PAROLE AL VENTO di A. Zilio
SAMBRUSON. CULTURA, COSTUME, TRADIZIONI, AMBIENTE. - LETTERATURA A SAMBRUSON (III) |
Caro Luigi …….
PAROLE AL VENTO
1.
E’ una storia questa, non una di tante storie. E come tutte le storie deve avere un inizio e una fine.
Il Covid-19 m’insacca in casa e mi costringe a pensare oltre, oltre la soglia della porta. Così mi interesso di cose che ho sempre amato, che mi hanno fatto pensare. Ogni cosa ha un suo principio una sua fine. Ma può esistere qualcosa senza fine, può esistere qualcosa di infinito? E qui potrei chiudere. Le risposte sono molte. Un grande poeta si arrese di fronte a una simile domanda. Spingeva la sua mente oltre i confini, oltre la siepe, ma alla fine il suo pensiero naufragava dolcemente in ignoto mare. E il suo genio s’acquietava. Questa pausa mi serve, per ripartire da un caposaldo forte, di partire da capo, ma non più da solo. Qualcun altro ci ha provato. La religione dà una risposta ferma, chiara, ma non dimostrata. La filosofia dà delle risposte, l’economia dà delle indicazioni. La politica è il teatro impraticabile, dove tutto affonda in interessi venali, mai universali, bensì di parte. La notte mi attrae, mi affascina, non distrae. Il buio è il traguardo finale per tutti e per quel sentiero saliremo da soli. Chiuderemo gli occhi, non vedremo più nessuno, nessuno ci rivedrà più. Per chi ha fede, il giorno della morte è il giorno della rinascita nell’altro mondo. Lo spero anch’io. Ma nessuno è tornato indietro a dirci qualcosa. Queste parole improvvise mi sgorgano appena appresa la ferale notizia della dipartita del nostro giovane sindaco. Pieno di entusiasmo, di idee, trascinatore era stato da pochi mesi rieletto sindaco con voto plebiscitario. Ed ora? Cosa resta dei suoi sogni, del suo amore per la nostra città? Solo ricordi, solo rimpianti, solo belle parole. Per poco tempo. Poi scenderà l’oblio. Altri arriveranno e, come sempre, la polvere si depositerà su chi è caduto. Niente di nuovo sotto il sole. Era una quercia sicura, solida, protettrice che tutti guardavamo con fiducia, sentendo onestà e sicurezza in una persona giovane dedita alla politica, intesa come missione. Evento raro. Che strano! Di solito in questo campo la visione e l’atteggiamento sono assai diversi. Il mio pensiero corre alla sua giovane famiglia, affranta, avvolta in un dolore senza fine. So cosa significa perdere un ragazzo giovane, il cuore della famiglia, lo so per esperienza personale. Una piccola famiglia che si raccoglie alla sera, sola, sapendo che ogni giorno sarà così, vede le notti che verranno con animo di ghiaccio e nulla potrà sciogliere un dolore così crudele e ingrato. Caro Alberto, anche tu ti chiami così! Caro Alberto, conosco i tuoi genitori. Ho conosciuto i tuoi nonni e so da quali radici solide sei uscito. Gli uomini crescono per impegno e fatica personali, ma anche seguendo esempi solidi. Tu l’esempio l’hai avuto e l’hai dato. Ma purtroppo ci sarà un vuoto che si stringerà attorno ai tuoi cari, un vuoto che nessuno colmerà. Ti auguro da amico e da educatore che i tuoi figli un giorno sappiano raccogliere il tuo testimone e guardare oltre la barriera che li ha chiusi e scoprire nuovi orizzonti, nuovi traguardi guardando orgogliosi indietro il punto da cui sono partiti.
2.
La notte aiuta la navigazione verso porti scelti, verso giorni giovanili, quando imparavi a memoria versi di grandi poeti che ora ti ritornano spalancando finestre da cui emergono volti, pensieri, risate, richiami lontani. Di alcuni ricordo il verso superbo, metallico che ammiri ma non ti avvolge, perché da soli si pongono in alto perché tu li veda, senza avvicinarsi. Ammiri il genio che ti abbaglia, ma che ti tiene lontano. Questo a me sembra Gabriele D’Annunzio, personaggio eclettico primo in tutto ciò che fa. Costretto a rimanere al buio per molto tempo per recuperare la vista in seguito a ferita in un’impresa di guerra, non rallenta la sua immaginazione e la sua produzione poetica. Il furibondo artista, poeta sempre, anche se cieco, che sente tuttavia profumi, odori, rumori, presenze, perché più vigile, scrive pensieri sublimi e versi tormentati, che non puoi non ammirare. In quei giorni al buio non si ferma, e scrive. Scrive usando un mezzo ingegnoso. Usa migliaia di striscioline di carta che contengono solo una riga. Dovranno essere raccolte, numerate e ricomposte in pagine per poter essere rilette in maniera organica e compiuta. Il linguaggio del poeta è fatto di scatti, di colpi di fioretto, di affondi e di ritiri, di grida e di calma. Tutto ti sorprende e ti affascina. Sì, affascina! Parlo ora di due componimenti lirici scritti con scatti potenti che ti dicono tutto quello che attendi di sapere. Ti appagano subito. Sai subito che cosa, dove, quando, perché. Conosci subito il cuore dell’ispirazione, il resto viene da sé, perché s’irraggia attorno lentamente con parole, pause e slanci che ti stordiscono. “Settembre, andiamo.” I pastori d’Abruzzo scendono dai monti e capisci all’istante che, terminata la stagione dell’alpeggio, tornano alle loro famiglie, alle loro case a valle. Soddisfatti, ansiosi, frettolosi. Ed è già detto tutto. Bellissimo l’appoggio al bastone d’avellano del pastore durante la discesa! Si satollano d’acqua fresca di fonte, prima di scendere al mare. E poi memorabile è la descrizione della “Pioggia nel pineto.” Incomincia con una parola che è una fucilata. “Taci.” E segue la lunga descrizione dei crepitii, dei suoni diversi, dell’intensità della pioggia, della passione che lo anima, dell’immaginare ciò he ha già deciso di dover sentire e di amare. Capisco e ammiro, ma tutto ciò non calamita la mia passione, il mio amore per versi pur sublimi. Ascolti da spettatore, non da protagonista coinvolto dall’azione che viene spalancata davanti ai tuoi occhi aperti e meravigliati per le bellezze descritte. Infatti, la descrizione del placido rumore della pioggia che muta suoni e pensieri, luccichii e gocciolii, mi piace nel più modesto Angiolo Silvio Novaro. “Che dice la pioggerellina di marzo che picchia argentina sui tegoli vecchi del tetto, sui bruscoli secchi dell’orto, sul fico e sul moro ornato di gemmule d’oro?” Il suo verismo semplice e spontaneo non gli impedì tuttavia di avere rapporti con poeti e scrittori illustri, tra cui Giovanni Verga e lo stesso D’Annunzio. Che cosa unisce questi personaggi che ho conosciuto sui testi scolastici? Certamente l’amore per la bellezza, per l’armonia, per la gioia di scoprire cose che appagano lo spirito, per il piacere delle parole ritmate e composte per raccontare momenti eccelsi di ispirazione, di espressione, di poesia. Certamente li ha riuniti il bisogno di parlare e di scrivere in solitudine, in silenzio, in pace, al buio, in notti calme e serene. E con questi pensieri quietamente m’addormento.
3.
Sono fermo in Borgo Cairoli all’incrocio con via Vittorio Veneto. E’ il punto più inquinato della città. Nelle ore di punta l’aria è irrespirabile. Il via vai di automobili e motociclette è senza sosta. A volte per attraversare non bastano i passaggi pedonali occorre il vigile. Oggi invece sono uscito per respirare un po’ d’aria pura, visto che si può. L’unico veicolo che passa con la sua sirena lacerante è un’autoambulanza, al Municipio gira a destra diretta al Pronto soccorso dell’ospedale. Chi ci sarà dentro? Certamente un paziente Covid19, lo tesso morbo che ci obbliga in casa in determinati giorni, entro determinate ore. Già, arriva la sera, d’improvviso si accendono le luci, il cielo s’incupisce. Bisogna affrettarsi. Non me ne ero accorto. La persona che mi assiste mi sollecita a spingere di più il deambulatore. Arrivo a casa quando ormai è sera. Ecco, sono finite le mie vacanze natalizie, dopo mesi di reclusione. Ricordo quando potevo muovermi liberamente e correre lungo la Seriola, fuori dal traffico e ammirare i campi alberati più a nord con lo sfondo del Grappa, e fermarmi sul ponticello di confine a guardare l’acqua scorrere lenta vero il mare, dopo mille incroci, affluenze e sbocchi. Quell’acqua viene dai laghi di Caldonazzo e di Levico, luoghi di vacanza, modesta, con la mia famigliola. Ricordo il giorno in cui mi ero fermato, appoggiato alla spalliera del ponte, a guardare l’acqua scorrere. Bianchi cirri si riflettevano, l’acqua scorreva, ma loro restavano immobili. Mangiucchiavo ciliegie di stagione e una mi cadde. Ci fu un getto all’in su e una serie di cerchi si allontanavano dal centro, velocemente si avviavano alla riva e là finivano la loro vita per sempre. Mai più si sarebbe verificata una circostanza simile. Non ci sarebbero state più le stesse nuvole bianche, le stesse gocce, la stessa velocità della corrente, le stesse alghe, lo stesso barattolo galleggiante. Questo episodio dimenticato, mi fa sorgere all’improvviso un pensiero, che forse navigava nascosto in me. Il ricordo di letture gradevoli non dimenticate. Ecco, recito senza accorgermene questi versi: “Ognuno sta solo sul cuore della terra trafitto da un raggio di sole ed è subito sera.” Parole ermetiche di Salvatore Quasimodo per dire che la vita è breve, si accende un attimo, godi brevemente e quando te ne accorgi è già tutto passato, già finito. Il tuo tempo è scaduto. Sei già al tramonto, sopraggiunge la sera, la morte. Mi ricorda la Genesi, i sette giorni della creazione del mondo: e fu sera e fu mattina. Lo scorrere del tempo è implacabile , è giusto per tutti, non si acquista e non si lucra, non ci cede e non si baratta. Ecco che, ancora, la sera sovrasta i miei pensieri notturni di vecchio stanco ma non concluso. Di giorno mi sorgono pensieri belli che di notte, nel sonno, rivedo, correggo, approvo, scelgo e all’alba annoto, come ora. Poi stanco mi addormento. Mi sussurro piano piano una canzone che mi ricorda una trasmissione radiofonica: “…. Il Notturno dall’Italia ci faceva compagnia … il silenzio della terra … mi sussurra una preghiera … lento il mio abbandono al tempo … forse non ti rivedrò …”.
4.
Vecchio-giovane e vecchio-vecchio. Tra uno scricciolo e un gufo non c’è paragone. L’uccellino timido, nascosto, riparato, aspetta che passi l’invernata per poi tornare libero ai suoi monti. Il gufo, pure lui nascosto, esce di notte a caccia e poi aspetta che passi la nottata. Mi viene spontaneo il confronto tra l’essere timido, che consce i suoi limiti, ma che spera di farcela, e ce la farà! a passare la brutta stagione, e il sublime pessimista che sopporta a malapena il dolente disagio di vivere. Penso al canto del pastore errante dell’Asia, che cammina sempre senza pace con il suo gregge. Interroga la luna … dimmi, che fai tu luna in ciel, dimmi che fai silenziosa luna? … domande superiori alla sua cultura e non ottiene risposte al suo dispiacere di esserci. Non incontra nessuno della sua levatura con cui poter parlare. Alle sue continue, inquiete domande nessuno risponde e il vecchio bianco e stanco continua il suo pellegrinaggio. Il doloroso lamento del poeta trabocca in ogni sua dolente lirica, fino a diventare uno spiacevole malessere ripetuto all’infinito. Il dispiacere d’esser nato è la pagina su cui scrivi la tua vita, amico vate, su cui scrivi i tuoi versi, i sogni e i lamenti. La natura è crudele per averti accolto e lo ripeti ovunque, fino alla noia. Silvia rimembri ancor gli occhi tuoi ridenti … ma … d’in su la vetta della torre antica, passero solitario che alla campagna cantando vai … fin che non muore il giorno … la quiete dopo la tempesta, odo augelli far festa … ma … la donzelletta vien dalla campagna in sul calar del sole.. Il piccolo scricciolo può solo migliorare i suoi giorni, non pone limiti al suo coraggio. Dal buio in cui vive è capace di salire verso il sole, più dell’aquila vanitosa, ed essere proclamato, per un giorno, vincitore. Il piccolo scricciolo s’accontenta del suo, di ciò che la natura gli offre, sapendo fin dove può rischiare e fino dove è meglio restare nascosto. Lo scricciolo, anche se vecchio, sarà sempre giovane, frizzante, ciarliero quel che basta per annunciare tra le siepi che lui c’è. Nulla più. Caro amico Giacomo, quanto ho sofferto studiando le tue sudate pagine, vedendoti imbrigliato nei tuoi affanni, nei tuoi pensieri descritti con sublime penna. Mi sembra d’esser stato tuo complice. Tu eri vecchio dalla nascita, avevi posto un tetto alla tua vita, non potevi migliorare, superarlo, guardavi dalla tua finestra il mondo fuori, ma non c’era niente che ti attraesse. Non ti aiutava l’ambiente familiare severo e cupo in cui sei maturato. Mi sarebbe piaciuto essere stato tuo coetaneo, di essere stato tuo amico, di aver partecipato a grintosi giochi d’infanzia, di avere discusso con te di ragazze, di averti incoraggiato a romantiche passeggiate con Silvia, di aver ragionato di traguardi normali nel lavoro e negli studi, di aver discusso di musica, di poesie. Mi sarebbe piaciuto correre con te sull’erto colle senza paura di escoriazioni alle ginocchia e poi visitare a piedi ciò che c’era davvero oltre l’orizzonte. Ma ahimè! ciò non sarebbe stato possibile, non avevi il fiato, ne la voglia, eri già vecchio-vecchio e immobile nel tuo dolente vivere.
5.
Ricordiamoci tutti, sempre: non bisogna far piangere, lasciar piangere un bambino. Perché sono le piccole cose quelle che rendono tristi una bambina, un bambino. Certamente se le misuriamo con la sensibilità di un adulto possono far sorridere, ma se le osserviamo con gli occhi, con i pensieri dell’infanzia, tutto cambia. E’ quella la misura da considerare con umiltà. Ricordo un mese di aprile di molti anni fa, erano le vacanze di Pasqua, frequentavo la scuola media. Venne a trovarci un vicino di casa con un bimbo delle elementari, si chiamava Gioi, o meglio lo chiamavano Gioi. Era piccolo e magro, con un visetto smunto con due occhi brillanti, bramosi di chi si attende qualcosa. Da chi? Da me, ma lo seppi dopo. Le nostre campagne erbose, ricche di foraggi per il bestiame erano un invito per le corse e i giochi per tanti ragazzi di contrada. Anche perché, in un angolo del vasto quadrato di trifogli e di erba medica, c’era uno stagno, molto frequentato durante l’estate, molti ragazzi imparavano là a nuotare. Erano gli anni del dopoguerra e non c’era troppo tempo per gli svaghi delle famiglie. Il signore che accompagnava Gioi mi disse: tu sei buono … Sorrisi. Allora mi parve un’offesa. Avrei preferito: eh, tu sì che sei furbo! Tu sei capace … continuò. Mi parlò di Gioi, malaticcio, non poteva competere con altri compagni in giochi di velocità o di destrezza: Il ragazzino aveva solo un desiderio: avere un aquilone, possedere un aquilone. Fare aquiloni era la mia specialità, ero “buono” a farli, eccome! Accompagnai il ragazzino nella nostra cantina dove c’era un mucchio di pezzi di spago inutilizzati, resti delle operazione di insaccatura delle carni di maiale. Gli dissi: incominciamo da qui. Annodammo gli spaghi di circa un metro ciascuno e costruimmo un filo di cento metri. Ti piace? chiesi a quel visetto tutto rosso, entusiasta per lo scoprirsi capace di fare qualcosa di bello. Lo invitai a cercare a casa un foglio di carta leggera, lucente e avremmo avuto due delle tre componenti. Tornò con un grande foglio che aveva avvolto un grande uovo di cioccolata di Pasqua, a lungo conservato. Ci avviammo verso lo stagno e cogliemmo delle canne palustri, le modellammo e pian pianino e cominciammo a dare forma al nostro aquilone. Tutto finito? Eh no, dovevamo aspettare il vento. Restammo all’ombra di una quercia, a mangiare pane e salame fino alle quattro del pomeriggio. Ecco, ecco una leggera brezza, ecco il momento. Provammo subito con una piccola rincorsa a lanciare l’aquilone. Ed eccolo brillare in cielo. Gioi con lo spago teso tra le mani singhiozzava felice. Era stato buono, era stato capace di realizzare il suo sogno. Per me era stato uno dei tanti. Gioi non tornò più. Non lo vidi più. Non tornò più neppure nella sua classe in autunno a Pordenone ai piedi delle Alpi, da dove scendono folate d’aria fresca a tutte le ore. I suoi polmoni malati avevano ceduto ed era morto ai primi di settembre. Ed ora qui, molti anni dopo, penso a lui, mentre leggo ai miei ragazzi delle elementari di Sambruson la poesia “L’aquilone” di Giovanni Pascoli. La conosco a memoria. “C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico: io vivo altrove, e sento che sono intorno nate le viole. Son nate nella selva del convento dei cappuccini, tra le morte foglie che al ceppo agita il vento … “ Sospendo un attimo la lettura e resto in silenzio triste, penso a Gioi che lasciò il cavo e l’aquilone salì sempre più su. Come il tuo compagno, poeta, che abbandonò muto il capo sull’omero e più non si svegliò … vedo la madre che gli pettina i capelli, adagio, per non fargli male. Caro Giovanni, le tue sono parole al vento, che salgono fin lassù. Tu conosci cosa è la morte di una persona cara, tu che hai visto tua madre attaccata alla criniera della cavallina storna, tu sai cosa è una perdita sacra. Cosa dire? Cosa fare? Un grande urlo o un grande silenzio. Caro Gioi, ricordandomi di te, le mie parole si tacciono, perché mi scoppia un enorme silenzio.
6.
“Le veglie di Neri” sono racconti di vita quotidiana nelle case di campagna in Toscana, scritte da Renato Fucini, in arte Neri Tanfucio. Forse veri, forse magistralmente inventati. Descrivono la quotidianità di gente rurale, che si esprime in un linguaggio semplice, popolare, spesso dialettale. Sembra si tratti di un mondo chiuso che parla di se stesso e che non può interessare a nessun altro. Per molto tempo pensai la stessa cosa. Poi conobbi il significato toscano della parola veglie. In Veneto corrispondono al filò, alle serate trascorse in compagnia tra contadini, nella stalla riscaldata dal fiato degli animali. Mi sono piaciuti soprattutto due racconti, perché mi permettono di parlare di un altro, ma storico, avvenuto lontano dalla Maremma, nel Lazio, nell’Agro Pontino. Stesse terre povere, a volte paludose, dove vivono famiglie di migranti che invece delle Americhe, all’inizio del ‘900, hanno preferito restare in Italia. Ebbene, Renato Fucini descrive con toccanti e severe note, una scena della sua spensierata gioventù. Figlio di un medico di campagna, frequentava gli studi a Firenze a spese della famiglia, ossia del padre soprattutto. Una notte di bufera di neve e vento impetuoso, tornato a casa per le vacanze, vide il padre medico, bevuto il bicchiere della staffa, salire a cavallo per andare a visitare persone ammalate che avevano urgente bisogno di lui. Ma prima di avviarsi rivolse un severo monito al figlio Renato: guarda come tuo padre guadagna i soldi che ti servono per gli studi in città. Il ragazzo capì la lezione e in seguito descrisse l’episodio con parole toccanti di gratitudine e di commozione. Anche qui si parla di eventi decisivi per una persona in una notte, al buio, dove tutto è circoscritto e preciso. Renato Fucini sapeva essere poeta anche quando lento scriveva in prosa. “Folta delle sue foglie, una vecchia quercia gode la vita slanciando al sole di maggio le braccia robuste, e il vento canta alla primavera tra le sue fronde sonore.” Trovo parole che profumano di forza e pure di leggerezza, che ti fanno interrompere la lettura e gustare la forza del vento che lascia traccia, lascia il segno. Un altro racconto commovente del Fucini parla di Lucia, una fanciulla orfana, che fa la pastorella e ogni sera porta le sue pecore all’ovile, al riparo dai lupi. Ma un giorno, mentre recupera un suo agnello, come un innocente usignolo, corre da sola verso il nemico. Nella boscaglia, due occhi assatanati, da tempo la stanno guatando. Insegue la pecorella, cade nella trappola. L’uomo la aggredisce e la priva della sua verginità. La bambina, perché di questo si tratta, rimane attonita e ancor più sola, mentre il buio muto e lontano osserva. Vorrei accostare questo fatto, certamente inventato, ad un altro simile, tragico e vero. Parlo di una fanciulla vissuta agli inizi del ‘900 nell’Agro Pontino dove la famiglia contadina era emigrata per trovare lavoro nei campi dei grandi proprietari terrieri. Vita misera e povera, in un ambiente dove regnava la malaria che ucciderà il padre, l’unico che sostentava la famiglia. Vi parlo di una ragazzina che subì una simile aggressione violenta, in un luogo sicuro e da una persona da cui si considerava difesa. Mai avrebbe immaginato l’attacco forsennato di un compagno di fatica, della stessa colonia, della stessa casa, attacco che le toglierà la verginità, e la vita. L’assassino subirà molti anni di carcere, ma ormai il male era stato fatto, nessuno avrebbe restituito alla madre e ai fratelli quell’angelica figlia che pregava e aiutava tutti, sempre senza nulla attendere in cambio. L’assassino dirà di aver sognato la bambina che diceva di attenderlo in paradiso, se si fosse pentito. Sarà stato sincero? Questa sciagura ha travolto molte donne, dai tempi della Bibbia ad oggi, e così sarà ancora. Allora la ribellione popolare e religiosa fu importante, il popolo si inchinò alla martire che ora ci guarda dagli altari. Parlo di Maria Goretti, proclamata santa, protettrice della gioventù, da papa Pio XII. Purtroppo la violenza contro le donne è viva e attuale, non bastano i giornali a raccontarlo, non basterebbero gli altari per innalzarle.
7.
Caro amico, termino qui le mie parole al vento. Il vento mi ascolta e si consuma subito. Questi miei pensieri non sono per me, sono già in me. Ho scelto qualcuno a cui confidarli. Ho scelto te, caro Luigi. Da molti anni non ci vediamo, eppure ci intendiamo a meraviglia. Ho scritto di notte, come ora, senza divieti, in solitudine. Rileggo di giorno con la finestra aperta respirando l’aria buona. Ecco il vento che mi ritorna. Mi porta fruscii lontani di altre voci, di altri suoni, di altri silenzi. Sento che non sono solo, altri soffrono la stessa mia inquietudine nel non capire molte cose che avvengono attorno a noi. Immagino molti volti di cui non ricordo più l’aspetto, vorrei parlare con voi di molte cose. Non posso rispondermi da solo, mi basterebbe chiudere gli occhi e pensare. Spero che qualcuno veda la mia finestra aperta e mi dica: buongiorno, coraggio… sai anch’io … Sì! Qualcuno mi è apparso, mi ha chiamato. E’ Carlo Acutis! Si parla molto di questo ragazzo, bello, intelligente, devoto, sportivo, meritevole di una lunga vita. Avrebbe potuto seminare molto bene e coraggio tra i suoi coetanei con la sua saggezza, con la sua bontà. Avrebbe! Già un male incurabile, improvviso, inatteso lo ha chiamato altrove. Però la sua storia non è finita. Assiste i giovani che lo invocano con miracoli che la madre accorata racconta con serenità. Presto lo vedremo sugli altari. Ma, Dio mio! Come è possibile che queste cose succedano a persone meritevoli e degne di migliore destino? Domanda inutile a cui nessuno sa rispondere. Spero che questo giovane abbia raggiunto davvero la felicità eterna e che la comunichi a chi cerca conforto e pace. Amen.
CORRISPONDENZA
da Luigi Zampieri a Andrea Zilio 10/02/2021 11:07
Caro Andrea
Ho letto la tua storia “Parole al vento”.
I pensieri che "sono in te” scorrono sempre fluidi e naturali dalla mente alla penna, complimenti e ti ringrazio per avermi scelto come confidente-depositario di essi e per l’amicizia che mi porti.
E’ vero, ci capiamo, ci intendiamo a meraviglia, parole tue. Forse perché, quasi contemporanei nella scuola, abbiamo assimilato dagli insegnanti di quei tempi, o forse le nostre comuni origini semplici, contadine, vicine alla natura ci accostano in una osservazione disciplinata, anche se curiosa e indagatrice sulle questioni della vita.
Le poesie riportate in questa “Storia” e magistralmente da te commentate, sono tutte a memoria anche nella mia mente e lo sono in modo indelebile.
Il vecchio Giacomo è stato da sempre, per me, il più grande dei poeti. Forse, riproponendo nelle tue pagine proprio il suo “Infinito” ti si è ripresentata la fatale domanda “può esistere qualcosa di infinito?” che più o meno corrisponde al perenne dilemma dell’uomo sull’esistenza di Dio.
Sembra quasi un tuo invitarmi ad esternare e condividere le mie idee in proposito.
I miei pensieri notturni sono molteplici e anche molto articolati finché rimangono pensieri ma la mia penna per esprimerli non è fluente e generosa come la tua e più di qualche mezza pagina non riesco a concretizzare. Forse mi mancano anche volontà e pazienza.
Ritornando al nostro “infinito”, le entità trascendenti come
infinito,
eternità,
immortalità,
universo,
aldilà,
miliardi di anni,
teoria del big bang,
miliardi di pianeti nell’universo,
vita in altri pianeti data ormai per scontata dalla scienza e sfasata anche di milioni di anni rispetto alla nostra, sulla terra,
inconsistenza dell’arco di vita dell’umanità rispetto al diagramma dei tempi dell’universo,
gli innumerevoli misteri delle religioni,
tanti altri dilemmi,
sono gli angosciosi punti di domanda che rendono sgomenti i “pensieri al vento” nelle nostre veglie notturne. Invidiabile chi, alla sera, appoggiata la testa sul cuscino, riesce a dormire tranquillo, alla larga dagli importuni pensieri.
I grandi filosofi di ogni tempo, sugli argomenti trascendentali di cui sopra, non hanno risolto molto di più della gente comune e non ci hanno lasciato niente di conclusivo. Hanno posto sempre ulteriori domande, senza dare risposte, se non definitive, almeno appena attendibili e sempre in contradizione fra loro.
Tu stesso, nelle “parole al vento” insisti sulla frase “nessuno è mai tornato indietro”, testimoniando la nostra perpetua incertezza.
Cosa dobbiamo pensare, cosa dobbiamo fare, cosa ci può rasserenare? A quale virtù ci dobbiamo appellare, non per dare risposte che nessuno è riuscito a dare, ma per rendere più accettabile e plausibile il “naufragare” nel mare dei nostri pensieri.
Delle tre Virtù Cardinali, la Fede, anche se cercata e perseguita, ci è stato insegnato fin da piccoli al catechismo, essere un dono e come tale non di tutti e chi, fortunato, ce l’ha ma azzarda la ricerca di risposte alle sue incertezze, alla fine teme e rischia di perderla.
La carità, virtù eccelsa per l’umanità è, delle tre virtù, la più terrena e tangibile ed è praticata anche e a volte maggiormente, dai non credenti, nelle sue varie forme (solidarietà, amore, tolleranza, accoglienza, fratellanza, generosità). Per esercitarla non c’è bisogno di credere, può portare gratificazione e appagamento ma mi sembra, anch’essa, non dare risposte ai nostri dubbi.
Rimane la Speranza, non tutti ce l’hanno, anch’essa è un dono e come la Fede, molti la perdono con ancora maggiore disperazione.
Se dovessi dire da quale virtù penso di essere maggiormente sorretto, rispondo sicuramente la speranza alla quale fortunatamente mi sento saldamente ancorato e che permette, non solo a me ma credo alla maggior parte degli uomini, di continuare ad alimentare l’aspirazione universale di infinito e di eterno da sempre aspettativa e miraggio dell’umanità.
Caro Andrea, ho consumato con fatica la mia mezza paginetta. Di più non voglio aggiungere se non scusarmi per queste mia esagerata sintesi e semplificazione delle enormi, universali questioni che nostro malgrado l’intelletto ci costringe ad affrontare continuamente, a mio timido e modesto parere, senza avere le risposte, ma con la ferma speranza di averle.
La morte di Alberto.
Un grande dolore per tutti. Un amico bravo e gentile. Un amministratore e politico esemplare. Una immensa perdita per la sua famiglia e per tutti.
Ho intenzione di compilare un suo profilo da inserire nel sito, tra le persone rilevanti del nostro paese.
A tale scopo, oltre ad usare le tante manifestazioni raccolte da giornali e media, sto chiedendo alle persone a lui in vari modi vicine nella vita, di intervenire con un essenziale, breve scritto che ricordi la persona, l’amico, l’uomo che Alberto è stato.
Lo chiedo anche a te, dopo aver avvertito la tua grande commozione nel ricordo di lui, riportato proprio in questa ultima tua “Storia” che troverai prossimamente nel “Sambruson”.
Ti auguro tante buone giornate di serenità.
Luigi.
da Andrea Zilio a Luigi Zampieri 10/02/2021 23:42
Caro Luigi,
la tua lettera articolata e densa di pensieri che mi sono cari, mi ha portato ristoro e serenità. Purtroppo in questo periodo, per tutti, sono rari o quasi scomparsi i contatti con le persone che conosci e che stimi. Le telefonate? Sono brevi, sempre le solite parole, le solte speranze, i soliti auguri. Quando capitano lettere come la tua ultima ti senti bene, sembra di incontrarsi dal vivo. Hai toccato, ti dicevo, temi a me cari, e non da ora. Soprattutto negli ultimi anni ti ho inviato meno racconti, meno poesie, ma più pensieri, riflessioni che sarebbe bello confrontare con altri, ma purtroppo non ci sono mezzi, non ci sono occasioni. E neanche persone. Pur con grande rispetto, con la nostra ragguardevole età, non mi trovo a parlare con interlocutori preoccupati di cose pratiche, pure nobili, ma che si sgonfiano, perché non possono eccitare, entusiasmare l’ascoltatore giovane che vede traguardi personali più ambiti e più sicuri. Ricordo ancora il modo casuale e fortunato con cui abbiamo iniziato a dialogare. Ricordi? In un gradevole incontro conviviale tra colleghi delle scuole elementari di Sambruson, presentai, invece che una torta, il dattiloscritto “Tre pini e un lupo”. Hai potuto leggerlo, grazie alla collega Renata, tua moglie, e mi chiedesti di pubblicarlo. Ne fui felice. Ecco la casualità! Da quel momento cominciammo a parlarci, a confrontarci, a comprenderci, come mai fino allora. Vuoi che ti dica? di tutti i maestri presenti allora a casa della maestra Menin, sono pochissimi ho rivisto, con nessuno ho più parlato nel mio lavoro, che, invece, tramite il tuo sito, ha visto migliaia di visitatori e lettori. Lo so, da giovane sono stato anch’io un fulmine di iniziative, perché era doveroso, era stimolante lo spazio ampio che ti vedevi davanti. Ora non sarei credibile per limiti fisici e per visioni in prospettiva. Ti ho raccontato tutto questo per confermarti come mi senta in perfetta reciproca sintonia con te. Ora godiamo meno di cose e più di ricordi, di pensieri, specialmente notturni, quando si è in solitudine, quando una folla di immagini, di amicizie, di storie vissute ti invadono e si accavallano senza averci pensato prima, senza essertelo imposto. E ti chiedi, perché? La tua bella lettera mi farà sognare giorni lontani, questa notte. I defunti a noi cari? “A egregie cose, il forte animo accendono, le urne dei forti …” caro amico Luigi. Questo io penso. Spero di avere la forza e lo stimolo per parlarti ancora a lungo.
Un sorriso e uno sguardo a capo chino.
Andrea
a cura di Luigi Zampieri
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Ultimo aggiornamento (Venerdì 26 Febbraio 2021 17:33)