente sul parere della maggioranza. Il direttore parteciperà alla camminata, anche per salutare e stringere mani. Ci sono spesso autorità locali e in quanto tali non ignorano niente di quello che locale è. Verranno fotografati, saranno ricordati a tempo debito.
Fin che i grandi fanno questi calcoli, i bambini neanche pensano che a volte nuvolette grigie si addensano sulla loro Festa. Speriamo che non si trasformi mai in temporale.
Orazio B. cammina spedito, fa il passo di ronda senza saperlo con Giustino e Lollo. Passano, sorpassano, schivano, urtano, arrivano alla Fossona. E’ un grande fossato dove suo padre ha imparato a nuotare, eh, gliel’ha detto mille volte! Altro che piscina comunale, come lui, Orazio, il figlio che trova tutto fatto!
Orazio soffre perché ha la sensazione che la sua vita sia puntellata da troppi punti esclamativi, mentre lui ha tanti interrogativi da porre. C’è qualcuno paziente disposto ad ascoltarlo?
“Ai nostri tempi, caro mio …” e dai con questa lagna, ogni volta che torna stanco o che un affare è andato a male o ha voglia di litigare con Teresa, zac! Se la prende con le comodità che offre al figliolo.
“Se le merita questo figliolo?”
Orazio si scuote e comincia a pensare le stesse cose. Ma dal verso opposto. E pensa che proprio no, non si merita tutte queste cose, questi rimproveri, questi avvertimenti preventivi, a ciel sereno, magari nel momento in cui ti aspetti un complimento.
Orazio ascolta, accoglie, sopporta cose che neanche capisce, che neppure intuisce, ma ha una voglia matta di svincolarsi da questi deliziosi capestri offerti in dono.
Giustino si prende qualche tiratina d’orecchi a casa, quando combina qualche pasticcio, che poi sarebbe una pallonata non proprio in porta, il naso asciugato con la manica o esplorato con le dita. Non è proprio il massimo di buona educazione. Gli adulti non lo fanno mai, in pubblico. Suo padre gli dice spesso “Vergognati!” E gli racconta che lui, da piccolo, neanche il fazzoletto aveva e il naso lo soffiava per terra. “Era miseria!”
Sporca miseria, secondo Orazio
Una volta Giustino chiese al padre cosa gli diceva suo padre, ossia suo nonno.
“Cosa vuoi che mi dicesse? Cosa credi facesse lui? Eh, caro mio…..” Scuote la testa. Ed è tutto.
Giustino pensava sempre più spesso che la civiltà si stava evolvendo in fretta, c’erano sempre più fazzoletti in giro, ecco! Bisognava saperli adoperare, questo sì! Anzi bisognava ricordarsi di mettere la mano in tasca.
Lollo si chiama Lorenzo, però adesso tutti gli hanno dato un soprannome del soprannnome: Tirasù.
Il problema che affligge Lollo, lui, l’ha risolto all’istante, tira su, tira sempre su.
“E’ per questo che hai sempre mal di testa” gli dice sua madre. Non è vero, Lollo Tirasù non ha niente, però potrebbe avere, andando avanti di tirata in tirata, qualche problema respiratorio.
“Non fare così” gli ripete continuamente sua madre. Lollo alza le spalle e tira su. Certamente è il più sbilenco dei tre, il più svogliato. Le compagne l’invitano a tirare su. A lui non pare vero e lo ripete all’infinito, è persino bello quando lo fa, perché sbatte gli occhi, fa una smorfia, storce il naso e poi sorride. E’ difficile mantenere quella sua nuova nomea, soprattutto se non hai il raffreddore, ma lui ci prova.
La Fossona si doveva fiancheggiare per un centinaio di metri, poi si sarebbe preso una carreggiata a gomito e, raggiunto il punto più lontano da scuola, si sarebbe ripresa la via di ritorno, certo non dopo aver fatto un veloce pic-nic nella fattoria dei Mazzin, noti possidenti che mostravano le stalle, gli attrezzi, le covate e offrivano un assaggio di buon merlot agli adulti e dolci fatti in casa ai bambini.
La piccola ronda, arrivata al punto in cui la Fossona si allargava a formare uno stagno con ninfee e libellule in picchiata, fece alt. E cominciò un piccolo spettacolo nello spettacolo. Avevano deciso insieme, facendo un patto alla moschettiera dell’uno per tutti e tutti per uno, di fare esattamente il contrario di quello che erano soliti fare per vedere, nella giornata di grazia della Festa della Primavera, l’effetto che faceva sulle maestre, sulle mamme, sui babbi, sui vicini e lontani di casa.
Beh, l’effetto fu disastroso, è meglio dirlo subito! I nostri tre, come fossero di guardia ad una qualsiasi porta carraia, in una specie di at-tenti! eseguivano gesti regolari e complementari, mentre in mezzo a loro, Orazio B. iniziava la sua svestizione.
Giustino usava fazzoletti di carta che traeva dalle tasche come un prestigiatore, li portava al naso, tentava o stentava di soffiarci dentro qualcosa e poi li gettava sull’erba. Il suo compagno Lollo Tirasù con una molletta al naso fingeva di tirare su, invece diventava sempre più paonazzo per lo sforzo e la fatica di respirare. Sfilavano i compagni e ridevano, scherzavano e passavano avanti salutando con una manina. Orazio B. era rimasto in mutande e canottiera.
Sopraggiunse la maestra Lanza trafelata. Aveva intravisto in lontananza quello strano trio che non prometteva niente di buono. Piombò sui tre con aria cattedratica, per niente festaiola e di armistizio.
“Orazio B., che fai?” urlò.
Orazio B. la guardò, giunse le mani, le portò sopra il capo, poi le spinse in avanti e, nudo, spiccò un piccolo volo, si tuffò nell’acqua limpida tra le ninfee, allungò le braccia e cominciò ad allontanarsi dalla riva galleggiando, esattamente come un galleggiante da pesca, ma si spostava da solo, tirato da nessuna bava, ondeggiava, scivolava. Che bellezza! Aveva ragione suo padre, mille volte meglio della piscina comunale che odorava di tutto. Rifece la pipì a fontanella in santa pace, si vide lo spruzzetto e la Lanza gridò.
“Orazio B., santo cielo! Non sai nuotare.” Non era vero, ma se lo diceva la maestra doveva essere così. Si sentì sprofondare, sempre più annegare fino quasi a soffocare. Grazie al cielo si svegliò, tutto sudato e con una forte tosse.
Sua madre corse in camera trafelata.
“Dio mio, sembri uscito da una doccia! Filippo, il bambino non sta bene.”
Filippo si girò sull’altro fianco, ormai non faceva più caso a questi allarmi, comunque con un borbottio confermò in tutto e per tutto l’impressione di Teresa per non creare discussioni a quell’ora; e si rigirò nella precedente posizione. Il ragazzo lo sentì russare e trasse un sospiro di sollievo per il mancato interrogatorio.
Si era agitato molto nel sonno e, forse perché c’era una finestra socchiusa, si prese una polmonite e restò a letto diversi giorni.
Orazio B. pensò alla crudeltà del destino che si accanisce anche contro i piccoli, specie quando vogliono seguire l’esempio dei grandi che insistono, oh, se insistono! Nello stesso luogo in cui suo padre, alla sua età, aveva pescato la carpa più grossa, lui si era buscato la polmonite più grande della sua vita. Questa fu la sua interpretazione dei fatti, anche perché l’intreccio tra sogno e realtà era sempre più frequente, solidale e sovrapposto. Sarà stata pure la febbre, ma la sua avventura gli era sembrata così vera che le volle credere, in attesa di verificarla con Giustino e Tirasù. In seguito ci rinuncerà per paura che gli dicessero che non era vero.
Anche nei sogni è dura per Orazio B., quando ci entra troppa gente ci sono pure troppi condizionamenti.
Si ricordò del picchio. “Chissà dove ti sei sistemato!” Poi s’interrogò. “Che abbia dei ricordi, un picchio?” Sperò tanto di sì.
“Spero che tu stia bene, io non proprio. Fatti vedere e dimmi di come te la cavi da solo” sospirò, e prese sonno su un trentasette e nove quasi trentotto di temperatura.
Nel primo dormiveglia si sorprese a mormorare: Buck, oh, Buck! Pensando al picchio lo chiamava per nome confondendo la disgrazia con il disgraziato.
7.capitolo
Teresa chiese giorni di malattia, giorni di ferie, giorni di permesso, fece di tutto per restare accanto al figliolo che aveva sempre quelle lineette di febbre ingombrante. Poi, grazie al cielo, alle medicine e alla sua dedizione, il bambino girò la boa della malattia e cominciò la sua convalescenza. In quel periodo seppellì i suoi sogni e la sua storia segreta per non tradirsi in qualche delirio di cui aveva sentito parlare dai grandi. Fu una ulteriore sofferenza, gli mancò l’unica evasione che lo risollevava e ristorava.
Un pomeriggio poi successe un fatto spiacevole che fece innervosire Teresa. Giù in strada suonarono ripetutamente. Driiin!
“Chi è?”
“Siamo noi, Orazio come sta?”
“Voi chi?” chiese la mamma.
Dalla strada, attraverso il citofono, fino ai suoi timpani, già nervosi in proprio, salì un fracasso, un frastuono di tamburi metallici, di mazzate su coperchi e rimbombi di ogni tipo.
“Maleducati!” gridò Teresa. “Vergognatevi, qui c’è un bambino che sta male.”
“Chi c’è?” chiese Orazio con un filo di voce.
“Mah! Certamente dei bontemponi o dei villani che disturbano le famiglie con i loro schiamazzi. Battere tamburi di latta, a quest’ora poi, è da pazzi.”
A Orazio B., bambino, vennero le lacrime agli occhi. Avrebbe voluto chiedere alla mamma che li facesse salire, che almeno gli passasse la cornetta, ma si sarebbe svelato. Ringraziò il cielo, ringraziò Aurelio, il cugino e gli altri per il gentile pensiero. Si erano ricordati di lui nel modo migliore, lo aspettavano, lo salutavano. Fu quella la medicina decisiva, si aiutò a guarire; al miglioramento fisico contribuì moltissimo la sua ferma volontà di combattere la malattia e di tornare nella banda nella stanza dell’urlo e chissà in quale altra diavoleria. Si mise a sedere sul letto, allungò il collo per vederli attraversare la piazzetta, sentì solo un forte rullo di tamburo, poi niente, avevano certamente girato l’angolo per andare a rintanarsi. Fece il conto mentalmente degli spiccioli messi via e stabilì che avrebbe dato a Aurelio l’equivalente di tre sigarette per la vecchia, quando si sarebbe rimesso.
Qualche volta passavano Giustino, Lollo e Nenei a portargli il quaderno dei compiti perché vedesse, perché sapesse e a raccontargli di Cencio Bortolan che ha portato a scuola delle uova per la dimostrazione della cova, ma inavvertitamente si è seduto sopra la scatola di cartone che le conteneva ottenendo un’orrenda frittata.
Arrivato a casa sua madre gli aveva chiesto com’era andata e lui aveva detto: male, molto male. Si era preso due scapaccioni. Erano della signora Marisa, di casada, che non le dà a nessuno.
“Che figura ci fai fare?”
Cencio aveva già il problema della derisione dei compagni e nessuna comprensione sulla faccia della terra.
Orazio B. ascoltò le avventure della scuola e decise di portare con sé Cencio perché si straviasse un po’, anche se non era il suo compagno preferito, anche se lui manco se l’immaginava quel viaggio.
Certo che a questo mondo c’erano altri scontenti e frustrati come lui. Nessuno li vedeva, nessuno pensava che avessero altri desideri, altre aspirazioni oltre il mangiare, il vestire, il riscaldamento, la difesa dai malanni di stagione e dal morso dei cani! Chi mai pensava se un bambino aveva voglia di stare soltanto con un altro bambino senza altro pensiero che i loro pensieri? Perché un bambino non si può rotolare sull’erba fino a stordirsi guardando il cielo che si capovolge ai suoi ordini? Perché mai esistono le pozzanghere a questo mondo se poi non le puoi attraversare? Orazio B. in attesa di improbabili lieti eventi, ci provvedeva in proprio.
La più grave difficoltà per Orazio era distinguere tra cose buone e cose cattive, per lui era un bisogno impellente, doveva saperlo al più presto. Possibile che tutte le cose che gli piacevano fossero cattive? E quelle cattive-cattive quali erano esattamente rispetto a quelle che buone-cattive? Confusamente, maledettamente confusamente! incominciava a intrufolarsi nella sua testina dolorante un pensiero malsano, formulato male, evanescente, difficile da bloccare, vagolante, ma autentico: la verità è vera a seconda di chi la dice. Gli sembrava molto bislacco, molto terrificante, perché da grande, diventerà pure grande! non gli sarebbe piaciuto per niente essere così vagante, incerto.
Filippo portò a casa uno slittino da neve, acquistato in liquidazione. “Era un’occasione” declamò.
“Guarda cosa ti ho portato” disse raggiante al figlio attendendosi un sorriso largo come un arco di trionfo. Era l’espressione mutuata da un collega che aveva un figlio della stessa età, il quale aveva avuto lo stesso regalo. Ma l’effetto non fu lo stesso. Orazio B. non era mai stato sulla neve e un desiderio folle per quell’aggeggio non l’aveva mai avuto.
“Aah!” mormorò con un filo di voce, sofferente.
“Non ti preoccupare, tesoro! Quando guarirai ti porterò in montagna e ti insegnerò come si usa. Eh, beato te! Ai miei tempi si slittava per i fossi con una slitta formata da alcune assi inchiodate.“
Orazio fu costretto a dire: “Oh, povero babbo!” Filippo fu contento della solidarietà del figlio. Mangiò di gusto quella sera, asparagi di stagione, e quando sua moglie gli disse che il figlio stava guarendo fu decisamente contento.
“Meno male” disse, “non vedo l’ora di portarlo in montagna e insegnargli a sciare”.
“L’anno prossimo ormai, caro” aggiunse Teresa. Ci fu silenzio. “Siamo avanti con la stagione.”
I gomiti appoggiati al tavolo, si teneva la testa e pensava.
“Vuoi vedere che ci porterà a Cortina l’anno prossimo?” mugugnava tra sé e sé la moglie.
Filippo cambiò discorso. Faceva spesso così.
“E’ successo un fatto spiacevole oggi” sbottò. “Due anziani sono stati chiusi in ascensore per un’ora, l’allarme non ha funzionato e ora abbiamo qualche guaio.”
“Oh, povero caro!”
Filippo si riscosse, sospirò, si alzò e sfogliò svogliatamente il giornale.
“Che vita!” sospirò. “Ma non può mica durare sempre così!”
Teresa ai magazzini generali questa frase la sentiva ogni tre minuti e a pronunciarla erano benestanti e poveracci, pensionati e impiegati, casalinghe e parrucchiere tanto è vero che le commesse, uniche abilitate, secondo loro, a pronunciarla per il loro stressante lavoro sulla tastiera dei prezzi, non la dicevano più: la consideravano svalutata.
Una collega anziana, la Zanzibar, era la bocca ufficiale della categoria. Quando le ragazze alla cassa erano sfinite, s’informavano a gran voce:
“Come va, Zanzi?”
“Aramengo” rispondeva lei a chiare lettere per tutte e tutte erano soddisfatte. L’inno era rivolto in parti uguali ai clienti pignoli, ma distratti, che non ricordavano lo scaffale del lievito Bertolini, al caporeparto che non dava ferie, al padrone che passava e diceva invariabilmente le solite cose pensando ad altro.
“Ragazze, mi raccomando!”
“Che cosa?” aveva chiesto una volta sola la Zanzibar, petto in fuori da sembrare la corazzata Potiomkin.
“Tutto.”
“Aram…” La Zanzibar si era accorciata a stento e così non aveva potuto chiedergli come mai non pagava loro le mezz’ore di straordinario giornaliero che, accumulate in settimane e mesi e anni, facevano un bel gruzzoletto.
La Zanzibar era tollerata, era la valvola di sfogo. Il padrone se la cavava con poco, le ragazze non ottenevano niente e avanti così. Poi a casa ognuna si portava il suo magone.
A casa di Orazio B. il magone della madre Teresa si scioglieva con frequenti piagnucolii e crisi isteriche che zittivano tutti, in attesa che passasse l’evento. Ma se questo si prolungava allora Filippo scioglieva il suo magone.
“Con gli altri due soci non è che vada troppo bene, si mettono d’accordo prima loro e io devo sempre tacere e subire.”
“Caro, sei di minoranza.”
Non tollerava simile addebito. Era vero, inconfutabile, ma intollerabile, non sopportava di essere minore. Staccarsi non voleva e non poteva e così macinava amaro e a casa si lagnava.
Orazio B. concluse che se la vita da bambino era dura, da adulto doveva essere ancora peggio. A volte pensava se ne valeva la pena.
Qualche volta si era lamentato proprio perché non aveva potuto farne a meno: stare fermo sempre nella stessa posizione a letto gli procurava intorpidimento degli arti e allora diceva appena ahi, ahi!
“Anche tu, adesso.” Arrivava sottovoce l’eco del commento dalla cucina. Allora zittiva e fingeva di star meglio per non dare ulteriori preoccupazioni.
Riprese a volare via per conto suo, per sollevarsi da tante miserie e fastidi e per stare un po’ in pace.
Capitò una volta che tre scadenze coincisero: sciroppo, pastiglia e iniezione. Quale prima e quale dopo? Teresa doveva andare al lavoro, il bambino ormai si avviava a guarigione, ma la cura doveva essere completata. Che poteva fare? Diede al figliolo lo sciroppo, poi la pastiglia e infine le fece l’ultima iniezione anche per finire la scatole e non buttare via niente.
Orazio B. in casa da solo si addormentò dolcemente e, dopo tanto tempo sognò.
Mentre lui se n’era andato via col sonno, con il televisore acceso, una gragnola di colpi che partivano da sotto il pavimento invase l’appartamento, ma lui non sentiva niente, anzi erano un bell’invito a sognare grandi cose.
La signora dell’appartamento di sotto, dopo una mezz’ora di vani tentativi di picchiare sul suo soffitto per chiedere silenzio rinunciò ripromettendosi di fermare la signora Teresa, che tanto si dà arie da signora! per rimproverarle quella mancanza di creanza, nonostante il regolamento condominiale.
8. capitolo
Sentendo certi discorsi dei suoi genitori, Orazio B. si era messo in testa che, per fare tutto ciò che ci sta intorno, per farlo bene, ci volesse uno stampo.
C’erano le vestaglie a fiori di Teresa che erano stampate e a buon mercato, il frullatore per la maionese era stato stampato da apposite macchine, i giornali e i libri erano stampati, le automobili uscivano da presse e stampi, anche le poltrone erano fabbricate in stampi. E le persone?
Erano tutte uguali. Diciamo quasi, perché si comportavano tutte negli stessi modi, in apparenza. Perché avevano tutte lo stesso atteggiamento di superiorità: non riuscire a capire i piccoli.
Sanno che sono come loro, solo che ci stavano arrivando.
“Sono mai stati piccoli, i grandi?”
Orazio B. aveva le idee confuse su questo, anche se temeva che, no! non erano mai stati alle elementari. O se n’erano scordati. I loro metodi di far stare male i bambini avevano una gamma vastissima di varianti comportamentali, anche perché gli adulti sono intelligenti e diversificano le loro applicazioni. Ormai ne era certo.
Si mise in testa che fosse necessario inventare uno stampo per creare i genitori ideali. Dove? Nel suo laboratorio fumoso tra le nubi, dove andava a volare nel limbo degli uomini in prova.
Sapeva già come nascono i bambini, perché ormai lo sanno tutti. Non gli risultava che ci fosse un metodo o una scuola o uno stampo, appunto, che aiutasse a diventare adulti, nel senso di genitori. “Ovviamente” si precisò.
Il problema lo preoccupava da tutti i punti di vista.
“Supponiamo che mi capiti di diventare padre.”
Poteva anche succedere un giorno. Cosa avrebbe fatto? Non certo tutto quello che vedeva fare, e subiva. Il contrario? E che cos’è il contrario? A volte si chiedeva se ne valeva la pena. E non era una domanda da poco, che tra l’altro non potevi rivolgere a nessuno. A nessuno almeno che fosse adulto. Ne parlò ad Aurelio Spiazzi che, tra i ragazzi, era sempre una autorità, grande senza essere grande.
“Tu che ne pensi?”
“Che ne penso, a proposito di che?”
“Di tutto.”
“Di tutto, quanto?”
“Diciamo di tutto quanto.”
“E’ un bel problema.”
Orazio B. capì che non era solo a pensare a certi pensieri. Certamente anche Aurelio aveva le sue grane a proposito di questo mondo. Forse sognava anche lui, ma non l’avrebbe saputo mai.
“Fammi sapere” disse Orazio e Aurelio confermò, quindi c’era qualcosa.
“Ti farò sapere.”
C’erano dei nonni in giro e ogni tanto venivano a far visita. Quand’era più piccolo erano lì tutti i giorni a fare da baby sitter. “Capirai” diceva Teresa a sua madre (il padre era morto da un pezzo e non lo nominavano mai). Dimenticato. “Capirai, con il bisogno che abbiamo di essere liberi e di andare a lavorare.”
La madre di Teresa aveva capito ed era venuta ad aiutare, a lavargli il culetto, a cambiargli il pannolino, a vegliarlo, a ninnannarlo a tutte le ore anche quando voleva stare sveglio e tentare di soffiare nel piffero che gli avevano regalato. Aveva dieci pifferi regalati, ma uno solo era il preferito.
Nonna Esterina era un gomitolo buffo di ciccia e di allegria, rideva sempre e lacrimava insieme. Quando piangeva e quando rideva piangeva lo stesso, e capitava spesso. Persona molto emotiva, quasi si scusava con altri ospiti. Orazio avrebbe voluto capire come mai.
“Perché ridi se piangi?” Orazio fu più volte, quand’erano soli, sul punto di fare la domanda a nonna Esterina. Lei vedeva il bimbo intento a fissarla con sguardo intenso, con un po’ di cipiglio, oh, come la scrutava! Diceva che era tutto amore per lei. Le si ingrossavano lo vene del collo, diventava tutta rossa, a rischio.
Quando diventerà più grande anche lui, perché è inevitabile, prevede in quinta, e apprenderà certi termini e certi vocaboli brevi ed esatti per descrivere situazioni precise, saprà e dirà che la nonna gli rompeva.
“Oh, caro caro caro!” e non finiva mai di pizzicargli le guancine fino a farle diventare rosse e a fargli male. Doveva ridere e invece gli venivano le lacrime, poi sorrideva perché vedeva che tutti sorridevano.
“Tutto sua nonna!” Esterina si commuoveva fino alle lacrime.
Nonno Alfredo, padre di Filippo, era vedovo pure lui. Caso raro nel suo genere, perché gli uomini muoiono prima, a sentire anche le sue compagne a scuola che se ne vantano già. Veniva a prenderlo per portarlo a casa sua in certi giorni. Ora che è cresciutello, il nonno respira, dice, e Orazio non sa perché.
“Come va il respiro, nonno?” gli chiede quando viene a casa loro.
Il padre gli dà un’occhiataccia e lui capisce che non deve insistere, ma la sua curiosità cresce, e quando è solo gli chiede informazioni sul suo respiro.
“Era in un certo senso.”
“In quale senso?”
“Nel senso che quand’eri piccolo e ti guardavo...”
“Perché mi guardavi?”
“Intendo dire quando ti facevo da nonno, come l’altra tua nonna.”
“Ho capito, restavo con la cacca addosso per la puzza.”
“Non esattamente, cioè avevo meno tempo libero.”
“Cosa fai nel tempo libero?” Poi arrivava qualcuno dei genitori a dire che era impertinente.
“Ma ti sembrano domande da fare?”
A Orazio pareva proprio di sì, ma si vede che era proprio di no. Poi mangiò la foglia. Lentamente. E non gli interessò più un nonno così.
“Tatiana non è una nonna.”
“Che cos’è?”
“Come che cos’è?”
“Già che cos’è?”
Era quello uno dei momenti in cui Filippo Braschi temeva di avere un figliolo scemo. Anzi no, dispettoso.
“Sei dispettoso” gli diceva piegando gli angoli della bocca per rendere ancora più severo e truce il suo giudizio.
Orazio B. si convinse che doveva essere vero. Anche a scuola le maestre dicevano pressappoco le stesse cose, dopo avere intimato invano la proibizione di qualcosa. “Ah ma allora siete dispettosi! Lo fate apposta.” Molti ridevano. Anche lui prese a ridere. Ma non capiva cosa ci fosse da ridere.
Da un po’ di tempo nonno Alfredo veniva a trovarli con una signora molto abbondante di corporatura, il petto a tavola doveva appoggiarlo e poi metteva i gomiti. Nonno Alfredo se la guardava continuamente e non sentiva neanche se gli dicevano parole del tipo: “Prendete qualcosa?”
A Teresa, la signora moldava dava fastidio, perché si intrometteva in tutto e dava consigli su tutto, comprese le ricette di cucina appena imparate. Raccontava di quanto dura era stata la vita sovietica e Orazio non capiva come avesse fatto, nonostante tutto, ad avere un sedere e un petto di quelle dimensioni. Nonno Alfredo non vedeva altro.
“Capirai” aveva detto al figlio. Filippo aveva assentito e aveva detto “capisco”.
Orazio B era pure lui di famiglia e non capiva del tutto, eppure era nel suo diritto capire. Del nonno e della nonna morti nessuno parlava più in quella casa, erano sepolti in qualche parte. Ai primi di novembre avevano i loro crisantemi, niente da dire, per carità! Marcivano da soli, entrambi. Orazio avrebbe voluto vedere dove erano andati a finire quei nonni così sorridenti nelle fotografie e così dimenticati, tranne a qualche pranzo con altri parenti o ai funerali a cui non si poteva mancare e la lacrima era già in preventivo.
In quelle occasioni, in casa si parlava molto bene dei morti. Senza precisare perché. Niente oltre: brava persona, buon uomo, buona donna.
“A proposito di cosa?” chiedeva il bambino. Nessuno gli rispondeva.
“Che domande!” gli sussurrò un giorno Teresa. Il padre non gli badava. ”Ma come viene su questo ragazzo?”
“Orazio ci vuoi bene?” chiese di brutto Filippo.
“Sì” disse. “E’ ovvio.” Era una parola sentita di recente da Aurelio e gli parve una bella parola, perché troncava i discorsi.
“E non ti sembra ovvio che anch’io voglia bene ai miei genitori?”
Fece di sì con la testa per dire “è ovvio”, ma non lo disse tanto gli sembrava ovvio.
“E allora perché tormenti il nonno con domande indiscrete?”
“A parte che non so cosa siano le domande indiscrete.” Era questa la domanda-risposta che avrebbe voluto fare, ma avrebbe chiesto tutto ad Aurelio che non si offende, e, a parte qualche botta e qualche pugno obbligatorio di gioco, è quasi meglio.
Insomma andava così la vita di Orazio B., con alti e bassi, con più bassi che alti. Poi tutto andò ancora più giù.
Teresa si dichiarò incinta. Una sera, erano in camera loro. Orazio B. sentì tutto, anche il silenzio di suo padre, che doveva essere proprio giù ad una notizia del genere. L’aveva più volte annunciato a tavola, parlando delle coppie di conoscenti con due figli oppure anche tre, ma grandi ormai. Molto perentorio. “Se è per me, no.” “Figurati, se è per me.”
Poi era stata raggiunta l’armonia perfetta con il tentativo bislacco di coinvolgimento nella loro teoria anche del figliolo, elevato a giudice e socio in un contenzioso di cui non immaginava l’esistenza, ma di cui, a quel punto, da tempo temeva gli eventuali effetti.
“Orazio ci basta e avanza, vero Orazio?” gli avevano detto una domenica a pranzo in occasione di un compleanno. Insomma si festeggiava qualcosa.
“Che faccio?” si chiese guardando la sua cameretta già stretta. Perché il nascituro, o nascitura, si sarebbe sistemato da lui. Chi glielo aveva chiesto? Da chi è dipeso l’evento, visto che nessuno l’aveva cercato.
“Accidenti, è un bel guaio!” sospirò. Cambiava il suo destino, a sua insaputa, senza che ne fosse stato interpellato e senza che ci fosse un responsabile, almeno sapendo le intenzioni dei genitori di cui era stato testimone tirato in causa. Chissà perché!
Chi nasceva era un avanzo, anzi “un ulteriore”. Ma Orazio temette che se un avanzo perfetto ci doveva essere, il rischio era tutto nei suoi confronti, tutto per lui. Ecco perché si sentiva ancor più giù. Era così basito quella sera che non gli riuscì facile dormire, e quindi non gli riuscì di evadere nei sogni. Alla fine sognò ad occhi aperti, che non è la stessa cosa. E faticoso tra l’altro. Si stava sempre più delineando in lui la necessità di trovare uno spazio, una dimensione, un significato a tante cose. Gli sarebbe piaciuto tanto sapere se c’erano altri nelle sue condizioni di confusione, di smarrimento, se c’era qualcuno a questo mondo in grado di dargli una mano, in cui riporre una fiducia gratuita, senza rischio di rimproveri, di minacce, di promesse da fare.
“Povero picchio” sospirò. “Tu come hai fatto?” Volle pensare di lui tutto il bene possibile e lo cercò, lo sognò, finalmente. Aveva la testa dalla parte dei piedi e quando andarono a svegliarlo si preoccuparono molto per il suo modo di dormire.
Filippo andò a lavorare con i calzini a rovescio. Passarono settimane prima che lo informassero ufficialmente e quando prese atto non mosse ciglio. Era ovvio. Di cosa doveva stupirsi, mica era sciocco, Orazio B.
“L’insensibilità di questo ragazzo è un fatto consolidato” sbottò Filippo parlando in termini professionali e contrattuali, secchi, precisi.
“Non ti sembra di esagerare? Vieni Orazio che parliamo un po’.”
Squillò il telefono. Era mamma Esterina. Esuberante, beata.
“Ciao, cara, come stai?”
“Come vuoi che stia?”
Orazio aguzzò la sua attenzione, ma la conversazione, che pure durò a lungo… sui più svariati temi … sui vicini… sui lontani . sui dolori…sui futuri pannolini, sul parto gemellare di una cugina… oh!per carità… la parentela?… non si sa mai…, non chiarì per niente lo stato di salute della mamma e questo lo lasciò a disagio.
“Povera mamma” si disse , ma non glielo disse, temeva di impensierirla.
Sentiva che sua madre aveva iniziato un altro percorso e che questo si scostava irrimediabilmente dal suo. Nessuno glielo diceva, nessuno lo salvaguardava, nessuno gli diceva quello che voleva sentirsi dire. “Tuo fratello?” Sarà tuo fratello e non un concorrente, non ti scalzerà da questa casa, non ci sarà metà di tutto per te, ci sarà tutto per tutti e due.
Intuiva invece che doveva da subito organizzarsi da solo. Provò una sensazione dolorosissima, non spartibile con nessuno. Per poco non pianse.
Lentamente si sentì risucchiare nell’orbita di un ciclone infernale. Parlano spesso in tv di cicloni chiamandoli con nomi di persone. Sono portatori di tragedie, a spirale, si sviluppano nei deserti, sugli oceani, dove vogliono. La prima tragedia di cui era stato spettatore l’aveva sentita chiamare Buck. Il termine Buck cominciò a rappresentare un insieme di cose brutte… i pioppi abbattuti, la fuga del picchio, i lamenti della donna scarmigliata, il silenzio del cane Buck, lui, più Buck di tutti. Ed ora la sua solitudine. Incompresa. Cominciò a corrugare la fronte e capì che non avrebbe smesso più. Un vortice di vento già lo lambiva.
9. capitolo
Ebbe anche lui il suo cellulare, usato.
Venne nonno Alfredo e gli disse una cosa che non si fa più, neppure con chi va all’asilo.
“Mettimi una mano in tasca.”
Orazio capì la pantomima, ma non era più in età da pantomime e andò fuori. Quando il nonno e la moldava se ne furono andati, rientrò e trovò il cellulare sulla mensola vicino al telecomando tv.
“Potevi esser gentile con il nonno” disse Filippo. “Hai visto che bel regalo? Che non so neanche se sia giusto.”
Era giusto sì! A scuola ce l’avevano tutti. Lo desiderava, ma non a quel modo.
“Fai anche lo schizzinoso adesso? Tuo nonno è stato generoso con te.”
Avevano da poco studiato la storia di Menenio Agrippa e dei patrizi, nobili di Roma, che, mentre davano, in realtà toglievano ai plebei, al popolo.
“Noi siamo patrizi o plebei?” chiese. Era importante per lui sapere su quale gradino della scala sociale si collocava la sua famiglia. Gli sarebbe servito anche per collocarsi meglio tra i suoi compagni di scuola. Siccome nessuno gli diede retta concluse che loro erano plebei, ubbidienti e servizievoli. Quella mancata risposta lo condizionò per tutta la vita, perché si sentì sempre inferiore senza motivo. Fece una prova di appello.
“Il nonno è ricco?”
Non disse patrizio perché gli sembrava anacronistico, ma il significato era lo stesso. Sguardo di commiserazione del padre.
“Chiedilo alla moldava che ha buon naso” gli rispose irritata Teresa.
“Lo chiederò.”
“Non fare il cretino” intervenne Filippo. La testa di Orazio sballottava da un lato all’altro, da un filo di speranza per capire a una botta in testa, perché voleva capire. Probabilmente c’era qualcosa nel rapporto nuovo del nonno con la straniera che non piaceva alla mamma. Neanche a lui piaceva quella nonna di rimessa che il “non chiamarla nonna!” di Teresa codificò a livello di definitiva repulsione nella sua mente. Ma perché?
Decise di non fare lo schizzinoso, impugnò il cellulare e lo portò con sé per far sapere in ogni momento dov’era. Suonava anche durante le lezioni; suonavano molti altri.
La maestra requisì tutti i cellulari e li consegnò al termine delle lezioni. Alcune mamme si infuriarono.
“Con i sacrifici che abbiamo fatto!” si lagnarono.
“Ma cosa volete sapere? Se i figli sono a scuola? E dove volete che siano? Volete sapere che tempo fa in paese? Aprite la finestra.”
Ne è nata una disputa che è finita in direzione didattica, perché ora le maestre non possono più dire a un bambino testone “sei un testone”, a un bambino che stenta a scrivere un pensiero con soggetto, predicato e complemento “non ti sei spiegato bene”. Oh, no! Ne nasce una bagarre che non finisce più. La maestra Lanza, di altri tempi, non le ha mai mandate a dire, è molto esplicita, però è stata umiliata in un consiglio di classe ed ora non sembra più lei.
“Si aggiorni” le urlò la signora Letizia, moglie di un sindacalista.
La maestra Mori è più accondiscendente, più prudente, cerca di ammodernarsi, ma fa tanta fatica. I ragazzini delle quinte intuiscono che la protezione materna funziona e quindi alzano il loro livello di indisciplina, vedono che nessuno interviene duro, così tengono la loro linea offensiva molto alta rispetto ai tempi lontani della prima e della seconda.
Orazio B. mostra il cellulare a Aurelio. Ci penserà lui a istruirlo, usandolo a piacimento. Filippo se ne accorge. “Ma quanto spendi?”
Ci sono strani movimenti durante la ricreazione. La maestra Mori vede e osserva. Aurelio gira, tocca alcuni compagni che stanno facendo qualcos’altro, quelli piano piano mollano e si avviano al salice che è piangente molto e copre bene chi si infratta sotto. La maestra vede i gruppetti che si formano, si sa, ce ne sono pure altri. A lei interessa chi prende l’iniziativa, chi obbedisce, chi rifiuta, chi vorrebbe.
Aurelio è uno che organizza. Orazio è uno che vorrebbe partecipare, a volte succede, sempre giochi innocui e chiassosi. Eppure anche lei ignora la stanza dell’urlo.
Orazio non viene convocato e non capisce perché. Si alza e va verso il salice con il cellulare in mano, lo porge ad Aurelio.
“No, Orazio B, questa volta no! E’ una cosa seria, un po’ sporca, da grandi. Andiamo a spiare i bagni.”
Orazio B. sta male, non solo per l’esclusione. Ma, allora le altre volte non erano cose serie? Per lui lo erano. Preferisce non rompere i ponti.
“Se è così allora...” Subito ci ripensa. “Seria in che senso?”
“Ti spiegherò.”
Orazio B. sa che è in credito di una spiegazione e per questa volta va bene lo stesso.
Però quel pomeriggio esce ugualmente e segue la banda di Aurelio. Vanno in cinque di quinta e uno spilungone di contrada, in fila indiana, guardando in giro, ma si vede che stanno insieme e che architettano qualcosa. Si fermano al tomaificio dove le operaie, alcune di colore, ritagliano e incollano tomaie. Li vede che si arrampicano su una grondaia scavalcando una siepe di confine e spiano gli spogliatoi con i bagni.
Orazio si rende sempre più conto che non ce la farà mai ad imparare tutte le cose che ci sono da imparare a questo mondo, soprattutto se non gli danno una mano. Capisce che la scuola delle tabelline e dei punti e virgola non basta, ci sono molte altre cose da conoscere, ma non sa neppure quali e nessuno gli crea l’appetito, eppure ha tanta fame di sapere.
L’ispezione non deve avere avuto i frutti sperati, se ne vanno presto. Orazio aspetta, poi raggiunge la grondaia, si arrampica e guarda.
“Beh, i cessi sono veramente indecenti” conviene pure lui. “Sono sporchi.” Il giorno dopo, strizzando l’occhio, lo dice ad Aurelio aspettandosi una pacca da collega.
“Ti devo dire una cosa, Orazio B.”
“Dimmi, Aurelio.”
“Hai troppo poca testa al di sopra la cintura, sei ancora troppo piccolo, sei pericoloso, non puoi stare con i grandi.”
Orazio B. si sentì troncato netto anche dal gruppo che si riuniva alla tana e piombò in una vera disperazione. Si mise a boccheggiare, come un pesce tolto dall’acqua…perché-perché-perché…
Quel pomeriggio a casa si tolse la cintura e se la allacciò all’altezza della bocca. Quando suo padre lo vide gli disse, ovviamente, “che fai?”.
Orazio gli si avvicinò e le loro cinture erano pressappoco alla stessa altezza.
“E’ dura vivere al di sotto della cintura.”
Suo padre non capì, ne cercò di capire. Cominciava a vergognarsi ad avere un figliolo così strano e ritardato.
Telefona nonna Esterina. “Come stai cara? “Come vuoi che stia?” “Stai male, cara?” “Come posso stare bene?” “Vuoi che venga a trovarti?” “Come posso dirti di no?” “Vengo subito?”
“Vedi tu.”
Si vede che la nonna vede. Capita dopo mezz’ora.
“Oh, cara come stai?”
“Come vuoi che stia.”
Teresa piange. “Cosa ti senti, cara?” “Cosa vuoi che mi senta? Mi sento come una donna incinta.”
Come si sentirà una donna incinta? Orazio B. non lo saprà mai e gli dispiace. Preferisce essere maschio, se è per questo, però non sopporta che gli sia preclusa la conoscenza di qualcosa.
Le sofferenze di una donna che partorisce, Orazio B. le ha apprese dai filmetti che si intrufolano tra un Braccio di ferro e uno Speedy Gonzalez. Ti fanno vedere donne che urlano da tirare giù gli astri. In casa nessuno mai ci ha fatto caso, ed è davvero strana l’indifferenza per un evento così terrificante. Poi pensa ai miliardi di esseri viventi che sono nati, a tutte le donne che partoriscono nel mondo in quel momento e non sente certo i cieli tremare. “C’è qualcosa di poco chiaro.”
Fa l’elenco casalingo delle persone presso cui può accedere con una domanda indiscreta, ma che lui chiama curiosa. Sceglie la nonna. Parte da lontano, discreto.
“Nonna, hai sofferto quando hai partorito la mamma?”
Esterina non ricorda neppure più, però resta interdetta.
“Non preoccuparti, caro.”
Orazio B. avverte quanto Aurelio sia grande. Gli ha detto che ha la testa sotto la cintura? E’ vero, verissimo. Tutti lo trattano per tale.
“Non mi preoccupo per te, nonna.”
Esterina gli accarezza la testa. “Vai a giocare, caro.”
Si sente tagliato fuori, preso in giro. A giocare dove, con chi?
Vuole cercare Aurelio, vuole tornare alla tana dell’urlo.
Ce la fa. Un pomeriggio ci vanno e Orazio è della banda. Così, naturalmente, senza spiegazioni.
Orazio B. capisce che un giorno, in quinta, potrà andare ad ispezionare le latrine dell’opificio con gli altri, ma per ora deve accontentarsi, e non è poco. Mica tutti vanno a battere bidoni e tamburi sottoterra.
Torna a casa sfigurato dalla fatica fatta, dagli urli lanciati, dalla gioia esplosa, dalla fame che gli è venuta, dalla voglia di abbracciare tutti che gli è scoppiata. Quel giorno si è pasciuto di cose che a un ragazzo della sua età fanno crescere i peli dovunque.
Teresa lo vede rientrare sudato, arrossato, invasato.
“Santo cielo, cosa ti è successo?”
“Niente, mamma.” Voleva dire altre parole. “Tutto, mamma.” E sarebbe stato stupendo, ma allora non lo avrebbero lasciato più uscire. “Niente, mamma.” E nessuno chiese di sapere cosa significava quel niente in quelle condizioni. Orazio, se era per lui, l’avrebbe chiesto, perché sapeva per esperienza che anche un niente significa qualcosa.
“Orazio, mi porti un bicchiere d’acqua, per favore.”
“Sì, mamma.”
“Vedi, Orazio, come mi sto ingrossando, come mi sto riducendo?”
Considerò la contraddizione di termini, compatibile con lo stato di malessere della mamma e non replicò. Orazio sa che la maternità è un fenomeno naturale, comune a quasi tutte le donne, da milioni di anni; per lo meno degli esseri viventi; per lo meno dei mammiferi; l’ha scoperto sulla enciclopedia del conoscere e del sapere; sta zitto e aspetta.
“Starai buono, vero, Orazio? Non mi darai dispiaceri, vero? Mi aiuterai, vero?”
Voleva dirle: fammi un esempio di dispiacere grosso che, ti giuro, non te lo faccio. Attese. Silenzio. Poi si decise.
“Qual è un dispiacere che non vuoi che ti dia mai mai mai?”
“Ti prego Orazio, perché mi fai simili domande?”
“Volevo aiutarti, mamma. Accontentarti, mamma. Dirti che ti voglio bene, mamma.” Queste parole gli scorrono sulla fronte, come scorrono sul video al termine di un programma, le sente scorrere e sparire. Vede la sua vita in fotogrammi animati, flash back compresi, è un film a puntate con pause brevi, il sonno. Non gli piace il film. Resta confuso. Teresa se lo stringe al seno.
“Non temere, caro.”
Ora sa che deve temere.
Orazio si trovò nella condizione di quel mendicante che, mentre implorava un pezzo di pane, si sentì implorare. “Hai un pezzo di pane?”
Certamente una richiesta simile equivale, in ogni caso, a una promozione, è un riconoscimento di importanza, una classificazione di livello superiore al richiedente, ma il suo appetito insoddisfatto, il suo bisogno di emancipazione restano immutati.
10. capitolo
Il popolo che vive guardando il mondo con gli occhi a livello di cintura è immenso. Cominciò a sognare ad occhi aperti, ad immaginare. Pensò di porre un po’ di ordine a questo mondo, a scoprire il significato della parola giustizia.
Per lui significava avere tutti le medesime opportunità di partenza. Pronti? Via! Poi ognuno corre come può, va dove vuole, con chi gli piace. Gli piace tanto ottenere una risposta ad una domanda. Spesso non succede. Spesso ottiene risposte ad appetiti intellettuali ignoti, non aveva quella sete di sapere. Perché non gli hanno fatto venire prima la sete, la voglia? E’ già così difficile e impegnativo farsi venire la curiosità che sprecarla è un delitto, soprattutto perché non ne assapori la conquista..
Si trasferì ad Ohperbac. Là tutti i bambini erano alti come i bambini. Tutti gli adulti erano alti come i bambini. Quando si parlavano si guardavano negli occhi e questo è un grande vantaggio, perché non ci si nasconde niente. Gi adulti avevano la cintura alla solita altezza e, appena sopra, la bocca e gli occhi, il resto del corpo era insaccato dentro i pantaloni.
“Con un piccolo sforzo si può fare.”
I bambini, non portavano cinture, ma bretelle elastiche. I loro occhi erano al solito posto, ma all’altezza della cintura dei grandi. Le donne che calzavano i pantaloni erano pari agli uomini, quelle che indossavano la gonna avevano la martingala sulle spalle e gli occhi appena sopra. Facevano un figurone con quella scollatura.
La maestra Lanza sul portone della scuola chiamava a gran voce, ma con una educazione, un pudore, una severa dolcezza, veramente lodevoli, le sue labbra insolitamente a cuore si muovevano appena sopra la cinturina del girovita. Certamente i corsi di aggiornamento, di cui spesso si lamentavano gli insegnanti, stavano dando i loro frutti. Evidentemente.
“Su, su bambini. Attenti al gradino, mi raccomando. Oh che bel nastrino, Edvige! Oh che occhioni stupendi hai questa mattina, Elena!”
Toccò a lui.
“Come ti vedo felice oggi, Orazio B. Quali novità hai da raccontarmi?”
Anche lei, come tutti i suoi allievi, aveva sopra la testa gli stessi miliardi di metri cubi di aria e miscugli vari, i suoi orizzonti si erano abbassati, ma erano quelli di tutti; quando parlava aveva un dialogo perfetto, perché avveniva tra simili, tra soggetti che si trovavano nella stessa situazione, con il vantaggio intatto della sua scienza, della sua psicologia, della sua esperienza, delle sue conoscenze pedagogiche, con la sua attitudine all’insegnamento perfettamente applicata.
“In che senso, signora maestra?”
Orazio B. sapeva più di tutti cosa significasse vivere in un paese di nome Ohperbac, si sentiva a suo agio e molto contento, però sapeva che la parola felicità era molto molto di più. Vuoi vedere che era felice e non lo sapeva e si perdeva un’occasione? Chiese subito lumi e ottenne subito risposta.
“Nel senso che i tuoi occhi parlano, guardano avanti. Cosa vedi Orazio B.?
“Vedo chiaro, signora maestra.”
Quel giorno, la ruvida maestra Lanza, cambiò programma, lasciò stare la lezione sulle equivalenze tra quintali e chilogrammi e parlò fuori programma della quiete dopo la tempesta, della gallinella che esce a razzolare in strada senza paura, di un passero solitario che trovava compagnia.
“Ecco!” esclamò Orazio.
La maestra si girò e guardò intensamente Orazio B. e i suoi compagni e vide che non avevano paura, sapevano che in caso di bisogno avrebbero trovato accoglienza, soddisfazione, spiegazione celere, pazienza.
Certo, la maestra Lanza aveva anche lei i suoi problemi. Ironia della sorte erano i calcoli. Al fegato, s’intende. Se li curava, ma aveva grossi fastidi e mica sempre era disposta a sorridere a richiesta. Aveva il fastidio di dover cambiare casa e mica è facile trovarne una su misura. Aveva poi il fastidio di essere sola e questo non le piaceva più, non si era sposata e questa scelta la considerava con rammarico. Guardare un temporale che scaraventa la pioggia contro i doppi vetri può spaventare se sei solo, ma se si è in due tre si guarda meglio, non spaventa affatto, anzi può essere eccitante, ci si rincuora a guardare l’orrido in compagnia. Perché anche alle maestre può succedere di avere dei bisogni, delle paure, dei magoni.
Orazio B. immaginò che dovesse essere così, quindi si rincuorò assai nel pensare che anche la maestra Lanza dovesse avere le sue grane, le sue emarginazioni e che pur tuttavia avesse gli occhi negli occhi alla pari, sereni.
I dispiaceri, la maestra Lanza, certamente li lasciava sulla soglia della scuola e se li riprendeva all’uscita. Come tutti, lui compreso. Tranne che a Ohperbac.
Durante la ricreazione la maestra Mori, dopo aver tentato alcuni salti alla corda con le sue allieve, si decise a farla girare e basta, invitando le bambine a entrare nel circolo altalenante senza paura. Anche Orazio B. si lanciò nella mischia e così capì il gusto che provavano le compagne in quel gioco che non lo attraeva per niente, ma c’era e sentiva il bisogno di conoscere quel gusto. Il gusto non gli piacque e gli bastò. Chissà! se non avesse provato, il rimpianto gli sarebbe rimasto per sempre.
Era un sabato e per la prima volta, all’uscita, trovò suo padre ad attenderlo. Mai successo! Tante volte aveva desiderato camminare con suo padre verso casa, oberato di libri, di quaderni corretti, di nozioni apprese, di prodigiosi squarci di curiosità apertisi all’improvviso, e scambiare delle idee con suo padre. Ma Filippo, che lavorava sodo tutta la dura settimana, al sabato aveva il tennis. Doveva pure ricrearsi, distrarsi, ricaricarsi, per sé e per la famiglia, quindi anche per Orazio B.
Orazio sapeva che suo padre al sabato mattina andava a ricaricarsi anche per lui. Non capiva come esattamente il fatto potesse concretizzarsi, qualche beneficio doveva pure giungere fino a lui. Ma, visto che tutti ne convenivano, si convinse. Il padre tornava a casa più stanco ancora, ancor più imbufalito, perché vinceva raramente e questo non gli piaceva affatto, perché gli amici lo deridevano e lui non gradiva. Si lavava, mangiava e andava a dormire, per ricaricarsi per la settimana successiva. C’è sempre qualcosa che viene dopo.
A Orazio B. piaceva soprattutto ciò che viene prima. Un gelato alla panna, ad esempio, gli piaceva gustarselo prima ancora di entrare in gelateria, gli piaceva cercarlo nei vari vassoi della vetrina, ne calcolava le cucchiaiate in una porzione da due euro e cinquanta, poi succhiava, ciucciava, sorseggiava come se fosse stato bollente, poi leccava il cono prima di buttarlo. Andava a finire che rosicchiava e si mangiava anche il cono.
“Ma cosa fai Orazio? Guarda che camicetta.”
Certo mangiare un gelato per strada camminando può succedere che qualche goccia coli dalla bocca. “Non è educato.” Ma allora non bisognerebbe mangiare il gelato per strada. Anzi, se non mangi il gelato non succede affatto.
“Ma santo cielo, Orazio! Cosa fai? Mangi il cono adesso? Chi vedi fare una cosa simile?”
“Tutti.” Una volta Orazio spazientito la disse tutta in una parola.
“Ma santo cielo, cosa vi insegnano a scuola? E la creanza? Non si insegna più la creanza adesso? Dicci qualcosa, Orazio, andiamo!”
Il padre si spazientiva. Era già spazientito di suo, con quel duro lavoro del su e giù per i cantieri, che un po’ di tranquillità a fine settimana aveva pure il diritto di godersela.
“Come sono nato io?”
Filippo che si stava leccando il lato gocciolante del suo gelato, diede in uno sbuffo non previsto e si macchiò di brutto la camicia di un color rosa carico, di moda, in cui la fragola si annegò e quasi sparì.
“Cosa mi fai fare?” Allungò il passo, Orazio, quel tanto che gli permise di sfuggire alla mano allungata di suo padre che cercava la sua nuca: ma era proprio lì, nel cervelletto, che si raggrumava tutta la sua sete insoddisfatta di sapere, almeno il necessario.
Avrebbe chiarito tutto con Aurelio e gli altri di quinta, magari in seguito, in qualche modo.
Sentì suo padre borbottare a sua madre.
“Ma ti sembra il momento di fare certe domande?” Dimenava la testa sempre più spesso suo padre, quando parlava di lui. Già immaginava che sarebbe diventato un ventilatore alla nascita del fratellino. E se fossero stati due gemelli? Pensò a suo padre impietrito, perché i figli, vedeva, davano solo grattacapi.
Dio mio! Pensò a una disgrazia. Invece era una grazia. Suo padre era venuto a riceverlo a scuola per accompagnarlo a casa. A forza di desiderarle, le cose alla fine si avverano. Per forza, altrimenti uno scoppia a forza di desiderare.
Incredibile! Suo padre non gli fa la domanda idiota che tutti i genitori fanno ai figlioli convinti di farli contenti a raccontare. I bambini hanno giudizio e fanno contenti i genitori. Ve l’immaginate Filippo che rientrato a casa racconta per filo e per segno tutte le grane della giornata, gli sconti subiti, le fregature appioppate, le lamentele dei clienti per i ritardi, e le rotture, oh le rotture! o Teresa che si mette a sgranare tutte le giaculatorie delle massaie tuttora ingarbugliate con la nuova valuta, che credono di avere fatto un affare per avere acquistato un chilo di pompelmi a un euro e cinquanta e alla cassa scoprono che si stratta di quasi tre mila lire? Vorrebbero tornare indietro a depositare il tolto male, ma c’è la coda che preme e un’altra massaia che avrà lo stesso problema con i formaggi. No, non è immaginabile una cosa del genere. Eppure, a Orazio B. viene chiesto proprio questo.
Ma a Ohperbac questo non succede. Suo padre si affianca a lui, non lo prende per mano, perché è un ometto e sa difendersi per quello che basta ad attraversare la strada.
“Andiamo” gli dice. Che gran bella parola! Orazio B. non va da solo, suo padre non gli dice: vieni! Gli dice: andiamo! Si guardano negli occhi, alla stessa altezza, si capiscono, vanno insieme.
Orazio vede che suo padre ha una cintura nuova, lo scopre perché il naso di Filippo si appoggia sopra la fibbia luccicante Fa un complimento a suo padre che apprezza. Cose mai successe prima. Camminano a balzelloni, a saltelli, parlottano, congiurano, confabulano.
“Dammi i tuoi libri, tieniti i tuoi pensieri” gli dice suo padre e, alleggerendogli le spalle, si infila la cartella a tracolla come suo figlio. Suo figlio si sente come suo padre. Lo sta iniziando bene alla vita.
“Lo sai cos’è una radice quadrata?”
“Eh, è passato tanto tempo!” mente suo padre.
“Non ti preoccupare, te la spiegherò non appena l’avrò capita, ci sono quasi.”
“Formidabile!” urla suo padre.
Orazio B. si sente una carica addosso incredibile, sarebbe pronto ad affrontare sul posto lo scoglio della radice quadrata per offrire a suo padre un prodotto personale finito e confezionato. Anche lui assimilava il linguaggio di casa, che, dopo tutto, non guasta ed è accessibile.
Entrati in casa, Teresa se li appoggiò sulla pancia uno di qua e uno di là.
Ma casa sua è appena fuori Ohperbac, di poco, ma fuori. Rientrato a casa, quel giorno, trovò la mamma con i soliti affanni, il padre con i soliti dispiaceri, sudato e ingrugnito per gli sfottò dopo la solita partita persa. Lui mangiò con il solito magone, senza dire una parola. Nessuno la disse a lui.
11. capitolo
Scaturire i gambari? Andiamo a scaturire i gambari!
Filippo lesse il depliant che annunciava l’evento culturale e si entusiasmò. Era uno dei tanti, promosso da uno degli enti culturali comunali, di volontariato, sportivi che sgomitavano per primeggiare, scavalcarsi facendo cose egregie e anche no.
“Andiamo, Teresa? Ci divertiremo.” Orazio fu costretto.
Una domenica pomeriggio, in una delle tante feste estive lungo il Naviglio, vennero dei musici veneziani a suonare e a cantare villotte e canzoni da battello. Delizioso revival del tardo settecento, quando, nonostante la declinante repubblica, i veneziani scendevano in campagna a recitare e ad ascoltare placida e dolce musica. Il teatro era un delizioso brolo di storica villa veneta, a due passi dall’acqua, pavoni in libertà che facevano la ruota, profumi di fiordalisi in fiore, grappoli violetti e rosa di glicini appena esplosi, timide serenelle frementi al venticello fresco che portava i riverberi e i silenzi dei campi intorno. Insomma, un gaudio dei sensi! Molta gente in attesa bisbigliava gli ultimi bisbigli, già ben disposta a zittire alla prima nota. Zittì. Il presentatore, pure suonatore di chitarra elettrica, illustrò il brano, poi attaccò. La soprano prese a gorgheggiare, a sussurrare con sguardi e movenze che simulavano l’onda scossa dalla prua della barca che scivolava sull’acqua come una carezza, mentre i cavalieri e le dame si pascevano delle dolcezze del mite, verde paesaggio o recitavano versi di Metastasio o lanciavano sguardi, ammiccamenti e motti con doppi sensi. Le musiche da battello, frizzanti eppure melanconiche, scorrevoli erano fornite anche di parole, sussurrate, indovinate, sospirate, qualcuna chiarissima, qualche altra curiosa e allettante per la sua velata originalità
La soprano invitò il suo ipotetico interlocutore a svegliarsi, a corteggiarla, ad essere gentile con lei, lo disse con il linguaggio semplice e chiaro dei barcaroli della Brenta. Lo invita a scaturirse, a svegliarsi, a non essere addormentato, a indietreggiare come i gamberi, a prendere l’iniziativa.
Orazio B. sente la bella musica, saltellante, ondeggiante, sente pizzicare le corde, ticchettare le note, come colpetti che bussano per risvegliare senza infastidire, ma sente anche la parola. Gli preme sapere cosa significa. Lui non va per acqua, non frequenta ancora tutti gli ambienti e così si chiede. Teme di non capire oltre.
“Proprio adesso?” gli bisbiglia suo padre. Suo padre ha ragione, ma un bisogno è un bisogno e va soddisfatto quando occorre.
“Non disturbare” gli sussurra sua madre, mentre si alza: fa alzare mezza fila di persone sedute. Le è venuto un bisogno impellente di andare in bagno; col pancione sbatte, urta, spinge, stringe, eh! non può attendere. Nessuno si meraviglia, presi dalla bellezza della canzone pochi se ne accorgono, gli altri capiscono.
Orazio B. vorrebbe dire altre cose, che intravede, lui sa cos’è un bisogno, gli altri non sempre, se non è proprio personale.
Aurelio, che pure lui non va in barca, ma è scaltro per altre vie, gli dirà che scaturirse è come dire descantarse, uscire dall’incanto. Solo allora Orazio poté godere, in ritardo, il significato della bella villotta. Poté usare il termine a piacimento, poté rappresentare e spiegarsi altre scenette simili con una interpretazione del tutto personale.
Le parole a doppio senso esistono. Sono come la sua vita. Solo che il doppiaggio è riservato. È esclusivo, non è da tutti, non è per tutti. Altrimenti che doppio sarebbe?
Con la lingua è un problema non da poco. Studia la lingua italiana, poco e male. Le parole, il lessico che conosce sono di casa. A scuola non si studiano più i congiuntivi, quel tempo è sostituito dalle assemblee di classe, dalle visite di istruzione, dagli incontri con la società civile. Persone civilissime, di tutti i tipi e le età, con ignote attitudini e idoneità educative, vengono a scuola a insegnare. Quasi sempre si auto-convocano e iniziano con la stessa frase.
“La scuola deve sapere….” E spiegano che cosa.
Vengono i partigiani residui a raccontare che loro ci hanno liberato tutti, alleati compresi. Vengono i volontari delle donazioni di organi, di sangue e di midollo, di piante officinali, a volte in coppia, a volte separati, vengono i logopedisti, i medici, gli artisti, i podisti. Vengono i vigili urbani e quelli del fuoco a parlare di drammi futuri e dei loro organici. Vengono i nonni, patetici e cari, a raccontare sempre le stesse cose sul mondo di una volta che era diverso e solidale. I bambini che a casa osano dire: basta, nonno! a scuola fingono di essere interessati, e qualche stoico perfino interroga il nonnazzo che riprende da capo. Le maestre parlottano sottovoce di altre cose. Orazio B., e non è il solo, dormicchia vigile, inchioda lo sguardo sull’ospite e pensa ad altro. Se l’ospite si sposta, sente il brusio, ma l’occhio resta immobile a fissare il muro improvvisamente apparso. Alla fine tutti sono felici e contenti. Hanno incontrato la società civile, ma non sanno esprimere quello che hanno sentito, perché stentano a ragionare, a riassumere, non sanno usare i tempi dei verbi, confondono il soggetto con l’oggetto, l’ortografia è ignota, ad essa pensa il correttore del computer, infine, mancando l’esercizio, manca la passione, e la conoscenza. Però un pizzico di sociale c’è.
La maestra Mori si sgola, stenta, tenta di intrufolare gli aggettivi qualificativi, i predicati verbali tra una lezione, encomiabile, sul buco dell’ozono, contro cui i ragazzi non possono fare niente, almeno per ora, e una sull’ecologia. E’ dura con l’ecologia. Ha portato i ragazzi in cortile e li ha invitati a dire il nome degli alberi esistenti.
“Che albero è questo?”
“Un albero.”
Stessa sua risposta fino a due giorni prima, quando decise di rompere gli indugi, andò da un giardiniere e si fece dire tutto.
La stessa maestra Lanza di fronte a un acero, alla domanda: che albero è?, rispose con il fatidico: ce l’ho sulla punta della lingua; ma non era vero niente.
“Come si fa ad amare le cose che non si conoscono?” declamò perentoria la maestra Mori introducendo una lezione di ecologia con l’intenzione di partire dalla conoscenza diretta e personale degli alberi più vicini, più noti, quelli del proprio giardino, della propria corte, della scuola.
Orazio B. conosce una decina di alberi e si considera un’enciclopedia, alcuni hanno il soprannome, come le persone. Li conosce perché conosce gli uccelli che vi costruiscono i nidi: alcuni sulle vigne e sugli olmi, come l’averla, alcuni sui pruni come i cardellini e gli usignoli, alcuni sulle tapare di salgaro come i merli, ma anche altrove, a dire il vero, ad esempio…. e li dice; altri per terra come la quaglia, altri sulle forcelle di pioppo cipressino, come le tortore. Queste conoscenze le ha avute dai suoi compagni di classe quinta, e uno più scemo pare, più alberi sa, perché conosce tanti uccelli diversi.
Una volta, credendo di fare la domanda più naturale di questo mondo, chiese una cosa alla maestra Lanza, a lei che chiedeva sempre!
“Sa dove fanno i piombini?”
“Che fanno? chi?” Arricciò il naso, strinse gli occhi, come se l’avesse punta un ape. Era lontana un miglio dal capire, e tutti in classe capirono che anche le maestre sanno quel che sanno.
“Smettila, Orazio B.” Dopo un sospiro di compassione aggiunse l’opinione. “Per favore.”
Giurò che, una di queste notti, in sogno, l’avrebbe trascinata con sé a nidi e “vediamo!”. La promessa se la segnò stringendo i pugni e spingendo le unghie nei palmi per ricordarselo.
“Così impara!”
Insomma la lingua italiana va scomparendo, come neve al sole, che c’è e il giorno dopo c’era. Poi c’è il dialetto. Si pensa in dialetto e ci si pronuncia in lingua italiana con una parlata alla Stanlio e Ollio che, sarà pure comica, ma se non altro aiuta a studiare l’inglese che sembra diventato come l’olio di ricino al tempo dei nonni: non puoi farne a meno.
Il nonnazzo di turno racconta infatti nelle aule sempre più imbalsamate: avevi mal di denti? significava che avevi impedimento di stomaco: e giù olio di ricino! Avevi mal di pancia significava che avevi le budella ingorgate, non si sa di che cosa, visto che, dicono sempre, non mangiavano mai! E giù olio di ricino, Avevi i brufoli? E giù olio di ricino per fare la pelle liscia. Qualcuno racconta che lo beveva per fare, appunto, la pelle bellina con tutto il carname di maiale che si mangiava.
Un giorno, un vecchio partigiano, parlando del fascismo, sconfinò nell’olio di ricino fatto ingurgitare ai dissidenti. Sarà stato anche in quarta! non avendo ulteriori precisazioni, perché spesso gli adulti sono convinti che i piccoli sappiano già tutto, si convinse che il fascismo fosse stato un rimedio sanitario contro l’indigestione.
Lo disse a suo padre chiedendo ulteriori lumi. Fu l’unica volta che rischiò un calcio nel sedere.
“Ma cosa ti insegnano a scuola?” gridò scandalizzato. “Anzi, cosa non ti insegnano a scuola?”
Come forma di espressioni nuove ci sono ora le lingue straniere, a livello di saluti e di okei, che fa sempre effetto e si capisce subito, anzi si è sempre saputo che okei è okei.
Poi c’è il gergo. Ogni generazione ha il suo. I ragazzi si capiscono a gesti, a mezze parole, persino sui muri spruzzano a mezzo. Un incentivo a questo nuovo linguaggio l’ha dato l’uso del cellulare, le mezze parole costano mezzo e dicono intero.
Poi c’è il doppio senso che i grandi usano a piene mani, a piena bocca, a pieno sorriso.
Quante parole, quanto difficile capirsi a questo mondo.
Orazio B. desiderò incontrare il picchio, di sollevarsi da questo putiferio.
12. capitolo
Alla domenica andava alla messa vespertina. Con i genitori, qualche volta. Suo padre insisteva, perché crescesse con buoni principi.
«Ecco, questo è un buon principio.» Segue spiegazione. Ne era certo, sarebbe stato suo padre a spiegargli il primo buon principio, avrebbe cominciato così e sarebbe stata una scoperta meravigliosa. L’unico buon principio fino allora conosciuto era quello augurato da nonno Alfredo con l’inizio dell’anno nuovo.
“Sono venuto ad auguravi un buon principio, un buon proseguimento e una buona fine.”
“Grazie papà. Buon anno anche a te.”
“E’ questo un buon principio?” aveva chiesto speranzoso di essere sulla strada buona.
“Non esattamente, caro” gli aveva risposto suo padre. “C’è principio e principio. C’è un principiare che significa iniziare, è importante iniziare bene. Attento cosa ti spiega papà: è un sano principio ascoltare sempre i genitori.”
Era già ubbidiente di suo. Vuoi vedere che conosceva i buoni principi e non se n’era accorto?
“E’ buona regola, è un buona norma, è un buon …..” Cercava, cercava, spingeva lo sguardo intellettuale nel granaio delle sue conoscenze, frugava per trovare le parole per esprimere quello che credeva di avere capito.
“Stai buono, per piacere Orazio. E’ pure buona regola essere educati, non interrompere i grandi quando parlano.” Se c’era qualche ospite, a questo punto, suo padre aggiungeva “scusate, è un bambino.” Gli altri assentivano e lui restava di sasso.
A volte gli adulti sono strani, si tengono troppo per loro le cose che sanno, dovrebbero spiegarle subito, soprattutto se uno lo chiede. Non gli piaceva affatto di essere trattato da mezza persona.
Nessuno gli spiegava quali fossero questi buoni principi? Non importa, era fiducioso, aspettava, se non glielo spiegavano, ebbene! li avrebbe scoperti.
All’occorrenza, cioè sempre, faceva pure il chierichetto. Gli piacevano le nuove esperienze.
“Ah, sei qui, ma bravo!” Il parroco ripeteva invariabilmente queste parole ogni domenica pomeriggio. A volte serviva messa da solo, qualche volta con un ragazzino moretto, la madre era filippina, vispo, curioso e invadente. Il giorno del Corpus Domini c’era stata una messa in più e venne un collaboratore, un missionario, vestito sportivo. Venne in fretta e cominciò a indossare i paramenti aiutato dal sacrestano.
“Sei un prete anche tu?” chiese il ragazzino intromettendosi tra il parroco e il celebrante che si accordavano sui canti. Nessuno gli diede retta.
“Sei un prete, anche tu?”
“E’ don Mariano.” Il parroco gli disse distrattamente.
“Cosa faresti, senza chierichetti?”
Nessuno rispose.
“Cosa succede se non vengo ad aiutarti?”
“Cantiamo la Salve Regina?” suggerì il parroco. Il celebrante confermò.
Si intromise tra i due, ma fu allontanato garbatamente, faceva perdere tempo, mancava poco e c’erano ancora dei dettagli. Il ragazzino moretto storse il labbro superiore.
Gli adulti pensano che i piccoli siano mezzi. Pensano che vadano trattati con mezza considerazione. E invece no! Sono tutti interi. Persone complete per la loro età. Loro lo sanno.
Orazio B. ascoltava estasiato e sconvolto. Era diventato pure lui ansioso, curioso di sapere.
Ammirava quel piccolino che non appariva per niente intimidito, tuttavia inascoltato. La predica dal pulpito avrebbe potuto aspettare. Il messaggio “Sinite parvulos” era lì a portata di mano e fu lasciato cadere. Fu perduta un’occasione immensa. I “perché?” tarpati o soffocati o impediti ai piccoli non torneranno più.
Molte tragedie discendono da “perché” inesplosi. Inesplorati.
La vita di ognuno è come una goccia d’acqua sgorgata da alta fonte, scende, prende ogni giorno un ruscello nuovo, allunga e rinnova il percorso. La scelta è incessante. Si aggrega ad un torrentello piuttosto che ad un altro. Ogni percorso ha un’alternativa, un ostacolo inatteso o costruito cambia il tuo destino per sempre. Non si vede subito, si vedrà più avanti, lontano, quando sarà tardi. Magari sarà andata bene così, chissà! una controprova non c’è. Nonostante il nostro impegno c’è tanta casualità nelle nostre storie.
Orazio non seppe e non saprà mai cosa succede alla messa senza il chierichetto. Si assentò, si dileguò pian piano. Le messe andarono avanti lo stesso, non seppe mai perché, soprattutto non si pose più il problema. Il missionario, quel giorno, tenne un sermone commovente sui bisogni dei poveri del Togo e sugli aiuti che i fedeli mandavano in missione. Perse un prezioso e curioso fedele, sgusciatogli di mano, fuori appena fuori dall’ovile di casa rimasto aperto. Mentre curava ovili lontani. Ovunque è dura per chi ha gli occhi a livello di cintura, quando si confronta ad armi impari. Chi ha gli occhi un metro più in alto mira a più alti e spaziosi orizzonti convinto che i piccoli orizzonti vi siano compresi, ma non è così.
Il giorno in cui Orazio B. scoprì che poteva avere passione per qualcosa spontaneamente, senza che nessuno glielo suggerisse o proponesse, si sentì adulto. Scoprì di avere passione per i pattini a rotelle. C’era una pista in paese, vi andavano ragazzi grandi, ma anche piccoli accompagnati. Dal bordo della pista con i gomiti infilati sulle anche piegate, palme sotto la mandibola, se ne stava impalato per ore a godere del gusto degli altri. Si rivolse ad un ragazzo di quinta che conosceva.
“Posso vedere?” Ma non ottenne risposta, l’altro era troppo affannato, troppo stanco, troppo tutto.
Qualche giorno dopo, l’aveva preso di mira e sentiva che quella era la preda!, osò.
“Posso toccare?”
“Tocca, tocca.” Le ruote non smettevano di girare appena le toccavi.
Passò qualche giorno, l’amico si stava cambiando, ci provò.
“Posso?” Non ottenne risposta. Si era già tolta la scarpa destra, si infilò il pattino, si alzò in piedi, appoggiò, cadde a terra.
Il compagno neanche se ne accorse, raccattò e se ne andò.
Orazio B. restò seduto un altro bel po’ di tempo a sognare un paio di pattini a rotelle, adesso che ne aveva sentito il gusto.
In casa non osava parlarne, perché temeva di irritare la mamma già preoccupata per i suoi equilibri, il papà per i suoi pensieri sui lavori che lo rendevano sempre più inquieto. Aveva già deciso: quando sarò solo non andrò ad abitare in una casa con ascensori.
Andava spesso, anche Aurelio deglutiva vicino a lui. Guardavano gli altri piroettare sull’anello asfaltato, mani dietro la schiena e ginocchia piegate, roteare in maniera fantastica, per abilità, velocità, senso dell’equilibrio.
“Costano troppo” si consolò Aurelio, di famiglia molto più proletaria di quella di Orazio.
“Eh, già!” si consolò pure Orazio, però sapeva che a casa sua si poteva, se si fosse voluto. Se qualcuno se ne fosse accorto.
Sembrava che suo padre a volte gli leggesse nei pensieri.
“Si è allungato questo ragazzo, Teresa.”
“Pare anche a me.”
“Dovrebbe fare dello sport, correre, saltare, consumare, farsi venire appetito.”
“Hai visto le ginocchia?”
Orazio si guardò le ginocchia. Non erano più sottili e snelle, si stavano ingrossando, tra la coscia e la gamba si era formato un capitozzo per parte, camminando si toccavano.
Si era lamentato. “E’ segno che ti stai sviluppando, che stai crescendo.”
“Stai diventando uomo” precisò suo padre. Questo lo preoccupò, perché sentì da subito che non nutriva alcuna attrazione o passione per l’evento.
Aveva studiato a lungo il modo e il momento per azzardare la richiesta di un paio di pattini con cinghiette autoadesive, anche usato, ma dopo il discorso sulle ginocchia che si toccavano, che si incrociavano mettendo in serio pericolo il suo equilibrio, rinunciò del tutto all’ipotesi ventilata e si appollaiò rassegnato sui suoi fittizi alberi da cui prendeva il volo per sognare a piacimento.
Poi, un giorno, successe l’incredibile. Filippo Braschi entrò in casa trionfante con un pacco sottobraccio, lo aprì e ne trasse un paio di pattini nuovi fiammanti. Orazio mandò un urlo da fare tremare i vetri, la madre raggrinzì tutta turandosi le orecchie e invocando comprensione da tutti e due. Se li provò immediatamente. Non erano della sua misura esatta, ma non era il caso di sofisticare. Aveva i pattini.
“Possiamo cambiarli, sono troppo grandi” intervenne la gestante, ma la cosa non le interessava più di tanto.
Orazio li aveva abbrancati, stretti al petto e non era disposto a metterli in discussione per nessun motivo.
“Grazie, papà.” Abbracciò suo padre con una intensità che non credeva di possedere. Sentì che gli voleva bene. Andò ad armeggiare in salotto per imparare ad indossarli e a fare i primi esercizi di equilibrista.
“Hanno imparato gli altri, imparerai anche tu” lo tranquillizzò suo padre, pure lui euforico.
Teresa sorseggiava una camomilla, sempre più pesante e stanca.
“Cosa ti è venuto in mente?”
“Non mi è venuto in mente.”
“E allora, come è successo?”
“E’ successo che due colleghi hanno visto in vetrina lo sconto del 35% per l’acquisto simultaneo di tre paia. Mi hanno talmente sollecitato, infastidito, investito che non ho potuto rifiutarmi, c’era anche il capo, capirai!”
“Ah!”
“Non ho neppure scelto, ho preso il resto.”
Orazio B. di là sentì la conversazione e si distese sul pavimento a singhiozzare in silenzio. Non era più la stessa cosa. Non ne volle sapere, inventò la scusa che gli facevano male, non andò più ai bordi della pista, alzò un velo invisibile tra sé e il mondo che lo tollerava amorevolmente.
Fu in quel periodo che maturò l’idea di scappare di casa.
13. capitolo
Una notte a Ohperbac è sempre un ristoro, un buon rifugio.
Volava basso con facilità incredibile e a una discreta velocità. Il paesaggio indistinto gli scivolava via, tuttavia quello che gli interessava vedere lo vedeva. Era estate ed era piovuto da poco. L’aria era ritornata respirabile, si poteva dormire tranquillamente con la finestra aperta. Si vide mentre spiccava il volo dal suo davanzale. Per un lungo tratto gli avvenne di vedersi sdoppiato: era lui che osservava sé stesso come se fosse un’altra persona. Vedeva, più sotto, l’Orazio che ben conosceva, in volo radente a braccia aperte muoversi con scioltezza e libertà di movimenti. Poi i due personaggi si avvicinarono e diventarono uno solo.
Sorvolò il campanile di Ohperbac. Era somigliante a quello del suo paese, l’aveva visto in un cortometraggio. Vide il parafulmine e il santo protettore con la mano benedicente alzata. Più in là vide la scuola, poi la piazzetta, il prato che fungeva da campo sportivo, i larghi fossati dove i più grandi andavano a nuotare e a pescare rane di sera.
Da molto tempo si era impegnato a cercare il picchio fuggito dalla sua scuola. Aveva bisogno di un consiglio da uno che aveva vissuto la difficile esperienza di lasciare la propria casa, le proprie abitudini. Insomma, cosa si fa? cosa succede dopo? Questi pensieri gli tamburellavano la testa, lo occupavano sempre più spesso nei momenti solitari. Solo una volta si era chiesto se era giusto che un bambino chiedesse consiglio a un picchio. Poi aveva concluso che, se un consiglio è buono, resta tale chiunque sia chi te lo dà.
Seguendo la sua sfrenata fantasia e la grande voglia di procurarsi questo incontro, fece ricerche straordinarie e conoscenze impreviste. Girando attorno al suo campanile incontrò il passero solitario di una famosa poesia e con grande rispetto lo interrogò.
“Ti chiedo scusa, passero solitario, so che sei conosciuto da tutti e parlandoti scalfisco la tua fama, ma per la confidenza che si è creata tra di noi, dopo averti imparato a memoria, mi sai dire se hai visto un picchio così e così?”
Con sua somma gioia il passero solitario gli parlò, gli diede la risposta tanto attesa.
“Non preoccuparti, Orazio, se non ci aiutiamo tra noi solitari! Ho incontrato il tuo amico qualche giorno fa alle «Tre betulle».”
“Come sta?”
“L’ho visto bene, ci siamo salutati appena, perché, capirai, non saremmo più solitari, saremmo come tutti gli altri. Essere famosi e solitari non è una fortuna, ricordalo! Mi costa assai a fare il triste di mestiere, però sto dando una mano ai ragazzi delle scuole, così hanno qualcosa di semplice e di facile da studiare e da capire. Questo mi consola abbastanza. Eh, come invidio gli altri passeri sempre così ciarlieri e confusionari, chissà quanto si divertono!”
“Le tre betulle? Dove si trovano ?” Orazio B. tagliò corto, non ringraziò affatto, aveva trovato una traccia e non voleva perderla, non voleva distrarsi, anche perché a quel punto cominciava a vedere immagini sfuocate, indefinite. Si concentrò al massimo e si creò nuovi ampi spazi davanti, vi si precipitò, sorvolò campagne di erba medica e di granoturco, poi in un triangolo di terra, all’apice, o meglio all’incontro di due fossati mai visti prima, scorse le tre betulle. Planò a braccia aperte e, come un uccello di quei luoghi, si appollaiò su un ramo. Non si vedeva, ovviamente, non voleva vedersi, temeva di svegliarsi, immaginò che andasse così, sbatté le braccia come fanno gli uccelli con le ali quando finiscono un bel volo e si rimettono in sesto. Sulla betulla di fronte, finalmente, vide il picchio indaffarato a battere la testa sul tronco della terza betulla. Lui era sulla prima, nel senso del suo arrivo.
“Oh, picchio, amico mio, ti ho trovato!”
Il picchio alzò il suo capino, restò un attimo sospeso, poi riprese a ticchettare.
“Ci conosciamo?” chiese brusco. Era meno alla mano di quello che si aspettava, ma poi capì. Quando mai si erano incontrati? Quando mai si erano conosciuti? A scuola loro sapevano del picchio, lo conoscevano di vista.
“Sono Orazio B., frequento le scuole dei pioppi, stavamo vicini, anche tu frequentavi quei luoghi.”
“Un momento, amico.” Frullò le ali appena e lo raggiunse sul suo ramo. “Fatti vedere. Che uccello sei? Dove stai di nido?”
Orazio B. balbettò alcune parole, ma non saprebbe dire quali, sapeva che si stava spiegando. Farfugliò abbastanza e fu convinto di essersi spiegato per bene, allargò le ali in un abbraccio solidale di fratellanza, di amicizia ritrovata. Solo che il picchio non sapeva niente dei sentimenti delle persone della scuola, e tanto meno sapeva del cuore grande di Orazio nei suoi confronti. Ma, soprattutto, quel picchio, ahimè!, non era quel picchio, non era lui. Se ne stava rendendo conto. Tuttavia, imperterrito, continuò a parlare della maestra Mori che amava i picchi e invece la maestra Lanza no, di una ragazza scarmigliata che amava i pioppi e che aveva pianto quando erano caduti, aveva messo il lutto alla scuola.
“Lo sapevi?” Ah! Finalmente trasse un sospiro. Aveva detto tutto e restò in attesa.
“Cerchi Picchio Marcello?”
“Non conosco il suo nome, non ci siamo mai presentati, ma ci facevamo compagnia lo stesso.”
“Ho capito, ho sentito questa triste storia, purtroppo qui ci tagliano i tronchi sotto le zampe, diventa sempre più difficile trovare casa. Comunque, eccomi qua! Piacere, Picchio Rubello, di queste contrade il più bello, penso sarai d’accordo.” Era simpatico e spiritoso il nuovo amico. Ricambiò il sorriso.
“Piacere.”
“Eh, è passato di qua tanto tempo fa! Ci siamo cinguettati un attimo, ho saputo del disastro che gli è capitato, gli ho proposto di fermarsi, di prendersi una delle betulle libere, ma ha scosso il capo sconsolato, ha detto che andava lontano.”
Orazio B. si agitò al massimo, la sua missione era fallita. Dopo tanta emozione non poté che ringraziare e chiedere il permesso di rivedersi per sentire se nel frattempo aveva notizie.
“Ti saprò dire la prossima volta che c’incontriamo.”
“Grazie, Picchio Rubello, tornerò.”
Si svegliò tutto sudato, gli succedeva sempre così perché si muoveva veramente nel suo letto. Si trovò con la testa da piedi e un lenzuolo aggrovigliato ad una gamba. Può succedere, pensò, era stato un volo piuttosto acrobatico, prima attorno al campanile e poi tutte quelle planate sui campi! Era deluso, ma aveva creato un contatto con i picchi, ci sarebbe tornato alle tre betulle.
A scuola la maestra Mori aveva l’abitudine di rivolgere ai suoi scolari una domanda importante.
“Avete qualche domanda da fare? C’è qualcosa che non avete capito e volete conoscere meglio?”
Orazio B. alzò la mano. Era stata una mattinata molto impegnativa per la maestra. Parlare della funzione clorofilliana non è facile, non hai sperimentazioni a portata di mano, l’argomento tuttavia aveva suscitato interesse e curiosità. Infatti i ragazzi erano più vivaci del solito, irrequieti, avrebbe detto la maestra Lanza. Le mamme in casi simili dicevano le solite cose. “Sentono il tempo!” Già, i bambini erano considerati come l’artrite del nonno che annunciava in anticipo la pioggia. Piovigginava infatti. La maestra Mori guardò Orazio B. con tenerezza.
“Dimmi, Orazio B.” Mise le mani giunte e aspettò.
“I picchi, d’inverno, cosa fanno? Dove vanno?” Aveva i suoi soliti occhi tristi, ma questa volta di più, perché notava, man mano che parlava, la maestra da cui attendeva lumi, farsi a sua volta sempre più triste.
“Orazio B. non è questo l’argomento.”
Orazio B. invece era convinto di sì. La maestra aveva chiesto se avevano qualche domanda da fare e lui aveva fatto la domanda su qualcosa che non sapeva e che gli interessava conoscere. Da un po’ di tempo non gli riusciva di volare bene nei suoi sogni, perché si inoltrava in territori inesplorati, non sapeva come rappresentarseli, temeva che proprio là si fosse annidato l’amico Picchio Marcello. Come spiegare tutto ciò alla maestra? Come spiegare che stava cercando sé stesso?
La maestra Mori non era una maestra qualsiasi, era una maestra davvero. Mutò repentinamente i tratti del suo volto.
“Interessante, Orazio B., mi informerò anch’io e ti saprò dire. L’argomento sarà oggetto della nostra prossima lezione di scienze naturali, avevo già intenzione di parlarvi degli animali che vivono sugli alberi.”
“Molto bene” concluse Orazio B.
La maestra restò a bocca aperta, non lo aveva mai sentito così loquace. O quel bambino stava maturando velocemente, scoprendo nuove dimensioni e collocazioni nel gruppo scolastico, acquisendo quindi maggiore sicurezza e padronanza dei propri mezzi o c’era qualcosa che le sfuggiva.
Guardò a lungo Orazio B., mentre la scolaresca si mischiava nella ricreazione. Lo scorse ansioso, appoggiato a un pilastro a braccia conserte osservare il vuoto. Sì, c’era qualcosa che le sfuggiva. Avrebbe registrato la cosa nelle note scolastiche, ne avrebbe parlato alla madre.
Venne un illustre pedagogista a scuola, professore universitario di chiara fama, autore di libri che si usano tuttora negli istituti superiori. Venne a tenere una conferenza sul tema “Educazione e responsabilità”.
Spiegando il significato e l’attuazione pratica dell’attività educativa, sempre sensibile alle esigenze del discente che variano secondo l’ambiente, l’età, gli interessi e tante altre cose che tutti sapevano, si introdusse poi a spiegare il termine “responsabilità” del docente.
Il maestro, quando entra in aula deve lasciare fuori i suoi dolori, i suoi dispiaceri, le lamentele sul suo stipendio, i mugugni con le autorità scolastiche, le gelosie tra colleghi, tutto.
“Deve amare le creature che gli sono state affidate, una per una, secondo le sue attitudini, potenzialità, limiti, esigenze, con pazienza, con amore, con competenza.” Disse pure tante altre cose facendo rumoreggiare parte dell’assemblea. Nel dibattito successivo ci furono due tipi di interventi, quelli plaudenti per piaggeria, che ripeterono in parte quanto il luminare aveva detto, e quindi inutili, parte in timida, utile contraddizione.
“E’ giusto, è educativo darla sempre vinta ai bambini?” La domanda di una giovane insegnante, battagliera sindacalista, per l’occasione moderata contestatrice, riportò la discussione su un binario più equo.
“No, non è giusto.”
“E’ mai possibile che siano sempre le mamme a sbagliare?” La domanda era di una maestra, pure mamma, nella sua doppia veste di educatrice. Ovviamente era anche moglie e quindi completò la sua domanda ulteriormente. Una donna che ha casa, famiglia, figli, marito, lavoro deve contemperare per forza le esigenze di tutti e giocoforza deve, di volta in volta, mediare, reprimere, consigliare, stimolare, incoraggiare e anche zittire bruscamente, ha anche il diritto di essere stanca. O no?” Zittì improvvisamente tutta agitata per il coraggio che aveva avuto. Ci fu un lungo mormorio delle maestre nubili che non approvarono l’intervento. Ci fu un lungo silenzio della maestre madri che confermarono tacendo, secondo loro.
“Le mamme non sbagliano per scelta, per stanchezza, ma qualche volta capita. Le maestre non sbagliano per incapacità professionale, ma per carenza di passione, forse hanno sbagliato strada, forse hanno voglia di fare altre cose.”
L’anziano professore rispondeva con calma, brevemente.
“Ci sono dei bambini violenti che non puoi rimproverare, altri indifferenti alla lezione che disturbano i compagni, non li puoi rimproverare o castigare, a cui non puoi tirare le orecchie, c’è persino un proverbio a dirlo, non puoi dire “testone, hai sbagliato: sette per sette non fa quarantotto!” Se un bambino, alla domanda: quanto fa sette per sette, risponde quarantotto, sbaglia. Che sia una testa dura può darsi, anzi lo è in quel momento, ma non occorre umiliarlo, perché pur contestando l’epiteto, nel suo inconscio potrebbe convincersi che sia vero, che la maestra così severa e precisa abbia ragione, che per lui qualunque applicazione o impegno sia inutile, ecco un caso in cui la scuola è dannosa, fuorviante.”
Si alzò una mano, poi una voce.
“Prego.”
“Non è facile, a volte i soggetti sono diversi e la risposta non sempre è pronta o adeguata o simile ad altre in casi simili. Me ne rendo conto dopo, così cerco di rimediare come posso, magari in seguito, a parte. Testa a testa, ciascuno di noi agisce e reagisce diversamente da come si comporta in gruppo. Agendo così mi è capitato di notare delle fessure, delle aperture, delle disponibilità insomma, per meglio entrare nell’animo dei piccoli, ed ottenere la loro stima, soprattutto, e a mia volta ad offrire qualcosa, volevo dire …”
“Lei come si chiama?”
“Io?” La maestra Mori disse il suo nome e arrossì.
“Mi sembra giusto quello che ha detto la maestra Mori. Ecco, deve subentrare il senso di responsabilità personale per sapere adeguare metodi e comportamenti adatti al variare dei soggetti e delle situazioni avendo sempre davanti la cognizione che l’adulto si trova in una posizione di forza e il bambino, per quanto violento o irrequieto sia, si trova in una posizione di debolezza. I maestri, le mamme, gli educatori sono lì per quello, per tirarli su, senza andare giù al loro livello, perché allora da educare ci sarebbero anche loro. Gli educatori possono sbagliare? Sì. Nel senso che può succedere di agire avventatamente, superficialmente, ma non devono sbagliare.”
“E allora, che fare?” chiese la maestra Lanza polemica.
“La maestra deve saper inventare.”
Si era fatta coraggio la maestra Mori. Fece un’altra domanda, semplice, banale, ma per lei importantissima. Per Orazio B. decisiva.
“Se un bambino si mostra inspiegabilmente triste, svagato, assente. E non è un bambino con difficoltà o ritardi mentali palesi, cosa si fa? cosa gli succede? Che rischi ci sono per l’educatore? Cosa si deve fare?”
“Volare con lui.”
La maestra Mori balbettò qualcosa, non osava continuare su quel tema che faceva mormorare le colleghe. Stava portando davvero il discorso a livelli banali?
“La sua osservazione è molto acuta, continui ad osservare il bambino o la bambina che avesse simile comportamento e scopra dove sta andando, in che dimensione si è collocato, poi vada con lui e lo riaccompagni a casa.”
Aveva capito, non aveva capito, certo! idee nuove le erano state fornite, sia pure in forma allegorica, doveva riflettere, approfondire, pensare.
“Teorico, mi dispiace.” La maestra Lanza espresse laconicamente la sua opinione in un crocchio di colleghe al termine della conferenza. “Quest’uomo non è mai entrato in un’aula di ventisette ribaldi, non ha mai condotto una classe. Responsabilità significa anche farsi rispettare, dove andiamo a finire altrimenti? Abbiamo programmi da svolgere e un’infinità di incombenze improvvise e obbligate provenienti dalla società civile, suggerite da volonterosi cittadini associati in svariate sigle che vengono a dire ciò che la scuola dovrebbe insegnare, abbiamo limiti e ostacoli posti dalla legislazione, dalle famiglie, dalle autorità scolastiche a loro volta disarmate e messe all’angolo, nessuno ha responsabilità e nessuno ha colpa, a volte mi sento indifesa. Parla di voglia? Altro che voglia, spesso ti va via.” La maestra Lanza era una peperina difficile da mettere sotto, aveva qualcosa da ridire su qualsiasi argomento. Era una persona normale, dopotutto, i pregi pareggiavano i difetti: molto intelligente, assai impaziente.
“E’ vero, è vero!” C’è sempre il coretto delle silenti che dà ragione a chi parla più forte, a chi è più vicino, che taglia il discorso, chiude la discussione e ti permette di recuperare mezz’ora per ritornare presto in famiglia.
“Ho lasciato da sparecchiare.”
“Non me lo dire. E poi queste solite discussioni che non conducono a niente!”
“Come stai?”
“Io bene, ma abbiamo problemi, la fabbrica di mio marito non va bene e sai com’è...”
“Oh, mi dispiace!”
“Complimenti” disse una collega anziana alla maestra Mori che sorrise appena. Seguiva certi suoi pensieri.
“Mi siederò accanto e lo guarderò negli occhi.”
Pensava a Orazio B. con nuova tenerezza e forte determinazione.
14.capitolo
Con l’arrivo di Martina molte cose cambiarono. I cambiamenti portano sempre dei turbamenti, perché sconvolgono abitudini, creano prospettive nuove, desiderate, spesso, ma sempre sconosciute. Tuttavia i cambiamenti sono sempre ricchi di nuove motivazioni, di nuove spinte, modificano il passo.
Martina fu ristretta nella cameretta di Orazio, creandogli non pochi problemi esistenziali, vuoi di spazio vitale, vuoi di riservatezza. La sua libertà fu limitata non poco.
La mamma non aveva occhi che per la neonata, ed era giusto. Orazio era contento che sua sorella ci fosse e avesse fin da subito molte attenzione, sapeva che se una bella abitudine da parte dei genitori cominciava presto sarebbe poi durata più a lungo. Era disposto a sacrificarsi ben volentieri per Martina. Martina? Che strano, stentava a pronunciarne il nome, ma si inteneriva quando la piccola si aggrappava al suo indice, forse già voleva chiedere consiglio, cercava un appoggio complice, forse già soffriva o temeva qualcosa. Non l’avrebbe permesso, l’avrebbe aiutata in tutti i modi.
Teresa era una donna forte, si rimise in sesto molto presto, riprese la sua voglia di protagonismo, il sacrificio in casa non le piaceva affatto, d’altronde, una volta scaduto il congedo di maternità, non poteva certo andare al lavoro e abbandonare la piccola. Ma doveva pure uscire, almeno per la parrucchiera, per i pannolini, per il pane, il latte in polvere, non allattava, e la spesa ordinaria. Orazio B. si improvvisò baby sitter temporaneo e poi definitivo per parecchie ore della giornata. Le sue povere, piccole scampagnate, le trasgressioni alla tana dell’urlo finirono, e fu un dolore.
Vide lo sputo del dentifricio girare in tondo nel tentativo frenetico di non uscire dal buco del lavandino, non c’era nessuna sporcizia su cui appiccicarsi, era tutto pulito. Il lavandino ingurgitò il tutto e fu tappato per nascondere ogni gorgoglio. Una goccia continua dal rubinetto che perdeva livellò il tutto. S’immaginò sputo. In fin dei conti, poco prima, era insieme, solidali. Si vide precipitare senza voglia. Indifferente.
Immaginò lo sputo che guardava disperatamente in su. Si vide accerchiato dalle pareti di piombo di un tubo, si vide rannicchiato sul fondo di un grande imbuto, a rischio di essere risucchiato da un gorgo tenebroso, sconosciuto; si sentiva dell’aria, un fiato ammorbante che chiamava. L’orlo in alto si allontanava. Soffriva per questi incubi, ma non gli interessava più di tanto. A volte provava piacere, sperando che si sapesse e soffrissero pure coloro che lo lasciavano in quello stato.
Filippo Braschi vide migliorare le sue condizioni economiche, inspiegabilmente. Lavorava, si arrabbiava come il solito, eppure cominciavano a gonfiarsi gli affari e le entrate. In famiglia si sorrideva di più. È facile che ciò avvenga se le cose vanno bene.
Il primo problema che si affacciava era quello dello spazio: il loro appartamento si era ristretto. Non ci avevano mai pensato, avevano volutamente ignorato il problema sperando che si risolvesse da solo.
«Filippo, andiamo stretti.»
Bisognava cambiare casa. Fecero calcoli minuziosi, stabilirono che, quanto a figli bastava così, che le nuove stanze da acquisire potevano trovarsi ad Auronzo piuttosto che in paese. Sì! Pensarono, come prima cosa, di farsi l’appartamentino in montagna. Ormai lo facevano tutti, anche coloro che vivevano in affitto o in case popolari: si facevano l’appartamentino in montagna o ai lidi ferraresi. Era uno status simbol nuovo, era un doppio sacrificio che ti permetteva di continuare a lamentarti giustamente perché non ce la facevi con le tasse doppie e le spese correnti di bollette, spese di viaggio, ma ti permetteva di non perdere il passo con i tempi.
Ci sono i nuovi borghesi. Brava gente, operai specializzati, tecnici dei servizi, laboriosi impiegati doppiolavoristi, piccoli professionisti, seri bancari, insegnanti in soprannumero di scuola materna con marito commercialista, medici ospedalieri, gente che ha usufruito del sacrificio incommensurabile di padri scheletrici nel tirare la cinghia, di madri tenere, espertissime in economia domestica. Hanno conseguito il sudato pezzo di carta, un posto onorevole nella società e nel lavoro. Hanno sviluppato il senso di solidarietà per chi non ce l’ha fatta. Tornano dal viaggio in Kenia o nello Yucatan, addolorati. La tristezza è da addebitare alle condizioni di vita delle popolazioni incontrate in vacanza, e si rinnova ogni volta che impongono agli ospiti la visione delle fotografie di viaggio. Sono momenti di collegiale sofferenza. Mandano un’offerta. Qualcuno azzarda e fa un’adozione a distanza. Sì, a distanza, adeguata, appunto.
“Ecco, qui è quando che …”
I maschi e le signore di mezza età cominciano a guardarsi in giro, fanno gli spiritosi, è il momento delle scappatelle sempre sognate e mai portate a termine, la povertà non permetteva gherminelle. E’ anche questo un modo per poter stare in società alla pari, parlando di cose semplici, mediocri che tuttavia dimostrano che i tuoi pensieri non sono legati alla difficoltà di giungere a fine mese con lo stipendio vecchio. La libera banalità è indice indiscutibile di ammosciata sicurezza, di declino di giovinezza.
“Non può durare sempre così” esplose Filippo, una sera, dopo una cenetta con frittura mista di pesce, acquistato caro nella friggitoria accanto.Era appena tornato euforico per il buon esito di una campagna promozionale che andava bella liscia. Scivolava sulla scia di disposizioni legislative sempre più severe nell’imporre ascensori a norma nei nuovi palazzi condominiali. Calamari fritti in olio bruciato furono divorati distrattamente, pensando ad altro.
Filippo e Teresa comunicarono ad Orazio che per la loro famiglia era giunto il momento di fare il tanto atteso balzo di qualità.
“Orazio, avremo una nuova casa” esclamò la mamma battendo le mani per la contentezza. Martina succhiava nel suo lettino con spondine alte, trasportabile su rotelle lungo il corridoio con qualche fatica per l’ingombro della scarpiera e dell’armadio a muro con abiti appesi alle maniglie e con il disordine di ciabatte, giocattoli e sonagli sparsi.
Gli occhi di Orazio si illuminarono, vedeva già una casetta con cucina, salotto con la tv e l’occorrente per dvd e cassette, due bagni, due camerette una per lui, una per Martina, una camera grande per i genitori, due poggioli per guardare fuori, un’area verde a piano terra su cui portare gli amici a sgranchirsi le gambe dietro a un pallone omaggio dei supermercati.
«Sabato andiamo ad Auronzo.»
Il padre non stava nella pelle. Stese un depliant ricevuto da una agenzia rintracciata con internet e mostrò su una nuova palazzina una mansarda al terzo piano, con ampia veduta sul lago e le Cime di Lavaredo appena appena nascoste da uno spuntone di roccia, e poi prati immensi, in leggero pendio in verità e di difficile controllo per chi voglia giocare una partitella di qualsiasi cosa, ma indubbiamente ampi, liberi e verdissimi.
L’allargamento dello spazio vitale in verità fu un miraggio, si trasformò presto in ulteriori costose restrizioni che spinse, in certi momenti, Filippo alle sue consuete crisi di bambinone mal cresciuto.
Chiamarono una bambinaia a ore, studentessa universitaria fuori corso, perché Teresa aveva ripreso il suo lavoro con orario ridotto.
Terminavano al venerdì sera, partivano al sabato all’alba, la piccola scompariva in un giaccone piumone. Si mettevano in fila sull’autostrada e sbucavano in un attimo a Longarone, poi via verso l’agognato fine settimana strano. Tornavano domenica sera tardi, dopo aver superato l’ingorgo della tangenziale di Mestre, dove consumavano il buonumore appena rinvigorito, i polmoni stressati espellevano fino all’ultima goccia il bell’ossigeno delle pinete e piombavano irritati nel loro appartamento in via V. Bellini 71.
Orazio B. cresceva bene, respirava a pieni polmoni l’aria fresca di montagna. Suo padre andava a funghi a tutte le ore. E’ la passione di tutti i neofiti della montagna. Sua madre era impegnata con la piccola. Orazio studiava le piste e i sentieri che gli sarebbe piaciuto percorrere o conoscere, gli scarponcini adatti ce li aveva.
«Non temere, ci andremo» assicurava suo padre.
Tornava stanco, andava a scuola con i compiti da svolgere. Altri genitori sono a casa il sabato e ne approfittano per le spese, per i viaggi, per le visite. Le maestre hanno capito, qualcuna è mamma, quindi, per fine settimana, niente compiti per casa. Salta lo studio del passato prossimo e degli aggettivi qualificativi. Per ora non si vede niente, quando studieranno lingue si noterà. «Oh, yes!» lo dicono già ora e non succede niente. «Che problema c’è?»
Una sera Orazio B. assistette ad un dibattito interessante. Involontariamente, si capisce. Sembrava così intento a un gioco di domino al computer che nessuno gli badò.
I coniugi Maturani non hanno figli, ma hanno molto da sentenziare sulla loro educazione. Lui è rappresentante di medicinali e conosce tutto sulle malattie infantili, sugli antidoti e sui morbi tropicali. Si è fatto una cultura planetaria sfogliando l’enciclopedia della salute a fascicoli. Usa termini complessi e indecifrabili, alcuni inesatti, ma detti con grande scioltezza e sicumera da sembrare veri. Gli serve professionalmente, il sapere ingozzato a strappi di tempo, a morsi di letture intercalate a riposini di rito. Lei gestisce un’edicola. Legge di tutto, sa chi erano Lambruschini e Décroly. Sfoglia le dispense con le loro storie. Ha frequentato la quarta magistrale, a suo tempo, ma non ha mai sostenuto l’esame di stato. Inutile chiederle il perché. Non lo sa, non c’è. Si sono incontrati ad Auronzo, hanno familiarizzato subito. Ogni tanto passano una serata assieme.
«Che bella famigliola.» I Braschi gongolano con discrezione. «Vi invidio soprattutto per come educate i figli.»
Filippo non ha mai fatto piani particolari. Sorride e aspetta di sentire che cosa ha fatto senza saperlo.
«I vostri figli ci sono e non ci sono.»
«Eh, sì non disturbano affatto i grandi, gli ospiti soprattutto. Perché, vedete, è antipatico sentirsi tirare, strattonare, trovarsi un tappo volante nel caffè.»
Ridono tutti a squarciagola. Dove succede? Sono stati dai Cavaliere. Bè, vedeste! I ragazzini corrono per i corridoi, inseguono le palline e vanno sotto la tavola, aprono cassetti, vogliono, vogliono, vogliono. «Nooo. Non sta bene.» Persino Filippo lo capisce. Si toglie dal labbro superiore il filo di panna di un pasticcino.
«Facciamo del nostro meglio» suggerisce Teresa.
15. capitolo
Orazio B. frequenta la quinta quest’anno. E già gli fanno domandine non proprio facili.
«Cosa farai da grande?»
Lui l’avrebbe una risposta, ma capisce che deve tenerla per sé. Da grande vorrebbe fare il picchio. Vorrebbe volare via, lontano. Andarsene.
C’è un nuovo potere a scuola. Nascosto, mimetizzato, ma vibratile quel che basta per essere percepito. Coloro che lo esercitano non capiscono come mai sia stato loro conferito. E’ variabile, mutevole. Coloro che lo subiscono ne sono frastornati, perché non possono permettersi altrettanto, né possono reagire.
Il potere è meno chiaro di quel che potrebbe sembrare. A volte è la risultante di varie forze che si coalizzano e si stemperano senza programmazione o un progetto. Vogliamo usare parole forti e chiare, comprensibili? Bene! Persecutore e perseguitato spesso, inconsciamente, collaborano. Come mai? Bah! Succede e basta.
Le madri sono le persone più importanti della terra. Stanno diventando la “cosa” più importante per i loro figlioli, che crescono e lo avvertono. Lavorano in ufficio e in casa. Stirano, lavano, cucinano, spediscono e-mail, compilano moduli iva, vanno dalla parrucchiera, mordono un tramezzino all’ora di pranzo, poi, quando possono finalmente sedersi a tavola hanno il mal di stomaco, hanno le mestruazioni disturbate, sono irritate con tutti. Meno che con i figli. Li difendono a oltranza. Li spingono sullo scuolabus. Loro ne prendono un altro, il 36 barrato. Entrano in ufficio già stressate. Hanno litigato con il marito che le disturba a vanvera, senza criterio e senza passione. Hanno scoperto la cellulite e per strada si sentono meno osservate di una volta. Il capoufficio saluta prima le più giovani. Una donna coglie queste inezie, che non sono inezie, sono segnali, sono messaggi, sono stilettate. Sbagliano spesso a incolonnare i numeri, si prendono cicchetti sempre meno benevoli. Pensano sempre più spesso ai piccoli soli a suola. Li recuperano al pomeriggio inoltrato. Per fortuna, dicono, c’è il tempo pieno o il tempo prolungato. Oh, è un parcheggio comodo che ti permette di fare qualcosa! Ma poveri figlioli! Sanno che quell’andare comodo, non va bene. Ma che possono fare? Alla domanda classica del come va? Rispondono in modo altrettanto classico, collaudato. «Tiriamo avanti.» Affannate, recuperano i figlioli. Questi sono furiosi. Dopo lunghe ore di disciplina, a casa si sfogano! Ma cosa vi insegnano a scuola? Niente di tutto questo. Stai calma, mamma! E’ la natura che si sfoga. E’ la pelle che cresce. Sono gli ormoni che ballano. E a te che succede? Ecco, insorgono rimorsi. Abbracciano i piccoli, li stringono, li baciano. I piccoli sono infastiditi, sentono che tutto ciò va oltre l’amore, che è lo sfogo di qualcosa, che è la ricerca di un appagamento, anzi, il pagamento di un debito affettivo sottratto durante la giornata. I piccoli si impettiscono. Esagerano nei loro comportamenti indisciplinati, perché avvertono inconsciamente che ciò sarà ammesso, tollerato. Può succedere anche il contrario. Il bambino tranquillo a casa si scatena a scuola. Taglia i bottoni al cappotto delle compagne, morde la maestra, spacca le porte dei bagni a calci. Gli chiedi: perché? Ti guarda attonito. Perché gli chiedi perché? Quando può sciogliersi, sbizzarrirsi, scatenarsi un attimo non per sgarro, ma per divertimento, per naturale liberazione? Quali prati ci sono per questo? Quali orari sono loro concessi? I cagnolini sono gli unici che si possono permettere i prati in libertà. I bambini no. Quindi si sfogano in casa, a scuola, in patronato. Possibile che nessuno vi insegni la creanza? La domanda se la pongono le mamme, e pensano alle maestre. La stessa domanda se la pongono le maestre, e pensano alle famiglie. I babbi babbeggiano! Ossia osservano, sorridono, si fingono arrabbiati per un lampo di tempo. Lasciano alle mogli l’incombenza. A volte sono orgogliosi di avere un figlio sveglio, manesco, che sa imporsi da subito. La disciplina scolastica? Non la ritengono adatta a uomini impegnati a seguire un calcio d’angolo o un dibattito sulla fame nel Terzo mondo o l’oroscopo dei nati nel segno della vergine o il deprezzamento del dollaro sullo yen o il petrolio schizzato oltre i 70 dollari al barile.
I piccoli uomini, cioè i bambini, sono esattamente come quelli adulti.
Ce ne sono di più intelligenti e di meno intelligenti, di più curiosi e di meno curiosi, di più disposti all’impegno e di più pigri. Ognuno ha capacità e appetiti culturali diversi. Ma questo viene negato dalla scuola di avanguardia. Il foraggiamento deve essere uguale. C’è qualcuno cui basterebbe molto meno per avere tutto ciò che desidera e anela. C’è qualcuno cui spetterebbe molto di più perché i suoi talenti lo esigono, reclamano un approccio culturale più ampio, più profondo. No! Non è giusto che uno bravo diventi più bravo. Deve aspettare quello che comunque non lo raggiungerà mai. Sono le mamme le prime a sostenere questo. Non è giusto mortificare chi è nato sfortunato mettendogli vicino campioni di pari età. Campioni che vengono ristretti e rincitrulliti, compressi, forniti di handicap che frenino la loro corsa alla conquista del sapere.
«Ma non esageriamo!»
«Ah, sì?»
Per ora, intanto, non capiscono perché non possano avere un bel voto a testimoniare, a certificare l’esattezza di una risposta, di un traguardo, di un impegno, di una fatica. Non è un premio. Oppure un richiamo, un avvertimento, un chiarimento. Che cos’è? Una condanna? E’ semplicemente la risposta a un bisogno primordiale: avere una risposta, fare una verifica. Quello che ho detto o fatto è esatto o sbagliato? Devo saperlo! Non bisogna stare nel limbo. Altrimenti perché faticare a studiare? Ai bambini non è necessario insegnare a leggere, scrivere e contare. Ce la farebbero anche da soli. Bisogna fornire loro il metodo per studiare, capire e scoprire da soli, valutare e scegliere. Perché, comunque, verrà un giorno in cui maestre e genitori non ci saranno più. Allora che faranno? Se abbiamo insegnato loro il gusto, il metodo dell’apprendere sapranno come fare.
C’è un potere, appunto, che nessuna norma ha stabilito, nato malato e complesso, che si nega, ma si esercita, per cui le mamme non ammettono che i loro amati figli sbaglino, soprattutto se gli errori sono clamorosi. I bambini non ammettono di essere corretti, perché considerano la correzione non come tale, ma come una punizione. Come si permette la maestra a richiamare con un «Testone, cosa fai?» il figlio di un ragioniere capo? Le maestre accettano che a domanda: quanto fa quattro per quattro si risponda quindici. Quasi quasi ci sei! Può rischiare la convocazione di un consiglio disciplinare con rischi vari facendo il suo dovere di richiamo? Il grande gioco, il grande equivoco serpeggia, tutti lo negano e, se si vede pullulare, lo si attribuisce alla controparte. Le controparti sono tre; i bambini o si alleano alle maestre contro i genitori o si alleano alle madri contro le maestre. Decide la convenienza del momento. Imparano tante cose, tranne la sicurezza, l’esattezza, la coerenza. Sembrano furbi i ragazzi d’oggi, eppure sono molto timidi, insicuri.
Orazio non sa che fare. Ama i suoi genitori da morire. Ma questo affetto lo lascia esausto, insoddisfatto, vuoto. Si sente incompreso. Non parla affatto di questo. Sarebbe un peccato imperdonabile. Come potrebbe far trapelare le sue ansie, i suoi dubbi, con tutti i sacrifici che fanno?
Orazio ama la maestra Mori che gli sta sempre più vicino. Che gli fa sempre più domande. Vorrebbe aiutarlo? Ma che ne sa lei di cosa lui ha bisogno? Controlla i suoi segreti e vigila che non trapelino. Si mostra disponibile, passivo, assorbente, indifferente.
Anche tu, maestra Mori?
Eh, sì! La maestra Mori ci casca. E’ convinta che la sua pazienza darà frutto.
«Signora, Orazio sta maturando.»
«Grazie, signora maestra.»
Orazio guarda la madre, guarda la maestra.
Occhi a mezz’asta.
Di chi parlano?
Di cosa si ringraziano?
Che ne sanno loro di cosa passa per la testa di un bambino intelligente?
Orazio comincia a pensare di essere intelligente, perché si sta organizzando.
16. capitolo
I fine settimana ad Auronzo diventano sempre più un’esibizione di status e sempre meno un piacere. Saltano qualche vacanza. Che tempo farà? Mah! Dicono brutto. Stiamo a casa questa volta? Dovremmo far shopping, occorrono scarpe alla piccola e camicie per te. Qualcosa per me. «Possibile che non te ne accorgi?»
In occasione dell’ultima vacanza breve in montagna ha sognato. Forte! Orazio aveva corso come un matto. Ruzzolando giù e arrampicandosi su. Si era sfiancato da solo rincorrendo un coniglio dei vicini che sapeva come schivare, come stoppare, come infrattarsi e ricomparire più in alto. Si era divertito comunque. Si era dato uno scopo: catturarlo. Non ci era riuscito. Pazienza. Però aveva combattuto seguendo piani, stabilendo comportamenti, inventando trucchi. Aveva impiegato bene il suo tempo, indipendentemente dal risultato. Si era impratichito, aveva fatto esperienza, aveva scoperto come cadere e come appiattirsi. “Alla prossima volta! Ce la farò a prenderti.”
Si tranquillizzava dandosi scadenze e fissando obiettivi. Non successe, perché il coniglio in seguito scomparve. «Chissà dov’è!» Si chiedeva.
Non chiese informazioni per non svelare i suoi piani. La cattura del coniglio restò un progetto incompiuto, uno dei tanti. Fu tuttavia uno dei tanti gradini, inconsapevoli, che aiutano a crescere. Altri diversivi o compagni con cui giocare non c’erano. La sorellina sarebbe stata di impaccio, non certo di aiuto. Cos’altro poteva fare?
Quel sabato sera piombò presto in un sonno profondo. Cadde come in letargo con la voglia di incontrare l’amato amico. Sé stesso incontaminato. Il picchio. Inventò avventure e percorsi nuovi. Adattò i suoi viaggi ai nuovi paesaggi. Si mise in volo a braccia aperte. Sorvolò il lago che ormai conosceva bene avendolo ammirato più volte dall’alto, sorvolò i tetti, le chiese, le piazze, poi prese il largo, si addentrò nel bosco. Vide un corvo appollaiato sulla cima di un sorbo degli uccellatori e chiese informazioni.
«Avete visto un picchio?»
«Mai visto.» Meglio per lui, sogghignò sottovoce. «Non credo nidifichi da queste parti, l’avrei trovato.»
Ma Orazio qualcosa intuì. Anche tra gli uccelli esiste inimicizia. Esistono appetiti e scopi diversi. Decise di stare attento. Vide un pastore, con una trentina tra capre e pecore, intento a risalire un sentiero.
«Ohilà!»
«Dici a me?»
A Orazio la risposta a forma di domanda parve sgarbata. Decise di allontanarsi. Ma il pastore e il suo gregge forse dovevano andare proprio da quella parte, perché se li vide in volo quasi a fianco. Sembravano quelle nuvolette che annunciano pioggia imminente. Non si meravigliò più di tanto.
«Chi cerchi da queste parti?»
«Cerco un amico.»
«Su questi sentieri viviamo solitari, senza amici, non credo che ne incontrerai.»
«Cerco un picchio.»
«Mettiti in ascolto e ne puoi sentire qualcuno.»
«Mi metto spesso in ascolto, ma non sento niente.»
«Perché lo cerchi?»
«Per sapere come fa.» Gli raccontò la storia. «Non l’hanno voluto dove stava bene.»
«Star bene o star male non dipende solo dagli altri. Olà, Bianchina!»
Il pastore deviò, andò a svoltare una delle sue pecore che si stava allontanando troppo in fretta su una nuvola di passaggio.
Si appollaiò su una quercia e interrogò la maestra Mori. La immaginò vicina, seduta su una poltroncina su un dosso a due passi, ben visibile, ben disposta. Là poteva parlare, confidarsi sul serio. Che gli avrebbe risposto la maestra Mori?
«Che c’è Orazio?»
Si aspettava questa domanda che nessuno gli faceva, così se la fece da solo.
«Non lo so, signora maestra.»
«Tu hai qualcosa da dire, vero?»
«Sì, maestra.»
«Vuoi dirmi che ti succede?»
«Non mi capisco. Nessuno mi capisce. Che devo fare? Dove devo andare? Ho paura, signora maestra. Vorrei saltare questi anni, vorrei essere già grande e sapere cosa fare, cosa pensare.»
Respirò a fondo e attese la risposta. Quello sfogo gli doveva essere costato molta fatica, perché si era dimenato molto nel letto. Si sentì toccare. Era la mamma che era venuta a vedere.
«Perché ti lamenti?» Strabuzzò gli occhi. «Stai bene?»
«Sì, mamma.»
La maestra non c’era più. Non avrebbe più rivelato a nessun altro le sue preoccupazioni. Possibile che non ci sia al mondo nessuno in grado di capire un ragazzino di quinta che non sa dove andare? Che fare?
C’è sempre qualche compagno più vecchio o più disgraziato o già provato. Tanti ragazzi hanno avuto per maestro in certe cose un compagno smaliziato. Sentì il bisogno di un aiuto forte. Fu così che conobbe uno che orinava contro vento. Volutamente. Spavaldo e duro.
Denis Groppi era in terza media e passava lì davanti per andare a raggiungere il suo piccolo branco. Erano quattro cinque ragazzetti smaliziati, forti e violenti per il fatto che erano solidali in gruppo. Erano scaltri, non si facevano beccare.
Un giorno Denis offrì a Orazio da fumare. «Guarda che è diverso!» Orazio rifiutò. Quello lo schernì di fronte a tutti. «Verrai, bello! Oh, se verrai!» Orazio non disse niente a casa, anche perché c’erano umori strani, incomprensibili, di improvviso, ingiustificato rigetto reciproco tra genitori.
Ne parlò con Aurelio Spiazzi che lo guardò con evidente superiorità, in silenzio. Orazio capì una volta di più di essere isolato e solo di fronte a un nuovo problema, che nessuno gli avrebbe spiegato. Perché l’avrebbero già fatto, se avessero intuito, se avessero avuto tempo. Doveva darsi da fare. In casa non era il momento di parlare. C’erano strani silenzi, strani mugugni, strane assenze. Sentì i genitori litigare di brutto. Poi, una sera, Filippo non tornò a casa. Così per una settimana di seguito. Venne la psicologa Dorina Boccardi dell’ulss a parlare a Orazio.
Un mese dopo, una sera, restò.
E più non se ne andò.
«Caro, che ne diresti di due mamme?» Sua madre strinse l’amica e la baciò affettuosamente sulla fronte.
Pensò a suo padre in trasferta, per lavoro. Doveva essere così. Dove poteva mai essere?
Era la terapia della psicologa, invece, che procedeva per gradi. Stavano spiegando al figliolo che i genitori che contano sono quelli che ti allevano e non quelli che ti generano.
E da quando?
Stavano delicatamente spiegandogli che in seguito avrebbe avuto due mamme.
«Tanto, tuo padre non è che si desse tanto da fare per la tua educazione.»
Orazio addirittura convenne che, sì! era un tipo un po’ strano. Ma sempre suo padre era. Filippo passava ogni tanto a portare un regalino.
«Ti ha spiegato la mamma?»
Orazio cominciò a guardare a Denis Groppi con morbosa curiosità.
La casa ad Auronzo fu venduta.
Anche la casa delle vacanze era divenuta una consuetudine inutile, superata. Non si usava più. Che diamine! Consuetudine borghese! Superata, come la famiglia.
Sentiva parlare di queste cose in casa.
«Stupidaggini!»
Le mamme non avevano riguardi.
«Così afferra prima e meglio» diceva la psicologa. Dormiva nella camera dei genitori. Aveva la chiave di casa. Voleva molto bene a Orazio e lo dimostrava in tutti i modi.
«Un giorno capirai.»
Glielo diceva con occhi gonfi di dolcezza che Orazio non si spiegava, non gli occorreva. Tuttavia in casa c’era più silenzio, più armonia, più cortesia. Si canticchiava.
Martina cresceva bene.
Orazio, nonostante le pruriginose carezze, si sentì espulso.
17. capitolo
La maestra Mori cominciò a pedinare Orazio sempre più da vicino, a sorridergli in un modo che egli non conosceva. Capì che doveva spiegargli qualcosa. Si arrese e si lasciò avvicinare.
«Orazio, hai capito?»
Non aveva capito niente, ma disse di sì.
«Meno male, figliolo.» E subito un velo di tristezza calò sui suoi occhi buoni. La maestra aveva risparmiato una lunga e dolorosa lezione sulla sua nuova situazione familiare. Restò addirittura sorpresa per la disinvoltura del ragazzo.
Orazio sentiva in casa rumori diversi. Odori diversi. Scoppi di risa e silenzi diversi. Accarezzava la sorellina che ancora non capiva niente di quello che era importante e da cui non poteva ottenere niente in cambio, in termini di confronto, di sicurezza, di complicità.
La madre si comportava splendidamente, come se tutto fosse normale. Come se il nuovo menage fosse perfetto, chiaro a tutti. Ovvio. A Orazio non era ovvio per niente e chiese.
«Dov’è mio padre?» Atone parole pronunciate a fior di labbra.
«Ma, caro, tuo padre se n’è andato.» Parole mostrate con braccia aperte, dita aperte.
A Orazio venne una grande voglia di una carezza di suo padre, di un rimprovero di suo padre, di uno scappellotto di suo padre. Suo padre era solo suo. Era l’unico che aveva. Ed era sparito.
«Perché non te ne vai? Io non ho bisogno di te.»
Prima pensò queste parole, poi a tavola le pronunciò.
Sua madre saltò in piedi e lo rimproverò severamente.
«Non si dicono queste cose.» Urlò? Forse.
Quella notte capì una volta di più di essere solo a questo mondo.
Evanescente.
In sogno cercò Denis Groppi per un parere. Denis si comportò com’era da aspettarselo. Con arroganza. Ma fu proprio questo che gli confermò che era un duro. Uno di cui potevi fidarti. Era uno che sapeva. Perché aveva sempre cose nuove da dirti.
A Ohperbac c’era gran festa. Si festeggiava il vento. Tutti erano su di morale, perché avevano qualcosa che li teneva su. Il vento. La causa della loro euforia era il festeggiato. Tutti volavano. Chi più alto e chi no. A scelta. Quando sei libero di muoverti, di agire, di parlare, di confidarti ti senti più leggero. In pace.
Denis volava un po’ più in alto, perché così l’immaginava. Era un tipo assai libero. Si comportava da sicuro.
«Dove andiamo» gli chiese.
«Per di qua.»
Orazio B. sapeva che, finita la terra, cominciava il mare. Successe veramente. Videro da lontano la spiaggia. Non c’era gente, c’erano solo onde. Orazio B., attratto dalla novità, accelerò.
«Ehi, dove corri?»
Orazio B. vide che Denis rallentava, quasi temesse il mare. Lui andò dritto.
«Ehi!» si sentì interpellare.
Si volse e vide che Denis era preoccupato. Fu contento. Anche quel compagno onnipotente aveva paura di qualcosa.
«Torniamo indietro» suggerì.
«Perché?»
«Perché il mare non lo conosco.»
Capì che Denis era un amico di cui poteva fidarsi. Era uno in grado di valutare. Anche lui temeva qualcosa, temeva ciò che non conosceva.
«Hai paura, eh»?» lo sfidò.
«Non ci sono mai stato.»
Orazio B. finse di non sentire. Ma si interrogò. «Che cosa ci sarà più avanti?»
Gli era bastato per capire che Denis aveva paura di ciò che non comprendeva. Quindi, Denis, se diceva qualcosa, ne era sicuro.
Si fermarono su una duna a riposare.
«Vedi» disse Denis «in mezzo al mare non ci sono dune, non c’è posto per sostare quando vuoi, per salvarti. Se cadi, cadi.»
«In che senso?»
«Nel senso che non devi mai cacciarti nei guai.»
«E se i guai ti capitano lo stesso?»
«Allora sei nei guai.»
Orazio B. questo lo sapeva. Si sentiva impastoiato, con le ali incollate. A volte stentava a prendere il sonno, a prendere il sogno e volare libero. Era troppo preoccupato, perché si trovava chiuso, senza ascolto, solo al mondo. I guai lo accerchiavano, lo soffocavano.
Fu quello il giorno in cui decise di prendere il volo per sempre. Di non tornare.
Doveva trovare il picchio. Fare come lui.
Come il picchio, vide sradicate le sue sicurezze.
All’improvviso, come un lampo che squarcia il tormento dell’uragano che sale.
Vide ghiaccio. Vide buio. Vide silenzio. Vide nessuno.
In fin dei conti di che cosa aveva bisogno?
Disperatamene si avvinghiò alle cose che aveva cercando di convincersi che, sì! insomma, potevano bastare.
Cercava un gancio a cui appendersi. Da cui poter tremare, sventolare, sentirsi strappato, ma sapendo che il gancio comunque era sicuro. Un po’ di ebbrezza, di sventatezza fa anche bene.
E’ vero! Un tetto solido, un “mangia che è buono”, un paio di scarpe nuove, una pastina alla cioccolata non mancavano mai.
Mancava il resto. Comprensione. Partecipazione. Pazienza. Un correre a fianco. Un “vai!” che sei forte! Un “beh! non importa, per questa volta". Una grattata tra i capelli. Un sorriso complice. Un parere compiacente. Un …cosa ti sembra? Ti piace più questo …o questo? Di fronte a un paio di pattini nuovi.
Passarono in quattro a prenderlo per andare da qualche parte.
C’era Aurelio con lo sguardo birbo, da psichiatra. Un occhio avanti e uno indietro. Uno per guardarti e uno per scrutarti.
«No, no… Dove andate?» chiese Dorina.
La madre non c’era.
Orazio B. capì che era un’occasione. Lo sguardo era promettente. Aurelio era un duro, non tradiva mai. Una sorpresa ce l’aveva sempre.
«Vengo subito.» Si sistemò i capelli con una passata delle mani. Non c’era alcun bisogno, ma era un segno di disponibilità ad uscire.
«No. Tu no.» Dorina si impuntò. Ma si sentiva dalla voce che non aveva autorità, e lo trasmetteva.
Orazio B. uscì.
Andarono a nuotare alle cave di sabbia. Era un luogo fuori mano, un antico argine di fiume, divorato negli anni per fabbricare case economiche. Dilaniato nel profondo, pieno di acqua ferma, covo di tinche e di raine. Luogo riparato da sguardi indiscreti. Pochi ci andavano, perché non era un luogo affatto bello, né sicuro.
Si andava a nuotare senza costume. Tornavi a casa bello asciutto: E nessuno sapeva niente.
Orazio B., di scappatelle, degne di questo nome, non ne aveva mai imbastite. Avvertì che quello era il giorno.
Si gettarono in acqua a sguazzare, a tentare di nuotare, a giocare, a gridare, senza freni e senza paura. La fanghiglia imperversò ben presto e di nuoto ci fu ben poco. Solo sfrenata esibizione di umori a lungo trattenuti, di desiderio di fare qualcosa di diverso dal noioso quotidiano scorrere delle ore televisive.
Poi Orazio B. cadde e ingollò acqua putrida. Gli altri non se ne accorsero e continuarono a lanciare palle di fango e a colpire alla… dove va va.
OrazioB. si trovò in difficoltà. Cadde in ginocchio ed ebbe paura. L’acqua bassa lo ricoprì ugualmente. Aurelio se ne accorse. Lo abbrancò a due mani per i capelli e gli gridò a tutto spiano. «Sei scemo?»
Orazio non era scemo. Stava male davvero, aveva bevuto fango. Scolorì e svenne. Scapparono tutti, ma non Aurelio. Lo mise a gambe in su, gli mise un dito in gola e l’aiutò a vomitare. Scemo, scemo, scemo… Non diceva altro. Quando rinvenne, respirò. Quasi implorò.
«Dimmi che sei scemo, Orazio! Dimmelo. Come hai fatto?» E scoppiò a piangere.
Sperava di sentire una parola. Sì!
Ma l’amico non poteva dirlo. Non era pazzo. Era vero.
Non si sopportò più.
L’incidente fu grave, l’esplosione improvvisa, ma non più evitabile. Era innescata da tempo.
Incompreso.
Allontanato da tutti. Persino dall’amico maestro.
Che gli restava?
Vide il precipizio e se ne innamorò.
Orazio B. si incamminò traballando dalla parte opposta.
«Dove vai? Sei scemo? Dove vai messo così?» Era nudo.
Non lo sapeva. Niente gli importava più.
Una cosa sola desiderava. Incontrare un amico vero, uno nelle sue stesse condizioni che sa capire e sa indicare. Volle follemente incontrare l’amico picchio e andare con lui.
Lui senz’altro avrebbe saputo cosa fare, d’ora in avanti.
Andò sempre diritto verso la riva del mare, e oltre.
...buck, buck, buck, buck...
cos'era?... aureliosentivacosì-sitoccòlatestachegliscoppiava-manoneralui-cos’eraallora?
Chi chiamava?
Il cuore della terra.
Orazio B. le rispose.
18. capitolo
Mentre andava parlò al picchio chiamando a voce alta.
Con il grido della disperazione…
...buck, buck, buck, buck….
Il picchio venne. All’improvviso.
Lo vide e gli andò incontro.
Sapeva che sarebbe venuto.
Altri non c’era.
L’affanno, lo colse quasi subito, ma non si fermò. Salì con lui.
A singulti.
Il picchio gli parlò. Gli disse che c’era un posto dove andare. E questo lo tranquillizzò.
«Portami con te» sussurrò appena.
Sì.
E da allora furono un tutt’uno.
Il picchio Orazio ebbe finalmente un nome. Volò assai lontano. Da là non si ritorna.
Eppure ebbe, un giorno, la voglia inspiegabile, nuova, di ritornare, di rivedere i luoghi.
E il permesso.
Dei giorni erano passati, intanto. Molti giorni...
Ritornò.
Ritornò a volare sui luoghi del delitto dei pioppi.
La caduta della sua casa, del suo nido.
Vide ancora le ferite al suolo, medicate da teneri arbusti. Oh sì! Si erano fatti già alti, svettanti, assai ventilati. E rumorosi. Chissà se invecchieranno, come è diritto di tutti! C’era spazio e scorza abbondante per un nido, da scavare in sicurezza nel cuore di un pioppo, la cui linfa scorre veloce e incoraggiante. Il picchio pensò così. Ma a lui non serviva più ormai. Il suo nido era il vento.
Non c’erano bimbi fuori. Ma, quando fu l’ora, li vide. Anche le maestre giocavano in girotondo.
C’erano voci nuove, c’erano immagini nuove. Attese ancora, fin che uscirono, sereni, per andare ai loro nidi. Tutti ne avevano uno, grandi e piccini.
Il picchio Orazio fu contento.
Qualcosa era successo. Allora qualcuno aveva capito. Molti avevano capito. Cercò, cercò di interpretare. Non che gli importasse, ma gli veniva naturale.
Cercò a lungo. Ma non trovò nessuno che gli rispondesse, che gli dicesse se la storia del picchio incompreso era servita ai piccoli di quei giorni. Non scorse nessuno che conosceva.
Nessuno. Troppi giorni erano trascorsi.
L’orto della signora Elvira non c’era più. Parcheggio.
Chissà dov’è Antonio, chissà cosa sta facendo!
Si posò su una magnolia, lì per caso, oltre la ringhiera.
Attese il cane Buck. Ma non passò, neppure la ragazza scarmigliata che per prima pianse e mise il lutto.
Ebbe timore di cercare chiunque altro, qualunque altra cosa.
Il dolore più grande? Che non gli interessasse più.
Volò oltre, per sempre.
Il picchio Orazio non seppe.
Ne saprà mai che le zolle di quei prati di scuola, furono calpestate da centinaia e centinaia di piedi di persone in pianto.
In pianto per lui, il piccolo Orazio B.
Quando i fatti avvennero…
… fu la maestra Mori, la sola, che ebbe il coraggio. E la forza. E il cuore. E l’ardire.
Parlò per tutti a ciglio asciutto.
Nel prato non c’era zolla di verde libera. Tutti erano lì stretti, ammutoliti a chiedersi…
Ma perché? ma perché?
Mea culpa, mea culpa, mea massima culpa. Pronunciò le parole lentamente la maestra Mori.
Disse proprio così.
Aveva capito più di tutti. Ma non tutto. Nessuna creatura entra totalmente nel cuore di un’altra creatura, se non l’aiuta incondizionatamente a rivelarsi. A svelarsi. Per essere aiutata a volare alto. E nessuno si arrende a un altro se non è sicuro.
Quando uscì dalla folla per parlare, tutti arretrarono impauriti.
La maestra Mori parlò per sé e per tutti allargando le braccia, che sembrarono enormi, da comprendere tutti.
Pianse il dolore dell’incomprensione delle creature affidate ai grandi. La supponenza. L’arroganza, perché ai piccoli si dà tutto, materialmente. Ma mai viene controllato a sufficienza l’amore che, gratuito, deve essere sempre presente, attento ad ascoltare paziente, a interpretare, a prevenire, a guidare. Senza togliere loro il gusto inestimabile della conquista.
Parlò della frettolosa partecipazione allo stupore del crescere nei piccoli.
Del loro smarrimento di fronte ad eventi mai visti, ignoti.
Parlava a scatti, a singhiozzi a stento repressi. Ma forte, chiaro. Parole come magli.
Parlò dei modi. Dei ritmi. Dei gusti. Delle scelte. Dei progetti. Dei comportamenti dei grandi nel manipolare il tempo dei piccoli.
Della loro responsabilità nello stravolgere gli spazi sicuri e liberi di cui i figli hanno diritto.
E degli affetti tradotti a piacimento e strizzati a gocce. Convinti che non abbiano sete di questo.
Si ricordò di quando aveva narrato una storia, si ricordò del mondo ideale dei piccoli fatto da tre pini e un lupo. Bastano.
Tre pini formano un bosco, un luogo misterioso in cui inoltrarsi, ove far correre il lupo assetato del tuo cuore al galoppo, bisognoso di avventura, affamato di conoscenza e di mistero, in un branco che gronda ardore, giovinezza. Stessa età, stessi bisogni, stesse speranze.
Un bosco non è mai recintato. La fantasia spazia, s’inoltra, fruga, rivela di che tempra, di che fiato, di che coraggio sei fatto. Di che passo sei fatto. Se non conosci il tuo passo non sai mai dove andare, fin dove puoi arrivare, temi sempre di smarrirti.
E Orazio B. si era smarrito.
Nessuno aveva capito a sufficienza che da interpretare non erano le poesie, la storia, la scienza, ma la sua storia, la sua scienza, la poesia delle sua vita che voleva prorompere, ma non sapeva come. Senza disturbare, senza offendere, senza essere bloccato perché “non va bene”. Troppi cancelli. Troppi recinti. Troppi stai fermo, stai zitto, tu non sai, ma che figura mi fai fare! Sei stato composto a scuola? Che vuol dire “sei stato composto” se nessuno glielo spiega? Sono termini che variano da famiglia a famiglia, da maestra a maestra, da occasione a occasione, da stati d’animo, da circostanze. Il deserto attorno a sé è terribile per tutti, nonostante la folla che ti circonda. Sentirsi soli è insopportabile.
Orazio B. era stato un lupo senza bosco, senza un luogo d’avventura in cui crescere in sicurezza.
Soffiò in un fazzoletto raggrumato e disse parole piane, ancora.
Il vento scosse le teste e le mosse all’unisono. Con grande dolore, commozione, partecipazione.
Oh, maestra Mori! Che ne è stato del tempo passato a correggere virgole, invece di insicurezze?
Quanti desideri.
Quante speranze.
Quanti timori.
Bisogna scoprirli.
Bisogna conoscerli.
Bisogna scioglierli, i nodi che privano del sorriso il volto di un bimbo, anche una sola volta.
Bisogna scioglierli i vincoli, comodi a noi alti, che neghiamo un’ora, un prato per inseguire un aquilone sciolto, a frenare un urlo lanciato a piacimento, anche per niente.
… e scardinare le insicurezze, i dubbi, le ombre, le pigrizie, gli egoismi, i recinti con le siepi troppo alte per poter guardare di là. E poi… e poi…e poi…
Allora, e allora, piccolo Orazio? Ti abbiamo costretto a volare, a cercare da solo.
Ma non sapevi che cosa. Eri assetato d’immenso ed hai avuto solo orari, recinti, silenzi.
A volte, può succedere che qualcuno smarrisca la strada, non sappia dove andare, perché nessuno gli ha detto come… non è vero, figlio?
Oh, maestra Mori. Il tuo dolore era vero perché sapevi, eri arrivata vicino, non osasti. Era ora di parlare a Orazio per tempo, non troppo tardi. Per un educatore ogni bambino deve essere figlio.
“Figlio mio!” Ne uscì un urlo e cadde in ginocchio.
Altri fecero altrettanto.
In quell’ora, quel giorno, la scuola fu un tempio.
Da qualche parte, aveva uggiolato, e si era sentito chiaramente, il cane Buck.
Oltre il recinto, solitaria, la ragazza scarmigliata, a denti stretti aveva spiato tutto, sconsolata.
Fece silenzio, la maestra.
Restò a lungo il silenzio sulle teste chine, in quei prati verdi di una bella scuola rifatta bene con i criteri dovuti.
Filippo e Teresa, con la piccola al collo, si erano stretti attorno alla maestra Mori.
La gente vide un monumento.
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Andrea Zilio
Via Tintoretto, 6/2
30031 Dolo – Ve
Tel. 041 4196952
e-mail: Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.
Andrea Zilio è nato a Dolo nel 1937.
Ha insegnato nelle scuole elementari di Sambruson e della Riviera del Brenta da cui ha tratto ispirazione per scrivere anche:
Il re degli alberi
Addio alle fionde
I giorni della merla
La contrada dei sicomori
Ugobetto
Novelle dolesi
Trovemose al museo
L'isola di Tan kiù
articolo a cura di luigi zampieri
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Ultimo aggiornamento (Sabato 23 Novembre 2013 14:12)