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Antologia di racconti inediti 2021 di A. Zilio

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SAMBRUSON. CULTURA, COSTUME, TRADIZIONI, AMBIENTE. - LETTERATURA A SAMBRUSON (III)

 

Antologia di racconti inediti 2021 di  A. Zilio

 


 

LASSIE E’ TORNATO A CASA

“Questo salice non lo vedo bene.”

“Ehm!”

“Aldo, questo salice sta morendo.”

“Ehm!”

“Aldo, questo salice è morto.”

“Ah! Meno male!”

Questo dialogo si svolse in un tardo pomeriggio, quando gli alberi del giardino allungavano la loro piacevole ombra ed era gradevole restare seduti tra il verde. La signora Maria Teresa è una persona meticolosa, esprime la sua opinione su tutto, anche sulle cose più banali. Il marito è una persona mite, silenziosa, sopporta con pazienza la moglie invadente che non gli lascia pace, neanche quando è assorto nei suoi pisolini pomeridiani.

Hanno un cane bello, peloso, di compagnia, un Collie scozzese, ammirato da tutti i vicini e dai rari ospiti. Non è un cane aggressivo, ma sa difendersi e difendere i suoi padroni. Il suo abbaiare è rumoroso e sufficiente a mettere in guardia gli intrusi. Si esprime come una persona, nel suo linguaggio canino, basta saperlo intendere. Quando si espresse in maniera ferma e decisa su una sua scelta di vita, nessuno ci fece caso.

La signora Maria Teresa lo vedeva strano, muso sulle zampe, occhi socchiusi, come uno che sta male o è immerso nei suoi pensieri. Chiamò il marito e gli parlò di brutto.

“Aldo, Lassie sta male!”

“Ehm!”

Gli accarezzò il capo, gli lisciò il pelo, ma Lessie non le rispose come il solito, leccandole la  mano. Poi si accucciò.

La signora non ci fece caso. Chiamò il marito  e gli disse che le sembrava strano il comportamento del loro cane.

“Sembra anche a me.”

Non sapeva come zittirla.

Il giorno dopo Lessie era in fuga, era sparito. Il fatto incredibile colpì il signor Aldo che mise articoli sui giornali, contattò trasmissioni televisive che si occupava di animali smarriti, fece affiggere sui tronchi degli alberi manifesti con la foto di Lassie e un messaggio con il suo indirizzo.

Ma non ottenne risposte.

Pensò al suo cane che puliva con lo shampoo, che pettinava con un delicato spazzolone, a cui dava bocconi della sua tavola. Qualcosa doveva essere successo. Aveva usato le tecniche suggerite dalle riviste specializzate sul cane per tenerlo pulito e sano, per eliminargli acari, pulci, zecche, zanzare, pappataci. Ma niente! Parlò di ingratitudine e del fatto che non bisognava mai fidarsi degli animali. Non sapeva che Lassie aveva bisogno di strofinarsi le ginocchia sulla polvere, sui tronchi per eliminare il prurito, per stare bene.

Una sera, approfittando del cancello aperto, Lassie uscì, prese una strada tra i campi e di lui non si seppe più nulla.

Tornava a casa, al luogo dov’era nato, nelle Langhe. Viaggio lungo e avventuroso, pieno di incognite, ma a cui non poteva più rinunciare. Fiutò il vento, seguì il sole che tramontava e che gli insegnava la direzione. La sua casa non era quella dei signori, ma quella in cui aveva succhiato il primo latte. Fu questo il grande equivoco, pensare che gli animali  ragionino come noi, invece il discorso è molto semplice: ogni specie segue i suoi istinti naturali.

Lungo il suo percorso tra i campi incontrò persone che spannocchiavano, che tagliavano il fieno, che vendemmiavano. Arrivò a una grande fattoria, dove molti animali razzolavano, cantavano, si rincorrevano. Un pastore tedesco alla catena gli ringhiò un saluto burbero, avvisandolo che lì era lui il padrone. Lassie lo rassicurò.

“Sono di passaggio,” gli disse.

Approfittò della sosta per mangiucchiare gli avanzi del padrone di casa, per ragionare un po’ sulla loro condizione e riposare sulla paglia.

“Vedi la mia catena? Ho tutto, tranne la libertà.”

“Questo è un grande dono, che uno può usare senza rendere conto a nessuno, mi dispiace per te.”

Riprese di grande lena la strada di campagna seguendo il suo fiuto di cacciatore. Incrociò le greggi di ritorno dalla transumanza, attraversavano i paesi in tutta tranquillità, erano le auto a fermarsi o a rallentare. Si accodò a loro. Un cane guardiano lo apostrofò severamente.

“Ehi, tu, come ti permetti?”

“Ti chiedo scusa, fratello, ma volevo approfittare della vostra frettolosa andatura per infrattarmi anch’io tra i medicai.”

“Qui siamo già in due, io e la mia compagna, fermati per questa notte, mangia qualcosa e domani ripartirai pasciuto e riposato.”

Durante la notte, all’addiaccio, parlarono a lungo della loro via, delle loro storie, delle loro speranze. Poi si fece silenzio, sotto un cielo magnifico di stelle e di una splendida luna piena.

“Dove vai, così di fretta?”

“Vado nelle Langhe dove sono nato, dove ho avuto la mia prima casa.”

“Segui il nostro pastore, ti aiuterà a guadare i fiumi e poi, mi raccomando, segui il sole.”

Lassie si convinse ancor più di avere ragione e partì solitario verso ponente.

Giunse in una città sconosciuta, dove tutti andavano di fretta, dove non c’era rispetto per il prossimo, tanto meno per i cani. Incontrò cani e gatti schiacciati impietosamente dalle ruote dei camion. Si guardò attorno da un marciapiede, ma neppure lì c’era riguardo per gli animali soli. Passarono delle signore con il barboncino in braccio o con il bracco a guinzaglio, che avvisavano i loro animali di riguardarsi dai randagio. Così scoperse la sua nuova condizione di girovago, di

sperduto, di solo al mondo.

Ma la condizione di cane randagio comportava anche il rischio di essere contagioso, di non essere vaccinato, di essere pericoloso per le persone e per il traffico.

Scorse dei vigili in divisa con un cordino che lanciavano contro altri suoi simili, erano gli accalappiacani. Da inesperto, si lasciò avvicinare e fu accalappiato. Credette di soffocare. Con un furgoncino chiuso, fu portato in un canile dove incontrò altri suoi simili che latravano e guaivano da far pietà. Si rannicchiò in un angolo e pianse solitario. Aveva incontrato un imprevisto che rovinava tutto. Passavano famiglie che guardavano e sceglievano il cane da portare nelle loro case. Ebbe il pauroso timore di aver perso per sempre la sua libertà, la casa natia che tanto aveva agognato.

Venne una coppia di giovani signori con un ragazzino a mano.

Guardarono e passarono oltre.

“Scegli quello che ti piace di più.”

Il padre tornò indietro, gli indicò Lassie per la sua pacifica maestosità e per l’idea che sarebbe stato un’ottima difesa per il figlio. Fu scelto, evitando il rischio dei troppi rifiuti che avrebbero portato alla sua soppressione. Fu preso a guinzaglio, condotto in un’auto, gli fu messo un medaglione al collo, come segno di riconoscimento. Aveva un’identità, ma aveva perso di nuovo la sua libertà e la sua casa natia.

La comitiva arrivò finalmente a casa, ad Alba.

Con sua grande sorpresa, Lassie fu liberato, lasciato entrare e uscire senza alcuna restrizione. Il ragazzino lo portava con sé a giocare nella sua camera e a tavola gli porgeva bocconi prelibati.

Usciva con la museruola, ma scorse che anche le persone indossavano bianche mascherine di protezione. Non capiva il perché, ma lasciò perdere.

Dopo alcuni giorni si rese conto, e fu una sorpresa che gli riempì il cuore di gioia, era tornato nel territorio dov’era nato.

Quella era l’aria, quello era il sole, quelle erano le stelle che ricordava, quello era il suo ambiente ritrovato.

Lassie era tornato a casa.

 


 

LA TAVOLA

Sono entrata nella casa della famiglia Gardini durante i preparativi del matrimonio dei giovani Enrico e Giovanna. Sono arrivata con altri mobili nuovi di zecca, ma non belli come me, lustrata e solida, ho portato in dote sei figliocce ossia sei sedie con la seduta vellutata di rosso.

Il piano è solido, di legno massello, come pure le quattro gambe modellate a stile Rococò. Non tutti hanno apprezzato la mia bellezza e solidità.

A pranzo possono sedere sei persone, anche se all’inizio solo i giovani sposi si stringevano attorno a me.

I giorni sono passati velocemente e, dopo diciotto mesi, sono nati i due gemelli, Carlo e Carla. La somiglianza tra i due era perfetta, tanto da confonderli, se non avesse pensato la mamma a far loro indossare abiti di colore rosa e azzurro.

I genitori ben presto hanno avuto bisogno di una badante per accudire i piccoli, dovendo mantenere il loro posto di lavoro.

Enrico era professore al locale liceo scientifico, Giovanna  maestra era supplente con l’obbligo di non rinunciare mai ad una chiamata per non finire in coda alla lista d’attesa.

I bimbi sono cresciuti felicemente in una famiglia che li ama e li serve in tutti i loro bisogni. In classe terza, su segnalazione della maestra, la collega fu consigliata di verificare lo stato di salute di Carlo che sembrava più lento, più impacciato della sorella. Giovanna si rifiutò di pensare che sui suoi figli fossero fatte delle distinzioni di quel tipo. Ma decisa a pensare totalmente alla famiglia, licenzia la badante e si dimette dal suo incarico. Decisione pesante, ma necessaria, perché anche lei aveva notato un comportamento strano nel ragazzo.

Enrico si impegna al massimo dandogli delle lezioni di ripetizione per farlo sentire al pari della sorella, che infatti è più brava e appassionata negli studi.

Io vedo tutto questo e soffro per questa famiglia esemplare, soprattutto per il giovane Carlo che ho visto crescere, fare i primi disegni, imparare a memoria le prime poesie, risolvere le prime equazioni. Ma nonostante tutto, i due giovani finiscono le scuole superiori e si iscrivono all’Università.

Carla sceglie psicologia, materia ostica, ma interessante, le piacerebbe aprire uno studio. Carlo preferisce medicina.

La casa diventa sempre più allegra, vivace, a volte chiassosa, per la frequenza di molti compagni e compagne dei ragazzi che si fermano a chiacchierare, a cantare, a suonare la chitarra. La festa sembra fatta anche per me, perché tutti mi stanno attorno con i gomiti appoggiati, bevono il caffè, portano una rosa a Carla. Tra di loro il più simpatico mi sembra Ruggero, un oncologo neolaureato a Padova. Per me tra i due c’è un particolare feeling perché si guardano, arrossiscono, stanno tra loro fuori al cancello, quando tutti se ne sono già andati.

I genitori guardano, osservano, alzano le sopracciglia interrogandosi a vicenda.

“Come ti sembra quel ragazzo?”

“Mi sembra una persona seria.”

“Speriamo bene.”

Poi il discorso cade su Carlo, sempre solitario, ride di rimessa quando lo fanno gli altri, non prende mai iniziative. Per me ha adocchiato una brunetta peperina, che proprio non lo fila, che evita di stare al suo fianco quando si fotografano.

Ruggero ha rotto gli indugi, si è presentato con un grande mazzo di orchidee bianche e ha chiesto a Giovanna e a Enrico di frequentare la ragazza. Non c’è stato il bisogno di alcun consenso ufficiale, bastò il loro sorriso.

Con le orchidee posate su un centro tavola ricamato, mi è parso di essere io la festeggiata, me le godevo anche quando non c’era nessuno, anche quando era buio. Avrei voluto avere le braccia per accarezzare quei magnifici petali.

Poi un giorno si verifica un fatto che allarma tutti. Carlo, steso sul divano, sbianca e sviene.

Ruggero lo porta da uno specialista a Milano al  Centro tumori, che lo visita e dà subito il verdetto temuto.

“Signori, il ragazzo è malato, bisogna intervenire presto, intanto gli facciamo subito una colonscopia e poi una accurata Tac.”

Ma anche la tomografia assiale conferma i timori, c’è un’ombra sospetta nella parte terminale del colon.

“Non preoccupatevi, si può intervenire con una protesi e dopo con una alimentazione corretta, adatta al caso.”

Non capisco tutte queste parolone che vengono pronunciate in mia presenza, ma che fanno cadere la signora Giovanna in un gande sconforto.

Carla abbraccia il fratello, lo incoraggia con forza, quasi a trasmettergli un po’ della sua salute, della sua vitalità, del suo ottimismo.

Febbri, nausee, pallori improvvisi capitano con troppa frequenza. Carlo viene ricoverato di tutta fretta, l’intervento viene programmato in settimana. Il chirurgo, un luminare, porta a termine con successo la resezione del male e assicura a Carlo una vita quasi normale. Il quasi è troppo estensibile, ma ognuno lo interpreta al meglio.

Carla si è laureata, si bea tra le braccia di Ruggero e per un giorno dimentica il fratello.

Oggi hanno invitato al grande pranzo della festa anche i genitori di Ruggero. Sono tutti attorno a me, mi sento vibrare tutta per il calore e il fervore che ciascuno mette nel gioioso avvenimento.

Carlo partecipa, ma non può mangiare cibi piccanti, cibi dolci, alcolici, caffè. La sua vita è dimezzata. Se ne rende conto e un giorno chiede di parlare da solo con una persona che conosce appena, ma di cui si fida.

Il parroco viene un pomeriggio, si siedono attorno a me e assisto alla loro conversazione, sicuri che manterrò il segreto del confessionale.

Giovanna è felice di questo incontro, anche se capisce l’importanza del gesto, si rende conto della resa di Carlo alla vita.

Ruggero avvisa la famiglia che al loro figlio restano tre mesi di vita.

Giovanna vive fuori casa, dal fidanzato, i genitori sono soli. Di notte li sento sospirare, piangere, pregare. Vorrei abbracciarli, far sentire loro la mia vicinanza in questo difficile momento. Unica testimone, non mi sento più soltanto la loro tavola, ma pure loro sorella.

Carlo si è spento nel sonno il giorno del suo onomastico, il quattro novembre. Era il giorno in cui i fratelli erano stati soliti festeggiare tra pochi intimi la loro ricorrenza. Un ramo secco si è staccato in questa famiglia e nessuna primavera lo richiamerà in vita.

Vedere un figlio morire a ventitré anni è insopportabile. Vorrei fare qualcosa per loro, mi sento parte della famiglia, ma che può mai fare una tavola di legno?

Anche la figlia ha diminuito le sue visite in paese, deve curare la sua professione, i clienti,  gli orari d’ufficio, i colloqui programmati, i corsi di aggiornamento.

E’ venuto anche il parroco a salutarli, a sostenerli. E’ tornato con le più buone intenzioni ad incoraggiarli nell’impegno sociale, per occupare la mente e il tempo in altri servizi.

“C’è tanto bisogno di brava gente!”

I signori Gardini sono giunti alla conclusione che la loro casa ora è troppo grande, pensano di venderla e di ritirarsi in un appartamento più consono alle loro condizioni di salute e mobilità.

Un agente immobiliare riesce a offrire loro il locale desiderato, ma soprattutto riesce a vendere la loro casa a un buon prezzo.

Il trasferimento avviene in un giorno piovoso, ancora più triste per lasciare la casa in cui hanno cresciuto la loro famiglia.

Io mi sono trovata sola, vorrei dire abbandonata.

Arriva una nuova famiglia, con tre figli in età scolastica, è molto rumorosa e indisciplinata. I ragazzi, quando svolgono i compiti, mi picchiano con le penne quando sbagliano, mi sbattono con le posate, con i piatti, mi ammaccano la superficie, mi sbrodolano sopra la minestra.

La compravendita delle case è avvenuta mobili compresi, sicché io sono passata ai nuovi padroni, senza colpo ferire.

Sono stata dimenticata dai signori Gardini. Non sono più passati per queste stanze. Ma capisco perché.

I nuovi signori hanno preso un cane per far giocare i ragazzi, ma l’animale sporca sempre e ovunque, soprattutto di notte quando siamo soli e lui diventa il padrone assoluto.

Se potessi uscirei da quella porta e me ne andrei per il mondo in cerca  di pace, di amicizia. Ma si è mai sentita una cosa del genere?

Le mie gambe tremano, essere di legno tassello non serve a niente.

Poi un giorno sento arrivare un furgone, caricano me, il vecchio frigorifero, la vecchia caldaia, la credenza, il comò, i letti.

Mi portano alla rottamazione.

Ecco come finisce una signora tavola, dopo tanto onorato servizio.

La mia nobiltà, ridotta in listelli, sarà legna da ardere e restituirà il calore ricevuto a quanti ne avranno bisogno. Almeno questo mi consola.



 

IL MIO PICCOLO EDEN

Vivo da eremita in mezzo alla folla, mi chiamo  Alvise, vivo nel mio campo che è ampio abbastanza per avere il suo orto, il suo frutteto, la sua pozza d’acqua risorgiva, il suo bosco di cespugli e alberi d’alto fusto, ricco di nidi e di cinguettii fino a tardi. Cosa posso pretendere di più dalla vita?

Se venite vi mostrerò tutto questo ben di Dio, questo mio piccolo Eden, che mi restituisce stanco al mio letto alla sera, ma che mi vede pimpante di primo mattino, pronto ad immergermi nei nuovi lavori.

Non c’è pace nel mio campo, ogni stagione ha i lavori che premono e che non puoi trascurare, perché persa l’occasione, perdi il clima mite, oppure quello rigido, il periodo delle piogge, della neve, delle semine, della raccolta.

Come faccio a far fronte a tutti i lavori del campo, senza grandi attrezzature? E’ semplice, faccio quel che posso, il resto lo lascio agli uccelli dell’aria e agli amici che, con la scusa di venirmi a trovare, alleggeriscono le mie fatiche scegliendo i migliori pomodori, i migliori peperoni rossi, l’uva bianca. Vivo del mio lavoro, fin che la salute mi regge, alla fine tutto sarà di chi spetta per legge.

Rispetto il riposo della domenica, perché il momento del ringraziamento è doveroso.

Vivo come Adamo, ma senza Eva. L’unica donna che frequenta la mia casa è mia sorella Susanna, che sbriga le faccende domestiche, mi paga le bollette, lava e stira i miei abiti grezzi, fa riparare gli elettrodomestici quando hanno bisogno di

manutenzione. Mi informa dei vivi e dei morti del paese. Dal suono dei rintocchi riconosco le cerimonie in atto: matrimoni, funerali, feste patronali, campana a martello contro le tempeste, campanella della messa serale, i rintocchi delle ore.

Mia sorella Susanna, più anziana di me, e spesso, per ragioni di salute, si fa sostituire, per tempi brevi, da una sua amica, un tale Cesira. E’ una donna robusta, con due braccia da pugile e un petto da tenore, non teme la fatica dei lavori in casa, ma anche nel campo. Lo so, la giudico da contadino che, più della bellezza, valuta la forza e la capacità di porgere un aiuto al suo uomo.

Poi, non so come sia successo, Eva è entrata nella mia casa. Le ho cambiato il nome, la chiamo davvero così. Lei non ha battuto ciglio. Si è presto sentita a suo agio, lavora e dorme a casa mia. Prevedo che tra non molto dormiremo nella stessa camera.

Ho quarantacinque anni, ho sempre pensato al  lavoro, non so cosa sia l’amore, però ora so che sento un po’ di tenerezza e di gratitudine per Eva. Che sia questo lo spiraglio da cui possa entrare un affetto profondo, tale da legare tra loro due persone?

Siamo a gennaio, in pieno rigore invernale. Fuori nevica e mi piace stare in cucina al calducci, accanto alla stufa accesa. Il mio campo sotto il bianco mantello, riposa e si prepara a riprendere la sua vita la prossima primavera. Fa freddo, la galaverna stagna a lungo sui rami degli alberi, i passeri affamati si avvicinano alla casa e al pollaio. Spargo per loro crusca e pane secco.

Arrivano i giorni della merla, siamo nel cuore dell’inverno.

L’acqua dello stagno è una lastra di ghiaccio. Stormi di gabbiani volano alti verso la laguna. Non possiedo radio, televisore, telefono. Non leggo i giornali, sono un barbaro? Lo so e non mi dispiace. Il mio lavoro d’inverno è quello di spaccare la legna, di riparare i piccoli attrezzi, di pensare quali semine e quali lavori avranno la precedenza, di fare i conti delle entrate e delle uscite.

Uno stormo di cesene affamate è calato nel bosco, è il tempo atteso dai cacciatori. Io non possiedo armi e vengono qui, perché sanno che qui stanno al sicuro.

La mia vita solitaria è stata illuminata dall’arrivo di Eva, molte cose che trascuravo mi vengono segnalate, a volte imposte. Sono costretto a lavarmi spesso, a non mangiare con le mani sporche, a indossare abiti puliti e stirati. Perché? Per andare a una festa? No! Perché così fanno le persone civili. Eva mi sorprende sempre più per come sa convincermi. Sento che potrei volerle bene.

A febbraio c’è più luce, le giornate si sono allungate, il gelo è diminuito, la linfa si prepara a riprendere il suo viaggio in ogni pianta.

Da san Benedetto ritornano le rondini, i balestrucci ritrovano i loro nidi sotto le grondaie, il loro garrire festoso rende gioiosa la giornata.

Gli ortofrutticoltori della zona vengono a prenotare i prodotti quando saranno maturi. Lascio a loro il compito della raccolta. Facendomi risparmiare fatica e manodopera, faccio loro un buon prezzo.

Ad aprile, il giorno di Pasqua, avviene il fatto che mai avrei immaginato. E che cambia la mia vita. Eva mi abbraccia, mi bacia, mi chiede di sposarla. E’ la cosa che nebulosamente avevo pensato anch’io, ma subito respinta, per il mio carattere riservato e per il modo di vita che conduco.  No! È impossibile. Eva invece aveva capito che poteva aveva rotto gli indugi.

Il matrimonio avviene alla chetichella, in Comune, testimoni due impiegati dell’ufficio anagrafe, officiante la signora sindaca. La mia vita da eremita mi ha reso ignoto ai più, la mia presenza non ha mai interessato nessuno o quasi, per cui la mia nuova condizione di vita passa inosservata prima, quasi normale.

I primi giorni di vita in comune, mi hanno sorpreso e sconvolto, mai avrei immaginato quanto incantevoli fossero i piaceri dello stare insieme di un uomo  e una donna. Nasce così il nostro amore.

Maggio è il mio mese preferito. La campagna è uno spettacolo, il mio campo diventa di nuovo un paradiso.

Le ore di lavoro aumentano, le fatiche pure. Bisogna sempre correre, fare fare fare … Gli unici svaghi li troviamo alla domenica.

Eva è tornata dal bosco con una cesta di funghi profumati trovati ai piedi di ceppi fradici, ha trovato porcini, finferli, chiodini. E stata una sorpresa, alla sera, dopo una gustosa cena, seduti fuori su selciato, guardiamo una miriade di lucciole sull’acquitrino, ascoltiamo la mucica dei grilli e il frinire malinconico delle cicale, il gracidare delle rane, il canto solenne dell’usignolo nel bosco.

A bruciapelo chiedo a mia moglie: “Come mai sei andata ne bosco?”

“Non lo sai che devono essere soddisfatte le voglie delle donne incinte? Avevo voglia di funghi.”

Aspetto un attimo per connettere, per capire.

“Cosa vuoi dire? Che che …”

“Sì, a Natale ti darò un figlio.”

Mi sono commosso fino alle lacrime a pensare cosa mi attendeva e a quale fortuna mi era capitata incontrando questa donna. Avrei avuto un erede a motivare il mio lavoro e a fare più attenzione alle mie regalie.

Maggio è il mese delle ciliegie, delle albicocche delle pesche, dei fichi. Sono abbondanti nel mio campo, vengono i compratori e fanno man bassa di tutto, è una spese facile la loro, ma a me basta. Sugli alberi mangiamo i calabroni e i merli, i lombrichi e i passeri, l’averla e il picchio. Ma tutto ti viene così facile? potete dirmi. No, tutto viene abbondante, ho quanto mi basta e avanza. Grazie al buon Dio.

Cerchiamo di fare del nostro campo un piccolo paradiso terrestre.

Durante l’estate le nidiate abbondano nel bosco, i balestrucci fanno la seconda covata. E noi? Noi siamo felici, fin che la salute ci sostiene.

Eva si sta ingrossando, tasto il suo pancione e sento che Abele sta per arrivare. Gli ho già messo il nome, saremo come la prima copia del mondo. La notizia si è diffusa, mia moglie è più conosciuta di me uomo muto, ringhioso, solitario.

Uno dei miei pochi amici mi ha guardato e mi ha detto poche parole.

“Ma, dimmi Alvise, come hai fatto a scovare una donna brava come Cesira?”

“Bada che è stata lei a scegliere me e inoltre ora si chiama Eva.”

Il mio bosco è un incanto, vorrei parlarvi delle piante più belle, più antiche, ma vi parlo di una piccola pianta, ai margini del campo. E’ un agrifoglio, quando sarà inverno avrà bacche rosse come fiore e sarà rifugio di scriccioli e pettirossi nei giorni di neve e di gelo. Ora vedo volare dentro in gran picchiata tortore, merli e calabroni. Non si disturbano, mangiano diverso, fanno il nido a livelli diversi, vivono e si moltiplicano indisturbati.

Ho pure un melograno con in suoi rossi frutti in mezzo a un grande prato. Sono piccole visioni che addolciscono la vita.

Quel mio amico mi ha pure detto che sono pazzo, perché ignoro il mondo, ma sarà il mondo a non ignorare te.

“Lo Stato ti chiederà conto del tuo benessere.”

Ho capito! dovrò organizzare meglio il mio lavoro, difendere meglio la mia proprietà, pensare al risparmio per non togliere niente all’eredità di Abele.

Finora sono vissuto bene così.

Finalmente a Natale è nato mio figlio, è un maschio, è Abele. Ormai lo sanno tutti.

Farò di tutto per non avere altri figli, non ci sarà alcun Caino a casa mia.

L’ho fatto battezzare in chiesa, l’amico Fulgenzio ha fatto da padrino. Molti ora mi invidiano, ma non capisco perché. Tu non sei normale, mi dicono. A me va bene così, del resto, non a tutti è permesso di vivere in un piccolo paradiso terrestre.

Sono passati dieci mesi e tornando a casa a mezzogiorno, Eva mi dice una sola parola.

“Guarda!”

Di sua iniziativa, Abele si stacca dalla sua mano e fa il primo passo dentro alla giungla del mondo. Incomincia a camminare, incomincia il suo percorso personale.

“Santo cielo!” esclamo ed esprimo la mia preoccupazione che da solo possa cadere.

“Succederà, per fortuna, è tutto normale,” mi dice.

Lei sa, senz’altro sarà così.

Nel bosco ho visto volare un falco pellegrino, non è un buon compagno di viaggio per molti uccelli. Ma si troverà una soluzione. Quale? Il cielo lo sa! D’altra parte, è normale, anche lui vive secondo la sua natura.

Comunque porterò il piccolo a conoscere il bosco, a correre sui prati, a lanciare aquiloni su su verso il cielo azzurro. Come ho fatto io da ragazzino.

E’ sempre stato un segno di buon auspicio.

Qualcosa è cambiato e qualcos’altro ancora cambierà.

Di funghi ora possiamo fare a meno. Ogni cosa a suo tempo.

Tuttavia sarà Eva a decidere, di lei mi fido.

 


Un dì s’io non andrò sempre fuggendo
(Ugo Foscolo)

Camilla & Giada s.a.s.

Con l’arrivo delle belle giornate è piacevole passare un’ora in giardino a ripulire i vialetti, ad ammirare il ritorno delle bianche calle e i boccioli di rose rosse riparate dai raggi arditi del nuovo sole sotto una pergola di glicine viola. C’è il melograno con fiori rossi dai rami cadenti, è bello così, perché non è stato potato lo scorso autunno. Ci sono le ortensie raccolte, di color bianco violetto, non profumano, ma sono belle. Mi piace guardare e immaginare cose belle legate alla mia infanzia, quando i giardini erano i campi di grano folti di rossi papaveri e di timidi fiordalisi.

Mi dispiace essere disturbata quando sto qui seduta in pace a sfogliare un rotocalco di moda con le offerte di primavera. Ma succede spesso. Mi godo i miei cinquant’anni in una favorevole condizione di benessere e di salute. Mia figlia Benedetta è quasi sempre fuori o a scuola o con le amiche o in biblioteca. Da qualche tempo esce sempre più spesso di sera. Ha sedici anni e comincia a lanciare occhiate come dardi ai giovanotti che la invitano a ballare. Mi ha chiesto di mettere lo smalto alle unghie, le ho detto di sì, ma anche questo è un segnale.

Chi invece non mi dà problemi è mio marito Sandro. Fa il commercialista, guadagna bene tra partite Iva, dichiarazioni dei redditi, tenuta dei registri contabili delle ditte, passaggi di proprietà, fallimenti e procedure concorsuali. Alla sera esce raramente per qualche cena di lavoro o per partecipare a qualche consiglio di amministrazione o per passare un’ora con i colleghi. A volte tenta di parlarmi del suo lavoro, ma lo ascolto appena, sono problemi che non mi riguardano e che non comprendo. Parliamo poco in casa, solo di piccole compere, di brevi vacanze, di visite a parenti. Disturbiamo poco e gli altri fanno altrettanto. Ho lavorato con lui come capoufficio per venticinque anni, poi mi sono dimessa con una modesta pensione che mi basta per i miei capricci. Ha uno studio bene avviato con quattro collaboratori, due signore e due giovani diplomati. I ragazzi sono al primo impiego, le signore sono più esperte, una di loro, trentenne è quella che mi ha sostituito, la dottoressa anziana potrebbe sostituire Sandro per la sua conoscenza dei segreti della professione. Scrivo questi pensieri notturni, prima di dormire, mi aiutano a prender sonno, sono come le mie gocce di sonnifero. Mi aiutano a fuggire dalle preoccupazioni, ma non so fino a quando.

Quando scrivo o leggo, mio marito passa nella camera degli ospiti.

“Ti dispiace?” Ha una abilità collaudata per imporre le sue idee: fa in modo che sia io a dargli ragione, prima ancora di rendermi conto del problema.

Ne ho parlato con Elisabetta, l’amica con cui mi confido più facilmente.

“Bah, cosa vuoi che ti dica, mio marito tarda a venire a letto e questo mi fa piacere, mi addormento presto e così non mi tormenta. Non siamo più ventenni, loro invece si sentono ancora pieni di passione. Qualche volta cedo, per accontentarlo e per non fargli venire strani grilli per la testa. Sai se trova la tipa, un’avventura improvvisa, veloce e non se ne parla più, può sempre accadere. Basta guadare gli artisti che fanno più notizia per i loro amori che per la loro arte.”

Penso a letto alle parole di Elisabetta e non è che mi garbi molto la sua conclusione. Pensare mio marito tra e braccia di un’altra, non lo accetterei. Lo guardo sonnacchioso davanti al televideo per le ultime notizie e non mi sembra affatto un dongiovanni. E poi il mondo del suo lavoro è troppo frenetico, troppo preciso, non gli lascia certo tempo a svaghi di quel genere. In ufficio c’è personale fidato, molto impegnato che segue le stesse regole di attenzione al proprio lavoro senza svaghi o colpi di testa.

C’è la signora Veronica che segue la contabilità, le fatture, la banca, la dichiarazione dei redditi, legge ogni giorno Il Sole Ventiquattrore. E’ lei che segue l’andamento della Borsa e decide su come spostare i depositi bancari. E’ una persona preziosa per Sandro.

C’è poi la signorina Giada, l’alter ego di mio marito, conosce in anticipo le sue decisioni, non si intromette, in apparenza, però gli dà le dritte giuste sulla consistenza patrimoniale dei clienti e sullo stato di avanzamento delle pratiche, frequenta per ragioni professionali sia la pretura che il tribunale. E’ una gran bella donna, un ottimo biglietto da visita per i nuovi clienti. E’ civettuola quel tanto che basta per non farla sembrare un arredo dell’ufficio commerciale.

I due giovani apprendisti tutto fare, un geometra e un ragioniere, obbediscono soprattutto a Giada che li fa lavorare sodo, ma che anche insegna loro il mestiere.

Un lunedì mattina, giornata pigra per riprendere il lavoro, in ufficio arriva inattesa la Finanza, per un controllo di due ditte: sulla loro attività, sull’eccesso di spesa rispetto all’entrata, sui pagamenti Iva. E’ chiaro assieme alla tenuta dei registri contabili delle ditte, il maresciallo della finanza e il suo assistente danno un’occhiata anche alla contabilità del commercialista sapendo che certi aggiustamenti o interpretazioni di legge a volte lasciano qualche buco.

La visita dura quattro giorni con vitto a carico dell’Ufficio, con due pacchetti misteriosi pronti sulla scrivania e che Giada fa ben capire a chi andranno.

C’è un grave lato debole nella contabilità, difficile da giustificare. In ogni Ufficio professionale ci sono le entrate in nero, sono costituite dai pagamenti ridotti ricevuti rispetto al dovuto, ciò comporta mancato rilascio di fatture, quindi minor guadagno, minore Iva, minori tasse. Quindi furto allo Stato!

Sandro capisce la gravità del momento e non sa come uscirne. Si appella a Giada per avere un consiglio, per studiare assieme un piano d’uscita che non c’è. La situazione della sua attività è gravemente compromessa nei confronti del Fisco.

La ragazza riflette un giorno intero, poi dice al suo capo parole di speranza.

“Qualcosa si può fare”.

Parla a lungo con l’Ispettore, sembra che trovino un accordo. Si incontrano a cena in un hotel a Piove di Sacco, fuori mano. Parlano a lungo, trovano una soluzione a lunga durata, se il titolare della ditta non si oppone.

Di confidenza in confidenza, tra un sorriso e un ammiccamento si intendono subito. Due giorni dopo passano la notte assieme in una stanza dell’albergo. E questo è solo l’acconto!

S’intreccia un rapporto venale, malvolentieri sopportato, ma che darà i suoi frutti.

Sandro e la famiglia vengono avvisati.

“Io avrò un rapporto affettuoso, continuativo, diciamo notturno, con l’Ispettore e questo ci garantirà la pacifica conclusione dell’ispezione finanziaria, e ci garantirà anche per il futuro una sicura consulenza. Si tratta di una svolta nella mia vita, ma ne vale la pena se …”.

“Se, cosa?”

Sandro e la moglie Camilla inorridiscono, ma dopo una dolorosa riflessione durata tre giorni, accettano. Sarà difficile tenere  nascosto il fatto a Benedetta.

La confusione e il dolore  sono enormi, ma non ci sono alternative.

Giada continuerà ad avere rapporti affettuosi con il finanziere, usufruirà dei suoi consigli gratis nella conduzione della nuova Azienda, sì! nella conduzione dell’Ufficio finanziario, perché anche lei ne sarà conduttrice al cinquanta per cento. Queste furono le dure condizioni. Camilla tornò al lavoro nelle sue vecchie funzioni, i due giovani impiegati passarono sotto la guida della nuova dinamica direttrice, la signora Veronica andò in pensione.

La targa sulla porta diventò Studio dei Commercialisti Associati “Camilla & Giada s.a.s.”.

Sandro si immerse ancor più nel lavoro per dimenticare il più possibile la sua condizione.

Benedetta vive a Padova in un alloggio in affitto vicino al Bo, si vergogna dei suoi che va raramente a trovare.

Giada frequenta ancora saltuariamente l’Hotel di Piove di Sacco, ma sempre quando sono in vista benefici e consigli qualificati che ottiene pagando in natura o in omaggi.

Alla sera, attorno alla tavola, all’ora di cena, c’è molto silenzio, nessuna voglia di tv, poca voglia di parlare. C’è inquietudine in loro. Sandro non esce più, Camilla sbriga le faccende cucina, lavoro che da tanto tempo aveva smesso; hanno licenziato la cameriera. Ha tre dolori incolmabili: il suo giardino in rovina, la lontananza della adorata figlia che si fa vedere saltuariamente, la mancanza di confidenze con Elisabetta fattasi forestiera. Il tempo è un attimo fuggente che non torna più.

Ma ora si aiutano di più, si addormentano spesso con una carezza ed un sorriso, gesti che avevano dimenticato e che hanno ritrovato.

 


 

La malga

Il mandriano ci conosce e ci invita alla prima sosta sotto i tre grandi sorbi degli uccellatori.

Ci fermiamo senza immaginare che quel giorno non saremmo arrivati a Cima d’Asta, perché il riposo è ingannevole, non ti fa più ripartire. Alla vetta devi avvicinarti lentamente.

Il mandriano parla come se  il nostro incontro fosse consueto. Invece è un anno che non ci vediamo. Per lui non è un fatto nuovo, anzi è un fatto previsto. Ogni anno in agosto ci fermiamo alla sua malga per un saluto e per una scodella di pane e latte. Altri escursionisti passano, salutano e salgono. Li conosce tutti, li sta aspettando. Quante storie conosce della loro vita!

“Ti vedo bene, Giacomo, sempre qui con i tuoi figli? Hai una mandria molto grande quest’anno e anche delle greggi, vedo”.

Scuote la testa, spegne la pipa, lancia uno sputo di saliva e tabacco, scuote ancora la testa, come uno che ha molto da raccontare, ma non sa da dove cominciare.

“Buon dì, professore!”

I suoi occhietti semichiusi, abituati alla polvere e al vento, vanno difesi come meglio può. Anche lui mi vede bene! Mi conosce bene. Conosce la mia curiosità, butta la pipa e comincia a raccontare. Lui parla confidenzialmente, senza tanti protocolli. Dà del tu a tutti.

“E la tua  famiglia? Non ti vedo con i figli quest’anno.”

“Eh! si stanno facendo grandi e i viaggi con i genitori non garbano più, preferiscono gli amici, mia moglie mi raggiungerà tra poco, ma solo per riposare, non ama le scarpinate.”

Sogghigna, mi indica sua moglie che sta pulendo la stalla, il figlio che sta mungendo a mano, la figlia che sta rassettando le due stanze della malga destinate a loro. Ognuno ha un compito, per loro le vacanze non esistono.

Laggiù dalla radura che gli scout chiamano “il posto amico” salgono frastuoni di richiami, di colpi d’ascia e di picchetto: stanno allestendo il loro campeggio. Resteranno qui una settimana, mi dice, per la consueta cerimonia di ricordo.

“Ti ospito per questa notte, un giaciglio con noi lo troviamo e questa sera passerai ore indimenticabili, poi domani domenica, se ti interessa, ci sarà la Messa e la celebrazione.”

Mi incuriosisce.

”Celebrazione di cosa?” chiedo.

Allora con calma, con pause sonore per l’attesa che creano, mi racconta una storia.

Da sempre si può dire vengono al campo in quella radura. E’ un ampio spazio pianeggiante percorso da un rigagnolo d’acqua che scende dalle vette in mezzo ad un pianoro di muschi e licheni. Il suo gorgoglìo si sente appena. L’acqua è limpidissima e, risalendo una cinquantina di metri, da una pozza azzurra, attingono per le loro necessità. Sul lato sud del campo stanno allestendo un altare di fortuna con legna, tronchi e tavole per la quotidiana celebrazione eucaristica.

Attorno le varie squadre con incarichi specifici, stanno piantando le tende, divise maschi e femmine, gli spazi per i sacchi a pelo e una cucina da campo, nel mezzo c’è uno spazio riservato per i fuochi quando inizierà la festa serale. Radio e telefono sempre acceso tengono informati costantemente i capi sulle condizioni meteo.

Alzando lo sguardo, seguendo il dolce rigagnolo, si scorge il punto in cui sparisce dalla vista. Inizia una forra stretta e profonda, che qui chiamano boral, e quando vengono forti temporali, diventa un inferno, s’ingrossa in un attimo trascinando a valle tronchi, rami, sassi, macigni. Allora il posto amico diventa nemico. Bisogna fuggire immediatamente sui prati alti per salvarsi. Capita raramente, ma quando capita possono succedere tragedie. Ed è di un episodio simile che Giacomo mi vuole parlare.

Una notte, senza preavviso, un tornado si abbatté sulla valle facendo scorrere un mostro d’acqua sibilante alto cinque metri, trascinando come proiettili, sassi rocce, tronchi, macigni travolgendo tutto al suo passaggio.

Nella sua tenda il capo scout, Gianni, sentì il tremendo fragore, scaraventò i suoi ragazzi lontani dall’onda travolgente. Uno, due, tre, quattro… con il quinto non ce l’avrebbe fatta. Se ne rese conto. Uno dei due sarebbe morto. Con tutte le sue forze scaraventò lontano il ragazzo salvandolo. Lui finì travolto. Il suo corpo fu liberato con mezzi meccanici. Ora su quel macigno c’è scritto il suo nome, la sua foto e una data. Il giovane eroe ha sacrificato la sua vita per salvare un ragazzino, un fratello, assegnato alla sua tutela.

Domenica mattina scendo al campo, al posto amico, per assistere alla santa Messa. C’è un grande silenzio, s’odono solo lo stormire delle betulle e dei larici, il canto degli uccelli a fare da coro.

Il cappellano all’omelia, con le braccia aperte ricorda ciò che tutti sanno, tranne una triste novità.

“Quest’anno non è qui con noi il grande vecchio, il papà di Gianni: una malattia rapida e micidiale l’ha rapito a noi e ai suoi cari prima di Pasqua. Ma voglio ricordare a tutti voi la sua dolorosa presenza annuale. Durante la Messa restava abbracciato al masso che è stato la tomba di suo figlio, senza parlare, senza pregare, muto. Chissà cosa diceva il suo cuore infranto!”

Paragonò il ragazzo al Salvatore, morto per tutti noi suoi fratelli, per la nostra vita, per la nostra salvezza, per il nostro perdono.

Il paragone mi sembrò un po’ ardito. Invece è stato molto eloquente e vero. Tutti in silenzio ascoltavano, i nuovi arrivati erano immobili, occhi sbarrati. Avevano ascoltato una breve, potente lezione evangelica.

“Resta con noi a pranzo, un piatto di minestra, un po’ di pane, burro  e cacio non mancano mai,” mi dice Giacomo. Io li ricambio portando ampie sporte di frutta di stagione e di verdura appena colta nel mio orto.

Abbiamo commentato il fatto del mattino di cui ero stato testimone.

Giacomo non aggiunse niente. Parlò invece di un’altra novità.

“Questa sera cambia musica al campo, c’è la festa, ci saranno canti, chitarre e grandi risate. Molti villeggianti scendono al posto amico e si uniscono ai cori dei ragazzi. Poi ogni squadra diventa protagonista di uno spettacolo individuale guidato dai giovani capi.”

Ci sono andato anch’io attorno al grande fuoco centrale.

Cominciò una squadra di ragazzine recitando versi scolastici, come fossero sul palco della scuola. Qualcuna metteva passione, interesse culturale nel suo dire, qualcuna partecipava perché non poteva farne a meno.

“Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo di gente in gente, me vedrai seduto su la tua pietra …”

“T’amo pio bove; e mite un sentimento di vigore e di pace…”

“D’in su la vetta della torre antica, passero solitario alla campagna cantando vai fin che …”

“Nella Torre il silenzio era già alto, sussurravano i pioppi del rio Salto …”

Quanti ricordi, quante dolcezze, quanti lontani tremori di sbagliare le rime!

Una squadra di maschi intonò l’inno “Viva San Marco” con botta e risposta tra il solista e il coro.

Ci fu il turno del comico e delle sue barzellette e delle sue freddure.

Poi presero aria le chitarre, le fisarmoniche, le spinette, i canti gregoriani con solo parole, senza musica.

La serata era mite, volavano le lucciole. Nelle pause si udivano i cri-cri dei grilli. Sembrava d’essere in Paradiso!

Grandi applausi, soprattutto da parte degli ospiti scesi dai loro luoghi di villeggiatura. Al centro il grande fuoco lanciava ombre lunghe che rendevano più caldo e magico l’ambiente.

Alla fine si smorzò il fuoco, si ammainò il tricolore, una tromba intonò il silenzio. Tutti a nanna, stanchi e felici. Ma nelle tende non si prese subito sonno. Con le pile accese continuarono i commenti e le risate. Era anche questo un inquieto modo di scrutare l’ignoto del proprio avvenire. All’aperto i capi di guardia vigilavano, invitavano al riposo, minacciavano inutili punizioni.

Salito al mio giaciglio improvvisato alla malga, rimasi anch’io a lungo ad occhi aperti a sognare, a rivedere i momenti della bella serata al campo scout. Bella gioventù che si divertiva, che si ricreava, che si educava al servizio a favore del prossimo!

Sono ritornato con mia moglie a Pieve Tesino, siamo risaliti alla malga, ma non c’era nessuno. A settembre c’è la transumanza, le greggi e le mandrie scendono a valle, tornano a casa. L’ho accompagnata al posto amico per vedere

il sasso di cui le avevo parlato.

“E’ commovente!” disse. Seguiva un suo pensiero fisso. Restò in silenzio a guardare.

Osservai i suoi occhi umidi, le parlai del ragazzo eroico, attendendo una sua risposta di consenso. Ma non fu quella attesa. Pensava al vecchio che veniva a stendersi su quella pietra, che veniva a espandere il suo calore sul masso che aveva ucciso suo figlio morto. Altro non gli interessava.

Lei l’aveva capito: depose con due dita un bacio sulla roccia e chinò il capo.

 


 

E caddi come corpo morto cade.

Rileggendo il quinto canto dell’Inferno, mi sono imbattuto nell’ultimo verso. Quanto dolore e quanta inquietudine devono aver provato Paolo e Francesca nello scoprirsi, a loro insaputa, amanti! Quale sorpresa nel constatare di essere nella condizione di chi non può più tornare indietro! Il loro destino era segnato.

L’episodio mi ha  condotto a pensare a mio figlio, quando gemente mi confidò di temere un male terribile. Dolori improvvisi e lancinanti lo lasciavano senza parola, balbettante, ma, passato l’attimo, ci incoraggiava, minimizzava.

“Non temete, mi sta passando”.

E non era vero. La sua via crucis aveva inizio. Ci sorrideva, ma sapeva che il male poteva tornare. E così fu.

Una notte, mentre tutti dormivano, si svegliò sentendosi affogare, senza capacità di parlare, di respirare, di chiedere aiutò. La moglie avvertì il precipitare degli eventi. Non era la prima volta. Chiamò il pronto soccorso, un’ambulanza a sirene spiegate lo portò in ospedale e lì la sentenza medica fu chiara e inesorabile.

Non gli fu subito comunicata, ma dai comportamenti di tutti capì il suo destino. Pianse al buio, sotto le coperte per non far soffrire i suoi cari, in particolare i due piccoli figli e la loro giovane madre.

Di giorno venivano i parenti, gli amici a trovarlo a raccontargli cose frivole per distrarlo, a raccontargli di qualcuno che ce l’aveva fatta. Tanto bastava per confermargli che la sua tragedia era nota e che la sentenza era solo rinviata.

Fu fissato un appuntamento con la neurochirurgia di Padova, ma l’intervento fu rinviato, causa lavori di restauro in corso della sala operatoria.

“Tanto, non è un caso urgente,” sentenziò il  chirurgo.

Il medico di base non fu d’accordo, contattò l’ospedale Borgo Trento di Verona. Dopo una visita l’intervento fu immediato. L’operazione sembrò riuscita. Mio figlio mi raccontò che l’anestesia era stata parziale, serviva ai chirurghi per constatare fino a che punto potevano raschiare nella scatola cranica senza ledere gli organi vitali. Dovevano vedere le sue immediate reazioni.

Lo attendavamo fuori della sala operatoria e subito ci parlò.

“Tutto bene, state tranquilli.”

Questo termine mi ha sempre preoccupato, l’esperienza mi ha insegnato che invece bisogna preoccuparsi.

Chissà quale trauma, che dolore avrà provato nel sentire il rumore dei ferri, gli ordini, le parole sottovoce! Ricordò un’infermiera che, mentre tamponava le ferite, parlava della sua salsa di pomodoro.

La degenza fu lunga, ma con esito favorevole. Nella corsia del reparto, il suo letto si trovava tra altri due ragazzi operati come lui. In questi casi si fa amicizia subito. Un ragazzo era di Siracusa, si incoraggiavano a vicenda, si scambiarono gli indirizzi. Una altro era vicentino, parlava poco, era ampiamente fasciato e portava un paio di occhiali scuri. Seppe in seguito che gli  era stato leso l’organo della vista.

Il consulto finale dei chirurghi, prima dell’uscita, fu ampiamente favorevole e fu programmata una visita di controllo dopo dodici mesi.

Ma dopo tre mesi i sintomi preoccupanti tornarono. Stessi dolori, stessa confusione mentale, stessa inquietudine.

Fu subito contattato un luminare della neurochirurgia dell’ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine. L’intervento fu programmato subito e l’esito sembrò ampiamente favorevole. Così disse il chirurgo.

Nelle ore di attesa, fece telefonare all’amico di Siracusa per sapere come stava, per dirgli del suo secondo intervento. La moglie lo lasciò di ghiaccio, l’amico era stato appena sepolto.

Anche questa fu una mazzata, un avvertimento. Capì che anche il cerchio della sua vita era chiuso, gli restava da godere quanto era racchiuso dentro.

Tornando a casa in autostrada, mi indicò il sole che era apparso dopo un temporale.

“Rosso di sera, bel tempo si spera.”

Gli erano tornate davvero la speranza e la fiducia. Il lavoro lo aiutava molto, la sua ditta gli assegnò incarichi speciali. Tornò l’impegno e la felicità.

A mezzogiorno ci telefonava per dirci cosa aveva mangiato, cosa aveva fatto, della collaborazione tra  colleghi, della fiducia dei suoi datori di lavoro.

Ricordo che il chirurgo di Udine, congedandolo, mi aveva detto che per dieci anni non ci sarebbero stati problemi, poi si vedrà. Pensai che la sua fosse una naturale prudenza e dimenticai il fatto. Ma non fu così.

Dopo tre anni cominciarono segni inspiegabili di epilessia, di mutismo di breve durata, di interruzione di un discorso.

Queste manifestazioni improvvise preoccuparono tutti, anche la ditta che non poté più lasciargli compiti speciali. Gli furono tolte delle responsabilità, fu privato di incarichi di prestigio, gli furono assegnati lavori da principiante. Per compassione! La ditta non lo licenziò, perché capiva il dramma ed era riconoscente della fedeltà finora dimostrata. Infatti era noto che aveva rifiutato altre offerte di lavoro con miglioramenti salariali.

Ci precipitammo a Udine per una costosa visita privata del primario, che ci rassicurò.

“E’ una situazione passeggera, è prevista dal protocollo, non preoccupatevi.”

Invece la preoccupazione ci invase tutti, il segnale era chiaro, presto si sarebbe dovuto intervenire ancora. Ci parlò chiaro.

“Ricordatevi! Io in sala operatoria non ci vado più! Il rischio è troppo grande finirei in carrozzella ridotto a incosciente.”

“Però” disse anche il chirurgo, “si possono fare degli elettroencefalogrammi periodici per controllare l’eventuale progresso del cancro.”

Iniziò il pellegrinaggio tra Treviso per gli esami e il controllo dalla neurologa di Bologna.

Controllava le lastre, un groviglio di segni, puntini, macchie chiare, macchie scure.

“Come sono messo, dottoressa?”

“Un pochino meglio.”

Continuò con il pochino meglio, poco con il poco meglio, poi con lo speriamo bene.

Questo pellegrinaggio durò fin che la dottoressa non ci invitò ad andare a Padova a noi più vicina. Andammo all’indirizzo segnalatoci, ma il primario era appena andato in pensione.

Eravamo stati scaricati. Unico ricorso possibile ci parve il miracolo. Mio figlio con la moglie andò a pregare, a supplicare, a invocare la Madonna di Medjugorje.

Noi andammo a pregare sulla tomba di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, anche se non credevo ai miracoli. Dio, i Santi, la Madonna non possono agire su preghiera, che è una richiesta di privilegio, di raccomandazione.

Lo dicemmo a un confessore da Padre Pio, che disse chiaramente: ”Abbiate fede.”

Che potevamo fare? Ritornammo a casa addirittura felici. Tornando ci fermammo anche alla Santa Casa della Madonna di Loreto. Inutilmente.

Ormai eravamo giunti alla fine.

L’ultimo giorno di vita per mio figlio sembrò normale. Andò a fare un deposito in banca, a pagare l’assicurazione della macchina, a pranzare alla mensa.

Quel giorno non ci telefonò. Il fatto ci meravigliò, la sua puntualità era una regola di vita.

Mise in ordine il suo ufficio, scrisse un biglietto a sua moglie e si avviò verso la morte. Giunto a Ballò, parcheggiò e si avviò a piedi lungo il binario.

Non era più in grado di capire, di volere, di intendere.

Il treno giunse veloce. Mio figlio era consapevole del destino che l’attendeva e cadde svenuto come corpo morto cade, già prima di essere travolto.

La ferale notizia ci giunse in modo inatteso e strano. Tramite i Carabinieri. Quel pomeriggio la casa si riempì di parenti muti, spaventati.

Fu normale chiedere se era successo qualcosa.

“Papà, mamma,” ci disse Paola, “mio fratello non c’è più.”

Il mondo ci crollò addosso.

La preghiera serale e il pianto durano tuttora.

Era un uomo sano, donatore di sangue, donatore del midollo osseo a una giovane madre straniera, insegnava il Catechismo a casa sua ai bambini del quartiere, aiutava i poveri, versava quote regolari a Istituti religiosi per opere di bene.

Com’è possibile che venga abbandonato un uomo giusto così!

Non è giusto! Non è giusto! Non è giusto!

E’ tuttora questo il nostro inutile gemito serale quando recitiamo una preghiera di pace per il suo buon eterno riposo.

 


 

PRIMA STELLA A DESTRA

Buona notte a te, giovine terrestre, che scruti il cielo nella notte. Stai cercando la stella dei sognatori? Eccomi! Tu da solo non mi puoi trovare, ma io ti vedo, sono dentro all’Orsa minore, prima stella alla mia destra di mia sorella maggiore, non lontano dalla Stella polare, la nostra grande maestra, che tutti i naviganti cercano per trovare la loro direzione.

Sogna, pensa e ascolta nel sonno la mia voce e ti racconterò molte cose a te sconosciute. Sì, io ti vedo e ti ascolto. Per noi le distanze sono inezie, piccole cose, come pure il tempo.

Alcor è il mio nome, guardo la Terra, minuscolo guscio di acqua e polvere, dove gli umani si affannano e lottano per averne sempre di più.

Sciocchi! ne basta poca di polvere da spandere su di voi ed essere dimenticati. Anche per coloro che son famosi, per qualche secolo ancora saranno ricordati e poi scenderà il silenzio.

Ho conosciuto un uomo semicieco che scrutava l’universo. Si chiamava Galileo Galilei, studiava il sole, la luna, le stelle. Voleva conoscere il mondo siderale, sosteneva che fosse il sole il centro dell’universo e che la terra gli ruotasse attorno.

Tale teoria era contraria alla Bibbia dove Giosuè aveva invocato: “Fermati, sole, su Gabaon e tu, luna, sulla valle di Aialon.” Perché era necessario terminare la battaglia contro gli Amorrei, prima che calasse la notte.

Non meravigliarti delle mie conoscenze umane, perché ad esse ho assistito.

Quest’uomo mite aveva capito che il Sole è fisso, non si muove e che è la piccola Terra a girargli attorno. Dovette fare atto di abiura alle sue teorie di fronte al Sant’Uffizio, per evitare la condanna. I potenti l’avevano condannato, e invece aveva ragione lui, io lo so, è la Terra che si muove. Ma la Storia e la vostra religione l’ha riabilitato. Con il suo nome sono intitolate scuole, piazze, vie. Quanto ingrati e tardivi siete voi uomini, che non sapete distinguere gli eccelsi dalle masse ignoranti del mondo che calpestano!

O giovine terrestre, ti parlo anche di un altro sognatore, un condottiero di caravelle che volle cercare il levante andando sempre verso ponente.

Non gli riuscì l’impresa, perché altra Terra gli si frappose, scoprendo così un nuovo mondo.

Da quassù ho scrutato il suo volto sereno, sicuro di una bella impresa, contro l’ignoto e i dubbi dei potenti. Grande scopritore piantò il suo simbolo sulla spiaggia sconosciuta.

Trovò gente d’altro colore, scovò tesori, diede nuove rotte ai reali di Spagna, ma non gli bastò per la sua gloria. Finì i suoi giorni solo e dimenticato. Dopo di lui giunsero i conquistatori, i negrieri, gli schiavisti che deturparono la sua scoperta. Cristoforo Colombo era chiamato, genovese. La vostra ingratitudine è incomprensibile. Ma il tempo è galantuomo e gli darà gli onori dovuti.

Caro giovine Marius, così ti chiamo, ti vedo laggiù nel tuo guscio di polvere, piccolo granello sperduto nell’universo, potrai mai sapere cos’è il tempo? Cos’è lo spazio? Non credo. Allora ti dico cos’è. Siamo distanti trecento venticinque anni luce, la tua vita non basterebbe per raggiungermi.

Viaggio con accanto mia sorella Mizar. Sono io la prima stella alla sua destra. Il nostro conversare riguarda spazi immensi e infiniti silenzi. Tu non puoi capire, voi granelli di sabbia sperduti nell’universo che volete conoscere tutto di noi, ebbene vi dico che non ci riuscirete mai. Perché neppure noi conosciamo tutto di voi. Dopo di noi ci sono altre stelle che sono morte, eppure la loro luminosità viaggia ancora nello spazio, trapassa le galassie e la via Lattea e procede ancora. Che spiegazione si può dare? Solo supporre si può, ma nulla più.

Mi piace inviare sguardi alla costellazione dell’Aquilone e alla bella Cassiopea ad oriente. So che le loro distanze sono inalterate da sempre, se solo una cedesse, l’universo crollerebbe, non ci sarebbe più l’equilibrio che solo una mente sublime poteva creare.

Quando appaiono le comete, il cielo si veste di rosa. E tutti gli astri applaudono.

Un grande evento avvenne da voi sulla Terra quando una stella cometa solitaria si fermò su una capanna. Era nato un bimbo che avrebbe cambiato la vostra storia. L’ho visto crescere, predicare e morire per la vostra salvezza. Parlò a tutti voi dicendo una sola parola: amore. Eppure è finito in croce, eppure la sua dottrina l’avete trasformata in odio per chi non era d’accordo. Non si può odiare per amore!

Caro giovine Marius, uno dei più tremendi scontri tra uomini credenti di diversa fede avvenne a Lepanto, nel golfo di Corinto. Fu un vero massacro, molti sono morti credendo di difendere la propria fede, difendevano invece le loro rotte, i loro porti, i loro mercati, i loro commerci, la loro moneta. Come usate male la vostra libertà, come deturpate la vostra storia! Non imparate mai la dura lezione, perché succederà altre volte e poi ancora. E ognuno incolperà gli altri.

Imparate dalla vostra storia, imparate!

Cara Alcor, sono Marius, ormai lo sai, sono il tuo amico che guarda il piccolo Carro attraversare i cieli e gode a veder le stelle nelle notti buie, ascoltami! Non ci sono solo disgrazie quaggiù su questa Terra martoriata dai miei simili. Ci sono anche cose belle che dovreste conoscere.

“Tu esisti e non lo sai, io esisto e lo so”.

E’ questa la differenza esistenziale tra noi. Non la capirai mai.

Tuttavia, per il cortese rapporto stabilitosi tra noi, ti voglio parlare di sette cose belle che da secoli raccontano a noi storie di dei, di uomini e di simboli prestigiosi.

Ti ricordo la statua di Zeus in Olimpia, maestosa e imponente. Zeus era il capo di tutti gli dei, risiedeva sul monte Olimpo con le sue mogli e i suoi numerosi figli. Era il padrone delle folgori, aveva come simbolo l’aquila e la quercia. Scusami i dettagli, ma questa è la storia degli antichi che ancor si tramanda.

Ti ricordo ora il magnifico tempio dedicato alla dea Artemide, o Diana, costruito nella città di Efeso. Era in simbolo della fertilità e gli Efesini la invocavano nel tempio costruito apposta per lei.

Ti ricordo il Colosso di Rodi, un’enorme statua di bronzo raffigurante il dio Apollo, posta all’ingresso del porto. Una meraviglia! Fu distrutta da un devastante terremoto.

Ti ricordo il Faro di Alessandria d’Egitto, grande costruzione posta all’ingresso del porto della città, unica delle meraviglie del mondo antico ad essere utile per la sua funzione di guida ai naviganti. La città fu sede di una famosa biblioteca. Ad Alessandria era stato costruito un Museo, dedicato alle Muse e polo culturale ellenistico.

Ti ricordo il Mausoleo di Alicarnasso, la monumentale tomba del re Mausolo. E’ una costruzione di eccezionale pregio, destinata a tomba dei nuclei familiari potenti. La città fu la patria del grande storico Erodoto.

Ti ricordo i Giardini pensili di Babilonia. Origini mitiche e storiche ne confondono l’esistenza e lo scopo. Secondo Erodoto, Babilonia aveva due cerchia di alte mura e su di esse erano stati costruiti dei giardini con piante rare e ornamentali. Altra meraviglia!

Vi ricordo la Grande Piramide di Giza o del faraone Cheope, è la più antica e la più grande delle piramidi arrivate fino ai nostri giorni in condizioni pressoché intatte dai tempi della loro costruzione.

Ecco la fine della nostra conversazione notturna sulle Sette Meraviglie del mondo della nostra antichità!

Antichità? Parola che per te, Alcor, non ha senso né tempo, ne spazio, né luogo.

Però, ricordati, io lo so e tu non lo sai.



 

IL DOLORE

Cos’è mai il dolore? E’ il compagno fisso dei viventi su questa Terra, nessuno ne è esente, tutti ne hanno provato il peso e il mistero. Sì, del mistero, perché un dolore non sai mai cosa significa. Può essere passeggero, ma può essere anche letale, essere l’annuncio dell’inizio della tua fine, caro vivente!

Io mi distinguo in due grandi categorie: dolore che interessa la medicina, dolore che interessa la chirurgia. C’è poi il dolore spirituale, psichico  che ti spiegherò alla fine della nostra chiacchierata.

Il dolore può essere di semplice mal di testa, per affaticamento, per preoccupazione. Ma a volte è l’annuncio di qualcosa che si è messo in moto e nessuna medicina potrà cambiare, è l’avviso di qualcosa di grave.

C’è il mal di denti, doloroso, ma che si può superare con l’estrazione, con la pulizia, con l’eliminazione della carie.

C’è il male dell’orecchio che porta alla sordità, che puoi prevenire o superare con l’impiego di ritrovati tecnici, scientifici. Ma con il passare degli anni non ci sono vie di scampo. La sordità accentua la solitudine.

Il mal di gola è un dolore passeggero, può dipendere dal freddo, da   un colpo d’aria o dall’ingrossamento delle tonsille. Non sono un dolore grave. A volte il rimedio è una semplice sciarpa.

Quando passiamo al torace le cose si complicano sempre. Ci sono molti organi che possono ammalarsi e mettere in crisi tutto il corpo.

La polmonite non è una semplice malattia. I polmoni si riempiono d’acqua, diminuisce lo spazio destinato al ricambio dell’aria. La polmonite l’avverti con tosse secca che produce catarro, sensazione di stanchezza e fiato corto e con forte rialzo della temperatura. Sintomi significativi sono l’asma, l’inappetenza e la nausea.

Un aspetto grave è la pleurite aggravata da colpi di tosse, colpisce i polmoni e l’apparato respiratorio. Si può trasmettere attraverso le goccioline del respiro. Si può curare con somministrazione di ossigeno e  una ventilazione assistita. Non sono un dolore da prendere alla leggera.

Un organo delicato e complesso è il tuo cuore, caro amico. Attento corri subito dal cardiologo quando avverti soffio sistolico, dispnea, gonfiori agli arti inferiori. Attento all’insufficienza mitralica. La chiusura della valvola mitrale fa sì che parte del sangue pompato dal ventricolo sinistro refluisca nell’atrio sinistro anziché andare in aorta. In casi gravi interviene il cardiochirurgo con la sostituzione della valvola con una meccanica o con una biologica. L’intervento prevede l’apertura del torace, all’altezza dello sterno. Le valvole funzionano in sincrono con la contrazione (sistole) e il rilascio (diastole) del cuore assicurando che il sangue venoso passi attraverso il cuore, si ossigeni nei polmoni, torni al cuore e poi raggiunga tutto l’organismo.

Nell’intestino provoco dolore con l’intervento all’appendice, alla bile, al fegato. Quest’ultimo è un segnale pericoloso, perché, difficilmente si guarisce.

La stenosi dell’intestino comporta la resezione di una parte e il ripristino del reflusso delle feci. Bisogna selezionare i cibi per evitare la diverticolite.

Un dolore particolare riguarda la prostata. E’ l’occlusione delle vie urinarie, blocco della capacità di urinare, dolori fortissimi alla vescica e al basso ventre. Occorre l’intervento chirurgico, che però ha come conseguenze troppa frequenza di urinare, termine dell’attività sessuale.

In compenso ho dolori, anche forti, ma passeggeri. Sono le fratture delle ossa, in seguito a cadute o alla loro fragilità che aumenta con l’età. E’ la interruzione dell’integrità stessa dell’osso. Però, se sei fortunato, la frattura guarisce da sola perché sintetizzano nuove cellule, ricevono più sangue e guarisci da solo, magari con l’auto di  un’apposita fasciatura (gesso).

C’è poi un male che non si nomina, si chiama semplicemente: il male. E’ il cancro che può colpire ogni parte del corpo ed è letale. E’ solo questione di tempo! Il più pericoloso è il cancro o tumore alla testa. Un intervento avviene con l’apertura della scatola cranica, ma la resezione comporta il rilascio di una radice, perché altrimenti provoca la paralisi. Ma il residuo, come per i funghi, comporta la rinascita del male.

Il risultato? E’ la morte certa a breve!

Mi dispiace, ma è questo il mio maggior dolore.

C’è poi un dolore che è gioia, felicità, è quello della partoriente che vede uscire da sé la vita che continua. Solo le madri possono sopportare i dolori lancinanti che precedono il parto, ma basta vedere i loro occhi, il loro viso per comprendere quanto grate siano al dolore che ha recato loro un dono immenso: un figlio.

La loro gioia continuerà per tutta la vita che sarà di sacrifici,  di rinunce, di donazioni per far crescere il bimbo fino ad essere indipendente, autonomo e responsabile.

Di questa forza il dolore ne è orgoglioso.

Ahimè! Come, preannunciato devo ora parlarti di un altro dolore di cui non sono responsabile, il dolore che fa raggrinzire la pelle, spezzare il cuore, intorpidire la mente.

Ti parlo della sofferenza che prova un genitore alla morte di un figlio. E’ uno strazio incolmabile che dura per sempre, che ti fa piangere all’improvviso, appena s’aspre uno spiraglio del ricordo. Se hai un momento di serenità, ti sembra di usurpare la memoria cara. Se ti viene voglia di cantare, precipiti subito in pianto, e ti chiedi: com’è possibile?

Ti parlo del ragazzo che giace in un letto immobile per paralisi degli arti inferiori. Cosa pensa, cosa prova in solitudine una persona simile? In quei momenti vorrei non essere il dolore, ma il consolatore, vorrei sostituirmi al familiare che lo assiste affettuosamente, silenziosamente.

Ti parlo del vecchio rimasto solo che consuma i suoi ultimi giorni in una Casa di riposo. Distingue le ore e i giorni dai pasti, dalle preghiere comunitarie serali, dal canto corale intonato dall’infermiera pietosa di turno. Neanche il sonno gli dà pace, perché i vecchi stanno svegli e pensano pensano pensano. Vorrei aiutarli, ma le mie armi sono spuntate, se potessi intervenire aggraverei la loro condizione. Il dolore non può far altro che aggiungerne ancora, più che alleviare.

Ti parlo della bambina orfana che teme l futuro che l’attende, non ha nessuno a cui chiedere aiuto, che faccia luce nel buio in cui si vede immersa. Non c’è guaio peggiore che perdere ogni speranza. Perché il trovarsi di fronte al baratro della disperazione è l’ultima spiaggia per una vita già conclusa da tempo.

Ti parlo del malato mentale, del pazzo, che non sa di esistere, che è come una stella cadente, un sasso, un fiore. E’ doloroso vedere una persona assente, che non ride, non piange, non agisce con consapevolezza. Penso al padre vecchio che sperava in un aiuto nella tarda età, che deve pensare invece a cosa succederà a suo figlio, solo e dimenticato.

Come dolore, a volte vorrei annullarmi, ma non è possibile in questa valle di lacrime!

 


 

IL CAMPANILE di SAMBRUSON

Una notte, allo scoccare dei dodici rintocchi, il campanile di Sambruson chiamò a rapporto gli altri colleghi dei paesi vicini. Dall’alto dei suoi cinquanta cinque metri accorciati, parlò della statua di Sant’Ambrogio riportata a terra per riparazioni  urgenti e necessarie.

“Colleghi,” disse “questa storia deve finire, non può durare secoli, bisogna che qualcuno si muova. Cosa suggerite?”

“Calma, che fretta c’è?” disse il campanile di Dolo guardando giù dai suoi 82,27 metri. Già, si ritiene il signore di tutti i colleghi.

“Non conosci la notizia? Abbiamo un nuovo sindaco!”

Tutti gli altri danno un rintocco per dire che hanno capito ma che vorrebbero conoscere la cosa nei dettagli.

Anche il campanile di Sambruson è colpito dalla notizia, ma non capisce perché dovrebbe essere contento.

Allora il campanile del duomo si san Rocco spiega pazientemente ai campanili di campagna di quali proporzioni è la bella notizia.

Il nuovo sindaco e la sua amministrazione, tra le molte cose, hanno in programma quella di issare al suo posto la statua di sant’Ambrogio. Ne hanno tutto il tempo per agire con saggezza e ponderatezza, affinché le riparazioni durino ancora per secoli. Ma soprattutto hanno la competenza, il ruolo e i mezzi per realizzare l’opera.

Ma ecco che il campanile di Camponogara si fa avanti, pensa ai suoi problemi, vorrebbe un controllo statico, vorrebbe che fosse eliminata la pianta di pruno cresciuta a livello della torre campanaria che deturpa la sua bella e slanciata cuspide. Certamente qualche uccello ha mangiato il frutto e lasciato cadere il seme tra le fessure polverose. A support ricorda la sua santa protettrice sant’Apollonia di Alessandria.

“E, dopo tutto, non dimenticate, merito anch’io attenzione, in fin dei conti sono alto 70 metri, signor campanile di città!”

Suonano i due rintocchi e il campanile del capoluogo spiega con pazienza che ogni comune ha un sindaco diverso, una amministrazione diversa e che sono diversi gli interlocutori.

Già il campanile di Arino pensa se ha qualche dolore da sistemare, visto che con Dolo e Sambruson è in famiglia. Intanto ricorda pomposamente l’Arcangelo Michele, suo protettore. E aspetta in silenzio un commento. Niente! Anche tra i campanili c’è rivalità, ognuno pensa a sé.

Il campanile di Pianiga interviene seccato.

“Cari colleghi, non dovete giudicare dall’altezza, ma dalla storia, dall’antichità, dalla fama. Sono il campanile della chiesa di san Martino, e basta la parola! La nostra chiesa è stata costruita quando voi non eravate ancora nati, quindi parliamo anche di precedenze e, se ci deve essere un aiuto ai campanili, io vi precedo tutti.”

“Quanta pazienza!” Pensa il campanile di Dolo.

E ma non è finita. Interviene piuttosto seccato il campanile di san Nicola di Mira.

“Signori! Pensate anche all’ampiezza del territorio che ogni santo protegge. Mira vi ingloberebbe tutti e poi non approfittate della mia solitudine, io appartengo al patriarcato di Venezia, di san Marco.”

Gonfiò la voce per tutti, alti e bassi, trovandosi a 66 metri, a mezza altezza. Cominciò un sermone che non finiva più. Citò origini nobiliari e letterarie, citò Dante, la Divina Commedia e la cantica del Purgatorio, parlò di un tal Jacopo del Cassero morto dissanguato nelle paludi di Oriago. Insomma non la finiva più!

Il campanile di Sambruson sentendo tutte queste storie aggiuntive e concorrenziali si preoccupò non poco. Era tale e quale ai suoi fedeli, contadini pazienti, ma quando è troppo sbroccano.

Gli orologi suonano le tre. Eh, sì! i campanili sono più svegli e attenti più che mai.

Allora il campanile vicariale diede a Sambruson la buona notizia, solo in parte annunciata.

“Il comune di Dolo cercherà i fondi necessari all’opera, chiederà tutti i permessi necessari, all’ufficio tecnico, alla Sovrintendenza ai beni culturali, alla Curia, alle banche per programmare un intervento serio e definitivo. Tra non molto ci parleremo ancora di notte, pure con sant’Ambrogio innalzato al suo solito posto.”

Il campanile di san Carlo Borromeo di Fiesso d’Artico rimasto silenzioso chiese la parola.

“Mi sono annoiato a sentire discorsi di primogenitura, di altezza, di fama perché qualcuno ha soggiornato in casa propria, perché, se la mettiamo così, io mi trovo sulla strada regionale Padana Nord, un’arteria che vede passare gente locale, nazionale e internazionale. Ho anch’io la mia importanza, non faccio tante smancerie, non dimenticatelo.”

E parlò con aria altezzosa di villa Pisani, del doge Pisani, dell’architettura veneta che ha fatto scuola in tutto il mondo. Parlò della camera di Napoleone Bonaparte e dell’incontro di Venezia tra Hitler e Mussolini, che invece avvenne a Strà.

E poi, in fin dei conti, cosa ha mai da vantare Fiesso d’Artico che tutto questo ben di Dio lo vede solo di spalle, dalle scuderie?

E infine ricordo a tutti che la nostra parrocchia si distingue da tutte voi. Noi non celebriamo un santo, ma un evento: la Natività di Maria Vergine. Mandate fedeli da noi l’otto settembre, li faremo pregare e divertire alla sagra.

“Calma, calma,” intervenne il campanile di Campagna Lupia, “se parliamo di santi protettori, io ho il capo dei Santi e dei Papi, san Pietro. Non so se mi spiego.”

Eh, si era spiegato sì! Tutti chinarono il  capo, incartarono il loro santo e lo deposero

piamente in sacrestia.

Tutti tranne sant’Ambrogio che questa volta intervenne di brutto.

“Signori miei, ognuno di voi ha presentato un suo privilegio, una sua richiesta. Io sono la storia del mio paese, gli ho dato il nome, e se non torno lassù come suo simbolo, il paese resta senza nome, figlio di santo ignoto. Non mi sembra una cosa dignitosa.”

Ricordò che dei singoli fedeli si erano proposti come promotori di un comitato raccoglitore di fondi per il restauro, ma che tutto era fallito, per la presunzione di voler fare qualcosa che non era in grado di portare a termine, per mancanza di autorità. La buona volontà può servire senz’altro nel proporre, ma il fare è tutta un’altra cosa. Comunque resta l’encomiabile diffuso desiderio di vedere il proprio Santo al suo posto. Non lo dimenticherò, dice.

Gli orologio suonarono le quattro.

Le discussioni si protrassero per altre due ore con intatto calore e vanto per sé.

Infatti non era finita. Timidamente disse la sua anche il timido campanile di  Paluello con protettore sant’Antonio Abate. Azzardò anch’esso, come valore aggiunto, la presenza nel territorio della Villa Giustinian Gritti Menin. Ma nessuno gli badò.

Allora il campanile di Fossò, pur piccolo, ma con un mirabile duomo si azzardò di parlare del suo protettore, san Bartolomeo apostolo, compagno di predicazione del Vangelo di Simon Pietro, morto martire, per di più scorticato vivo.

“Chiedo scusa,” disse con un filo di voce il campanile di Sandon. “Ho anch’io il mio santo protettore, san Giacomo, pure lui apostolo. Vicino ho tutto: le scuole, il cimitero, ora anche una rotonda al posto del semaforo.”

Il piccolo presentò il suo meglio in modo pudico e senza pretese.

Ma nessuno gli badò. Era troppo poco. E poi tutti erano esausti.

Seguirono un lungo silenzio, dei borbottii sommessi nella notte di luna piena, dei consensi, sì sì, dei dissensi, no no.

Alla fine tutti erano esausti. Allora fu il campanile di Sambruson a trarre rapido le conclusioni e chiudere la discussione.

“Non mi potete lasciare solo, datemi una mano, uno squillo per ognuno di voi non costa niente, ma per me conta molto, per me vale tutto. Non lo dimenticherò.”

Fu così che alle sei del mattino tutte le campane dei campanili della Riviera del Brenta squillarono a distesa, in segno di amicizia e di approvazione.

La gente svegliata di soprassalto si chiedeva cosa mai fosse successo.

Un patto tra fratelli aveva sancito la vittoria delle campane di Sambruson e il ritorno della statua di sant’Ambrogio con la sua benedicente mano in vetta al campanile.

Solo i campanari, che sanno suonare le campane e che sanno distinguere la messa cantata dal funerale, dal matrimonio compresero il loro linguaggio festoso, applaudirono e sparsero la voce.

E così, come  in tutte le belle favole, tutti vissero felici e contenti.

 


 

IL DECLINO

In un giorno radioso di giugno, con lanci di petali di rose rosse, si è svolta la processione del Corpus Domini per le vie del paese. A Sambruson, sempre all’avanguardia tra gli ultimi nel registrare eventi storici, con secolare ritardo, è stata inaugurata, per l’occasione, la statua al contadino o meglio la Statua del Contadino, secondo i promotori.

In un epoca storica che vede la scomparsa del lavoratore tipico di Sambruson, il paese, il nostro paese, innalza in piazza Brusaura, già triste nel nome, una statua di marmo veronese, opera gratuita di un concittadino illustre, che ha preferito rimanere in incognito. Questo l’ha detto a qualcuno, cioè a tutti.

I ragazzi delle nostre scuole elementari studiano la storia dei primitivi, dei Greci, degli Etruschi, dei Romani, dei Galli. Adesso hanno scoperto un popolo storico, diffusissimo, ormai scomparso che merita essere onorato e ricordato: il popolo contadino. Quando i primi abitatori della terra scoprirono che oltre la transumanza e l’emigrazione, c’era la possibilità di stabilizzarsi in un  posto e coltivare la terra, e procurarsi il pane. Lì, sul posto, nacque l’agricoltura, che per secoli ha sfamato i nostri popoli, i nostri antenati e noi ormai vecchi, come dei tratturi abbandonati.

La statua, un metro e ottanta, rappresenta il gesto del seminatore e giace tra un parcheggino anonimo, una via obbligatoria, ma che strozza l’unica piazza possibile. Non si fa a tempo di scorgerla che già si imbocca via Villa, curva! e via.

Parlo di Sambruson, perché lo conosco bene, ma è un discorso valido per tutto il Veneto. La statua è bella, di ottima fattura, rappresenta un uomo non più giovanissimo, con un cappellaccio di panno in testa, con mani nodose, con nervi e vene bene esposti, sguardo lungimirante, fino al margine del campo, da dove riprenderà il giro di ritorno. Il sacco pieno pende sul fianco sinistro, sopra pantaloni rattoppati, la destra è rappresentata aperta nel gesto dello spargitore di semi. Mi piace e mi commuove. Mi piace perché qualcuno si è ricordato di un costruttore di pace, di uno che offre il pane. Mi rattrista perché è troppo tardi. Ricordare il contadino oggigiorno è come ricordare l’inventore del fuoco, della ruota, della barca, dell’arpa, della pittura, della poesia. Si ricorda la scoperta, ma lo scopritore è ignoto o vago. Invece i nomi dei nostri contadini li conosciamo tutti, via per via, sono stampati sui marmi dei nostri cimiteri.

Chi è il contadino della statua? Tutti e nessuno. Lo voglio chiamare Giacomo. Anche i contadini hanno il loro agricoltore ignoto. Onore a chi l’ha voluto, ma è arrivato con secoli di ritardo.

Mi commuove quel vecchio immortalato con occhi sbarrati, orecchie al vento, naso aquilino, camicia sbottonata, braccio scheletrico, slanciato pur esso, quasi lanciato nel solco.

Ebbene tutti questi pensieri mi rievocano scene di declino, di qualcosa che sta morendo, di qualcosa che è già vecchio, decrepito, da dimenticare, perché rappresenta un mondo che non esiste più.

I prodotti della terra? Scusi, di cosa parla? L’uva si compera dal fruttivendolo, al mercato,  nelle case non ci sono più cantine o granai o stalle o fienili. L’insalata, lo scalogno, le carote non si piantano più negli orti, perché non ci sono più, sono stati sostituiti da posti macchina. Il latte si acquista al supermercato, l’acqua non sgorga più dalle fontane  o dai pozzi artesiani, ma ci viene in casa in bottiglie di plastiche o dai rubinetti del consorzio Veritas.

Vorrei avere la mano, il pennello del Caravaggio, pittore del barocco italiano che sapeva soprattutto dipingere con immagini viste di lato, molta luce e subito molta ombra, per distinguere la Grazia dal Peccato.

Nel dipinto che vorrei dedicare al contadino, al seminatore, metterei molta luce dall’alto a sinistra per indicare la rettitudine, l’onesta ispirazione che scende dal cielo e avrebbe molto buio in basso a destra per mostrare l’oscurità in cui precipitano i gesti inconsulti e le opere dannose dell’uomo. In poco spazio, con pochi colori il Caravaggio riesce a dire tutto sulla scena che sta rappresentando.

Mi fa piacere che vi abbia provveduto uno scultore. Penso, anzi temo di essere uno dei pochi che ha il piacere fermarsi di fronte alla statua e alzare una mano in segno di saluto al nobile lavoratore.

Ma tutto ciò non toglie che la statua dimostri il declino di un paese, di una civiltà contadina che va scomparendo.

Vorrei essere un piccolo pittore di parole per dire quel che sento dei lavoratori della terra, da cui sono emerso, delle loro fatiche, del loro timore degli uragani e delle tempeste, della loro gioia di bere il latte appena munto nella stalla o di far nascere un vitello.

Il declino di un paese simbolo, lo tocchi con mano, lo vedi in maniera impressionante. Non era così. La civiltà contadina era fiorente. Le contrade erano festose, con rumori di trattori, con muggiti di buoi all’aratro, con grida di ragazzi impegnati in giochi, con canti di vendemmiatrici.

Son passato di sera, in piazza non c’era nessuno, luci spente, case vuote, ruderi con cartelli “attenti pericolo!”. Molte case sono disabitate, balconi pendenti, tegole cadenti, alberi selvaggi che da anni non vengono potati. Nessuna musica esce dalle finestre aperte. Buio dentro e fuori. Ah, c’è un cartello: “ Vendesi”.

Chi mai comprerà? Nessuno! L’unica speranza è l’approvazione di un Nuovo Piano Regolatore. Ma l’argomento è sacro, è pericoloso, c’è il rischio di sbagliare, volutamente, un tratteggio, una assegnazione per far scoppiare lo scandalo.

Poche cose antiche da salvare, non ci sono mai stati eventi storici da libri di testo. Molte case da abbattere perché costruite fuori regola, senza licenza edilizia, ci sono imposte da pagare su immobili che non rendono, che provocano cause legali tra parenti. Meglio cancellare i ruderi! Non siamo materia per storici, solo oggetti di ricerca e copiatura.

Ci sono alcune persone sagge, che hanno condotto una vita irreprensibile, che hanno superato da tempo gli ottanta anni, che vivono a margini, perché nessuno li accosta, nessuno crede più ai loro pareri. Lo sanno, ti schivano, ti salutano solo con un sorriso che è da solo un poema di tristezza.

Sono andato a salutare un amico d’infanzia, una persona integerrima, scrupolosa che è improvvisamente precipitata in uno stato di Alzheimer, fa conti, calcoli, riporti, riepiloghi di versamenti, crediti non riscossi a favore dell’azienda per cui lavorava. Non è vero! Ma nessuno riesce a tranquillizzarlo. In famiglia c’è un gran subbuglio, nessun medico lo sa curare, perché cure non ce ne sono, forse psichiatriche, che a volte peggiorano la situazione. Mi ha chiesto un aiuto che non gli posso dare, perché non so cosa voglia. Il suo declino mentale è inesorabile e crea attorno enorme tristezza.

Nel mio viaggio di ritorno in paese ho incontrato un’altra persona di grande riguardo, un sacerdote. Ha celebrato la prima messa a Sambruson già sessanta anni fa. E’ persona colta, laureato in psicologia che aiuta come può le persone confuse. Ora ho visto lui confuso, celebra messa, legge il vangelo, due parole di commento, ritorno a casa. Non è mai stato titolare di parrocchia, si può dire che è cappellano a Sambruson da quasi sessanta anni. Ho antichi motivi di affetto, di amicizia, quasi di parentela che mi uniscono a lui, ma non so che dirgli. Poi ho scoperto che molto dipende anche da me. Anch’io passo le mie giornate in silenzio ricordando, ripiangendo, sospirando. Non ci sono più molte persone care, molte amicizie sono scomparse, progetti futuri sono impossibili. La mia credibilità è in declino, lo noto dallo scarso rispetto di certi approcci o la compassione  che mi è rivolta.

Mi assiste mia moglie e mi sopporta durante i miei lunghi silenzi. Dormo di giorno, scrivo di notte. E’ difficile vivere con me. Sento il rumore del televisore acceso, ma non saprei dire l’argomento trattato. In casa chi è più giovane mi assiste amorevolmente, ma è difficile sopportarmi sempre senza provocare scatti di fastidio. Ho anch’io una penosa penombra che cala inesorabilmente nella vista, nel cuore. Mi assiste per fortuna la memoria, la mente, a meno che non sia pure questa una pia illusione. Sono convinto che basti recitare qualche verso poetico imparato a scuola o scarabocchiare la Settimana Enigmistica per dimostrare a tutti la freschezza della mia memoria, invece sono solo passatempi in attesa del pranzo a mezzogiorno o per ingannare me stesso con qualcosa di pseudoculturale. Mi assalgono ricordi di lontane iniziative pubbliche con plauso generale, le mie campagne a favore dei donatori di sangue, i premi letterari favore degli studenti di ogni ordine e grado, i discorsi al cinema Italia piena di popolo plaudente. L’impegno politico e sociale. Tutto dimenticato, tutto sepolto. Tutto mi è indifferente. Mi aiutano i ricordi. Li godo o li soffro da solo, nessuno se ne accorge, nessuno lo sa, confonde i miei silenzi a ritardi senili. Probabilmente è così, ma io non me ne accorgo. Penso ai giorni che mi restano e sono ogni giorno uno di meno. Cosa succederà? Quando lascerò questo mondo sarà nel periodo natalizio. Ogni anno a Natale ho avuto grossi fastidi di salute, e ne sono uscito indenne. Uno non lo supererò.

Rivedendo il percorso della mia vita mi accorgo di avere lasciato una traccia del mio passaggio in questo mondo, e ciò mi rende sereno. Un marmo, in un modo o in un altro, ce l’avrò anch’io, con nome e una data. Ma ne sarò del tutto indifferente.

Dicono che un indice di vecchiaia sia il retrocedere piano piano nei ricordi, fino a quelli giovanili e godere di quei giorni trascorsi in pienezza di vigore e di intelletto.

Forse è vero! Da sessanta anni mi sto godendo dell’amicizia rinnovata a ogni capodanno dalla mia squadra della scuola di artiglieria contraerea di Sabaudia. La chiamo mia squadra perché ero il loro caporale, 14 elementi in tutto. Qualcuno non c’è più, qualche altro gravemente infermo. Quando ci telefoniamo ci riconosciamo subito dalla voce, ci scambiamo le informazioni sulla famiglia e poi prorompiamo in ricordi su guardie notturne, su assegnazione a piantone o alla cucina, sulla punizione e niente libera uscita! Penoso era restare in caserma quando tutti erano in libera uscita e rientravano tardi  dopo il contrappello. Tante cose inutili, confuse, borbottate.

Però durante il tempo in caserma, sulla propria branda, con il cuscino da scrittoio, molti scrivevano alla propria ragazza. Non era tempo perduto, era tempo goduto. Non avevo allora questo problema e mi piaceva ascoltare i sogni, le attese, la voglia del congedo per convolare  a nozze. Avevamo venti tre anni. Qualcuno aveva  già il posto di lavoro che lo attendeva. Eravamo una comunità varia che si aiutava. Forse ero l’unico sbandato. Non avevo la fidanzata, non avevo il posto fisso, non avevo risparmi, mi arrangiavo con la “deca”.

Però non mi preoccupavo tanto, sapevo che il momento buono sarebbe arrivato e che la scelta sarebbe stata immediata, reciproca. Così fu. Incontrai Silvana, che non conoscevo, al festino in famiglia, da un amico a san Silvestro. Neppure lei mi conosceva. Ballare era obbligatorio! Stonato come una campana fessa non stavo al ritmo e trascinavo fuori tempo anche lei, che pur sapeva ballare il valzer. Fu l’ultima volta che ballò, perché si innamorò di me e le nostre vite cominciarono a intrecciarsi per sempre.

Sono passato davanti alla Statua di Giacomo, del Contadino. C’è una scolaresca che guarda, prende appunti, mentre una maestra spiega. Mi fermo ad ascoltare e sorrido di gioia nel vedere che qualcuno si ricorda del contadino. O del vecchio maestro? Certo la loro visione è ben diversa. Girano il capo e vedono un vecchio con la barba, occhiali neri per il sole, berretto in testa come fosse inverno, imbambolato da sembrare smarrito, e si preoccupano.

“Signore, sta bene? Ha bisogno di aiuto?”

Sento delle parole premurose! Mi guardo in giro e non c’è nessuno. Allora è a me  che parlano? Capisco che la mia missione a questo mondo si sta affievolendo. Non posso più dire niente a nessuno, non posso inspirare più fiducia a nessuno. Solo destare preoccupazione. Torno a casa, mi guardo allo specchio e capisco che la realtà è ben diversa da quella che uno crede di rappresentare.

Ho bisogno di un aiuto, di qualcuno che mi capisca, di qualcuno che mi venga incontro. Di un rifugio. Chiudo gli occhi e vedo ciò che vedo sempre, quando sono triste. Mio figlio Alberto che mi protende una mano, che mi sorride. Muove le sue labbra e capisco la sua parola. “Vieni!”

 


C’è Amore e Amore

Carlotta Migliorini il giorno del suo diciottesimo compleanno, guardandosi allo specchio, sbottò in un uffa! sonoro di disgusto. A suo dire non era bella così com’era. Era robusta, di media statura e tutti a scuola la deridevano per la sua corporatura. Il suo nome accrescitivo era meraviglioso, ma non per lei che la rappresentava ancor più grassa.

Aveva occhi neri e curiosi, labbra ritratte, da arrabbiata, naso arcigno, passo sicuro e invadente. Eppure aveva un bel visetto incorniciato da un caschetto di capelli rossi, che la rendeva ancor più attraente. Qualcuno la considerava invadente.

Non si piaceva e considerava le attenzioni sogghignanti dei compagni come provocazioni. Le compagne invece la temevano e la evitavano. A scuola  entrava per ultima e usciva per prima per non partecipare ai crocicchi al cancello del liceo scientifico. Era convinta che si parlasse male di lei e non voleva dare soddisfazione alle pettegole e ai giovanotti acerbi e finti spavaldi.

Era assidua nello studio, dotata per la matematica e le scienze, eccelleva nella sua classe. E perciò ancora più antipatica. A questo contribuivano gli insegnanti delle materie scientifiche che la lodavano apertamente. Soprattutto il professor Liverani, un trentenne, pure lui fulvo di capelli, ma di carattere mite e sempre disponibile. Carlotta non lo sopportava, perché troppo diverso da lei. Sorrideva troppo, a tutti, anche a chi era insufficiente nelle interrogazioni e nei compiti. Non voleva trascurare nessuno, neanche lei. Perché le augurò buon compleanno. Il registro parlava chiaro: il giorno dieci maggio compiva 18 anni.

Nessuno dei compagni le sorrise quel giorno, allungando una mano da stringere. Tranne Ettore Sarti e Gloria Martini che la salutarono con i pollici alzati, alla romana. Sorrise appena. Non erano in un Colosseo, dove le sfide erano mortali e potevi aver salva la vita solo grazie alla compiacenza popolare e al numero di pollici alzati. Erano a scuola, potevano esprimersi meglio. Comunque parteciparono tutti al taglio della crostata nell’ora di recupero per l’assenza dell’insegnante di storia.

“Cosa farai da grande?” le chiese a bruciapelo il professor Stefano Liverani. Molti sorrisero, lei no.

“Farò filosofia” disse sicura. “Se questa  estate non cambierò idea.”

“Non cambiare idea, sono certo che riuscirai benissimo. Ci ritroveremo ancora, anch’io mi iscriverò a filosofia,” disse l’amico Ettore Sarti.

Già cominciavano a smettere con gli scherzi e a pensare seriamente al proprio avvenire.

Alla conclusione della breve festicciola, Gloria Martini le consegnò un astuccio con una penna biro Parker d’argento, a nome di tutta la classe.

Carlotta confusa scoppiò a piangere. Ma, allora, era questa la sua classe? Tutti la applaudivano? Fu quella la lezione più importante in cinque anni di scuola.

Superarono tutti gli esami e ognuno andò per la sua strada. Carlotta dedicò le sue vacanze alla campagna. Rinunciò alla montagna che tanto amava per passare pomeriggi solitari all’ombra delle querce della sua vasta campagna.

La famiglia era possidente di un vasto appezzamento di terreno agricolo, lavorato a parte, che sembrava non avere confini.

Un giorno di giugno, stava distesa sull’erba fresca a braccia aperte a guardare le nuvole, quando vide arrivare dallo stradone che conduceva ai suoi vigneti, tre sue compagne, venivano di corsa con tutto il necessario per un pic-nic all’aperto. Anche loro appezzarono quella ampia marea verde e la frescura che metteva allegria agli occhi e ai pensieri.

All’inizio parlarono delle loro reminiscenze scolastiche, delle loro simpatie, poi delle loro ambizioni e degli studi che le attendevano.

Dal  vialone apparvero all’improvviso tre ragazzotti contadini con dei cesti d’uva in mano.

“Ma guada, guarda che belle pupe crescono tra le nostre vigne.”

“Stai zitto, Manuel, non vedi che c’è la nostra padroncina?”

“Oh! Mi scusi, non vi  ricordavo così grassa.”

“Hai sentito? Da questo mi distinguono.”

“Non te la prendere, Carlotta, sono ragazzini, senza educazione. Pensa a quante amiche a quanti amici abbiamo che invece ci adorano.”

“Per mia fortuna ci sei tu, degli altri non me ne sono accorta” disse Gloria. Che poi le parlò di Achille che la guardava di profilo per non rivelarsi, di Giancarlo che le scriveva bigliettini amorosi che poi non le consegnava, vedendola così scorbutica, di Michele che arrossiva quando la vedeva entrare, di Filippo che li minacciava, perché voleva che fosse solo sua. E anche le compagne erano gelose di non essere prescelte da nessuno. Angelina, Rachele erano gelose, e Ludovica presente lo confermò.

“Achille? Ha un bel coraggio, dopo gli sberleffi che mi fa continuamente!”

“Attenta, chi disprezza ama!” disse perentoria Gloria.

Ci fu un lungo silenzio. “Io amo un altro!”

Gloria si alzò sui gomiti. “Cosa?” disse “Tu ami qualcuno? Non ci redo.” E la sfidò.

“Chi mai sarebbe? Lo conosco?”

“Non lo indovinerai mai. E so che nel suo intimo anche lui mi ama.”

Gloria passò in rassegna le loro comuni conoscenze e non incontrò nessuno che potesse aver scelto Carlotta.

Carlotta era una ragazza che sapeva emergere nel gruppo, che si impadroniva della scena ma qualcuno che si voltasse e le parlasse in modo serio non c’era. Provò a pensare a particolari episodi scolastici, a sguardi incantati, ma non trovò  nessuna risposta.

“Quando deciderò, lo saprai per prima. Neanche lui lo sa, ma presto si dichiarerà.”

Quel pomeriggio iniziato nel migliore dei modi si concluse con qualche cipiglio per entrambe.

Come un vulcano che, prima di eruttare, ringhia, sbuffa, finché trova una bocca per sfogarsi e poi placarsi, così Carlotta tornò a casa più calma, più serena. Aveva vinto una resistenza interiore. Sorprese la madre quando accettò di passare con lei una settimana ad Auronzo. I due fratelli preferirono il mare all’isola d’Elba.

In pochi giorni trovarono il tempo per fare escursioni alle Tre Cime di Lavaredo, al Monte Piana, in Valle Aurina, alle sorgenti della Drava. Un miscuglio di scelte improvvisate e subito realizzate con l’aiuto del loro autista di fiducia. Reazioni tipiche di una persona impulsiva, volitiva, impavida.

Non fu certo un periodo di riposo quella settimana, poi, per fortuna, iniziò la frequenza all’Università, alla facoltà di filosofia. Nuovi studi, nuovi compagni, nuovi professori. Si buttò nel nuovo mondo con grinta e passione. Ma nella fornace del suo cuore nulla era cambiato. Voleva il suo uomo! Lo pensava continuamente. Aveva deciso di confidarsi con Gloria, ora che tutto sembrava sopito. Voleva, non un consiglio, ma una conferma. Il suo  carattere questo esigeva.

Il professor Stefano Liverani, che aveva ottenuto la cattedra di ruolo in un paese a una ventina di chilometri, tornò in paese per salutare i colleghi rimasti, gli amici e i ragazzi che fossero venuti in Istituto per un breve saluto tra persone riconoscenti che potevano ormai salutarsi dandosi del tu.

Molti si precipitarono, dando una pacca sulle spalle al professore; la confidenza ormai era un fatto acquisito.

Ettore Sarti prese la parola e rivolse un caloroso saluto al loro amato professore che ricambiò salutando tutti i presenti uno ad uno. Mancava Carlotta. Si chiese: come mai?

Tornato a casa trovò una telefonata della ragazza, l’aveva ricevuta Albertina, la sua fidanzata. Avevano in programma il matrimonio per la prossima primavera. Lavorava come cassiera in un supermercato e badava alle faccende di casa.

Carlotta le aveva telefonato per un incontro privato, per un consiglio. Il professor Liverani fu ben felice e fissò l’appuntamento per  un pomeriggio a casa sua. Con il cuore in tumulto, cercando le parole più opportune per rivelarsi all’uomo che aveva deciso dovese essere il suo amato, arrivò qualche minuto prima all’appuntamento.

Le aprì la porta Albertina, vestita da domestica, con un ampio grembiule, intenta alla stiratura.

Si salutarono, si presentarono, si sorrisero.

“Sono Carlotta.”

“Piacere, Albertina. Ci siamo sentite per telefono, vero?”

Quando Stefano Liverani arrivò, era già accomodata. Era in tumulto, doveva parlare e non sapeva da dove cominciare.

Poi avvenne qualcosa che complicò ulteriormente il suo piano.

Albertina, persona di casa, offrì un caffè a tutti.

“Grazie, Albertina, siediti qui con noi.”

Carlotta fu stupita, confusa per la confidenza con un’estranea.

Stefano lo intuì e spiegò subito. Non cerano motivi per meravigliarsi.

“Albertina è la mia fidanzata, ci sposeremo in primavera, subito dopo Pasqua, può ascoltare tutto.”

Carlotta impallidì, non aprì bocca, restò in silenzio sul divano per alcuni minuti, le portarono un bicchiere d’acqua. Nel suo cuore devastato dalla notizia, si trovò sola al mondo, senza l’amore che per anni aveva sognato, covato, tenuto segreto per sé. Era arrivata troppo tardi. Non chiese consigli, perché il consiglio consisteva nella sua dichiarazione d’amore per il suo professore, più anziano, ma perfetto per lei: il suo principe azzurro. Aveva atteso troppo tempo. Ora vedeva solo il deserto attorno a sé. Lottare contro Albertina? No! Non voleva offendere il suo amato.

Per tutti e tre ci fu una dolorosa sorpresa, inattesa e definitiva. Non si incontrarono né si parlarono più.

La famiglia Liverani ebbe una vita semplice, diciamo normale, con gli inevitabili problemi di salute, la perdita dei genitori, ma anche  la nascita di tre figli, due aschi e una femmina.

I due maschi, impegnati nell’edilizia, uno idraulico e uno elettricista, collaborano nelle opere di finitura nella costruzione dei palazzi. Sono pure loro sposati. La ragazza ha sposato un tecnico di laboratorio dell’ospedale locale ed è la farmacista del paese.

Più di trent’anni sono passati dalla narrazione degli ultimi sorprendenti avvenimenti, di cui ormai restava solo un pallido ricordo.

Carlotta passò giorni di grande sconforto e di dolore. Tutti seppero le ragioni e furono sorpresi, perché mai se ne erano accorti. Fu sottoposta alle cure di un psicoterapeuta, il suo fisico deperì, ma alla fine la rese ancor più bella, più snella, più simpatica. Il suo bel viso, con l’età matura, assunse un aspetto più grazioso, da bambola, da ragazza piena di energia e di vita; ormai aveva superato anche lei i quarantotto anni. Aveva sempre il suo caschetto di capelli rossi, ricci, ben curati settimanalmente. La sua pelle bronzea la rendeva ancora più attraente e appetibile.

Quell’età è la più bella, perché non si è più giovani improvvisatori e stravaganti, si ha davanti un tempo da godere in piena consapevolezza e responsabilità. Ti trovi ad agire da persona matura che non arretra di fronte alle difficoltà e con ha timori di azzardare progetti nuovi. Partecipava a convegni e dibattiti all’università e alle feste cittadine. Non sembrava più lei. Non si era sposata.

Il giorno del suo compleanno, l’amica Gloria, la signora Gloria, le portò una ferale notizia: era morta, per un improvviso male incurabile, Albertina, la sposa di Stefano Liverani.

Fatalità! Un giorno bello in un giorno orribile. Provò un grande dolore, pensando alle sofferenze del suo amato. Il suo dolore era pari a quello di Stefano, ma il vuoto lasciato non poteva essere colmato dal suo affetto. Lo sapeva. Aveva capito che la semplice Albertina, la gentile commessa, la brava casalinga, la tenera sposa era superiore a lei. Per la prima volta fu felice per la scelta d’amore del suo vecchio professore.

In mezzo alla folla che gremiva il duomo, partecipò anche lei con parenti amici, ex-studenti rimasti fedeli al ricordo dell’insigne maestro. Al termine della messa, fu cantato l’inno “Quando busserò alla porta.” Sul sagrato molte mani, molti volti, molti abbracci, molte lacrime si frammischiarono frettolosamente rendendo quasi invisibile la persona che ti faceva la condoglianze.

Anche le sue ex allieve del Liceo di avvicinarono, con le lacrime agli occhi, col mento tremante dicendo le solite parole: “Non ho parole.”

Carlotta si mise in fila, con Gloria, Ludovica e le altre si avvicinarono a Stefano che aveva ora assunto una calma serena, allargava le braccia e rispondeva con un sofferto sorriso alle condoglianze.

Carlotta riuscì a spiaccicare due parole, disse: “Mi dispiace molto, molto mi  dispiace, ti sto vicina.”

Il professore affranto e comprensivo come sempre le mise le mani sulle spalle e la baciò leggermente sul capo.

Seguirono i giorni di lutto, di solitudine in casa, perché la folla aveva esaurito il suo compito, il prete ave esaurito il suo commovente sermone, tutti tornavano ai propri posti di lavoro, alle proprie preoccupazioni, lasciando sola la persona colpita dalla tragedia.

Infatti il giorno dopo il funerale nessuno ricorda più niente, nessuno deve più niente, anzi pensa al proprio turno, e tutto il subbuglio presente si assopisce.

Rare telefonate, occasionali incontri mantennero intatto un filo di unione tra i due paesi, con scambio di notizie su vivi, morti, trasferiti, borse di studio assegnate a studenti sbagliati.

Stefano viveva solo in una casa troppo grande, silenziosa, con televisore a bassa voce, con rari visitatori. Anche le Autorità, che tanto l’avevano esaltato per una probabile candidatura a sindaco,  desistettero, non era affidabile, troppo onesto, troppo corretto, bastava guardare i suoi anni  d’insegnamento.

E’ sempre così, il giorno dopo il funerale, si rimane soli, chi doveva dire ha detto, chi doveva dare ha dato, chi doveva fare ha fatto.

Passano due anni. Un giorno Carlotta riceve un sms, è Stefano che chiede di parlarle a casa sua, ha un parere serio da sottoporle. Intuisce qualcosa, si mette in guardia, ma accetta.

Stefano arriva agitato, è solo, anche i figli hanno altre preoccupazioni, non lo seguono, lo abbandonano. Chiede un consiglio, un aiuto: è possibile abitare nella stessa casa? Quasi implora. Sempre se è d’accordo. Poi potrebbero anche dormire nella stessa camera. Piange calde lacrime. Ma Carlotta non si commuove. Aiutare sì, ma convivere no! Si salutano freddamente.

Nella mia veste di narratore, ottuagenario, vivo da alcuni anni in una Casa di riposo per anziani nel Trentino e vi ho raccontato quanto so. Sono seguito, curato, servito, pulito, messo in mostra nel parco per quando vengono i visitatori. Sono diventato uno specchietto per le allodole.

Un giornalista della cronaca locale intervista gli ospiti, per ricevere complimenti e soddisfazioni per l’ospitalità. Tutto a vantaggio della Direzione che cerca pubblicità a poche spese. A me chiede qualche episodio, qualche fatto, la descrizione di qualche ospite anziano nella Casa di riposo.

Gli parlo di una persona in confusione mentale, che si esprime con parole farfugliate: lo sa, se ne se ne rende conto e piange, implora con gli occhi un po’ di bene, di comprensione.

“Dov’è?” chiede subito curioso il giornalista.

“Venga! Guardi oltre quella siepe di biancospino! Cosa vede?”

Vede una donna, sulla settantina, che pettina un vecchio, che gli accarezza le mani con amore, l’aiuta ad assorbire un gelato, lo veglia quando si ammala, gli dà speranza.

“Su, coraggio, non ti avvilire” gli dice.

“Chi è?” chiede il giornalista.

“Viene ogni sabato, non lo abbandona mai. Il suo nome è Carlotta.”

Il giornalista si precipita giù dalla collinetta, si siede su una panchina dietro alla coppia e ascolta.

La signora gli parla piano con pazienza, con tanto amore, con tanto rispetto. Non lo rimprovera mai. Ascolta attenta quando dice qualche parola.

Nei momenti di lucidità le parla di loro da ragazzi, da studenti e di quando erano ancora scolari e di quando andavano a giocare imparando le prime nozioni di vita. Il gioco per loro era stato la prima scuola, avevano imparato a rispettare le regole, ad assolvere il loro ruolo nel gruppo, a pagare pegno per gli errori, a vantarsi dei trofei, a pensare sempre a nuovi traguardi.

“Che cos’è questa, se non scuola?” pensa il giornalista.

La signora apre un libro, gli legge piano piano la storia di due bande di ragazzi concorrenti che crescono in riva a un fiume e lottano lealmente per la conquista degli argini su cui correre e organizzare i loro giochi.

Il vecchio sorride, si riconosce fanciullo su quegli argini e rivede compagni ormai scomparsi, rivede il povero Scannabisse, valoroso e sfortunato, annegato in quelle acque per salvare una bambina rapita dai gorghi in piena, rivede il suo amico Settebello, molto simile a lui.

Guarda la donna, sorride e s’addormenta. Ma è già l’ora di uscire, di salutare i visitatori, di tornare alle scadenze giornaliere, alle visite mediche, agli interrogatori delle infermiere, sempre uguali, sempre inutili, segnati con crocette sulla cartella clinica.

“E’ andato di corpo? Ha fatto pipì? Quanto? Ha febbre? Ha preso i farmaci? Prenda queste dieci gocce per dormire. Stanotte suoni se ha bisogno, solo se ha bisogno, non disturbi inutilmente, mi raccomando. Ah! Dimenticavo: domattina dieta. Buona notte.”

Ogni giorno così, ogni sera così. E poi lunghe ore ad occhi aperti a pensare, a sognare. Ha già rivisto quasi tutta la sua vita, è arrivato alla sua fanciullezza. Poi, un giorno, non avrà più niente da cercare nella sua memoria. E allora sarà la fine. La desidera, lo spera presto. Non vuole più far soffrire la sua amata. Sì si sì! Ora la chiama così. Quella donna è un pozzo continuo d’acqua fresca, un amore senza fine che lo ristora, che lo tiene in vita, che lotta con lui contro l’Alzheimer, che si  consuma per  lui.

Anche il giornalista è ammirato da tanto affetto tra i due. Non li abbandona, ritorna spesso a salutare, a stringere la mano per trasmettere calore, simpatia, incoraggiamento.

Un sabato mattina arriva, saluta il vecchio del primo incontro.

Guarda in giro e non vede ciò che voleva vedere. La signora è sola sulla panchina, con una veletta nera sul capo. E’ muta, piange da sola, nell’indifferenza di chi passa.

Capisce, le si avvicina, la interroga sollevando le sopracciglia. Lei conferma con un leggero movimento del capo. Il professor Stefano Liverani non c’è più, ha lasciato questo mondo nel sonno, in pace.

Senza parole, commosso, china il capo, le bacia la mano, la guarda fissa, scuote il capo in segno di  partecipazione.

Non scriverà niente sulla cronaca locale su persone e su fatti della Casa per anziani. Non vuole dare notizie su persone e sentimenti che considera sacri in pasto al pubblico frettoloso in attesa della metropolitana, alle signore in attesa dalla parrucchiera, al pensionato curioso, alla casalinga pettegola.

E’ tornato ancora in quel parco, ma non ha più visto sulla panchina la signora con la veletta nera.

 


a cura di L. Zampieri


Ultimo aggiornamento (Domenica 26 Dicembre 2021 15:09)

 

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