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Proprietari e feudatari

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DAL MEDIO EVO ALL'OTTOCENTO - I FEUDATARI E LE VILLE VENETE

PROPRIETARI E FEUDATARI A SAMBRUSON NEL MEDIOEVO

La signoria di padova

Vita interna e organizzazione del territorio.

Uscita vincitrice con le altre città delle leghe Veneta e Lombarda dalla lotta contro l'Impero, nei decenni a cavallo fra i secoli XII e XIII Padova organizzò la propria vita interna fino ad acquisire una ben ordinata struttura statale. Aveva un territorio su cui esercitava un dominio politico abbastanza stabile e su cui impose tasse e servizi per la pubblica utilità, si dette un codice di leggi (o statuti), organizzò magistrature coadiuvate da funzionari comunali ed un esercito permanente a reclutamento obbligatorio, e svolse un'attiva azione diplomatica che la portò a numerosi accordi economici e militari con altre città e signori feudali. Per dare risposte appropriate alle nuove esigenze con una struttura funzionale, la città fu divisa in quartieri, a loro volta suddivisi in circoscrizioni minori chiamate centenari: ai capi di questi dovevano far riferimento pure le ville o paesi compresi nei settori del territorio extra-urbano che vennero assegnati al loro controllo.

La vita nella città era, però, turbata da lotte tra fazioni politiche e gruppi sociali mossi da divergenti spinte ideologiche ed economiche, ed in molta parte anche da resistenze alle innovazioni civili, promosse da casate feudali e dall'aristocrazia rurale: i membri di queste ultime, dopo essere stati costretti a lasciare i castelli e a sistemarsi in città, cercavano di opporsi in tutti i modi alla continua erosione degli antichi privilegi e delle prerogative di cui godevano.

Obblighi per gli abitanti di Sambruson nel Duecento.

La villa di Sambruson fu inclusa nel quartiere di Ponte Altinate e nel centenario di Santa Sofia. Con statuto del 1234 venne obbligata a consegnare a questo centenario, in caso di guerra, quattro carri da venir utilizzati durante le operazioni militari, e due carri di pane per il vitto dei soldati. Nel 1265 il paese non venne espressamente indicato fra quelli che dovevano provvedere alla manutenzione dei ponti sui fiumi del suo territorio, ma ciò non significa che non vi fosse obbligato in quanto, anzitutto, fu anch'esso coinvolto dalla prescrizione emanata prima del 1236 che imponeva ai paesi rivieraschi di collaborare alla costruzione degli argini delle due sponde della Brenta Secca da Mira Vecchia a Porto Menai; e, poi, perché durante la podestaria di Gerardino Longo (29 giugno 1265 — 28 giugno 1266) fu assunta la norma che "ogni villa del Padovano è tenuta a costruire e mantener efficienti i ponti del suo paese e del suo territorio, e sopra le fosse pubbliche deve costruire e mantener efficienti ponti di pietra buoni, alti e larghi, così che le acque possano ben defluire", permettendo che su quei ponti si potesse "passare con cavalli e carri in ogni tempo". Inoltre, dopo la rotta del Brenta a Stra nel 1275, tutte le ville del Padovano vennero coinvolte per ripristinare e sistemare entro tre anni l'argine del fiume da Stra a Paluello, curandone la successiva manutenzione.

Nel 1281 alle ville dei dintorni del Brenta fu anche imposto di risistemare per una lunghezza di dieci miglia e mezzo (= circa chilometri 18,760), alzandolo di due piedi (= circa 71 centimetri) e mantenendolo della larghezza di venti (= circa metri 7,50), l'argine del fiume lungo la riva detta del Colombino, a partire dal porto di Sambruson fino a Noventa. Sambruson con Sabbione e Alture dovettero contribuire con le potenzialità lavorative fornite da quarantatre fuochi o famiglie; Porto, Curano e Paluello con otto fuochi ciascuna, Fosso con quarantuno, Campoverardo con diciotto, Prezzolo con quaranta, Camponogara con ottantuno132. E da ricordare che, in ottemperanza alle leggi vigenti, qualora una villa non avesse compiuto il lavoro imposto entro la data fissata veniva condannata ad una multa di dieci soldi per ogni pertica non lavorata e per ogni giorno di ritardo fino alla conclusione dei lavori.

nel Trecento. Nel secolo successivo, fra il 1314 e il 1345 gli uomini di Sambruson vennero obbligati a scavare, ripulire e mantener efficienti:

-   nel territorio di Camponogara le fosse pubbliche Nigizolo e Medizoni (o Mediciolo) per una lunghezza di un miglio e mezzo (=circa chilometri 2,680) e per sei piedi di larghezza (= circa metri 2,15), lavorandovi assieme agli uomini di Camponogara e di Borgo Manco (o Borgomanzo);

-   nel territorio di Porto la pubblica Brenton, dal confine di Paluello fino alla confluenza in esso della Splaza a Porto, per tre miglia di lunghezza (= circa chilometri 5,360) e diciotto piedi di larghezza (= circa metri 6,50), assieme agli uomini di Fosso, Paluello, Sabbione, Campoverardo e Camponogara;

-   sempre nel territorio di Porto la pubblica Novicampi dal Brenton verso Nunzo Scuro, per un miglio di lunghezza (= circa metri 1786) e dodici piedi di larghezza (= circa metri 4,30); inoltre la fossa pubblica che aveva inizio dal confine di Camponogara e giungeva fino a Nunzo Scuro per venti turne134 in lunghezza e otto piedi in larghezza (= circa metri 2,85), ed ancora la fossa che partiva dalla via di Sambruson e giungeva fino alla Splaza per un miglio di lunghezza e otto piedi di larghezza135.

E' da rilevare che, con i suoi circa sei metri e mezzo di larghezza, il Brenton era sicuramente utilizzabile per la navigazione, e va segnalato che l'obbligo della sua manutenzione venne accollato anche a Sabbione (ossia Alture), in quanto villa — comune separata ed autonoma da Sambruson.

Strutture organizzative locali. Padova dette disposizioni anche per la gestione ed il controllo locale del territorio, incarichi che erano affidati a podestà rurali eletti dal consiglio cittadino. Con statuto del 1276 il consiglio della città stabilì che potevano essere podestà rurali solo cittadini originari di Padova residenti in città, che avessero l'età di venticinque anni compiuti e fossero in possesso dei requisiti stabiliti dalle leggi. La sede del podestà era generalmente presso un castello. Nella zona c'erano podestà rurali a Camponogara, Campagna Lupia e Campolongo Maggiore. Le ville di Sambruson e Sabbione erano quasi certamente incluse nella podesteria di Camponogara e la loro organizzazione seguiva sicuramente le disposizioni di uno statuto del 1280, che imponeva a tutte le ville del Padovano di avere un proprio "pubblicano o sindico" o, utilizzando il termine più comune con cui nei secoli successivi venivano designati i rappresentanti popolari, degani. I documenti che riguardano Sambruson riportano solo pochi nomi di personaggi eletti a rappresentare o sostenere la volontà popolare; essi, in ogni caso, avevano poteri e capacità di azione limitate e davvero estremamente diverse da quelle degli attuali sindaci. Di un Nicolò, rappresentante o "sindico Sancti Bruxonis", si ha notizia in un atto del 29 ottobre 1347, ma furono probabilmente Berto di Francesco, Bartolomeo di Antonio e Francesco di Cristoforo, citati in documenti del 1431, i primi rappresentanti del paese incaricati di una qualche funzione pubblica di cui resta ricordo, seguiti da Pietro di Giovanni e Benedetto Trincanato (indicati nel 1455). Nel 1470 era degan della villa di Sambruson Matteo da Legnaro, e nel 1487 era investito della stessa carica locale Toni Zamberlan, che aveva sostituito Baldo di Pasquale; inoltre, a nome delle tre ville che costituivano la parrocchia di Sambruson il 3 luglio di quello stesso 1487 Lorenzo Trincanato, Domenico Brati e Giacometto Brusegan mossero lamentele al vescovo contro alcuni comportamenti dell'arciprete.

Sopravvivenza delle antiche famiglie. Nel secolo XIII continuarono ad avere molta influenza in tutto il Padovano le vecchie famiglie feudali, i magnati e i grandi proprietari, al punto che il comune cittadino per diminuire il loro potere ne limitò l'intervento negli organi di governo dello stato, giungendo anche a vietar loro l'accesso alle cariche ed alla vita politica di vertice. Purtuttavia, talvolta se ne servì quali suoi rappresentanti in zone periferiche del territorio. Così uno statuto dell'aprile 1278 affidò a "nobiles et magnati utriusque sexus" funzioni di polizia locale, impegnandoli ad arrestare fuorilegge, fuoriusciti ed assassini. Questa particolare vigilanza su Sambruson, e insieme anche sulle ville di Fosso, Paluello, Porto, Curano, Stra e Sarmazza fu affidata a Manfredo Dalesmanini, quella su Camponogara e Borgomanzo a Giacomo Dalesmanini e quella su Noventa ad Artusio Dalesmanini. La disposizione fa capire quanto fosse ancora forte nella zona la potenza dei Dalesmanini.

Proprietari  e  feudatari  nei  secoli  terminali  del medioevo

I fondi agricoli e i loro lavoranti. Chiamati nel tempo massaricie, munsi, pecie terre, i fondi agricoli non avevano un'estensione fissa; anzi, talvolta essa variava anche di molto (da tempo gli storici padovani hanno convenuto di considerare un manso come costituito, in media, con venti campi). La loro coltivazione era normalmente affidata da proprietari e livellari a servi e/o uomini liberi, contadini e lavoranti della terra legati ad essi con diverse forme contrattuali. Le più comuni di queste (a parte la servitù) erano i contratti a mezzadria e ad affitto; molto praticati erano la soccida e lo zoveadego (in veneziano: zovadego),

Nel 1214 jacopo fu tra coloro che, a Treviso, oltraggiò le insegne veneziane alla festa del Castello d'amore. Nella guerra che ne seguì Padova fu sconfitta da Venezia alla torre di Bebbe. Con molti soldati padovani lacopo fu fatto prigioniero dai veneziani che, per rimetterlo in libertà, gli imposero di regolare le pendenze col monastero dei Santi Ilario e Benedetto. La pace fra Venezia e Padova venne siglata il 22 aprile 1216, ma le questioni fra lacopo e l'abbazia ilariana giunsero a conclusione solo il 1° marzo 1220, quando lacopo restituì al vescovo di Castello, che li riceveva a nome del cenobio, i territori e le ville su cui i monaci benedettini vantavano diritti e di cui egli si era indebitamente impossessato (Tresievoli, Arzere, Aurelia, Piazza Vecchia-Gambarare e Baleello, ad esclusione del castello che qui sorgeva che era di sua pertinenza). Tuttavia, in forza del livello che gli era stato concesso nel 1211, egli tenne per sé "Portum et Sanctum Bruxonem et alias possessiones michi et heredibus meis concessas ad livellum in perpetuum". Dei suoi successivi rapporti col nostro paese non si sa nulla, e forse fu solo casuale che, come abbiamo sopra visto, l'arciprete Giovanni sia stato delegato dal papa a giudicare la causa mossa da lacopo contro alcuni usurai che gli avevano prestato denaro ad interessi altissimi. Morì senza eredi dopo il 1239. I suoi interessi in Porto e Sambruson passarono a Manfredo Dalesmanini, come si viene a sapere da una rivendicazione che questi avanzò contro l'abate Prando il 17 agosto 1262. Ben più a lungo influirono sulla storia di Sambruson Dalesmanino Dalesmanini e i suoi eredi. Come sappiamo, nel 1228 circa Uberto, figlio di Giacomo fu Dalesmanino, impedì all'arciprete Giovanni di recarsi in paese a svolgere la sua azione sacerdotale e raccogliere le decime; ufficio e azioni al cui espletamento fu invece autorizzato quasi subito dopo dal fratello Artusino. Nel 1262 l'abate Prando dichiarò decaduto dai suoi diritti di livellano Manfredo, figlio di Artusino, perché aveva fatto eseguire a Gambarare una derivazione fluviale, chiamata 'rotta del Colombino', su terreni monastici senza averne ottenuto preventivamente il permesso. La questione si appianò e dieci anni dopo, nel castello di Porto, Manfredo ottenne nuovamente dall'abate l'investitura "di tutti i feudi che i suoi antenati avevano già detenuto" dal monastero, ed anche altri trenta campi a bosco e palude a Campomarino, fra Piazza Vecchia e Mira (11 gennaio 1273). Come abbiamo visto, nel 1278 egli venne incaricato di funzioni di polizia dal comune di Padova in Sambruson e territori vicini, ma non sempre fu ligio nei suoi doveri verso il monastero al punto che l'anno precedente, essendo in ritardo di due anni nel pagamento del canone pattuito, l'abate Prando lo aveva dichiarato decaduto dai diritti di livellano. Manfredo si presentò più volte all'abate con un sacchetto di monete in mano dicendo che conteneva le ventiquattro lire di denari veneziani che doveva al cenobio per i beni monastici che conduceva a Porto e Sambruson (22, 28 e 30 ottobre 1277), ma solo dietro notevoli insistenze un anno dopo Prando si decise a cedere ed accettò il denaro (8 ottobre 1278). Dieci anni dopo suo figlio Guecellone era in ritardo di ben tre anni nel pagamento del canone per i livelli di Porto e Sambruson e solo il 26 settembre 1288 nella casa di Fosso, dove si trovava, consegnò al procuratore ilariano, il monaco Francesco, lire quarantotto di denari piccoli veneziani per i tre anni trascorsi e per l'anno corrente, sanando il debito. Per ogni anno egli doveva al monastero dieci lire in denaro contante e quattro libbre di incenso che, al costo di dieci soldi la libbra (per un totale di quaranta soldi, cioè lire due), comportavano un canone complessivo di dodici lire. In ritardo di tre anni era anche nel 1294, tanto che il 10 febbraio l'abate Prando rifiutò di ricevere le somme arretrate che anche questa volta Guecellone gli portava, e lo dichiarò nuovamente decaduto dagli antichi diritti per morosità; però anche questa volta l'abate finì per cedere ed accettò il pagamento.

Sembra che Manfredo, figlio di Guecellone, fosse invece in regola con i pagamenti del canoni, come mostra una ricevuta di quanto versò nel 1305 la quale evidenzia, però, che la quantità dell'incenso dovuto era nuovamente salita a» cinque libbre160. Tuttavia, anche Manfredo si trovava spesso in difficoltà di contante tanto che, per poter disporre di denaro liquido, il 6 febbraio 1300 vendette per quattromila lire di denari veneziani ad Enrico Scrovegni, discendente da una nota famiglia di usurai, il complesso di edifici ed aree che possedeva all'Arena di Padova. Qui Enrico costruì subito il suo palazzo ed eresse una chiesa alla Madonna (S. Maria dell'Arena) alla cui decorazione chiamò il più grande pittore del tempo: il fiorentino Ciotto di Rondone. Le cose si complicarono per il monastero ilariano (che da allora cominciò ad essere noto anche col solo nome di abbazia di San Gregorio) alla morte di Manfredo, in quanto negli intricati rapporti feudali del tempo accadeva spesso che, anche nei confronti di coloro che pur erano attenti nella difesa dei propri interessi (come era il monastero ilariano), usurpatori e disonesti riuscissero a carpire dei beni agendo con tale sottigliezza che, alla fine, facevano risultare la loro illegalità un diritto acquisito. È questo il caso di Manfredo, che si era impossessato dei beni di Sant'Ilario a Gambarare, Porto e Curano lasciandoli alla sua morte (alla metà del 1311 circa) alle eredi, le figlie Dalesmanina e Tommasina, imponendo loro alcuni legati, fra cui un obbligo nei confronti dei suoi fratelli Giacomo detto Traverso, Alberico detto Turcone e Artusino detto Garzino. Naturalmente il monastero contestò l'eredità delle due sorelle, e ne seguì una causa che si concluse il 7 febbraio 1312 con un pesante compromesso per i monaci dettato dal giudice padovano Pantaleone Buzzacarini: le due sorelle avrebbero consegnato al monastero Gambarare, Porto e Curano, e in modo analogo si sarebbero comportati i tre fratelli cedendo i diritti di proprietà o di livello che avevano o dicevano di avere sui tre paesi; a pagamento e a tacitazione di ogni presente e futura pretesa dei Dalesmanini sulle tre ville, il monastero avrebbe versato lire tremila a ciascuno dei tre fratelli. Il successivo 16 maggio, nella chiesa di San Biagio a Padova, il monastero divenne proprietario di quanto ancora apparteneva ai Dalesmanini nelle tre ville e consegnò la somma stabilita di lire novemila. Con altri possessi a Padova e sui colli Euganei, alle due sorelle rimasero per intero i beni paterni di Sambruson (compresi i livelli che Manfredo teneva da Sant'Ilario). Quei possessi vennero divisi verticalmente in due parti, separati dalla strada di Mezzo che attraversava da nord a sud il paese: la parte ad est "versus Venetias" fu assegnata a Tommasina, e quella ad ovest "versus sero" a Dalesmanina.

Tommasina sposò Guecellone da Monfumo, ebbe sette figli e, rimasta vedova, sposò in seconde nozze Giacomino Badoer - da Peraga (figlio di Marco Badoer, detto da Peraga), al quale portò in dote l'intera sua parte di beni a Sambruson. Morì prima del 27 luglio 1338.

Dalesmanina sposò Gerardo, figlio del conte Rambaldo Vili di Collalto; non ebbe figli e rimase vedova abbastanza presto, tuttavia non si risposò. Tentò invano di far rispettare le clausole del testamento del padre, ma contro le resistenze e i tentativi dei parenti di impossessarsi anche della sua parte di eredità si rifugiò a Venezia, presso la madre Egidia o Zilia la quale, rimasta vedova di Manfredo, aveva sposato in seconde nozze Zanino di Marco Contarini (matrimonio da cui nacquero quattro figli); qui assegnò l'esecutività del testamento paterno ai procuratori di San Marco. Non in buona salute (era "infirmitate corporis agravata"), il 27 luglio 1338 testò disponendo che tutti i suoi beni, compresi quelli di Sambruson, venissero divisi in due parti assegnandone, una, ai figli di Tommasina (e cioè i nipoti da Monfumo) e, l'altra, ai fratellastri, figli della madre e di Zanino Contarini. Poco prima, il 1° luglio, aveva affittato per otto anni allo stesso Zanino tutti i suoi beni a Sambruson, tranne un manso. Morì forse l'anno seguente.

I da Monfumo e i da Peraga - Badoer vennero in questo modo a sostituirsi ai Dalesmanini in Sambruson sia nei beni di proprietà, sia in quelli che avevano a livello dal monastero dei Santi Ilario e Benedetto e San Gregorio, sia anche in quelli ancora nominalmente del monastero di cui si erano indebitamente appropriati, come già allora dimostrava il fatto che da tempo non gli versavano alcun corrispettivo. La confusione originò liti e cause legali, promosse anche da persone intenzionate ad approfittare della situazione per arricchirsi a danno degli eredi e del monastero ilariano.

Gli esecutori testamentari di Dalesmanina si trovarono di fronte a notevoli difficoltà impreviste al riguardo della metà dei beni lasciati ai Contarini. Nel dettare il suo testamento, essa non aveva tenuto presente che, non avendo i Contarini la cittadinanza di Padova, i suoi fratellastri non potevano possedere beni in quel territorio; conseguentemente, non avendo essa lasciato eredi legittimi diretti, quella metà parte di eredità sarebbe dovuta tornare per devoluzione al monastero veneziano. Nemmeno in un caso così semplice fu, però, facile per l'abate Pietro ed il monastero di Sant'llario - San Gregorio tornare nella piena disponibilità di beni propri, perché gli esecutori mossero comunque loro causa per far valere la volontà di Dalesmanina. Alla fine i tribunali di Venezia dettero ragione ai monaci e, con precetto del doge del 19 ottobre 1342, fu ordinato agli abitanti e ai contadini di Sambruson di riconoscere come vero e unico padrone delle terre in contestazione il solo abate Pietro164. Durante la causa era emerso un grave segnale sulla situazione economica del monastero: l'abate dichiarò che le terre di Sambruson livellate ai Dalesmanini erano teoricamente devolute al monastero già in precedenza, al momento della morte di Manfredo, dato che Dalesmanina e Tommasina non ne avevano mai ottenuto l'investitura da parte del monastero e, quindi, esse le avevano detenute indebitamente: e tuttavia l'abate non aveva potuto muover loro causa per farsi riconoscere i propri diritti a motivo delle difficoltà finanziarie in cui il cenobio versava. Così, nel tentativo di ottenerne la restituzione almeno per mezzo di un nuovo livellano, già il 10 novembre 1340 i monaci avevano concesso in feudo al veneziano Pietro Falier le terre di Dalesmanina, alle stesse condizioni con cui questa le teneva, ma con aggiunto l'espresso incarico di adoperarsi per la loro restituzione.

Seguire in modo dettagliato ciò che allora successe esorbita dagli obiettivi di quest'opera, anche se è utile vedere come i da Peraga e i Badoer si insediarono a Sambruson succedendo ai Dalesmanini nei beni feudali del monastero ilariano.

I Badoer — da Peraga o Badoer Peragini nella prima metà del secolo XIV. Almeno dalla fine del secolo XII l'antica famiglia feudale dei da Peraga era livellaria di possessi di Sant'llario a Caselle, Bagnolo, Pionca, Mirano, Fossalovara, Perarolo e Flesso Maggiore (paese in cui l'8 aprile 1336 il monastero aveva anche una "domus magna") e, secondo l'incerta lezione di una dichiarazione del 1519, sembra avesse beni propri in Sambruson166. Dati i complessi intrecci fra i numerosi rami della famiglia (aspetto che la caratterizzerà, come vedremo, fino all'Ottocento), mi limito ad alcuni riferimenti essenziali. La causa era stata aperta presso la curia vescovile in quanto era coinvolto un ente religioso, ma Manfredo si rivolse anche al tribunale civile, dove trovò rapidamente ragione (25 ottobre). Guidone da Pesaro, vicario del podestà, riconobbe la validità delle sue affermazioni e stabilì che doveva entrare in possesso di tutta la metà dei beni del paese che Dalesmanina aveva al momento della morte, i quali si stendevano sulla parte occidentale della villa con l'eccezione di quattro mansi: uno che era stato acquistato da Giacomino da Peraga, ed altri tre comperati da Antonio Catari cui erano stati venduti da donna Zilia (uno) e da Gerardo da Collalto (due). Da quanto i testi dicono del paese, veniamo a sapere che fra i possessi di Dalesmanina c'erano anche "una torre in muratura con due tèse coperte di paglia, circondata da una fossa e con attorno un campo di terra circa", ed una "casa dominicale", in cui la stessa Dalesmanina si soffermava quando si recava a Sambruson: casa e torre che, però, erano ora occupate da persone non autorizzate. A salvaguardia dei suoi diritti Manfredo chiese al giudice che chi le abitava ne venisse cacciato imponendogli che, nell'allontanarsi, non asportasse "le biade, i beni, le legne e qualsiasi altra cosa" ora interamente appartenenti ai da Monfumo.

I Badoer divennero signori di Peraga a seguito del matrimonio del veneziano Marino Badoer con Balzanella da Peraga, figlia di Pietro (che era figlio di Geremia da Peraga; Pietro fu fatto uccidere da Ezzelino da Romano nel 1251). Dal matrimonio nacquero Pietro e Marco; da questi ebbe inizio la discendenza detta dei Badoer - da Peraga o Badoer Peragini. Marco sposò Sofia, figlia di Bonifacio da Carrara, e dall'unione nacquero Geremia, Filippo e quel Giacemmo che ebbe in dote dalla moglie Tommasina Dalesmanini le terre orientali di Sambruson, dalla via di Mezzo alle Brentelle e dal Brenta all'argine di San Paterniano (ad eccezione di un possesso di Bartolomeo Enselmini). Forte del suo diritto feudale e bisognoso di denaro, Giacomino cedette quei beni a Prosdocimo da Paluello, che tuttavia li lasciò in affitto a Giacomino. Poiché, però, né Tommasina, né Giacomino, morto senza figli, né i nipoti e suoi eredi Marco, Geremia e Zanino (figli di Filippo da Peraga) e Giovanni o Zuanne (figlio di Marino), avevano mai pagato alcun livello al monastero, questo mosse loro causa per il riconoscimento dei propri diritti (18 febbraio 1344). La vertenza si concluse a Venezia il 27 agosto 1346 quando, "prò bono pacis et concordiae", l'abate e il capitolo monastico di Sant'Ilario - San Gregorio concessero formalmente a Geremia, Zanino, Giovanni, Filippo, Giacomo e Alberto Badoer - da Peraga "ad livellum perpetuum et iure livelli veteris et perpetualis", da rinnovare ogni ventinove anni, millecinquecento campi a Porto, Curano e Sambruson; da parte loro i Badoer si impegnarono a versare ogni anno al monastero un canone di due soldi veneziani per campo (pari a centocinquanta lire), ad adoperarsi perché i fratelli Prosdocimo e Geremia da Prezzolo rinunciassero ai diritti che affermavano di avere acquisito su essi, e a non alienare, vendere o trasferire ad altri quei terreni e possessi se non col preventivo assenso dell'abate. Nel 1348 i monaci autorizzarono Geremia e Zanino a vendere la loro parte di Sambruson per la somma di lire cinquemila, nel 1349 autorizzarono altri eredi a scambiare fra loro le parti, e il 28 dicembre 1350 investirono nuovamente i fratelli Filippo, Albertin, Giacomo e Alberto Badoer di quei livelli, con la motivazione del continuo succedersi dei titolari del diritto. Il livello fu ulteriormente confermato dall'abate Pietro a Giovanni da Peraga, a nome di tutti gli aventi diritto, il 18 giugno 1366. Rimangono ricevute dei pagamenti effettuati dai Badoer nel 1347 e nel 1352, anno in cui versarono lire trecento, segno che erano in ritardo di un anno.

Contestazioni di  Manfredo  da Monfumo

Nell'ottobre 1347 giunse in discussione nel tribunale ecclesiastico di Padova il ricorso presentato da Manfredo da Monfumo a nome proprio e dei suoi fratelli eredi di Dalesmanina il sorgo e tutte le altre biade e le leguminose spettanti ai fratelli eredi fossero condotti dai contadini ambrosiani nella casa di Padova in cui risiedevano. Il giorno seguente il precone del comune si recò a Sambruson dove ingiunse a Nicolo, "sindico Sancti Broxonis" (forse un curatore degli interessi del monastero), di far portare a Padova i prodotti dei campi dei da Monfumo, ed ordinò a Bertuccio, che abitava la torre e la casa domenicale, di allontanarsene immediatamente. Naturalmente il monastero reagì proponendo appello e riuscendo ad interessare della questione anche il governo veneziano, che a quel tempo manteneva complessivamente buoni rapporti con Padova, di cui era signore Giacomo II da Carrara. Un'ambasceria veneziana si portò a Padova, perorò la causa del monastero e convinse Giacomo II a far restituire a Sant'Ilario — San Gregorio le terre toltegli dalla sentenza di Guidone da Pesare (17-21 marzo 1349). Manfredo venne spogliato delle terre contese, ma reagì proponendo ricorso davanti al vescovo di Castello, a Venezia (24 ottobre 1349). Le cose andarono per le lunghe, anche se egli continuava a lamentarsi che circa "a tempore magne mortalitatis" ("dal tempo in cui vi fu la grande mortalità", cioè il 1348, l'anno della grande peste che imperversò in tutta Europa mietendo ovunque migliaia di vittime) era stato ingiustamente spogliato di beni e diritti con pesantissimi danni economici.

di Giovanni Cane. Contro il monastero stava, intanto, movendo un altro attacco Giovanni Cane, figlio del defunto Enghelfredo Enghelfredi. Il 20 ottobre 1349 egli presentò istanza alla curia vescovile di Padova perché Sant'Ilario — San Gregorio gli consegnasse trentasei dei centoventi mansi che costituivano l'insieme dei beni di Dalesmanina e Tommasina in Sambruson e comprendevano "terre aratorie, pratalive et buschalive, cum domibus et edificiis supra ipsis positis", in quanto nel suo testamento Manfredo Dalesmanini aveva prescritto che, alla morte delle figlie, i beni che egli lasciava dovevano essere divisi in tre parti da destinare, la prima, ad essere venduta distribuendone il ricavato "per l'anima sua e dei suoi parenti"; la seconda consegnata a Simeone fu Enghelfredo Enghelfredi e la terza data ad liberto fu Artusino Dalesmanini (ma poi egli annullò questa clausola e pure questa parte sarebbe dovuta andare agli eredi legittimi). Ora, essendo Giovanni Cane erede di Simeone, egli chiedeva di entrare in possesso dei beni lasciati da Manfredo al padre, ed ora a lui devoluti. L'abate inviò in vescovado a Padova, a rappresentarlo e difenderlo, il notaio Guglielmo di Serravalle che accusò Giovanni Cane di aver sollevato un problema infondato per impadronirsi di beni non suoi, e lo accusò di comportarsi in un modo così insolente e spavaldo, tanto che poteva fare tutto ciò che voleva nel territorio di Padova e nella diocesi padovana, per il fatto che era amico intimo del signore Giacomo II, dal quale era protetto. E questa sua poca correttezza e le sue intimidazioni nei confronti di Sant'Ilario avevano raggiunto il culmine quando, di fronte alla difesa del monastero proposta contro Giovanni dal monaco Tommaso, inviato in precedenza dall'abate come suo rappresentante, egli aveva risposto facendo incarcerare Tommaso nelle prigioni del palazzo vescovile: così Giovanni Cane potè continuare a occupare impunemente le terre in contestazione, di cui si era impadronito con la forza (31 ottobre). L'arringa era veramente pesante, anche per il diretto coinvolgimento che faceva alla connivenza del signore di Padova; Giovanni rispose ribadendo che, invece, erano i monaci a impedirgli di entrare in possesso di beni suoi. Non sappiamo come la causa si sia conclusa, ma dovette finire in modo favorevole per il monastero, considerato che pochi anni dopo quei beni erano nella disponibilità dei livellari Badoer.

Ancora Manfredo da Monfumo, Giacomo degli Agolanti e lo zampino dei da Carrara.

Manfredo da Monfumo, che non aveva mai smesso di ricorrere alle vie legali per rivendicare i suoi diritti sulla metà dei beni ilariani lasciati dalla zia Dalesmanina ai Contarini (i quali, perseverando a loro volta nel reclamarli, erano riusciti a farsi sostenere anche dal governo veneziano), ripresentò istanza pure dopo che erano via via morti tutti e quattro i suoi fratelli maschi, continuando la causa a nome proprio e delle sorelle Zilia e India. La svolta si ebbe il 15 febbraio 1365 quando Giovanni Salgardo da Feltre, vicario del podestà di Padova, con sentenza emessa su conforme parere di Bartolomeo Belengerio, riconobbe lui e le sorelle eredi legittimi di Dalesmanina ed impose all'abate Pietro di restituire immediatamente a Manfredo quanto deteneva di lei a Sambruson. Patrocinatore legale dei da Monfumo era stato Giacomo Fantelli che il successivo 10 marzo, continuando nella sua funzione di procuratore di Manfredo, presentò istanza a Bonifacio Fantelli, giudice padovano al disco del grifone, contro Pietro "qui se dicit abbas Sanctorum Illarii et Benedica atque Gregorii". In essa egli sosteneva che, in virtù della sentenza del 15 febbraio, al suo rappresentato Manfredo, in quanto erede di Dalesmanina, spettavano non solo i tre quarti dei beni della zia a Sambruson, ma anche l'intera villa di Gambarare. Inoltre, poiché a distanza di quasi un mese dal giudizio del Salgardo Manfredo non era ancora potuto entrare in possesso dei beni di Sambruson assegnatigli dal giudice, e che da ben diciassette anni, ormai, assieme a quelli di Gambarare questi erano tenuti da Pietro, falso abate di San Ilario — San Gregorio, con suo gravissimo danno economico visto che per tutto quel periodo egli non aveva potuto percepire "frutti ed emolumenti" per un ammontare di circa diciassettemila lire (in ragione di almeno mille lire l'anno), ebbene, per questi motivi il Fantelli avanzava ora istanza che non solo Manfredo venisse immesso subito nel possesso dell'intera Gambarare e di tre quarti di Sambruson, ma anche che "il fasullo abate Pietro" fosse costretto a consegnare senza altre remore le due ville a Manfredo e che, a rifusione degli introiti da questo non percepiti, l'abate fosse condannato a versargli la somma di diciassettemila lire, oltre beninteso a rifondergli le spese legali sostenute per muovergli causa, quantificate in venti ducati d'oro. Il 4 aprile Bonifacio Fantelli riconobbe le ragione di Manfredo, accolse per intero le sue istanze e condannò il monastero alla consegna dei beni e al pagamento delle somme richieste.

Una sentenza così pesante ed una rifusione di danni così ingente spinsero i monaci di Sant'Ilario — San Gregorio a predisporre un immediato ricorso per cassare o almeno riformare sostanzialmente il dispositivo, ed intanto coinvolsero il governo veneziano inducendolo ad intervenire nella vicenda. Manfredo fu convocato a Venezia; vi andò il suo procuratore, Giacomo degli Agolanti, col quale il doge Lorenzo Gelsi concordò per iscritto che entro dieci giorni Manfredo "avrebbe fatto cassare ed annullare i processi, le delibere esecutive, le conferme fatte sia su istanza sua, sia su quelle dei suoi fratelli e sorelle, contro il monastero dei Santi Ilario, Gregorio e Benedetto, ossia sui possessi del monastero nella villa di Sambruson e delle Gambarare". Entro il termine previsto (sembra ai primi di aprile) si presentarono a Padova Ì rappresentanti veneziani Guido da Reggio e Desiderato Lucio, cancelliere grande della repubblica, che, alla presenza del signore Francesco il Vecchio da Carrara, chiesero a Manfredo di tener fede all'impegno preso dall'Agolanti. Allora Manfredo riconobbe in modo formale quanto era stato convenuto a Venezia, ad iniziare dal ritiro delle sue dichiarazioni sulla non regolare nomina dell'abate Pietro, che affermò essere stata invece del tutto corretta, "senza mende e macchie di abuso, azione delittuosa o infamia".

Sembrava finita, ma in realtà si scoprì, oppure il progetto venne a quel punto a maturazione, che si trattava di una delle tante macchinazioni messe in atto da Francesco il Vecchio da Carrara per impossessarsi di beni e proprietà altrui, in particolare, ma non solo, di possessi e benefici ecclesiastici e monastici175. Già abbiamo visto come Giovanni Cane avesse tentato di appropriarsi dei beni di Sant'Ilario — San Gregorio a Sambruson forte dell'appoggio del signore padovano Giacomo II, ma fu con Francesco il Vecchio che i da Carrara usarono il potere politico per arricchire sé, la famiglia, i parenti ed i propri partigiani utilizzando in maniera disinvolta anche le strutture statali e sistemi di pressione che avevano la forma esterna della perfetta legalità. Un esempio è dato dalle vicende che stiamo seguendo. Manfredo, "amicus" già di Giacomo II, lo fu pure di Francesco il Vecchio, e questi, intenzionato a venire in possesso dei beni che i da Monfumo da tempo rivendicavano, programmò con essi un piano per impadronirsene: la sua azione cominciò dal concordare, o almeno non vedere, la connivenza dei Fantelli nella sentenza del 4 aprile; poi, fu certamente lui a mandare a Venezia a trattare col Celsi l’Agolanti, che era un suo uomo di fiducia; infine, fu sicuramente su suo suggerimento che Manfredo finse di accettare l'accordo col Gelsi, così che il da Monfumo, eliminati controlli e pressioni esterne, potesse vendere senza alcun'altra interferenza ad un prestanome del Carrarese le terre di Gambarare e Sambruson, solo "sue" ora che Francesco gliele aveva fatte riconoscere con sentenza del tribunale.

La vendita avvenne a tempi strettissimi (sicuro indice che tutto era stato concordato in precedenza) il 15 aprile 1365, poco dopo la partenza della delegazione veneziana, nella casa dell'acquirente, l'ormai a noi noto Giacomo fu Beto degli Agolanti. Essendo cittadino di Firenze, ma non di Padova, questi non sarebbe potuto diventare proprietario di quei beni, tuttavia, nella sua qualità di capitano generale di Padova Francesco il Vecchio gliene diede autorizzazione con una concessione speciale. Per la somma di quattordicimila ducati "di buon oro e del giusto peso", che dichiarò di ricevere seduta stante, Manfredo vendette a Giacomo l'intera villa di Gambarare "et tres partes ville Sancti Bruzonis" sulle quattro della parte di Dalesmanina, "con tutte le case, le tese e gli edifici posti e situati nelle stesse tre parti che hanno a confini da un lato il Brenta, da un altro la villa di Paluello, da un altro la villa di Campoverardo, da un altro l'argine di San Patrignano e da un altro l'acqua di Mucio". Entro breve l'Agolanti, o chi per lui, "vendette"questi beni a Francesco il vecchio. La parte di Tmmasina continuò a rimanere, invece, ai da Peraga-Badoer.

I Badoer Peragini nella seconda metà del secolo XIV.

Nel giugno 1388, a seguito (come vedremo) della pressione militare esercitata su Padova da una coalizione anticarrarese costituita da Venezia e Gian Galeazze Visconti, signore di Milano, Francesco il Vecchio da Carrara abdicò in favore del figlio Francesco, che i documenti indifferentemente indicano con i nomi di Francesco II, Francesco il Giovane e Francesco Novello. Durante tutta la loro signoria su Padova i Carraresi avevano fatto affidamento sulla fedeltà dei da Peraga, ma negli ultimi giorni di quello stesso giugno del 1388 Francesco Checcheggio informò Francesco Novello che Albertino da Peraga aveva deciso di tradirlo e di passare con alcuni amici al conte di Virtù (titolo con cui era soprannominato Gian Galeazze Visconti in quanto conte di Vertus). Nel tentativo di tornare a rendere Albertino e la famiglia da Peraga favorevoli a sé, il Novello nominò Geremia fra i suoi consiglieri ed assegnò ad Albertino l'incarico di marescalco del campo contro il Visconti. Tuttavia Albertino, ormai deciso nel suo intento, predispose un piano per far occupare Padova dalle truppe milanesi. Nuovamente accusato di fronte al Novello, fu imprigionato; sotto tortura confessò la trama che aveva ordito e fu condannato a morte. Ai primi di settembre fu decapitato, mentre il fratello Giacemmo, pure lui coinvolto nella congiura, venne impiccato. Come in questi casi accadeva, i beni loro e della famiglia da Peraga, accusata in blocco di tradimento, vennero confiscati e acquisiti dal Carrarese.

Francesco il Giovane ne rimase in possesso per poco tempo in quanto, sotto l'incalzare delle truppe di Gian Galeazze Visconti, il 21 novembre addivenne con questi ad un accordo che, di fatto, significava la consegna a lui dello stato; inoltre si impegnò a mettersi a sua disposizione risiedendo in un castello della signoria milanese. Prima di allontanarsi da Padova, però, con gran furbizia Francesco vendette, donò, concesse o restituì terre e beni a parenti, amici, prestanome ed uomini di fiducia per ingraziarsene i favori e poter contare sulla loro gratitudine qualora si trovasse in situazione di necessità, o avesse bisogno di aiuto per rientrare in città quale signore. In questo contesto, con atto notarile del 24 novembre 1388 tramite il suo procuratore Paolo da Lion "dedit, donavit sponte liberaliter et ex certa scientia expresse remisit ad perpetuum et in perpetuum", "con una donazione, che si dice donazione fra vivi, e che non può essere stracciata, accusata di vizio, revocata o ritrattata nemmeno per ingratitudine, molestie od offese grandi o piccole" e tale che nessuno la potesse impugnare davanti a giudici e pretori se non con la penale di cinquecento monete d'oro, egli donò dunque ai Badoer Peragini residenti a Santa Sofia di Padova (i fratelli Geremia e Bartolomeo ed i figli del loro defunto fratello Marino) "tutte le case di muro e di legno, tutte le possessioni, i sedimi e gli appezzamenti di terra ad arativo, prato e bosco da dissodare o con vigne, e le terre paludose poste nella città di Padova e nel suo territorio, nelle ville di Peraga, Mirano, Pionca, Comenzago, Murelle, Zianigo e Veternigo, Sambruson, Teolo, Boccon e Zovon...", nella stessa consistenza in cui le teneva e possedeva Zanino da Peraga "durante la sua vita e al momento della morte". E di tutta evidenza che con quell'atto Francesco non donava terre nuove ai da Peraga-Badoer, ma solamente restituiva quanto aveva loro da poco confiscato. Ai beni così restituiti, inoltre, egli fece accordare il privilegio di mantenere le concessioni, le prerogative e le esenzioni fiscali di cui godevano quand'erano di sua proprietà: "come al magnifico suddetto signor donatore in qualsiasi modo erano su essi di spettanza e pertinenza"; in molti ambiti queste esenzioni si allargavano agli uomini che lavoravano le terre restituite. Di questi privilegi i Badoer avrebbero goduto fino alla caduta della repubblica di Venezia.

Tuttavia, le proprietà di cui i Badoer disponevano furono nuovamente tolte loro, ed ulteriormente incamerate dallo stesso Francesco II, quando Geremia e Peragino, dopo essersi schierati con Gian Galeazze Visconti durante il suo dominio su Padova (1388-1390), rifiutarono il perdono che Francesco il Giovane offerse ai nemici interni al momento del ritorno alla signoria (1390); per questo motivo, anzi, nel 1392 il Novello li bandì dal territorio padovano. Più tardi, però, essi accettarono il perdono del Carrarese e, nell'occasione, ottennero anche di essere reintegrati nei loro beni (1404). Subito dopo, tuttavia, si schierarono nuovamente contro di lui combattendo tra le file dell'esercito di Venezia, ed il Carrarese nuovamente li spogliò di ogni avere182. Dopo che ebbe occupato Padova, il 14 gennaio 1407 la repubblica di San Marco si mostrò riconoscente con i da Peraga-Badoer confermando loro la proprietà di tutti i beni sui quali vantavano diritti. In questo modo essi tornarono in possesso di quanto "loro ed i loro eredi avevano tenuto e posseduto fin dal tempo in cui furono espulsi dai da Carrara, cioè i possessi, i sedimi, le case e le gastaldie... E per prima la gastaldia di Sambruson, tenuta da Giacomo Barchieno per averla presa ad affitto dal signore Francesco da Carrara...".

Il 6 novembre 1409 l'abate di San Gregorio rinnovò a Geremia e Peragino "l'antico e perpetuo livello che doveva essere rinnovato ogni ventinove anni" dei beni a Sambruson. Li investì "con l'anello che aveva in mano", ed essi accettarono il feudo promettendo di consegnare ogni anno la somma in denaro convenuta nella festività di S. Giustina.

Alture di Sambruson.

Edificio monastico già di proprietà dei monaci di San Giorgio in Alga, acquistato nel secolo XVII dalle monache benedettine del monastero di Santa Giustina di Venezia ed attualmente utilizzato come casa di accoglienza, nella particella n. 12 del Catastico della Sesta presa. Dolo, Alture di Sambruson (ed. consorzio di bonifica bacchiglione brenta), e in due recenti immagini dell'esterno e del portico interno a piano terra.

 

Tentativi di reazione di Sant'Ilario ai soprusi padovani

II monastero di Sant'Ilario — San Gregorio reagì in qualche modo alle provocazioni del Monfumo, dell'Agolanti e di Francesco il Vecchio? Sicuramente, ma tutto fu inutile. Se in una situazione tanto intricata c'era una certezza, questa era che l'abate e i monaci non potevano presentare ricorso contro le sentenze dei tribunali padovani a Padova, per cui lo presentarono a quelli veneziani e, oltretutto, non muovendo causa all'Agolanti o a Francesco il Vecchio, ma continuando a citare Manfredo. Per avere sicura conferma delle proprie ragioni chiesero un parere legale al giudice di Treviso Giovanni de Aldemario. Studiate le carte e la documentazione sottopostagli, questi consegnò loro una elaborata nota scritta con precise confutazioni delle singole asserzioni dell'avversario*. Le sue argomentazioni furono accolte dai giudici veneziani, che dettero ragione al monastero, ma il tutto rimase lettera morta pur se il governo della Serenissima, in appoggio alle ragioni di Sant'Ilario, mandò al signore di Padova un ambasciatore. Questi si presentò a Francesco da Carrara con una bolla dogale, datata 31 marzo 1369, in cui si chiedeva la restituzione al monastero dei beni contestati. E probabile che Francesco non abbia nemmeno preso in considerazione l'opportunità di rispondere: in quei momenti questo problema non era che una piccola goccia che andava ad aggiungersi nel grande vaso colmo di motivi di recriminazione e discordia che minavano da tempo le relazioni fra i due stati e che, entro breve, avrebbero portato alla guerra.

* La lunga nota dell'Aldemario, in cui si fa riferimento a numerosi documenti sui rapporti fra il monastero e i Dalesmanini, non è datata (ma fu redatta fra l'aprile 1365 ed il marzo 1369) e viene riportata con l'indicazione "E" nelle pagine terminali del ms BSVP, Appendice. Dalla dettagliata disamina dell'Aldemario, in cui si afferma che i beni in contestazione erano sicuramente tutti di proprietà di Sant'Ilario — San Gregorio e che spettavano ai Dalesmanini solo come feudo antico "iure livelli et utilis dominii", si viene a sapere anche che, per meglio porre in esecuzione i suoi piani, Manfredo si era dichiarato unico erede dei possessi della zia, estromettendo dai benefici e dal ricavato della vendita le sorelle. È per meglio affrontare quest'ultimo momento della lunga causa contro i da Monfumo che il monastero approntò la documentazione conservata in ASV, Corporazioni religiose, S. Gregorio, b. 21. Processi, mazzo VI, n. 4 (Reverendissima abbazia di San Gregorio contro eredi della quondam Dalesmanina Dalesmanini). Da questa, f. 19r, è ripresa la notizia della missione veneziana a Padova nel 1369.


Dal volume "IN SANCTO AMBROSONE"

di MARIO POPPI (Associazione Culturale Sambruson La Nostra Storia)


articolo a cura di Luigi Zampieri

 

Ultimo aggiornamento (Venerdì 28 Febbraio 2020 16:43)

 

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