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IL DIARIO “Cogli la rosa quand’è il momento” di A. Zilio

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SAMBRUSON. CULTURA, COSTUME, TRADIZIONI, AMBIENTE. - LETTERATURA A SAMBRUSON (III)

Breve corrispondenza intercorsa prima della pubblicazione.

27/08/2021

Ciao Andrea.

Ancora una tua testimonianza di grande spessore, un omaggio al paese, alla tua “Trovemose”, agli amici di sempre, alla nostalgia dei tuoi anni di studio, un ritorno ai racconti della riviera e delle marigate, un ricordo degli entusiasmi per il ritrovamento e ritorno dei reperti archeologici. Ho letto in fretta, incuriosito da questa specie di thrilling che è il tuo “Diario”, un po’ disorientato dai continui flashback della narrazione e da questo avvicendarsi di personaggi, talvolta palesi e conosciuti, altri reali ma nascosti, altri forse creati, tanto che ho dovuto spesso tornare a rileggere per capire. Ma alla fine sei sempre tu con i tuoi pensieri, nostalgie e ricordi. E forse anche rimpianti per non avere, come tutti, colto le importanti anche fondamentali opportunità offerte talvolta dalla vita.

“Cogli la rosa quand’è il momento”.

Rileggerò con attenzione non essendo affatto sicuro della mia interpretazione anche perché non mi hai certo indirizzato, credo volutamente, con qualche minima indicazione o informazione su questo tuo importante ultimo impegno. Un abbraccio e fammi sapere se posso pubblicarlo nel “Sambruson”. Grazie Luigi.

27/08/2021
Caro Luigi,

non ho scritto nessuna introduzione perché volevo che fossi tu a interpretare direttamente il mio pensiero. Ti do alcuni spunti.
. il racconta inizia 24 settembre, giorno a noi sacro, ci ricorda il giorno in cui Alberto ci ha lasciati. Ogni sera piangiamo nostro figlio morto e preghiamo per lui.
. ho scelto autori diversi per poter esporre idee anche diverse dalle mie, interpretando il mondo in cui viviamo, il paese in cui viviamo visto da altri, da “stranieri”.
. gli autori dei brani sono tutti in contatto tra loro, personalmente o tramite il DIARIO, vero collante della storia.
. ho voluto rimescolare insieme reminiscenze scolastiche e fatti veri e noti per dare credibilità al racconto.
. Non volevo annoiare il lettore, cosi per interposta persona, ho fatto commenti politici e sociali che sono sulla bocca di tutti, facendo commentare ad altri i fatti  e i loro commenti, spesso coincidono con i mei.
. il richiamo a fatti di cronaca e di socialità, alla associazione anziani, alla ricerca del museo, ha lo scopo di dimostrare che è tutto vero, anche ciò che non si conosce.
. molti anni fa ho visto un film appassionante, di scuola, con Robin William: L’ATTIMO FUGGENTE. Un ragazzo costretto a rinunciare dal padre autoritario, alla sua passione per il teatro. Ne segue il suicidio. Mi ha commosso e mi appare tuttora come un colosso cinematografico. E’ lui che dice ai suoi studenti “cogli l’attimo”, “il tempo fugge”, “carpe diem”, “cogli la rosa quand’è il momento.” E’ un tema che ha implicazioni filosofiche, etiche, sociali.
La mia storiella va interpretata alla luce di questi insegnamenti.
E interessa tutti. Gli aspetti commoventi sono veri, reali e servono a farci riflettere, rimpiangere o gioire. Ma non a dimenticare. Già! Non dimentichiamoci di noi.
Spero che  altri lo leggano e lo commentino sul tuo sito. Grazie Andrea.

 


 

IL DIARIO
“Cogli la rosa quand’è il momento”

Racconto inedito di A. ZILIO


PROLOGO

1.

Mise in ordine la sua scrivania, chiuse con l’elastico  il suo diario, lo ripose ordinatamente nel primo cassetto e sparì nel nulla.

Era un ventiquattro di settembre di  molti anni fa. Lo ricordo bene, era il giorno in cui chiesi ai genitori di Eleonora il permesso di uscire con lei. Capita ancora di parlare con mia moglie di Beniamino Ricci. Il suo diario lo ricevetti in modo davvero strano. Lo ricevetti da Giancarlo il giorno in cui andai da loro in campagna. Era stato mio compagno di classe, conosceva le mie passioni.

“Lo vuoi?” mi disse.

“Certamente, ma non ora!” gli risposi, dopo che ebbi sfogliato le curiose e sentenziose pagine. Distratto da altri impegni, dimenticato tra le mie carte, lo riprendo ora per scoprire molte cose che non conoscevo. Ho trovato molti ricordi comuni, di incontri con i compagni di scuola, di quando misi su famiglia e andai ad abitare in una villetta a schiera fuori paese. Ho lavorato a lungo in una ditta di distribuzione di generi alimentari; forniva materia prima a fornai, pasticcerie, pizzerie, seguiva i rapporti contabili con i clienti, i fornitori, le banche. Il mio è stato un normale lavoro di routine. Gli studi classici continuano a occupare il mio tempo libero, mi interesso sempre di letteratura latina, leggo le storie degli uomini illustri di Svetonio, studio l’immutabilità dei tempi e delle cose secondo il pensiero di Eraclito che visse in solitudine, esprimendosi in discorsi criptici, anche per i suoi contemporanei. Diceva che tutto passa, niente si crea, niente si distrugge, tutto si trasforma.

2.

E’ venuto a trovarmi nel mio piccolo eremo di campagna, un nipote di Giancarlo. E’ appassionato di storie antiche in cui si narra da protagonista di fatti nuovi, ma di cui ha solo sentito parlare. Nessuno l’ascolta, parla a me, a un nonno, perché l’ascolto volentieri. Sì, sono nonno di una piccola bambina americana, abita a Boston. Mia figlia Agnese ha sposato un aviere americano di sede alla caserma Ederle di Vicenza. Ebbene, racconta anche di molte persone che non ci sono più, descrivendo soprattutto i loro difetti. A volte piego il capo per assentire, a volte sto in silenzio per dissentire, ma non se ne accorge. Il suo hobby preferito è quello di chiedere. Quando viene in visita alla famiglia di Agnese, chiede libri in prestito, chiede consigli e opinioni politiche. Quando parlano tra loro mi alzo e neppure se ne accorgono. Faccio parte della mobilia, che si usa all’occorrenza.

“Cosa pensa di questo mondo?”

Domanda universale, inutile, puoi rispondere quel che vuoi. Ed è quel che faccio.

“Ehm!”

“Ecco appunto è quello che penso anch’io. Una volta c’erano persone sagge, che riflettevano prima di parlare, che leggevano, che scrivevano.”

“Ah!”

“E sì! Mi è capitato tra le mani un documento dattiloscritto di un nostro concittadino, scomparso da molti anni, ho letto qualcosa qua e là, mi sembra interessante, ma il mio tempo è tiranno, vorrei che lo leggesse lei, che ne dice, signor Rosmini?”

La nipotina Mary, mi distrae, mi mostra i suoi scarabocchi, mi interroga, mi tira i capelli, fa le boccacce, giustificando la mia disattenzione.

Ebbene per cortesia e per gratitudine per l’apprezzamento alla  mia cultura, accetto.

“Va bene, gli darò un’occhiata quando questa birba mi lascerà in pace.”

“Mi interesserebbe conoscere l’opinione di una persona navigata come lei.”

Capisco il suo modo elegante  di scaricare il diario.

Molti anni son passasti, vi dicevo, ed ora la curiosità mi spinge ad affrontare la lettura.

Ha un  linguaggio figurato che mi trasporta in alto mare, mi fa capire da subito la stravaganza di certe affermazione di una persona che naviga a vista, senza un chiaro approdo, diciamo senza bussola.

“Chi è l’autore?” mi chiedo.

Beniamino Ricci, un signore sparito improvvisamente dal paese di campagna in cui si era ritirato, e di lui non si è più saputo nulla. Il libricino, possiamo chiamarlo diario? era stato rinvenuto sul fondo di un cassettone polveroso che giaceva nei magazzini di un rigattiere, che aveva acquistato in toto la mobilia di una casa di Dolo, prima della sua demolizione.

Il diario era stato trovato in un mobile, a vetrinetta, una libreria a scaffali con il fronte superiore a cappello di prete, come si dice, caratteristica ora in disuso, datato fine ottocento. Nel cassetto sottostante, tra un miscuglio di carte, cartelle e documenti, avevano trovato il diario, chiuso con un elastico, con pagine ammuffite, scrittura ordinata, ben allineata. Si vedeva che l’autore  aveva amato la precisione e l’ordine.

3.

Il primo nome che mi ha colpito è quello del generale Del Grano, Leopoldo Del Grano, caduto in Etiopia, nella battaglia di Adua. Gli è stata intitolata la piazza principale della cittadina rivierasca. Nessuno si ricorda più di lui, pur essendo un intoccabile. Per niente nella piazza c’è il busto di Giuseppe Garibaldi, altro intoccabile. Dalla mia finestra guardo spesso la piazza che si popola lentamente nei giorni di mercato. La gente acquista, va di fretta e sparisce. Alla domenica molta gente si sofferma nel sagrato del duomo. So di cosa chiacchierano. Di niente. Parole scontate. “Ti vedo bene.” “Come stai?” “In ospedale? Sei stata in ospedale? Oh! Mi dispiace, anche mio marito, però.” Il solito tran tran. C’è chi si ferma a leggere le epigrafi, chi a guardare l’orologio per fare intendere che va di fretta.

Piazza Del Grano è la più importante della piccola città. Mi ricordo di quando, anni fa, al venerdì e alla domenica si fronteggiavano i gruppi dei socialcomunisti che inveivano e minacciavano i ricchi, i clericali e gli affaristi, affamatori del popolo. Di fronte, sul sagrato, dopo la messa delle dieci e quindici, si fermavano i benpensanti, coloro che si sentivano fortificati dalle parole del parroco che definiva i non credenti “figlioli da riportare alla fede,” cattolica, naturalmente. Chi credeva, si sentiva giustificato e poteva compiere qualunque ingiustizia, perché si sentiva nel giusto fin dal principio.

Vi dico sinceramente che anch’io sarei stato tra i cosiddetti chiesaroli, in senso dispregiativo, si intende. Era come una patente di tranquillità per non essere “come quelli”. Le miserie umane sono infinite e ora non mi sognerei mai di  pensare queste cose. Anche perché, con gli anni, sono morti i fascisti, sono morti i comunisti, sono morti i democristiani, sono morti i monarchici. I loro figli non lavorano più nei campi o nelle fabbriche, non c’è più il rancore  contro i padroni, non c’è più lo sfruttamento del proletariato, anche se la pretesa del volere prevale su quella del dare. Le distanze si sono limate, si sono assottigliate, si sono avvicinate. I credenti sono distratti, precari della fede, a seconda delle convenienze. Dei comandamenti ne osservano due-tre, quel che basta per sentirsi dei buoni cristiani. Frequentano la santa messa quando non hanno altri impegni, quando non c’è la gita domenicale. La cresima dei figlioli? E no, quella va rispettata: c’è il regalo, c’è il pranzo al ristorante, c’è l’invito ai nonni che si guardano i nipotini con un sorriso stampato per due-tre ore, ripensando a tante cose passate che non torneranno mai più.

Chi non è credente lo è nel senso moderno. E’ una persona colta, non più operaio o contadino, ma ragioniere, farmacista, imprenditore. E’ soddisfatto, rispettoso, non più arrabbiato. Ha una casa in città e un  monolocale ad Asiago. Sì, per le vacanze, per quei pochi giorni d’agosto, quando non è a Ibiza. E’ una persona che ha mezzi propri non indifferenti, anche se vive semplicemente. Sì, perché bisogna staccare un po’, distrarsi, pensare ad altro. Il laico non è più ostile con chi è credente, anzi, una brava persona è sempre una brava persona. Suona mezzogiorno. “Accidenti, è già ora di pranzo?” Tante banalità, semplici consuetudini riempiono monotonamente i giorni.

Quando c’era lotta, c’era ostilità, c’era anche più grinta, più operosità, più voglia di fare, di prevalere. In verità tutto questo c’è ancora, perché l’uomo non cambia, fa le stesse cose, ma con più educazione. Con collaudata finzione.

1980

4.

Sono Beniamino Ricci, vengo dalla Toscana, dalla terra degli Etruschi e, per passione e svago, comincio ad annotare le mie impressioni all’inizio degli anni ottanta. Sono un misantropo, vivo quasi nascosto agli altri, non mi sono sposato, non ho figli. E forse vi spiegherò perché. Scrivo le mie storie su questa vecchia Olivetti lettera 22 che mi accompagna da quando frequentavo il liceo scientifico a Padova. Sono un girovago, ho cambiato sede diverse volte senza problemi, appunto perché non ho legami o vincoli che mi costringano a metter su casa in un posto fisso.

Sono venuto qui a Dolo per caso, senza essere atteso, avevo appena raggiunta la pensione.

La mia scuola elementare è ancora lì, in provincia di Padova, ma non vi sono mai più tornato. Nessuno mi telefona, nessuno mi cerca, vivo dei miei risparmi e, lo posso ben dire, sono un benestante. Le poche volte che ho dovuto esprimere la mia identità è stato quando ho chiesto la residenza in Comune, quando ho aperto un conto corrente nella Banca Cooperativa locale e quanto ho scelto il medico condotto. Vivo nella frazione sud del Comune, in un attico  in affitto, con accesso privato.

Per le mie necessità frequento i negozi del capoluogo, dove nessuno mi conosce e che mi chieda a bruciapelo: come va?

Non mi occupo di politica, di sport o di altre attività sociali dove ci si incontra, si chiacchera, si  va a pranzo in comitiva. Osservo da lontano. Nessuno può dire qualcosa sul mio passato o sul mio modo di vivere riservato. Mi basto così. Osservo, ascolto, non parlo. Per questo desidero scrivere e lasciare ai posteri queste mie osservazioni che non sono legate tra loro da una consecutio temporum, ma sono spontanee, dettate da fatti improvvisi o su persone poco prima sconosciute e ignorate.

Oggi, domenica, c’è un via vai più del solito. Si avvicinano le elezioni del nuovo consiglio comunale e diversi attivisti distribuiscono materiale di propaganda. Un giovanotto deciso mi avvicina e mi porge un manifesto con la lista dei candidati del suo partito.

“Sono un consigliere uscente, questo è il mio nome, si ricordi di votare per me.”

Mi avvicina un signore anziano, si siede sulla stessa panchina ai giardinetti, sfoglia lentamente Il Gazzettino, ma non legge. Capisco che vuole attaccare discorso.

“Bella giornata, oggi.”

“Oh, si davvero!”

“Mi pare di conoscerla…”

Ci siamo, il curioso di passaggio che tanto di passaggio non è! E’ curioso. Il contrario di me.

“Non credo, sono a Dolo da poco, sono toscano, abito qui vicino, sono passato qualche mese fa, mi è piaciuto il paese, la zona e mi sono fermato.”

Faccio una pausa. Vedo il suo interesse. Completo a mia descrizione nella speranza di aspettare da solo che suoni mezzogiorno, l’ora di pranzo. La signora Adele che mi ospita non gradisce ritardi.

”Oh certo. Permette? Battista Del Grano.”

Lo guardo stupito, per la prima volta interessato al personaggio. Giro lo sguardo, sulla piazza, faccio un cenno di curiosità.

“No no”,  mi dice subito, “casualità.”

“Piacere, Beniamino Ricci.”

Salendo le scale di casa, sento il profumo del sugo per la pasta che la signora Adele sta preparando pe me e per un altro inquilino, un pensionato delle poste, vedovo, pure lui di poche parole.

5.

Il Circolo Anziani del paese ha organizzato una gita a Canale d’Agordo, il paese di Papa Luciani. Mi sono incuriosito, anche per variare il ritmo delle mie giornate, e decido di partire. Due corriere, cento persone, anonimato garantito! Ma fino ad un certo punto. C’è chi canta, chi racconta barzellette, chi offre da bere anzitempo. Mi è capitato di sedere accanto ad una signora vispa, rumorosa e, naturalmente, curiosa. Solite presentazioni. Per finirla là, chiudo gli occhi, appoggio la testa allo schienale, sperando di essere ignorato. Impossibile. Un misantropo come me non dovrebbe mai imbarcarsi in simili avventure.

“Un pezzo di torta? Fatta da me?”

Che fare? Accetto. E’ fatta! Per tutta la giornata passerò un’avventura davvero diversa. Ne avrò notizie da annotare sul mio diario! La simpatica signora è una delle pie donne di Sambruson di Dolo e mi fa una cultura su don Albino, prima umile prete in un paesetto sperduto tra i monti, poi vescovo a Feltre, quindi cardinale di Venezia e infine Papa Giovanni Paolo Primo. Molte cose le conoscevo, ma quello che mi ha fatto notare la signora è la casupola, l’ambiente che Albino ha conosciuto dalla nascita, la stanzetta dove ha studiato, i tormenti e la liberazione della vocazione. Lei ha disturbato lo Spirito Santo che ha suscitato la vocazione.. Certo qualcosa di portentoso c’è stato nella vita di quest’uomo, però io penso che c’entri anche la volontà di genitori coscienziosi che cercano di dare un avvenire al figlio mandandolo in seminario dove avrebbe potuto mangiare e studiare a sufficienza. Poi, una parrocchietta tra le vette gliela avrebbero assegnata dedicandosi alla cura di poche anime, al tempo per le sue preghiere e per approfondire i suoi studi di teologia.

La simpatica signora ha riempito la mia giornata di tanti stimoli, conoscenze e suggerimenti che mi erano sconosciuti. Più che la visione dei paesaggi, del passo San Pellegrino e delle Dolomiti, mi hanno arricchito le sue parole, spontanee e non certo intenzionali.

Ho cominciato a guardarla con simpatia cercando di carpirle ancora qualche segreto, qualche altra personale riflessione.

“Mi scusi, posso  conoscere il suo nome?”

“Certo, sono Giuditta, insegno catechismo in parrocchia ai ragazzi di quinta.”

Giuditta, Giuditta e Oloferne! Certo deve trattarsi di una donna decisa e coraggiosa, come il personaggio da cui ha preso il nome. Conosco la Bibbia. Almeno così immagino.

Camminando per le vie del paese nei giorni di mercato, incontri un mare di gente che non ti ferma, non ti chiede cosa pensi, vagolo, ignoto tra ignoti, fino al fatidico mezzogiorno,

Passa un’ambulanza a trombe spiegate, passano le corriere per Padova. Padova? Mi sorge il desiderio di visitare la Cappella degli Scrovegni dipinta da Giotto. Chissà, forse un giorno ci andrò! Giotto di Vicchio nel Mugello è quasi un mio compaesano. Ci sono già stato per andare a Barbiana, poche case sparse tra i boschi, senza vie di comunicazione, non è né un villaggio né un borgo, è soltanto niente. Vi fu mandato dalle autorità ecclesiastiche don Lorenzo Milani, per punizione! Era troppo innovativo, troppo rivoluzionario, con le sue prediche e le sue iniziative disturbava i potenti di cui la Chiesa aveva bisogno per le sue opere di bene. Cioè, si cercava di  fare giustizia con ingiustizie. Don Giuliani si era ribellato e per questo era stato esiliato tra i boschi fiorentini del Mugello, a insegnare tra gli analfabeti della parola, che non potevano parlare, scrivere, proporre perché non sapevano come. Ne nacque un maestro, un santo, un profeta, che tuttora la Chiesa inutilmente ignora. Molti lo studiano, lo amano, lo ammirano. Anch’io. Spero di vedere un vescovo, un giorno, chinarsi a pregare sulla sua pietra.

6.

In questo uggioso mese di novembre del 1983 mi trovo relegato su un letto d’ospedale. Un piccolo intervento chirurgico all’addome mi ha costretto al ricovero d’urgenza. Mi trovo in una stanzetta a due letti, a fianco di un altro paziente, di Arino. Quando l’anestesia se ne va, ci parliamo, ci sorridiamo contenti di averla scampata. Si chiama Piero Caronte, operaio in pensione della Montedison. Mi parla dei figli, dell’orto, di auto da riparare, di amici che non conosco.

“Conosci Carletto B. di via Molinella?”

“No, non lo conosco.”

Per un poco tace. Fingo di addormentarmi. Funziona.

Le lunghe ore della giornata, disteso a letto, al di là del male, sembrerebbero l’ideale per riposare. Ma non è così. Alle cinque si accendono le luci nelle corsie. Rumorio di voci, di carrelli trascinati, di telefoni che squillano. Alle sei c’è il cambio di turno degli infermieri. Alle sette passano le donne addette all’igiene del paziente. Senza complimenti, ti spogliano, ti lavano, cambiano le lenzuola e sballottandoti ti ritrovi in un letto pulito. Ah, meno male! Alle otto passano le infermiere per le medicazioni, le iniezioni, la pressione e l’interrogatorio: ha dormito, è andato di corpo, quanto ha urinato. “Latte o tè per colazione?” Diventi un oggetto da catena di montaggio che a domanda risponde. Tutti ti danno del tu. Per metterti a tuo agio? Certamente, ma anche per mancanza di delicatezza. Alle dieci passa il codazzo dei medici, primario in esta gli assistenti dietro, la caposala con le cartelle cliniche da aggiornare. Silenzio!

Il capo passa chiede: come va? Risponde un suo collaboratore. Borbottano un po’, passano oltre. Alle undici arriva il pranzo: una brodaglia che chiamano minestrina, un pezzetto di carne che sembra cuoio per scarpe, mezzo litro d’acqua San Benedetto e un augurio: buon appetito. Finalmente seguiranno tre ore di pace, di tranquillità, di riposo. Alle tre arrivano le visite, Da me non viene nessuno, quindi potrei dormire. Ma no! Le corsie sembrano un mercato, si grida, si chiama, si parla delle proprie magagne. Sì, perché ho scoperto che, qui, in Veneto i piccoli  disturbi li chiamano magagne. Alle cinque seguirà la cena, alle nove si spengono le luci e ognuno resta solo tra le sue lenzuola.

Quando avverti il male non vedi l’ora di arrivare in ospedale, quando ti senti guarito non vedi l’ora di ritornare a casa. Un venerdì mi levano i punti, mi danno la lettera di dimissione, sono pronto per tornare a casa. A casa? E come faccio? Per fortuna Caronte si offre: suo figlio ci porterà a casa tutti e due.

La signora Adele mi curerà come una sorella. Dormirò per due giorni di seguito.

Scrivere queste note sul mio diario è diventato un piacere e una necessità, passo meglio il tempo.

E’ passato qualche anno ormai, non lo ricordavo più. Me lo ritrovo in Comune: assessore ai servizi di polizia mortuaria. La targhetta sulla porta parla chiaro. Mi ero recato per prenotare un loculo qualora  mi succedesse una morte improvvisa, incrociamo pure le dita, avrei trovato già tutto  sistemato, prepagato, disturbando il meno possibile.

L’assessore Battista Del Grano, sta sulle sue, è lì in veste istituzionale, finge di non ricordarsi di me, perché mi deve dare una risposta negativa: non si può!

Resto allibito, sto usando un comportamento corretto e mi  viene negato, perché?

“C’è un Regolamento comunale, non si possono fare preferenze”, e me lo sottolinea con pause appropriate. “L’assegnazione del loculo avviene al momento del decesso, seguendo un ordine prefissato, da sotto in su.” Chissà quante volte avrà sgarrato dai suoi doveri, d’altra parte, l’autorità serve spesso per fare favori e imporre divieti ad libitum!

Decido all’istante: non morirò qui, tornerò in Toscana, in Etruria, se mi sarà possibile.

7.

Molti mi conoscono ormai, mi salutano, mi invitano al bar per un caffè o un’ombretta di bianco. Non posso rifiutare, sarebbe una scortesia. Qualche volta sono io a invitare. Ora, con la sagra di san Rocco è festa ogni sera. C’è il baccano delle giostre, ci sono musica e canti a tutto spiano, fino a mezzanotte. Ci sarà la fiera del bestiame, e alla fine, il 16 agosto, ci saranno i fuochi d’artificio. Tutte le sere, per dieci giorni, ci saranno i baracconi con la vendita di braciole ai ferri, di pesce fritto, di dolci strani e non certo fatti in casa. In sala da Moron si balla, ci si diverte con poco. Una sera arrischio anch’io un’uscita. Mi metto in un angolo, di fronte alla pretura dove un banchetto vende un prodotto strano. Mi avvicino, incontro un amico, non posso più ritirarmi.

Un signore vende, ai pochi che si possono sedere e ai molti che pagano e se ne vanno, dei coni di carta gialla con i bovoeti, conditi con prezzemolo, olio, aglio e un pizzico di sale. Si tratta di lumachine bollite molto gustose e saporite. Sullo stesso banco un pentolone bolle e a richiesta viene estratto un piccolo moscardino che si mangia all‘istante condito a piacimento. Il tutto accompagnato dall’immancabile ombra di bianco. Sono qui da diversi anni e  non mi ero ancora accorto degli aspetti folcloristici e goderecci che interessavano la gente comune. Assaggio le lumachine, mi piacciono, chiedo il bis. L’amico sorride.

“Ti piacciono?”

“Sì, davvero, non credevo.”

Ma la festa più importante avviene in parrocchia con le cerimonie religiose, le messe, i canti, le omelie che parlano del santo e dei suoi miracoli. Nel giorno di san Rocco c’è una messa solenne con i cantori della schola cantorum locale, con omelia di monsignore dall’altare. La chiesa è in silenzio, sente la festa come propria, come di ciascuna famiglia. Viene raccontata la vita di Rocco, religioso cattolico francese, venuto in Italia per predicare, assistere i lebbrosi e tutta la povera gente dei campi che non sa a chi rivolgersi per avere un aiuto, una difesa, un patrono. La sua donazione al volontariato è totale e gli viene tuttora riconosciuta, dopo molti secoli, tanto è vero che alle porte delle chiese c è il saluto di una fondazione italiana che riunisce tutte le parrocchie che hanno come patrono san Rocco. Incredibile, per nessun altro santo si può dire la stessa cosa.

Al momento della raccolta delle offerte, mi allunga il braccio una signora che conosco, ma di cui non ricordo il nome. Mi sorride e va oltre. Ecco, ora ricordo, è la maestra che insegnava catechismo ai ragazzi di quinta. Mi sento accolto e incluso. Sì, mi sento in una comunità accogliente. La cerco tra i fedeli che escono, ma non la vedo. Troppo stretti, troppo di spalle.

Il giorno della fiera è anche un giorno particolare per la degustazione della trippa. Ma quante cose scopro! Non sono certo essenziali, ma fanno parte delle tradizioni, e le tradizioni vanno rispettate e tramandate. Comincio a sentirmi dolese. In piazza Del Grano, capannelli di contadini parlano di raccolti e di grandinate, è un luogo di raduno della gente popolare che viene a dire una parola in piazza, prima di tornare a seppellirsi a fare cime negli asfissianti   campi di mais. Alcuni agricoltori più sofisticati si spingono fino all’ex-foro boario dove si vendono botti, tinozze, damigiane impagliate, alberelli da frutto pregiati, tralci pronti per l’innesto, falci di marca, sacchi per il grano della capienza di cento chili.

Ha ragione la signora padrona di casa, quando dice che Dolo è piccolo di territorio, ma grande per importanza, perché trovi di tutto, non per niente è il capoluogo del comprensorio.

Mi fido, anche perché è l’ora di pranzo. Siamo rimasti in due. C’era un altro inquilino, ma ci ha lasciato. Sento un bel profumino.

“Pasticcio di melanzane, le va, signor Beniamino?”

8.

Sono qui da molti anni ormai, la mia presenza non passa inosservata, molti mi apprezzano e mi stimano. Tutto ciò mi conforta, ma anche mi preoccupa. Queste attenzioni rischiano di estrarmi dalla mia solitudine e rischiano di cambiare il mio stato d’animo, che, per me, invece non è cambiato. Preferisco stare ai margini, lontano dai clamori che non mi si addicono. Noto richiami palesi, inviti espliciti a far parte a tutto ciò che è collegiale, a partecipare a convegni politici, a società sportive, ad associazioni di volontariato, a circoli di carattere sociale, culturale, ricreativo. Tutto ciò è lusinghiero, a prima vista, ma è lontano dalla mia formazione, dal mio essere di persona che è vissuta sempre ai margini, in ultima fila. Finora sono riuscito ad estraniarmi, a mantenere il mio riserbo. Però, c’è una associazione di volontariato che mi attrae: l’Avis. E’ la associazione dei volontari donatori di sangue italiani, non ha bisogno di introduzioni, di raccomandazioni, ma di adesione spontanea e generosa, dura quanto vuoi, inoltre l’Avis ti segue nel tuo stato di salute, perché la tua donazione deve essere sicura e quindi la tua salute è una garanzia per la salute del ricevente. La donazione è volontaria, anonima, gratuita. Il sangue non si paga, si dona. Ho partecipato alle prime convocazioni dell’associazione e ho notato una cosa interessante. Si tratta di gente semplice, di operai, di contadini, di impiegati, di pensionati. Non ci sono medici o infermieri, perché la loro professione li deve tenere lontani da troppe manipolazioni del sangue, potrebbero infettarsi per malattie trasmesse da tossicodipendenti e infettare se stessi e gli altri. Il donatore deve condurre una vita sana. Non ci sono persone benestanti, disposte sempre a ricevere piuttosto che a donare. E questo mi piace. Per la prima volta aderisco a una società con gioia e convinzione. La donazione, come ho detto e ripeto, deve essere volontaria, anonima e gratuita. Per la prima volta trovo una comunità adatta al mio essere, al mio costume di vita. All’ospedale sono stato protagonista, con altri nove donatori, dello stesso groppo sanguigno rh positivo, gruppo universale, della donazione e della salvezza di una partoriente che stava morendo dissanguata. E’ un comportamento da veri cristiani, che si sacrificano  per amore aiutano, amano il prossimo. Devo dire che molti donatori non sono cristiani, non conoscono il buon samaritano, sono atei e  comunisti, agiscono da uomini liberi e non perché sono indotti da una fede o da una filosofia. La donna, la mamma, si è salvata? bene, ma non saprà mai chi l’ha salvata. Spinto da questo episodio che mi riempito di gioia, ho proposto, qualche anno fa ormai, di istituire, con il patrocinio dell’Avis regionale e nazionale, il Proemio Samaritano. Perché non Premio? Perché l’avisino dona gratis, non può essere premiato. Il proemio invece corrisponde a un annuncio, a una spiegazione, a un invito, basta pensare alla introduzione di un romanzo. Il Samaritano è un personaggio di cui non si conosce nemmeno il nome, che aiuta un ferito sconosciuto trovato lungo la strada, che  lo porta in luogo sicuro, paga le spese di assistenza e se ne va. Ci può essere un simbolo migliore per rappresentare l’avisino nelle scuole per spiegare che cosa è l’Avis e come ci sia bisogno di informare in modo semplice e di ampliare il progetto di assistenza a chi ha bisogno di aiuto? La proposta fu accolta con grande favore e diffusione, ha entusiasmato un gran numero di persone, dirigenti e politici fino a suscitare momenti di tensione e gelosia. Da quel momento mi sono appartato, non ho voluto diventare oggetto di contesa, perché il Samaritano stava trasformandosi da strumento di bene a occasione di rivalità. Nel mio Diario ho scritto molti momenti esaltanti della mia vita, molti pensieri entusiasmanti, delusioni e speranze. Sento che si sta esaurendo la fonte che mi nutriva di acqua fresca e dissetante di argomenti e di sprone. La mia vita si prospetta triste e solitaria, la signora Adele si è fatta pure lei anziana, stenta ad accudirmi, dovrà rinunciare ad ospitarmi. Vedo buio dinanzi a me.

9.

C’è un’aria nuova intorno. Un’aria che sta diventando diffusa, normale. Un po’ alla volta non più nuova, ma accettata e condivisa. Nella mia recente rilettura dei Promessi Sposi mi sono imbattuto in don Rodrigo, tiranno e prepotente del suo tempo che appariva, grazie alle sue malefatte, benefattore, offriva pranzi, pagava i suoi “bravi” a compiere per lui gesti disonorevoli: minacciava i più deboli, disprezzava le donne fingendo di amarle, scommetteva sulla sua impunità. Non c’è, purtroppo un padre Cristoforo a difesa dei perseguitati, Ma qualora ci fosse tempo, farebbe la fine del buon frate: allontanato dal suo gregge, dal suo territorio.

Il don Rodrigo moderno è un signore, ricco, potente, padrone di giornali e tv che gli permettono di compiere azioni indegne per qualsiasi uomo, in particolare di un uomo che sta per divenire “padrone” d’Italia, sì! sta diventando capo del governo. Non mi posso del tutto lamentare, perché a questo disastro ho contribuito anch’io con il mio voto. Non succederà più, ma intanto è fatta. E’ il novello don Rodrigo, attorniato dai suoi scagnozzi, ossia i suoi vassalli, valvassini e valvassori, continua a proteggere coloro che eseguono, pagano e ottengono. Le “grida”, le leggi per difendersi ci sono, ampie, dettagliate, prevedono punizioni per gli evasori, i corrotti e i corruttori, prevedono processi e condanne, solo che, fatalità! al momento del processo, il tiranno si ammala, si ricovera nel “suo” ospedale, i suoi avvocati la tirano alle lunghe, in attesa di scadenza dei termini di legge per discutere in tribunale il suo caso. E tutto questo avviene alla luce del sole, pertanto, novello don Rodrigo, continua nell’uso sconsiderato delle donne come mezzo, nella approvazione di leggi a difesa personale e dei suoi beni. I suoi “bravi” lo lodano, lo indicano come esempio di bravura, di onesta, di persona degna di stima e quindi di voto favorevole, al bisogno.

Guardo con dispiacere, con pietà, le persone che leggono i suoi giornali come se leggessero il vangelo, come se seguissero la storia di un galantuomo fattosi da sé, ma da sé come? con intrighi, con intrallazzi, con complicità, con leggi ad personam. E’ inamovibile, inattaccabile, può permettersi qualunque arbitrio e farlo sembrare normale, dovuto. La sua abilità di furto non ha limiti. Me l'ha fatto notare, con soddisfazione, un suo valvassore: ha chiamato il suo partito, inventato con un colpo di genio, “Forza Italia”, così ogni volta che applaudi la nazionale di calcio, applaudi lui, il suo partito.

Anche per lui è iniziato il tramonto, ma non lo accetta, la sfida al popolo italiano continua: si procura nuove fidanzate ventenni, aumenta il numero dei suoi laudatores, comprando e vendendo squadre di calcio, umiliando gli allenatori stilando lui la formazione che scenderà in campo. E non è tutto, ma tanto basta per estraniarmi dalla politica. E’ un atteggiamento serio, responsabile? Certamente no, ma non vedo alternative. C’è un giornale, Repubblica, che gli ha chiesto esplicitamente: è vero che si è intrattenuto con prostitute? È vero che ha frequentato ragazze che lo chiamavano papi, ricompensandole con promesse di candidature politiche? Per questo, lei può essere ricattabile? Quesiti riproposti per mesi senza ottenere alcuna risposta.

Il comportamento di questo politico è degno del miglior Caligola. Con la complicità della mia buona signora Adele, io sparirò da questo paese. E’ settembre, già, è tempo di migrare! In questi anni, ho cercato di descrivere al mio meglio questi luoghi e questi tempi, ora nessuno saprà più niente di me, non annoterò più alcun appunto sul diario, vivrò in solitudine in Etruria, ospite di miei lontani parenti. Ho predisposto tutto per la mia morte: lascio i miei beni ai miei parenti, dovranno seppellirmi nella umida terra e sul marmo scriveranno:

Qui giace
Beniamino Ricci
Gentiluomo
1930 – 1999
PAX

2000 …

10.

Francamente non mi ero mai accorto della presenza nella Riviera di un tal Beniamino Ricci. Deve essere stato un personaggio molto riservato, sconosciuto ai più. Nessuno si occupava di lui e lui non si occupava degli altri.

A Dolo la sua improvvisa scomparsa non fu neppure notata e, dopo la morte della signora Adele, fu ripulita tutto il suo appartamento prospicente la piazza Del Grano. Un carro attrezzi raccolse tutto quanto era ormai inservibile. Il rigattiere Rosato qualcosa  riuscì a salvare, molto fu pronto ad esser portato al macero.

In un cassetto trovò un curioso fascicolo con un titolo: Diario di Beniamino Ricci, pensionato e gentiluomo. C’erano molte pagine unite con graffette, altre sparse, altre intonse, in attesa di parole che non sarebbero mai arrivate. Mosso da tardiva curiosità, attratto dalla passione descrittiva dell’autore, lessi il documento. Molte descrizioni coincidevano con le mie opinioni, altre mi sembravano troppo ostili, come quelle di carattere politico. Non sarei così drastico nel dividere i buoni dai cattivi La narrazione non seguiva un filo logico. Gli episodi erano per lo più a se stanti, raramente si collegavano con quelli successivi. Anche i tempi e i fatti non erano progressivi, c’è spesso un racconto spezzettato, fatto di un passo avanti e uno indietro, anche se tutto alla fine si compone e si capisce. Cercherò di riempire le pagine intonse, seguendo lo stesso metodo, anche perché scriverò quando ne avrò voglia, e qualche fatto narrato potrebbe essere lontano rispetto all’attualità.

Pensionato e galantuomo? Penso siano attributi esatti. Pensionato lo era per l‘età, galantuomo senz’altro, perché lo scandalo non era il suo forte, non era un tipo che finiva sui giornali, non compiva malefatte e per questo ignorato. Non era un personaggio da far aumentare il numero delle copie vendute.

Attratto dai rumori, dalle musiche e dai profumi inconsueti in una piazza, mi sono seduto al banchetto con il pentolone bollente dal quale un vecchietto con occhiali e cappello tirava fuori dei meravigliosi moscardini fumanti.

“Me ne dia due.” La voglia era tanta, e poi avrei risparmiato la cena.

“Quant’è?”

“Dodici euro.”

“Però …”

Un mio vicino, seduto in punta di sedia, succhiava con gusto un piatto di bovoeti. L’odore, o se preferite la puzza, dell’aglio dominava in quel metro quadrato di tavolino.

C’è poca gente in piazza, è sera inoltrata e gli anziani sono già rientrati, le famiglie con le giostrine erano presenti nel pomeriggio per il godimento dei bambini, i giovani con le fidanzate non cercano clamori e visibilità, ma la penombra tranquilla.

Di novità c’è la pesca organizzata dal club sportivo per racimolare qualcosa per sostenere le spese e la misera paga ai giocatori di calcio. Ci sono bei premi in palio: un televisore, una bicicletta sportiva, orologi scadenti, tovaglie colorate per attrarre le signore. Pochi comperano i biglietti per l’estrazione. Non incasseranno molto stasera.

Cerco di sottrarmi. Ma mi ha visto un amico dirigente.

“Dai, Giovanni, compera cinque biglietti, ci dai una mano!”

“Quant’è?”

“Niente, cosa vuoi che sia: quindici euro! Scegli quale blocchetto vuoi e te lo stacco.”

“Fai tu.”

Mi si avvicina e sottovoce mormora: “Vieni l’ultima sera, perché i biglietti buoni non sono ancora stati messi nella borsa.”

Mi strizza l’occhio. C’è un inganno. Eccolo! La sera che conclude la sagra, sono in piazza, mi avvicino al banco, più per curiosità che per altro.

“Rosmini, tu questa sera ti porti a casa questo bel televisore, è un LG Ultra HD 43”, ultimo modello, è un prodotto coreano.”

Lo sguardo stupito da tanta sicurezza.

“Stammi vicino e quando immergerò la mano nell’urna per estrarre il biglietto, tu vincerai.”

“Senti, amico, se ti offro questo premio è perché avrò bisogno di te. Tra tre mesi ci saranno le elezioni comunali per l’elezione del sindaco e della giunta, ho bisogno di essere eletto, perché sarò assessore all’edilizia pubblica. Ho bisogno del tuo voto e di quello dei tuoi parenti, sono una ventina, abbiamo già spuntato i registri elettorali. Ecco il mio santino, con una croce vota prima la lista e poi scrivi la preferenza numero tre, sono io, ricorda”.

Mi sento precipitato in un tunnel da cui mi sarà difficile uscire.

“Senti, Maurizio, io capisco le tue ambizioni politiche, ma sai bene che siamo di partiti diversi, opposti direi.”

“Avrai anche tu bisogno di una licenza edilizia, di una modifica del piano regolatore, di riparare il tetto, di cambiare il colore della facciate, di aggiustare una veranda … di questo stiamo parlando, non di politica.”

Capisco, fa parte della squadra del cavaliere che a Roma fa leggi, decreti e promesse elettorali ad personam. E non è politica questa? Già, è l’uso della politica per vantaggi personali. Sta diventando un costume:

“Pensaci, una mano lava l’altra.”

Mi lascia di stucco, mi colpisce come una sferza la sfrontatezza della proposta.

“Attento, non scherzare, perché sarò eletto comunque e, al bisogno, non potrai contare su di me, né tu né i tuoi parenti per le vostre necessità.”

E qui commetto l’errore di cedere. Comincio ad interessarmi.

“Ma come fai ad estrarre il mio biglietto tra migliaia?”

“Vedrai!”

A mezzanotte, si smorzano le musiche, la gente si assiepa attorno al baraccone della pesca. Uno speaker scandisce i modi e i tempi della pesca. Si comincia con i premi minori tra gridolini di gioia e mormorii di delusione e finalmente si arriva al primo premio: un televisore a colori LG. Maurizio immerge la mano nell’urna, mescola, mescola, mescola … la gente deve soffrire! non si sente un sospiro. Lentamente Maurizio estrae il biglietto vincente, scandisce le parole: biglietto serie FG, numero 0… 7 …5 …9 … 3.

Mi stropiccio gli occhi, guardo il mio biglietto, sì! ho vinto.

La folla si disperde, attendo Maurizio che mi sorride.

“Hai visto, Rosmini, ogni promessa è un debito.”

Altra caduta di stile che mi comprometterà per anni a venire.

“Ma come hai fatto a trovare il mio tagliando in mezzo a quella bolgia di biglietti?”

“Semplice, il tuo tagliando lo stringevo già in mano.”

L’inganno passa dai capi ai sottocapi.

11.

Carletto  della Molinella è venuto a cercarmi e a farmi un invito. Finalmente l’ho conosciuto.

“Vieni al nostro Circolo anziani, ci troviamo alcuni pomeriggi alla settimana, parliamo,  giochiamo a carte, cantiamo, ci aiutiamo, le donne giocano a tombola. Le nonne che hanno nipotini piccoli da custodire li portano, li lasciano correre nel salone, sotto il loro occhio vigile tra un ricamo punto erba e un punto croce.”

“Vedi,” mi ha detto tenendo d’occhio il traffico, “siamo un Circolo perché siamo in movimento facciamo sempre qualcosa di interessante, non siamo un Centro dove arrivi e resti immobile.”

Mi porta a Sambruson con la sua auto in un’aula in disuso delle scuole medie, ci sono bagni, c’è un’aula per i laboratori e per gli incontri didattici con le classi delle medie. I soci del circolo hanno dal Comune l’uso gratuito degli spazi, in compenso tengono puliti i banchi, i bagni, i corridoi.

Carletto è venuto a cercarmi perché hanno bisogno di qualcuno che registri i verbali, che scriva una lettera come si deve, che proponga iniziative culturali significative, organizzi dibattiti su temi che interessino gli anziani. Non sono vecchi, diciamo che sono anziani-giovani.

E’ una bella compagnia che ha, tra l’altro, l’obiettivo statutario di aiutare le persone sole a sentirsi meno sole. Al compleanno di qualcuno c’è una fetta di torta per tutti, un bicchiere di vino portato da casa. Ci si diverte guardando al portafoglio. Ai primi di novembre, c’erano cento persone presenti, c’è stata una marronata fatta in casa, con un grande braciere prestato dalla parrocchia. L’ultimo dell’anno hanno programmato una cenetta in sezione con prodotti ordinati e già confezionati in parti uguali. E’ veramente un piacere stare in mezzo a loro. Se qualcuno è indisposto, c’è sempre qualche altro che va prelevarlo con la macchina. Ci sono persino persone che vengono da Dolo, da Arino, a Camponogara, da Lughetto, da Paluello, vengono e stanno bene in compagnia. Adesso gli spazi si fanno stretti. Chiederanno al Comune di permettere incontri serali. Il Circolo ha un nome suggestivo e invitante: “Trovemose”, troviamoci. Una sera arrivo e sento suonare e cantare. Un nonnetto dei  Carrezzioi è venuto con la sua fisarmonica, Carletto, maestro di musica, dà il tempo e tutti cantano, soprattutto gli stonati. Dove mai si trova una compagnia simile? C’è un incaricato per accendere il termo comunale, per spegnere le luci, per controllare che tutto sia lasciato in ordine.

Scrivo queste note su un nuovo diario che, tuttavia, considero la continuazione di quello di Beniamino Ricci. Questo sarà il diario di Giovanni Rosmini, sarà la sua seconda puntata.

Una sera si presenta un assessore comunale, Emilio, della corrente opposta a quella del signore del televisore. E’ venuto a porgere un saluto, a raccogliere un applauso, a fare qualche promessa, che non guasta mai. Nel bel mezzo della serata lancia una proposta che sembrava improvvisata, e invece era ben preparata. Lui, veneziano, venuto a insegnare in un paese di campagna si era innamorato dei luoghi e aveva deciso di metter su casa.

“Chi sa qualcosa degli scavi della Valdadige, impresa costruttrice di pietre e mattoni da costruzione, parlo dell’inizio degli anni 1950, nella proprietà Velluti, appena dietro la Latteria sociale?”

“Bè, io ne so qualcosa.”

“Sì, io c’ero, ho aiutato il geometra Lino, appassionato di cose antiche, vi porterò una foto d’epoca, a ripulire i pezzi, le anfore, le frecce, un corno di cervo, le travi paleolitiche trovate a 12 metri di profondità, gli embrici datati con il nome del console del territorio.”

“C’ero anch’io quando è stato allestito un piccolo museo al Ponte.”

“E’ vero, io sono andata con le scuole a vedere gli straordinari reperti”, dice una signora che abita al Ponte.

Dopo che tutti hanno detto la loro, l’assessore lancia una proposta.

“Dove sono? Cerchiamoli e, se li troviamo, li riporteremo a casa, in paese. Che ne dite?”

E’ la prima volta che il Circolo si trova davanti a un progetto ambizioso, a un programma mai immaginato. Al momento della buona notte, “tornerò presto,” dice,  “e faremo qualcosa di interessante.”

La briscola non ci basta più.

12.

Elisa è appena rientrata dalla Scozia, Francesco con la famiglia tornerà ad Arino da Copenaghen per le ferie, Alessandro tornerà da Parigi fra due settimane, Chiara è venuta da New York due giorni fa, ospite dei genitori a Dolo, Vittorina tornerà da Londra per un mese a Camponogara. Altri ragazzi e ragazze lavorano a Berlino, a Barcellona, a Ibiza, a Santorini. Si sta verificando un fenomeno imprevisto. Non ci sono più operai, contadini, calzolai, sarti, non ci sono più mestieri di paese, lavori umili. I figli hanno studiato e non trovando una occupazione vicino casa, vanno a Milano, a Roma, a Torino, ma molti vanno all’estero. Conoscono le lingue, ma non occorre, tanto, dopo tre mesi imparano l’essenziale per fare le commesse al bar, le cameriere negli hotel, le aiutanti di cucina. le rappresentanti di ditte italiane di import-export. Poche parole, pochi commenti essenziali e sufficienti. E’ un fenomeno che vediamo qui in Riviera del Brenta, ma si allarga a tutto il Veneto e, forse, in tutta Italia.

Le piccole cronache di paese non interessano più, i personaggi chiacchierati o eccellenti sono confusi in mezzo al popolo sempre più anonimo, indistinto, non sono più oggetto di critiche o di commenti acidi di comari al venerdì di mercato. Beh, certo, ora si sta diffondendo la consuetudine di farsi portare a casa la carne, la verdura, le acque, i vini, le fritture, le  grigliate, le pizze. Diminuiscono le occasioni di contatto e di mormorazioni. A bottega si va sempre meno, ci sono i supermercati dove ti annulli sconosciuto tra scatolette, detersivi, succhi di frutta. Non vedi nessuno, e se lo vedi lo scansi, fai presto, vai di fretta, troppo in fretta, e poi, appena a casa, ti accorgi di avere dimenticato il dentifricio, il sale per la lavastoviglie, l’insalata riccia, tutte piccole cose che scivolano via per la troppa confusione. Forse col tempo sto diventando anch’io un misantropo.

La fretta ci porta all’isolamento. Nei grandi codomini la gente è conosciuta appena appena dal portiere. Gli inquilini non si conoscono. E se si sparlano è più facile che sia per le liti.  Sulla piazzetta Vecellio si affacciano quarantaquattro abitazioni, tra casette a schiera e condomini.

Il condominio è senza ascensori e arrivare al terzo piano con le scale è un problema per la signora Giuseppina, vedova, sola, che si spaventa al primo tuono di temporale e fa le scale a scendere, cercando compagnia dai signori Andreato. Nessuno le chiede perché, nessuno le dà un conforto. Ora, ultranovantenne, la figlia, mestrina, l’ha depositata in casa di ricovero. Non ho sentito nessuno accorgersi del fatto. La posta resta nella cassetta, le bollette tornano indietro. Tutto nell’indifferenza generale. Per i vecchi la vita si fa dura, molto dura. C’è anche una zitella anzitempo, sconosciuta ai più e scontrosa e ingrugnita, non ha visite, non ha amiche, vive con tre cani, padroni degli spazi, è in perenne lotta con l’inquilino che abita al piano superiore, un moldavo che parla appena l’italiano. Ogni tanto si scatena l’inferno e la tromba delle scale rimbomba, poi torna la quiete fino al prossimo sabato. La famiglia Melegatti abita all’inizio della piazza, vivono da benestanti e lo dimostrano. Il padre, impiegato statale, la madre proprietaria di una campagna che visita, controlla, dirige; i quattro figli, studenti, indipendenti non salutano nessuno. Nelle sere d’estate, quando, per respirare un po’ di fresco, tieni le finestre aperte, senti rintronare musica da discoteca, senti tamburi e sghignazzate di gruppi di amici, fino all’alba. La gente passa, si lamenta sottovoce, i carabinieri di ronda notturna passano e tacciono. Solo una signora ha suonato in piena notte chiedendo, per favore, di smetterla e, sorpresa! hanno smesso.

Giovanni Rosmini sta rientrando solo soletto sul far della sera, pensando a quando aveva ancora la sua famiglia e rientrando a casa trovava sempre un sorriso, un piatto di minestra già pronto, un rimprovero per il ritardo. Frequenta meno il Circolo anziani, ha nuovi interessi, nuovi argomenti per il suo diario. Ci tornerà a settembre a Sambruson, quando sarà piacevole star seduti fuori nel giardino delle scuole. Pensa a quanto gli ha raccontato Mario, residente in via Villa.

“Ti sei accorto di quante case vecchie, vuote, diroccate  ci sono  nella mia via?”

“Sì, ho visto, ma non ci ho fatto caso più di tanto.”

“Quante gente ci è passata, la trovi in cimitero che ti guarda con un sorriso un po’ stampato per l’occasione.”

“Ricordo i Segato, i Marchiori, i Roson. Sono morti i vecchi, i figli sono andati ad abitare a Mestre, più vicini alla fabbrica, e i nipoti non vengono più in campagna.”

Già, erano fittavoli, pagavano poco di pigione, il padrone non riparava mai la manutenzione ordinaria e la casa cominciò a sfasciarsi prima dentro poi fuori, perché spariva prima l’intimità. Quanti ricordi, quante lacrime, quante risate, quanti borbottii della moka, quanto scodellare di piatti nel lavabo con l’acqua di pozzo, quante belle polente gialle sulla grande tafferia, tagliata a fette con un grosso filo di seta.

Rimpiangere la gioventù non giova, bisogna pensare al presente, fin che dura.

Ogni tanto rileggo queste note e mi accorgo di aver concluso all’improvviso qualche capitolo o di averne dimenticato qualche altro. Lo so che tutto ciò non interesserà a nessuno, fra dieci venti trenta anni, so che molte cose saranno cambiate, ma so intanto che mi aiutano ora e che lasceranno una traccia di questi tempi, di questi luoghi.

13.

Non mi sembra di avere scritto di come furono rinvenuti i reperti archeologici del geometra Lino e del loro trasporto a Sambruson. La voglia di trovare i cocci, le anfore, le schegge di pavimenti, i tronchi palafitticoli era tanta, ma mancava una traccia, un filo conduttore. Inaspettatamente, la nipote del geometra consegna al Trovemose l’inventario di tutti i reperti rinvenuti per caso in cantina. Con l’aiuto del Comune viene contattata la Sovrintendenza Regionale dei Beni Culturali e Ambientali di Padova, che, esaminato il tutto, lo trova autentico e segnala la presenza dei reperti in via Pertini a Mestre, in uno scantinato di proprietà del Comune di Venezia. Altro ostacolo per i poveri Ambrosiani, appassionati, ma inesperti! Ma ancora una volta l’assessore Emilio interviene e ottiene le autorizzazioni necessarie, compresa l’autorizzazione a trasportare gli oggetti smarriti nella lo sede naturale. Il 23 febbraio 2001, tutto il materiale ritorna a Sambruson.

Il presidente del Circolo concorda con gli iscritti dei turni di assistenza e di guardia al Museo. Così viene definito all’inizio, anche se si trattava piuttosto di un antiquarium.

14.

Mi propongo di scrivere su questo diario fino al 2220. E poi di passare la mano. Non so a chi. Forse stavolta finirà davvero tutto al macero. Nel 2220 avrei cento anni. Impossibile! e quindi mi sbizzarrisco a inventare. Abbiate pazienza, signori lettori.

In questi giorni di ferragosto, forse è il caldo, forse è la pazzia galoppante che anima il cavalier sparlante, a farmi andar fuori di testa.

Io io io, sempre io, solo io mi sono fatto da me, sono ricco come Epulone, ebbene che problema c’è? Voi Italiani siete tutti nel mio cuore e io sono tutto nel vostro cuore. Operato lui, operato io alla valvola mitralica, abbiamo molto poco da ospitare. Intervento biologico con valvola di suino. Offesa? Nossignori, è così, informatevi!

Il cavaliere di cui, con la buona grazia dei suoi vassalli, il signorotto, si pavoneggia senza pudore, vera delizia dei commentatori satirici, autentico barzellettiere e ottima occasione per deridere l’Italia da parte dei governanti europei. Le barzellette? S’ì, ne ha sempre una pronta.

“Benvenuto, signor presidente?”

“Anche a lei signora, mi dica, quante volte è venuta in questa settimana?”

La risposta: meriterebbe un ceffone? Macché, una risata, e sotto la prossima!

“La sapete quella del cane che… la sapete quella del contadino che …. La sapete quella del comunista che …?”

Goduria fredda di un primo ministro con mente sempre sopra le tette delle sue ragazzine, aspiranti veline, piuttosto che sopra il deficit, il pil, l’eurobond, la svalutazione, sempre pronto a far inserire il codicillo, a eliminare il ddl che turbi i suoi media.

Che fare? Il quinto comandamento è ancora valido. Un pittore gli ha scaraventato addosso la sua tavolozza. Se l’è cavata con qualche bernoccolo e molte grida don rodrighiane contro i comunisti e i nulla facenti

I suoi giornali? Bè per sapere se una notizia è vera, basta girarla all’incontrario di 180 gradi.

Problema: perché aumenta la perdita di posti di lavoro?

Risposta: perché i fiumi esondano? Di chi la colpa? Non certo mia. Cambia discorso.

Problema: perché? perché? perché?

Risposta: perché! perché! perché!

Ha trovato un alleato nordista: la Lega, quella del giuramento di Pontida. Partito analfabeta di politica, composto da ex-democristiani, ex-socialisti, ex-fascisti, ex-sindacalisti, con assaggi di nazismo e di comunismo. Al cavaliere del grillo sparlante, novello marchese alla Alberto Sordi, per niente saggio, ma egoista sempre, tutto fa brodo alla sua politica padrona.

Che posso aggiungere? Niente!

15.

Dopo una breve malattia, nel mese di agosto del 2005, Giovanni è passato a miglior vita.

La notizia ci è giunta come un colpo di fulmine, partiamo subito con il primo volo, atterriamo a Tessera e un taxi ci porta a Dolo. Arriviamo in tempo per il funerale. Ma, ahimè! ci imbattiamo in una giornata di tuoni e fulmini, dopo mesi di siccità. Poca gente in chiesa, per il maltempo, belle epigrafi con il volto sorridente di mio nonno, belle parole del parroco, uscita sotto la pioggia e partenza per la cremazione. Così è finita la storia di mio nonno Giovanni Rosmini.

Ho partecipato al funerale secondo il rito cattolico, ma io sono una fedele della Chiesa Battista, discendente dei Padri Pellegrini del Myflower, sbarcati in America del Nord quattrocento anni fa. Di questo sono  fiera e orgogliosa.

Dovendo sbrigare le pratiche indispensabili che seguono a un decesso, decisi di intrattenermi in Italia per alcuni mesi. Mia madre è dovuta tornare in America per problemi di lavoro. Conosco tre lingue: inglese, italiano, spagnolo. Frequento l’Università Patavina e alloggio presso il collegio delle Suore dorotee di Padova. Ci vogliamo bene e ci rispettiamo a vicenda.

Tra gli atti di mio nonno riguardanti la proprietà, il pagamento di arretrati di spese di gestione, i depositi bancari, giornali conservati, ho trovato il Diario di Beniamino Ricci, poi continuato da Giovanni con pagine dattiloscritte e pinzate con ordine e precisione. Ho letto le pagine, mi sono piaciute e mi hanno stimolato a completare la decina di fogli intonsi, pronti a ricevere parole e storie nuove.

All’Università  ho conosciuto uno studente di Medicina. Io frequento Lettere e Storia. E’ ebreo, si chiama Levi Luzzatto, ed ora convivo con lui nel suo appartamento nella cittadina rivierasca. E’ sua intenzione esercitare la sua professione medica nel nostro ospedale. Quanto complessa eppure quanto semplice è la vita se c’è accettazione reciproca e rispetto per la propria storia individuale! Andiamo d’accordo!

Per le nostre devozioni religiose frequentiamo a Venezia la nostra Chiesa Battista e nell’ex-Ghetto ascolto anch’io le letture del Talmud.

Frequentiamo saltuariamente il teatro La Fenice, di recente abbiamo assistito all’esecuzione dell’opera Carmen di Bizet. In Riviera preferiscono partecipare alle notti magiche di musica all’Arena di Verona, dove trionfa in maniera maestosa l’Aida di Verdi.

Ecco vi ho presentato in maniera sintetica la mia vita di ragazza moderna che non si sottrae ad alcuna difficoltà, ad alcuna curiosità.

La mia presenza a Dolo sta diventando fissa, non intendo ritornare negli Usa senza prima terminare gli studi. Ho trovato occasione di lavoro un liceo classico dove insegno inglese. La mia presenza è ricercata perché la mia pronuncia è di lingua madre.

Nel panificio sotto casa mi salutano sorridendo nella mia lingua.

Good morning.”

“Buongiorno!” rispondo.

La mia risposta all’inizio sorprendeva le commesse, ma ora mi salutano anch’esse in italiano. C’è una commessa, Matilde, che cerca di servire sempre me, sorride e mi chiede: Cosa le servo? Quanti pani? Spende 11 euro. Grazie e arrivederci. Routine! Ma per me è una novità. Mi piace sempre più abitare in questo paese, ma sarà una passione passeggera, un giorno tornerò negli Usa.

Una domenica mattina, affacciata alla finestra, Matilde mi fece cenno con il capo e mi mostrò due vecchietti, un uomo e una donna che guardavano silenziosi l’acqua corrente. Seduti su una panchina, sotto una grande acacia, mano nella mano, ogni tanto sorridevano.

Matilde mi raccontò la loro storia. Hanno entrambi più di novant’anni, sono ospiti della Casa di Riposo. Il personale li accompagna per un’oretta ogni giorno. Lui è stato operaio alla Mira Lanza, lei è stata pasticcera all’Isola Bassa. Sono stati sposati, hanno figli che ogni tanto vengono a salutarli. Uno di loro viene a vedere suo padre con la morosa. Sì, proprio così! Da giovani erano stati fidanzati, volevano sposarci, ma i genitori di lei non lo ritenevano degno di loro. Dopo oltre settant’anni, si incontrano, si dicono le cose che non si sono potuti dire, poi tornano nella loro cameretta dolorosa. C’è chi grida, chi piange, chi si lamenta, chi chiama i figli.

Le infermiere aggiungono al chiasso i loro richiami burberi e perentori. Poi tutto si tace. Giuliano e Marilena si addormentano e pensano a cosa si diranno il giorno dopo sotto l’acacia. Il loro destino si concluse, senza soffrire e senza far soffrire, nel giro di una settimana, lasciando felici tutti: i familiari, l’amministrazione che vedeva due posti liberi da assegnare. Questa storia me la ricorderò quando verrà un momento importante della mia vita.

16.

Il signor Dino B. è un brav’uomo, ha lavorato duramente per la sua famiglia, moglie e cinque figli. E’ stato usciere all’ospedale Santi Giovanni e Paolo al sestiere Castello di Venezia. Nelle ore del dopo lavoro, si è dedicato a tanti lavoretti di manutenzione che è impossibile gestire in una città scomoda, dove far arrivare la merce è molto complicato. Uomo di fantasia, alla mattina partiva da casa con due borse, una con il pranzo e una con vari attrezzi: cazzuola, martello, sabbia, calce, pinze, piccolo fornello a gas che lasciava depositato nel suo spogliatoio e che riprendeva all’occorrenza. Con questo sistema di vita severa e parsimoniosa è riuscito a far laureare tutti i suoi figli. Quando a fine mese portava casa lo stipendio e quando portava a casa anche il piccolo gruzzolo extra, chiamava tutti a tavola e versava le sue paghe sul tavolo. I figli godevano perché continuavano a sperare negli studi, la moglie godeva perché poteva cambiarsi gli abiti in autunno. Dino godeva perché tutti erano felici. Aveva un sogno: continuare a dare alla sua numerosa famiglia il necessario per vivere e studiare. Ma aveva anche un sogno segreto: comperarsi un pezzo di terra per coltivare le verdure necessarie alle famiglie dei suoi figli. Si erano sposati o stavano per farlo, ma Dino non dimenticava di essere padre. Non voleva essere aiutato da loro in segno di riconoscenza, ma voleva continuare a far sentire la sua burbera, benefica presenza.

Purtroppo il campo restò solo e sempre un sogno. Allora si ingegnò di trasformare il piccolo prato, nel suo recinto di casa, in un orto. Anche questa volta riuscì a meraviglia nella sua impresa, ci metteva cuore, forza e fantasia. Coltivava carote, prezzemolo, zucchine, cipolle, aglio, insalata riccia, radicchio di Chioggia, fragole. Incredibile! In un angolo trovò posto persino un bonsai, un piccolo acero rosso.

Questa esaltante e commovente storia mi è  stata raccontata dal figlio medico che lo vegliava di notte nell’ospedale di Mirano. C’ero anch’io di notte per assistere Levi operato di appendicite.

Dino morì, per un ictus, serenamente, neanche se ne accorse, tra le braccia del figlio, che tratteneva il pianto solo per dovere professionale.

Ecco, questa è la storia di un lavoratore veneto, vissuto sempre alla frontiera, mai domo, sempre pronto a risorgere dopo le cadute. Lo paragono ai miei Padri Pellegrini, mai domi che hanno lasciato traccia del loro passaggio su questa terra e che tutti ricordano con orgoglio e commozione.

17.

Mi è giunto un messaggio on line da Capo Cod, Massachusetts. E’ mia madre che mi scrive.

“Cara Mary, ho bisogno di vederti, fai un sacrificio e vieni, ho cose importanti da dirti.”

La chiamo subito al telefono, ma non capisco di cosa mi stia farfugliando. Alla svelta mi organizzo e parto. Volo Milano-Londra-Boston. Trovo mia madre ad attendermi, partiamo in auto per casa. Guido io. Già durante il viaggio scoppia in lacrime e a singhiozzare. Mi preoccupo assai, vorrei fermarmi, perché la guida comincia ad essere pericolosa, vorrei aiutarla, capire. Ma già prima di arrivare mi svela tutto. Mia madre Agnese è vedova da cinque anni, ha conosciuto un signore che l’accompagna spesso a fare compere, che si ferma a cena, che resta in casa anche di notte. Insomma, capisco.

“Stai calma, adesso ne parliamo. Ho capito: ti sei innamorata.”

“Mi perdoni, Mary?”

Sorrido e le parlo con il cuore in mano.

“E’ più che giusto ciò che fai, sono contenta per te e per il tuo avvenire.”

Nella sua mente confusa si apre uno spiraglio di luce, un lumicino che la guida, la calma e le fa riflettere da persona adulta che fa scelte con franchezza, convinzione e onestà.

“Grazie, grazie, figlia mia.”

Penso che nel buio infinito in cui deve essere vissuta negli ultimi mesi, l’incontro con Samuel sia stato provvidenziale, un ristoro per entrambi scoprendosi innamorati in una non più verde età. Scoprire nella notte, nel silenzio, nell’oscurità, un punto lontano di riferimento, in un momento in cui attorno c’è il vuoto, sia la salvezza. Le dico il mio pensiero con serietà e convinzione. Mi torna a sorridere e mi abbraccia. Conosco Samuel, capisco potrebbe essere mio padre, sostituirà mio padre, ma non provo dispiacere, anzi. Mi parla del dolore della solitudine e della felicità di aver trovato un volto da baciare, una mano da accarezzare.

Racconto queste cose a Levi, gli dico che ho incontrato due persone felici.

Resterò in America per qualche tempo. Torno a respirare il mio mondo costruito da valorosi navigatori in tempi lontani. Tra le tante cose che ci diciamo gli raccomando il mio diario.

“Mi raccomando, scrivi le cose che ti ho detto e scrivi pure cosa succede in Riviera, non voglio spezzare il filo del mio raccontare.”

Conosco il modo di scrivere di mio marito, scriverà appunti, accenni, fatti parziali per una persona estranea all’ambiente, ma mi sarà sufficiente.

18.

In questo freddo e nebbioso dicembre mi avvolgo sempre più in questo bozzolo di casa e, da bella e leggiadra farfalla, sto diventando un bruco chiuso nel suo baco e, per uscire, dovrò scomparire.

Quando leggerai queste note spero non sia successo niente di tutto questo, spero che tutto brilli e torni bello come prima. Ti avverto! Torna o vengo io da te per sempre.

Ho visto un film di Federico Fellini “Amarcord”. Per me incomprensibile. Non capisco l’odio del fascismo, anni trenta, contro gli Americani che li hanno liberati, dell’odiosa abitudine di manganellare i dissidenti, di propinare loro l’olio di ricino se non si sottomettevano a Mussolini. Altri tempi, mi dirai. Non proprio. Ho letto un romanzo di Antonio Pennacchi, scrittore che va per la maggiore oggigiorno. Figlio di contadini, critico su tutto e contro tutti. Però mi piace la sua freddezza, la sua ironia, la sua superiorità e la sua stravaganza contro i prepotenti di turno.

Sono felice per tua madre e per la svolta  che ha saputo dare alla sua vita.

Ho partecipato in biblioteca comunale alla festa per la assegnazione del premio “La Seriola”. La Seriola, la conosci? Forse no, allora te lo spiego io. E’ un corso d’acqua, di cui esiste ancora il percorso, andava e va da Dolo a Venezia per trasportare acqua dolce a una popolazione che vive in mezzo all’acqua salata. La bibliotecaria, una gentilissima signora sempre disponibile a consigliarmi gli ultimi libri arrivati, mi ha spiegato il significato del Premio Letterario “La Seriola”. Come la Seriola rappresentava il bisogno di soddisfare la sete, così il Premio intende ora soddisfare il bisogno di sapere, di conoscere della gente attraverso la lettura.

Ho terminato il mio turno di guardia in ospedale, resterò chiuso nel mio guscio, dormirò per due giorni. Il direttore sanitario mi assegna turni massacranti, e non posso protestare, perché non sono ancora di ruolo. Ce l’ha con me!

19.

“E’ permesso?”

Suono il campanello. Sono rientrata senza preavviso e la sorpresa è ancora più grande. Ci buttiamo teneramente nelle braccia uno dell’altra, senza parlare. Levi sembra trasognato per la sorpresa, mi stringe forte. Ci accarezziamo, ci parliamo, ci raccontiamo, ci vogliamo bene. Questa notte, dopo tanto tempo, abbiamo fatto all’amore.

Tra le storie paesane che mio marito mi ha raccontato, e che voglio approfondire, c’è quella di Giulietta e Romeo. Si tratta di persone note e stimate che voglio tenere nello stesso riserbo che loro tenuto per circa settanta anni. Sì, sono nomi che ho inventato, che ho sostituito..

Ecco che mi ritorna a galla una stria precedente.

Romeo ha ottantacinque anni, è ricoverato nel reparto di medicina di lunga degenza, non ne avrà per molto, si sta spegnendo lentamente. Parla con un filo di voce a suo figlio infermiere che lo assiste anche fuori orario, gli asciuga il sudore, gli bagna le labbra. Gli chiede qualcosa di semplice e infinito, gli chiede di rivedere una persona che ha amato sinceramente fin da quanto avente sedici anni. Gli chiede di rivedere Giulietta, la sua Giulietta che, sua, non è mai stata. La richiesta non è così semplice da esaudire. La signora, anche lei malandata in salute, vive con una figlia e dei nipoti sposati. La storia è complessa e non facile da sbrogliare, anche perché, si tratta di scoprire degli altarini ignoti a tutti. Ma procediamo con ordine.

Romeo e Giulietta, coetanei, vivevano nello stesso paese, nella stessa contrada, giocavano assieme, litigavano e si sorridevano. Stavano per spuntare il desiderio e l’ammirazione composta dell’altro sesso.

L’ambiente in cui stavano crescendo era contadino, di cultura povera, ma di grande rispetto e timore per l’unica autorità che riconoscevano: il prete. Il parroco e i catechisti cattolici insegnavano soprattutto divieti, proibizioni, paure. Tutti insegnamenti che venivano accolti e assorbiti facilmente. Ai ragazzi, veniva insegnato che era peccaminoso non solo fare certe cose, ma anche a pensarle, a desiderarle. Non … non … non … I  ragazzi capivano che tutto ciò che era desiderato, era proibito. Ma perché? Né la famiglia, né altre istituzioni, né la scuola aiutavano a comprendere, a spiegare i segreti della vita. Una incerta, confusa informazione sessuale veniva carpita e gonfiata dall’ascolto furtivo dei discorsi dei compagni più adulti e delle compagne più sveglie. Durante innocenti giochi comuni, tra ragazzi e ragazze di contrada ce n’era uno che, come pegno, obbligava a dare un bacio a una ragazza o a un ragazzo con la formula “dai un bacio a chi vuoi tu”. Romeo più volte ne usciva vincitore, e baciava sempre chi non voleva, chi non gli interessava, non baciava mai Giulietta nel timore di svelare il gande desiderio, la grande passione che nutriva per lei. Giulietta, invece quando vinceva pegno, baciava esclusivamente Romeo. Erano i primi sentimenti d’amore che facevano palpitare il loro cuore e a turbare i loro sonni.

Poi le vicende della vita portarono occasioni di incontrarsi, di allontanarsi, ma mai di dimenticarsi. Avevano diciotto anni e, un settembre indimenticabile, si incontrarono nello stesso treno, nello stesso vagone che li portava a Padova all’Istituto Magistrale, volevano diventare maestri. Si salutarono cordialmente arrossendo, si dissero cose banali, si guardarono con sguardi profondi che arrivavano fino all’intimo, che rivelavano qualcosa di reciproco piacevole compiacimento. Romeo temeva che rivelarsi fosse troppo presto, troppo compromettente, anche con la famiglia che chiedeva ogni giorno: com’è andata oggi? tutto bene oggi?

L’ambiente familiare di Giulietta era più aperto, lei parlava, si confidava. Alla richiesta del padre che, strizzando l’occhiolino, le chiedeva se aveva qualche simpatia tra i compagni, Giulietta rispose subito di sì. Parlò subito di Romeo, della sua famiglia, della scuola comune. Il padre ascoltò, annui, ma gli fece una raccomandazione.

“Attenta! Pensa a studiare e ogni cosa bella verrà a suo tempo.”

Giulietta non era proprio d’accordo, pensava che qualche gesto di dolcezza, qualche sonora risata in pubblico, qualche carezza di fronte ai compagni non sarebbe stata una brutta cosa. Altri lo facevano apertamente senza timore. Anche Giulietta si sentiva disposta e pronta ad assumere un atteggiamento aperto, più maturo e responsabile, ma era Romeo a temerla, pur desiderandola ardentemente.

Una mattina, percorrendo i portici che portavano all’Istituto, Romeo sentì i passi di lei che si affrettava per raggiungerlo. Romeo affrettò pure lui i suoi passi, con la scusa che non voleva distrarsi: aveva compito di latino. Quella fu una delle prime occasioni che perse e che cambiarono per sempre la sua vita. “Cogli l’attimo”, insegnava Orazio. “Cogli la rosa quand’è il momento” gli faceva eco Whitman. Questo verso si impresse nella sua mente, ma non fu sufficiente, gli succederà ancora. Ormai nel suo declino affettivo diventava sempre più difficile l’avverarsi di ciò che aveva da sempre sognato. Stava perdendo Giulietta per sempre.

Agli esami di Stato ottennero l’abilitazione magistrale, la graduatoria per l’assegnazione delle supplenze in scuole disparate della Riviera del Brenta. Le occasioni di incontrarsi divennero sempre più rare e insignificanti, ma non per Giulietta.

Durante il servizio militare di leva a Sabaudia, al corso sottufficiali, conobbe Claudio, Costantino, Pasquale. Alla sera, durante la libera uscita parlavano delle loro famiglie, dei loro studi, del lavoro già pronto che li attendava a casa,  chi in banca, chi in fabbrica, chi ai Grandi magazzini di abbigliamento, delle loro ragazze e delle loro intenzioni di mettere su famiglia.

Romeo davanti a sé non aveva niente di certo, mostrava lettere che stava per spedire a Giulietta, ma che teneva segretamente in fondo allo zaino. Temette di impazzire, spaventato dalla propria immaturità, che  il servizio militare avrebbe dovuto invece alimentare.

Diciotto mesi di naja sono tanti, sono troppi, uno torna trasformato anche se non vuole, anche se non ci crede.

Ad una riunione di Circolo, il Direttore didattica dà istruzioni, consigli, insegna come si scelgono i libri di testo, come si stendono i Piani di lavoro annuali, come si trattano gli alunni, le famiglie, il personale di servizio, come usare la ricreazione che è un momento importante nel piano educativo. Infatti, tramite il gioco, l’insegnante attento scopre attitudini di comando, di abilità che magari non si rivelano dall’esame dei compiti in classe, ma che costituiscono aspetti importanti della sua personalità, aspetti che vanno moderati, ampliati, consigliati.

Romeo esprime il suo parere con motivazioni giustificate e adeguate. Anche Giulietta interviene concludendo sempre nel confermare le osservazioni di Romeo. Si guardano, si confermano a vicenda, ma nulla più.

Durante le sagre di San Rocco, tra compagni ci si intrattiene a lungo a chiacchierare, ad osservare, a criticare, spendendo poco, misurando i soldini che si hanno in tasca.

Tornando a casa, lungo via Argine Sinistro, Romeo e Giulietta si incontrano, si sorridono, corrono in bicicletta appaiati, sua sorella segue dietro con un altro ragazzo. Si toccano, Romeo le mette una mano sulla spalla, lei non si sottrae e, per la prima volta, sente il coraggio di dichiararsi, di chiederle di rivedersi per parlare. Un attimo dopo si precipita come un fulmine davanti a loro un ragazzo fulvo di capelli che aveva già visto gironzolare attorno a Giulietta, li blocca, li ferma, interroga Giulietta con aria di primogenitura, di pretesa. Lei non parla, aspetta che Romeo dica qualcosa, faccia qualcosa. E’ qui Romeo decide il suo destino, si ritira, fugge, non interviene. Ecco l’attimo fuggente! Sente che ha perduto per sempre la sua amata. Mai più si presenterà un momento così propizio, così fortunato. Non si rivedono più. Passano due anni e Giulietta sposa un collega, Romeo sposa una commessa del supermercato vicino casa. Vanno ad abitare in paesi diversi, si rivedranno saltuariamente a scuola, non si parleranno, si saluteranno civilmente da lontano. Romeo vivrà una vita esemplare, fedele alla moglie e alla sua famiglia, ma nel suo cuore non smetterà di amare pudicamente Giulietta. Questo mi ha detto Marco, suo figlio. Di Giulietta altro non so. Insegnerà per quarant’anni, andrà in pensione ancora bella e sorridente. Vive ora con le sue tre figlie e sei nipoti. Fa quel che può per la sua età a dare una mano in casa. Il marito fa parole crociate su Settimana Enigmistica, gioca a scacchi con uno dei nipoti, guarda i film di Totò, si addormenta presto sul divano.

Molti, molti anni sono trascorsi e, come vi ho anticipato, Romeo giace in un letto di lunga degenza in ospedale, in un reparto che non prevede vie d’uscita. Ha un chiodo fisso: prima di morire vuole rivedere Giulietta. Sente che anche lei lo aspetta. Ed è così. Giulietta non ha mai dimenticato Romeo, in un cantuccio del suo cuore, Romeo è là, in attesa.

Mio marito Levi conosce tutto di questa commovente storia, così l’ha definita! e vuole prestarsi per far morire in pace un paziente buono, silenzioso, che ha condotto una vita onesta, irreprensibile, ma con una ferita insanabile. Ferita che può ora essere medicata prima della morte. Avvisata la famiglia, Giulietta giunge nella cameretta semibuia dell’ospedale, viene introdotta con delicatezza dal medico di reparto. I due si rivedono con gli occhi antichi, con un amore eterno riservato e puro.

“Cara cara, grazie grazie” sospira.

“Caro non parlare, capisco tutto, non ti affaticare.”

Si sorridono, piangono, si commuovono, risvegliano tacitamente ricordi, rimpianti. Giulietta appoggia il suo capo sul suo petto, lo sente sobbalzare in un pianto irrefrenabile, a stento trattenuto, lei gli bacia le mani esangui, gli accarezza la fronte bianca e sudata. Due ore dura la sua visita, per due ore la sua testa è rimasta sul suo petto, fin che, dopo un lungo respiro non si mosse più. Romeo ha lasciato questo mondo da amato, da perdonato, in pace.

Giulietta è tornata a casa stravolta. Cadrà in un sonno profondo, ristoratore. Morirà due giorni dopo il suo segreto amore, per crepacuore. Questo dichiarerà il medico di turno nel redigere l’atto di morte.

Questa è la storia di una piccola tragedia vissuta da due creature che si sono amate, ma non si sono capite quando era ora.

A corollario di quanto scritto, vorrei aggiungere questi versi significativi del poeta americano Walt Whitman.

“Cogli la rosa quand’è il momento, il tempo vola, lo sai, vola  perchè lo stesso fiore che oggi sboccia domani appassirà.”

Niente mi sembra di più appropriato.

Questa è la storia che lascio a voi dolesi.

I vostri due concittadini sono sepolti nello stesso cimitero, in due urne cinerarie, con il loro vero nome. Le tombe sono facili da individuare, sono in ordine progressivo, come stabilisce il freddo Regolamento di Polizia mortuaria.


Questo Diario è pervenuto alla Biblioteca comunale, con la preghiera di farlo leggere ai lettori amanti di storia locale.

Gli autori sono partiti improvvisamente per l’America lasciando in aggiunta una dichiarazione semplicissima.

“Non dimenticatevi di voi.”

2020

20.

Che vi posso dire? Sono Pierre ben Kaled, sono naturalizzato italiano, sono qui da dieci anni. Sono sbarcato da un gommone a Lampedusa in una notte di calma di vento. Ho risalito l’Italia con mezzi di fortuna, sono arrivato qui dove sono stato accolto dalla CRI, sono stato anche contestato, ma mi sono subito dato da fare. Ed eccomi qua. Sono dipendente fisso del Comune, svolgo mansioni servili di pulizia, di controllo, di postino che distribuisce la corrispondenza ai vari uffici, di consegna a domicilio dei bollettini di protesto, consegno ai Carabinieri le richieste di pubbliche manifestazioni, assisto ai Consigli comunali per la consegna di carta, timbri, registri, un caffè. Qui da voi, durante il servizio militare, la consegna era una punizione, per me è un lavoro.

Ho trovato questo piccolo importante Diario nel fondo di un cassetto che conteneva cose personali della precedente responsabile della Biblioteca, ora in pensione.

Scusate se mi permetto, io cittadino di adozione, a consigliarvi questa lettura, che può essere edificante, come lo è stato per me.

In quest’anno 2020 stanno succedendo cose strane e pericolose, c’è la diffusione di un morbo strano, nuovo e imprevedibile, il Covid19. Lo chiamano pandemia. La gente sia ammala, si ricovera in ospedale e muore, i familiari non li rivedono più. Anche nel nostro ospedale non si entra facilmente, c’è il controllo della temperatura, della avvenuta vaccinazione anti Covid19, delle prenotazioni obbligatorie. Conosco persone che frequentavano il Municipio e che sono morte in poco tempo. Per me tutto ciò è strano, ma mi adeguo alle direttive sanitarie e ai decreti del Governo. C’è una paura diffusa, le persone non escono più, si fanno consegnare a casa le spese. Ci sono accordi prestabiliti.

Quest’anno ci sono state le elezioni amministrative ed è stato confermato in maniera plebiscitaria il precedente sindaco, persona stimata e molto impegnata per la comunità.

Sono di razza mista, mio padre è tunisino, mia madre era francese, ora non c’è più. Sono musulmano, ma non mi riconosco nei violenti che usano la mia fede come imperativo categorico per fare una politica discriminatoria. Non tutti i musulmani sono minacciosi con coloro che chiamano infedeli, che considerano blasfemi. Del resto non tutti i cristiani amano la pace.

Per strada mi fermano, mi salutano, mi chiedono informazioni. Ormai sono di casa.

Ripongo questo diario nella vetrinetta che c’è nello sgabuzzino dove mi cambio e dove sbrigo le pratiche che vi vengono assegnate, senza invadere uffici o disturbare gli impiegati.

Non toccherò più questo prezioso diario, spero che un giorno possa capitare in buone mani.

Le buone mani sono capitate. In un giorno di mercato, molte persone si muovono, qualcuno entra in comune per un certificato, per ottenere la carta di identità, per dichiarare una nascita o una morte. Un professore delle medie di Sambruson, che aveva sentito parlare del Diario, mi chiede se ne so niente.

Ecco le buone mani!

Estraggo il libretto dal cassetto e glielo porgo.

“Signore, questo è un piccolo tesoro, ne faccia buon uso.”

 

 


 


articolo a cura di luigi zampieri


 

Ultimo aggiornamento (Mercoledì 08 Settembre 2021 15:54)

 

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