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Il nero di seppia di A. Zilio

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SAMBRUSON. CULTURA, COSTUME, TRADIZIONI, AMBIENTE. - LETTERATURA A SAMBRUSON (II)

Il 22 ottobre 2019 alle 18.14 Andrea Zilio  ha scritto:
Caro Luigi,
ti invio un romanzo breve, iniziato molti anni fa e mai terminato. L’avevo dimenticato, altri pensieri erano intervenuti. E’ un lavoro impegnativo che mi ha tolto molte ore di sonno per scrivere, per cancellare, per sostituire, per precisare tornando indietro. Nelle mie storie c’è sempre uno scopo, c’è sempre una morale da spiegare e da sostenere. La spiegazione, come al solito la troverai nelle prime e nelle ultime righe. Spero che il romanzo possa abbellire il tuo  sito e il nostro paese che, con brevi scintille, ogni tanto appare. I capitoli, positivi e negativi, si alternano, ma alla fine ho cercato di far trasparire il significato che do alla vita: la vanità conduce al male, il perdono conduce al bene.
Spero ti piaccia.
Cordiali saluti
Andrea


Caro Andrea
Ho letto solo a tratti il  nuovo romanzo inedito che mi hai inviato e mi riprometto a breve di leggerlo in modo attento e completo. Non mi sono comunque sfuggite le tue qualità di sempre, la tua  fantasia e vena descrittiva, la continua ricerca del requisito morale nella vita, la tua solita fluida prosa semplice e scorrevole. Mi piace.
Grazie e cordiali saluti
Luigi



IL NERO DI SEPPIA

 

UNA  LOTTERIA

La bugia è come il nero di seppia che oscura, intorbida, confonde, crea un turbine, distrae, mimetizza, permette di prendere tempo. Sulla alterazione dei fatti si scrive la storia, benevola con i vincitori, mai con la verità. La bugia può salvarti la vita, direbbero la farfalla mimetizzata su uno spuntone di roccia o la trota tra la ghiaia del torrente o il bruco simile ad uno stecco. Vi sembra giusto?

Dipende, bisognerebbe spostarsi e guardare le cose con l’ottica dei predatori, pur loro esseri viventi. Mentire, fingere spesso significa sopravvivere. Mi viene da chiedere: è mai possibile che la bugia sia questione di vita o di morte o, semplicemente, di giustizia?

“Vedetevela voi, signori lettori, arrangiatevi! L’allegoria non si  spiega, si intuisce”

La farfalla mente mimetizzandosi tra le rocce assumendone le stesse striature; la larva di geometride imita il ramoscello di cui si nutre per ingannare i predatori; molti insetti simulano di essere morti o di essere terribili o trasudano sostanze puzzolenti e in questo modo si salvano; il passero che gonfia a dismisura le piume per apparire più grosso e aggressivo sconcerta quel che basta il cane apparso all’improvviso a raspare nel fogliame; l’esca viva appesa all’amo, suo malgrado, inganna l’astuta carpa che succhia dal fondo tutto ciò che si muove; mente l’uomo interrogato a bruciapelo.

“Lei, cosa farebbe con i trecento milioni di euro della vincita?”

“Farei beneficienza, aiuterei i poveri!” direi.

Sono promesse del momento, di chi non ha niente da dare o non sa cosa dire, di chi ancora non si rende conto.

Per tutta la serata la giornalista ha fatto la stessa domanda alle persone assiepate nel bar e in via Corsini alla caccia del vincitore al superenalotto: trecento milioni di euro, cifra immensa, record in Europa per  le vincite al gioco. Moltissimi degli intervistati hanno espresso la volontà di aiutare il prossimo, come se fosse quello il primo motivo che li ha spinti a tentare la fortuna.

La cronaca quotidiana mostra esattamente il contrario, quindi tra i presenti non c’era assolutamente il vincitore e chi parlava esprimeva più che altro un desiderio, una attesa nei propri confronti.

“Cosa farei se vincessi trecento milioni di euro?”

Napoleone Bordin, impiegato precario all’anagrafe comunale, si pose il quesito alle cinque di una  domenica mattina di giugno.

Pensava e parlava come se fosse al balcone di palazzo Venezia. Arrogante e saccente, così, all’improvviso. Tutto il contrario della sua figura esile e smarrita. Era stato un uomo potente, ormai ridotto in miseria. Albeggiava e appoggiato al davanzale, guardava in giardino stralunato. Aveva dormito male quelle poche ore. Si era svegliato di soprassalto da un sogno incredibile: aveva vinto una somma immensa al gioco, sembrava così vero! e nel dormiveglia non sapeva più come distinguere il fantastico dal reale.

Era nella sua abitazione condominiale alla periferia nord della città, zona abbastanza tranquilla con scarso traffico e verde pubblico ben distribuito, poco sotto la collina con i ruderi del castello. Tutti lo chiamano castello, perché dà lustro alla città, in realtà è un ammasso di rovine, covo di ricci, ramarri e talpe. Un merlo si dissetava da un vaso colmo d’acqua piovana lasciato per le ortensie, un ragno tesseva freneticamente la sua tela, a portata di mano, tra i rami di un ginkgo. Non era solo, c’erano già segnali di vita a quell’ora: il fischio di un treno lontano gli diede una scossa, poi dal campanile giunse chiaro e distinto il tocco della mezza. L’inquilino del piano di sopra, dorme con le finestre aperte e colto da un attacco di tosse non la finisce più.

Si rizzò in piedi. “Perbacco!” esclamò sorridendo.

Ora, completamente sveglio ricordò tutto. Nel bar di via Corsini, la sera prima, avevano festeggiato il fresco vincitore dei  trecento milioni al superenalotto, record in Italia e in Europa.

Non è il suo bar, da quella zona ci passa raramente, per caso. In televisione a notte tarda aveva riconosciuto molte persone fare le solite supposizioni sul vincitore anonimo e intanto tutti offrivano da bere e si facevano inquadrare dalle telecamere, il barista stappava prosecco a fiumi lanciando messaggi misteriosi al cronista

“Se lo conosco? anche se sapessi non ve lo direi, spero comunque si ricordi di me, come io mi ricordo di lui.”

“Perbacco!” esclamò nuovamente Napoleone.

“Dice di ricordarsi di me? Difficile, non c’era lui al banco.”

Rimuginava questi pensieri e rifletteva. Intanto un’altra piccola fortuna l’aveva avuta: era domenica, non doveva andare al lavoro, aveva tutto il tempo per organizzarsi. Rientrò, accese il televisore senza volume e per la ennesima volta controllò la sua schedina, la prima giocata in vita sua. Non c’erano dubbi, i sei numeri allineati erano gli stessi della sua ricevuta da un euro. A dire il vero non sa nemmeno come si gioca. Aveva scelto a caso una schedina precompilata, lo facevano anche altri, mentre sorbivano un caffè. Quel venerdì sera aveva avuto voglia di fare una bella passeggiata, si era messo in tuta e a passo svelto si era spinto, per curiosare, fino in via Corsini, un quartiere nuovo, con molte case popolari e nuovi servizi distaccati dell’Asl, là sorgerà anche il nuovo parcheggio degli autobus, zona a rischio di notte.

Adesso, era ben sveglio, si pose la domanda che tante volte aveva sentito fare dai colleghi in ufficio: cosa farei se vincessi al lotto? Ah, mi basterebbero centomilioni di vecchie lire! E quali erano i loro sogni? I soliti viaggi in paesi esotici, la macchina nuova, la chiusura anticipata del mutuo, un aiuto ai figli, un po’ di beneficienza. Nessuno di questi interessi era suo, né altri ne aveva. In corpo aveva però tanta rabbia, repressa da lunghi anni. Molti, troppi si erano presi gioco di lui. Si ripose la domanda aggiornata e corretta.

“Cosa farò con i trecento milioni di euro che ho vinto?”

Scoppiò in una gran risata e si preparò una camomilla. Si sarebbe preso delle grandi soddisfazioni, ecco la risposta. Il piccolo impiegato di terza categoria, che mai sarebbe stato promosso perché era eternamente provvisorio, fallito e scapolo, con parenti lontani che si ricordavano di lui solo quando lo vedevano allo sportello per ritirare un certificato. Si salutavano con un sorrisino teso, scontato.

“Come va?”

Lo dicevano entrambi e nessuno rispondeva, si salutavano perché lo facevano tutti appena serviti, e questo bastava per qualche anno.

Napoleone era solo al mondo in compagnia di un gruzzolo pari a quasi seicento miliardi di vecchie lire. Ragionava ancora con la vecchia misura. Incomprensibile, imprevisto, ma rassicurante. Decise di seguire l’esempio della seppia.

I funerali di Napoleone Bordin si svolsero una mattina di luglio, in piena canicola, alle nove del mattino per evitare l’afa. Fu una precauzione inutile, c’erano pochi intimi alle esequie, qualche collega, un consigliere comunale in rappresentanza della amministrazione, due lontane zie, una coppia di turisti stranieri venuti senz’altro a curiosare sugli usi e i costumi di questi luoghi e a vedere una tela attribuita alla scuola del Tiepolo, qualche altra pia donna, che partecipa comunque a tutte le cerimonie funebri.

Alla omelia il sacerdote officiante disse poche ma sentite parole; almeno questa fu l’impressione del ragioniere Giacomo Marcolongo, capoufficio. L’anziano impiegato comunale era sinceramente addolorato per la fine di quell’uomo sfortunato che aveva cercato di aiutare in tutti i modi con i turni, con gli orari, con i riposi, con le straordinarie. Bordin era  appena rientrato in servizio dopo due settimane di ferie trascorse all’estero per distrarsi, ma lui era convinto che fosse stato fuori per curarsi, e qualche giorno dopo era successa la disgrazia.

“Povero figliolo!” Negli ultimi tempi Bordin accusava forti mal di testa, gli Ecg a cui si era sottoposto tuttavia non avevano rivelato niente di anomalo, ma questo invece di sollevare il ragioniere Marcolongo, lo avevano preoccupato ancor di più. Che non ci fosse sotto qualche malattia più seria? Alla fine Bordin era sembrato cedere alle insistenze del suo capoufficio e gli aveva comunicato una assenza di quindici giorni per ferie all’estero, ma il brav’uomo aveva capito benissimo che era per accertamenti clinici. Poi il suo impiegato era rientrato fresco e pimpante e aveva ripreso il suo lavoro con il solito zelo.  Non gli aveva chiesto niente sulla sua salute, ma non sarebbe mancata l’occasione e invece? ecco la disgrazia!

Il sacerdote ricordò la giovane età del defunto, appena trentotto anni, la precarietà del nostro passaggio su questa terra, l’imprudenza dell’impiegato modello, forse scivolato accidentalmente nelle acque del fiume, forse gettatosi spontaneamente, poiché i suoi vestiti erano stati trovati ripiegati sull’argine nei pressi della gora ai Vecchi Molini, il suo corpo, nudo e irriconoscibile, sfigurato dagli ingranaggi era stato trovato dopo alcuni giorni, in seguito alla denuncia della sua scomparsa da casa e la ingiustificata assenza dal posto di lavoro. Allarme dato in ritardo, si lamentò qualcuno.

“In ritardo rispetto a cosa?” si è chiesto il parroco. Dio comunque è presente e non ci abbandona mai, non abbandonerà neanche il nostro caro parrocchiano, anche se la sua imprevista  e improvvisa dipartita è per noi tutti un gran mistero, ci lascia sgomenti, nell’angoscia. Quanti cose del resto sono un mistero non solo per gli altri, ma anche per noi stessi? Preghiamo. I pochi presenti  si distrassero e fecero un rapido esame di coscienza, dimenticando fin dagli incensi colui che andavano a seppellire.

Per due settimane il caso della tragica scomparsa di Napoleone Bordin fu oggetto di discussioni e di commenti, non tanto per l’uomo, ma per quel gusto che spinge le persone a preferire un giallo a una commedia leggera, per la curiosità e la soddisfazione di scoprire il perché, di svelare il  mistero.

Le supposizioni furono infinite. Qualcuno ricordò il fallimento della sua impresa di carpenteria e la assunzione per carità in comune come collaboratore esterno, perché a uno come lui erano interdetti i pubblici concorsi. Qualche altro cercò se avesse avuto una donna o, in alternativa, se avesse avuto il vizietto contrario. Ci fu perfino chi scandagliò per trovare eventuali nemici, eventuali sgarbi fatti a potenti, ma niente di niente. Poi vennero le ferie e su Napoleone Bordin scese un silenzio davvero tombale. I lontani parenti applicarono sulla lapide un fiore di metallo a imperitura e definitiva memoria, mai più sarebbe passato qualcuno a lucidare gli ottoni, ad accendere un lumino, a deporre un crisantemo il due novembre. La dimenticanza dei defunti è veloce per tutti. Figuriamoci per lui! Non prima però che qualcuno facesse della pesante ironia su un personaggio, perché tale era stato prima di cadere così in basso, e che portava cotanto nome..

Al Golf club è iscritta la crema degli imprenditori della città, l’élite della borghesia locale, è un luogo di frequentazioni, di scambio di favori e di informazioni, di amicizie da coltivare o da inventare, più che luogo di svaghi è luogo d’affari. Potrà sembrare strano, ma il suicidio di Napoleone non vi è passato inosservato, anzi è l’unico luogo dove, per un motivo o per un altro, di lui si è  continuato a parlare fino a Natale, poi più nulla. In particolare l’ingegnere Giorgio Farinati ne ha parlato molto, addossandosi quasi una colpa per quello che era successo, anche se si capiva benissimo, dal contesto dei suoi discorsi, che l’intento era ben altro.

Bordin e Farinati, coetanei, cresciuti insieme, stessi studi, stesse amicizie, stesse ragazze, laureati in ingegneria, finito il servizio militare di leva, avevano costituito una società, la Fa.Bor. Spa, per la lavorazione del ferro, produzione di tubi, ponteggi e assemblaggio vario di pezzi di carpenteria,con una trentina di dipendenti.

Solo qualche anno anni prima lo sviluppo dell’impresa era stato citato e portato ad esempio dai giornali economici regionali per la capacità manageriale dei due tecnici. Era l’inizio di un boom economico che avrebbe contagiato e favorito la nascita dell’indotto, di tante altre piccole unità produttive con favorevoli ripercussioni occupazionali sul territorio.

Farinati si era sposato, Bordin no. Farinati aveva sposato una compagna di studi, Alga Noemi Federica Codevigo di nobile e ricca famiglia veneziana che, con un cospicuo aiuto economico, aveva dato un significativo impulso alla Fa.Bor. Spa. Poi la società era stata sciolta. Farinati aveva avuto fortuna. Bordin, pur essendo più intraprendente, in poco tempo era fallito.

Il Banco di Credito Rivierasco non gli aveva dato scampo. Prima gli avevano aperto i fidi, lui si era esposto acquistando macchinari e scorte, poi senza preavviso e senza un apparente plausibile motivo, l’istituto aveva chiesto il rientro. Impossibile in quella fase espansiva e di investimenti. Cominciò il disastro. Il fallimento fu la conclusione naturale. Neppure la pubblica amministrazione era intervenuta per salvare i posti di lavoro, perché i licenziati furono assunti da altre imprese, compresa la Farinati Srl che si ebbe anche un pubblico encomio. Era opinione diffusa, che in tutto questo trambusto ci fosse lo zampino della famiglia Codevigo, socia di maggioranza nel Banco di Credito Rivierasco. Bordin fu assunto con incarico trimestrale rinnovabile, per commiserazione, visti i suoi meriti come imprenditore e creatore di posti di lavoro.

Ora era morto e tutti si mettevano il cuore in pace. Se qualcuno aveva dei rimorsi o dei rimpianti questo era il momento di dimenticare tutto e si andare avanti.

Anche Federica Codevigo, in cuor suo, fu contenta che la storia di Napoleone Bordin si fosse conclusa per sempre. Aveva odiato quel ragazzo timido, di cui si era invaghita. Corretto e stupido, con le ragazze non ci sapeva fare, fin dai tempi del liceo, quand’erano stati  compagni di classe. Lei lo aveva più volte umiliato, lui in un attimo di reazione impulsiva l’aveva pesantemente offesa.

“Finirai male, Federica.”

Non erano poche le persone che credevano fosse stata lei, con la sua famiglia, a condizionare la banca per farlo fallire. Ma questa è un’altra storia.

 

I SIGNORI BOURRICOTS

 

Denise e Prosper Bourricots, appassionati di archeologia, sono innamorati della Sicilia e della Toscana, ma in particolare del Veneto. Stanno visitando i piccoli musei che ogni città è orgogliosa di avere e di incrementare con nuovi reperti. e pochissimi fondi. Si sa che in Italia basta scavare per fare ritornare alla luce del sole tracce di storia di popolazioni antiche. Hanno chiesto udienza all’assessore alla cultura Leone Massari per proporre la donazione al comune di un edificio dignitoso adatto a raccogliere tutti i reperti archeologici scoperti nel secolo scorso in vari siti della gronda lagunare.

Si tratta di mettere d’accordo le gelosie e le passioni dei piccoli appassionati curatori locali, le normative, le prescrizioni, il parere della Soprintendenza ai beni archeologici, il Ministero dei beni ambientali, le finanze degli enti locali.

L’assessore è cortese con gli ospiti, accoglie con attenzione e con favore le loro proposte prima di tagliare netto il discorso dicendo chiaramente che non ci sono fondi da distrarre.

Fece sfoggio della sua cultura di terza  media.

Monsieur, l’argent fait tout? Et bien, nous n’avons pas d’argent.”

Ha la netta sensazione di avere di fronte persone abituate a dare ordini in casa d’altri. Il signor Bourricots non fa una piega.

“Se è questo il problema, non esiste problema, voi procurate le autorizzazioni e la mia famiglia procura i fondi, come voi dite.”

L’assessore è combattuto  tra l’idea di  stare perdendo il proprio tempo e lo scoop, potrebbe essere un ottimo colpo nella successiva campagna elettorale. Ne parlerà al sindaco, promette, intanto la commissione urbanistica  svolgerà una approfondita indagine per reperire un edificio idoneo.  Cerca di prendere tempo, si fa lasciare il loro recapito.

“Non c’è bisogno che facciate delle ricerche, mio figlio ha già individuato il sito e siamo disponibili ad affrontare le spese per ricostruire il vecchio castello sulla collina, lo chiamate così, mi sembra.”

L’assessore chiama il suo segretario e gli ordina di annullare tutti gli impegni, si accomoda alla scrivania e scruta attentamente il suo interlocutore.

“Il castello di Montecucco?”

“Esattamente.”

La signora Denise Bourricots, fino allora silenziosa, interviene con tono deciso e autoritario. Ha l’atteggiamento della persona che chiede cortesemente qualcosa che si potrebbe agevolmente prendere senza permesso. Ma così non è, discutono. Massari prova istintivamente una naturale antipatia per i suoi ospiti, fa di tutto per dissimularla, l’affaire potrebbe essere interessante. La donna soprattutto non gli piace.

“E’ complicato, molto complicato. Il piano regolatore ha destinato quell’area a parco naturale. Vedete, signori, già enti, famiglie con titoli nobiliari, i Codevigo, ad esempio, hanno avanzato richieste allettanti alla amministrazione per acquisire la rocca, ma il consiglio comunale ha preferito non dare a nessuna grande famiglia l’opportunità di dominare, anche come immagine, la città da lassù. Certo una istituzione culturale francese, anzi europea, immagino, avrebbe una diversa dimensione, non so se mi spiego. Come si chiama l’istituzione che voi rappresentate?”

“Non l’abbiamo detto, signor assessore. Non c’è alcuna istituzione culturale dietro alla nostra offerta. L’offerta di acquisto ad una eventuale asta la faremmo noi, come famiglia, Denise, Prosper e Narcisse, nostro figlio, per costruire un museo storico in grado di raccogliere in un unico sito i reperti archeologici rinvenuti negli scavi in territori della gronda lagunare, ora sparsi e incustoditi in locali di fortuna o abbandonati.”

“Ma davvero la vostra passione, il vostro attaccamento a questi luoghi  è così grande?” Massari aggrottò la fronte, incrociò le braccia, le mise sul tavolo e per poco non ci posò sopra il mento, immaginando una lunga attesa alla sua imminente domanda.

“Perché?”

“E’ semplice, signore, se non sarà qui, troveremo altrove, il Veneto è grande.”

La signora Denise si alzò lentamente. Il marito si alzò un attimo dopo, senza fretta prolungando il tempo di riflessione di cui certamente l’assessore aveva bisogno. Provò una certa fatica a districare le braccia e a ricomporre la sua persona. Non aveva ottenuto alcuna risposta, anzi, i suoi interlocutori avevano rilanciato.

“Possiamo rivederci, signori?”

“Tra otto giorni, qui, a quest’ora?”

Prosper, al contrario della moglie, è sempre sorridente e disponibile, soprattutto molto concreto. Le sue risposte spesso sono ulteriori domande.

Massari è un politico avveduto, ha compreso che quelli stanno interpretando il gioco delle parti, però l’affare è dannatamente interessante, bisogna parlarne subito in giunta, non si possono mettere alla porta personaggi del genere. Intanto farà le sue indagini. I signori francesi hanno lasciato le loro credenziali, il loro indirizzo a Lione, le referenze universitarie e bancarie, l’elenco delle pubblicazioni scientifiche.

“D’accordo, in municipio, tra otto giorni.”

La collina a nord della città appare sulle cartoline illustrate ancora più verde e selvaggia, tuttavia è terreno boscoso accidentato e abbandonato che avrebbe tutt’altro aspetto se fosse coltivato da mani esperte, se fosse curato come dovrebbe essere un parco, ma il comune non ha i mezzi sufficienti.

Sulla vetta, che si raggiunge da un’unica via di accesso in mezzo a lecci e ad ippocastani centenari, c’è un ammasso di rovine, resti di quello che sembra essere stato un fortino e che tutti chiamano il castello, ma probabilmente non è mai stato tale. Ai più piace credere e far credere che sia stata la dimora di un crociato al seguito di Goffredo di Buglione, il quale, al ritorno dalla Terra Santa, si sarebbe fermato qui. Favole nate per scherzo, che con il passare degli anni, dei secoli, diventano possibili, realistiche

Molti hanno adocchiato l’area per costruirvi un ristorante di lusso o un albergo a quattro stelle, ma i veti reciproci e le opposizioni sono stati sempre feroci, soprattutto da parte dei fogli di stampa locale, quasi sempre in mano a élite o imprenditori camuffati da società di comodo, spesso concorrenti, che si combattono a colpi di fioretto, prima che di milioni, per cui non se ne era mai fatto nulla.

La storia del crociato è antichissima, inventata. Si è nel tempo consolidata, soprattutto in chi ha raccolto i racconti, le tradizioni mascherate per accreditare meglio origini antiche. Le ragioni commerciali hanno fatto il resto. Così, un parto di fantasia cantato da qualche menestrello in occasione di una sagra o di una festa patronale, sì è trasformata nel tempo in una credenza che ora nessuno osa mettere più in discussione, anzi al crociato è stato dato addirittura un nome: conte Cristiano di  Montecucco, da cui il nome della collina nelle carte topografiche, nelle mappe stradali, negli atti notarili.

Alcuni anziani ricordano ancora quando i cantastorie raccontavano nei paesi le gesta fantasiose del conte di Montecucco in Terra Santa indicando su grandi fogli dipinti le imprese dell’eroe. La gente offriva volentieri le monete non tanto per il canto e la musica che accompagnavano la storia, quanto per l’orgoglio si sentire rinverdita o attribuita una tradizione di cui si sentivano eredi e partecipi. E’ anche questa una delle tante storie inventate da associazioni amatoriali o culturali, di cui con il tempo ci si innamora, di cui non si può più fare a meno, perché intanto hanno stimolato manifestazioni vere, fiere sponsorizzate con una loro cronologia. Sono storie che, per pudore, di solito cominciano così: narra la leggenda...

L’assessore Massari si diede ventiquattro ore di tempo per riflettere prima di agire, non voleva fare figuracce né lasciarsi sfuggire la inattesa occasione di essere protagonista in una iniziativa di altissimo significato culturale e propagandistico.

 

LUIGINO SCRINZI

 

Sono trascorsi cinque mesi dall’evento. Erano arrivate troupes televisive un po’ da tutta Europa, persino dal Giappone, per intervistare il vincitore della straordinaria posta al concorso legato all’estrazione dei numeri al superenalotto. In città avevano festeggiato tutti, al bar avevano aperto bottiglie di prosecco a non finire, tutti avevano brindato non si sapeva a chi, perché, tra i festeggianti, il vincitore non c’era di certo e ognuno sì era pagato il conto. Il vincitore non si trovava, né qualcuno, dopo centocinquanta giorni, si era fatto vivo a rivendicare la favolosa somma. Molti, senza alcun motivo specifico, avevano sperato di trarre qualche beneficio, qualche vantaggio, qualche aiuto. Il comune aveva sperato che a vincere fosse stato qualche imprenditore  disposto a investire nel territorio con la conseguente creazione di nuovi posti di lavoro. Il vicario foraneo aveva sperato molto che il vincitore fosse stato un buon cristiano disposto a offrire una cospicua somma a vantaggio della scuola materna, del cinema parrocchiale, della torre campanaria in disordine, dei poveri del paese. I poveri del paese, non molti in verità, non avevano sperato in niente, perché oltre la carità non avevano mai visto altro.

C’è un certo panico, ora, dopo che il barista, avuto un barlume, ha lanciato l’allarme ipotizzando il vincitore.

“Luigino Scrinzi.”

Mendicante da sempre, ospite della locale casa di soggiorno per anziani poveri, ottant’anni, era sparito qualche settimana dopo l’estrazione della sestina vincente. Il vecchio  frequentava il bar, nelle sue libere uscite, e i suoi magri risparmi li aveva sempre investiti in bicchieri di vino rosso, qualche volta, ma quando? aveva acquistato una schedina precompilata del gioco.

Che fosse stata quella giusta? Ecco un’altra favola simile a quella del conte di Montecucco. Poiché le coincidenze combaciavano e convenivano, si stabilì in tutti la convinzione che Luigino, fuori di testa per la vincita pazzesca, fosse sparito o fosse capitato in mano a qualche compagnia di lestofanti i quali non facevano altro che attendere che gli animi si calmassero per poi incassare l’ingente tesoro. E Luigino? Di lui si facevano tristi presagi. Tristi presagi che furono confermati, quando, verso Natale, si seppe che una società finanziaria di Milano, con sede legale a Vaduz nel Liechtenstein, la Waterloo Ltd, aveva  incassato i trecentomilioni di euro direttamente presso il ministero delle finanze a Roma. Tutto regolare, tutto alla luce del sole, con tanto di notaio, senza banche di mezzo a fare ombra o scudo. Del vecchio nessuna traccia. Si iniziarono gli atti per morte presunta. La stampa si scatenò nella caccia al vincitore, ma cozzò contro l’impenetrabile muro della privacy.

La delusione fu grande, soprattutto perché la curiosità era grande. Nessuno ormai sperava più di vedere gocciolare su di sé qualcosa della vincita, anche se, per una iniziativa anonima e scherzosa, da poco tempo era stato approntato un albo, o libro delle grazie come fu subito battezzato, in piazza Solidarietà, dove i cittadini erano invitati ad esprimere i loro desideri e i loro bisogni, sperando nell’inverosimile aiuto dello sconosciuto vincitore. Per scaramanzia, per gioco o in buona fede cominciarono ad apparire le prime richieste di aiuto. Che ci fosse sotto l’impronta stravagante e irridente di un personaggio prestigioso non c’erano dubbi, personaggio ricco e potente, di nuova leva, perché nessuno dei maggiorenti della città era capace di simile fantasia, di tanto buontempo e prodigalità da paragonarsi al fantomatico signore di Montecucco. Tra i vecchi soci del club del Golf era opinione diffusa che si trattasse di un ben congegnato bluff, e sorridevano sotto sotto come chi finge di sapere, ma di non poter dire.

Il grande tabellone, una bacheca, era apparso per caso, misteriosamente, in piazza, una mattina. Nessuno seppe chi fosse stato a piazzare il cavalletto. I vigili diedero disposizione all’ufficio tecnico di rimuoverlo, perché non autorizzato. In poco tempo si era arricchito di fogli speranzosi, imploranti, vogliosi di farla vedere a qualcuno, ma anche di burle e scherzi. La gente attraversava la strada, si fermava volentieri davanti al libro aperto su cui si ammonticchiavano pensieri reconditi, richieste, ma anche proposte.

“Manca l’autorizzazione? Provvediamo subito.”

Il sindaco De Marchi la concesse subito con una ordinanza urgente.

Sarebbe stato impopolare togliere quel tabellone dove molti cittadini, anche rispettabili, lasciavano le loro frasi, le loro invocazioni, i loro sberleffi. Il tabellone aveva un tema: riceviamo le richieste e le lagnanze dei cittadini che desiderano essere aiutati o di sostenere le spese per ottenere giustizia, liberato dai soprusi subiti da chicchessia. Firmato: il conte di Montecucco.

Tutto ciò consolidò ancor più la storia del crociato. Da questo momento nessuno più dubitò. Quanto poco ci vuole per cambiare una invenzione, una credenza, in una verità!

La proposta era allettante e provocatoria, troppo interessante e troppo intelligente per essere opera del buon Luigino, presunto miliardario, che ormai tutti piangevano.

“Chi ci sarà mai dietro a tanta sfida?” Era questo il nuovo slogan.

“Perché il vincitore, se tanto ci tiene all’anonimato, in questo modo provoca la curiosità già abbastanza allertata della gente?”

C’erano anche gli scettici che sghignazzavano alle spalle di coloro che si facevano allettare dalla provocazione e andavano ad affiggere il loro desiderio, in attesa di aggiungervi il loro ringraziamento per grazia ricevuta.

Del tabellone, subito chiamato “libro delle grazie”, si discuteva ovunque.

L’intuizione giusta l’ebbe il sindaco:

“Mettiamola sotto forma di una promozione turistica, chiunque abbia avuto l’idea merita un elogio.”

Sperava che in qualche modo gli autori della goliardata si facessero vivi, sperava addirittura che qualcuna delle richieste venisse accolta dai promotori per avvalorare il mito del favoloso signore di Montecucco  In giunta decisero di stanziare una somma in bilancio da spendere una volta all’anno a favore dei cittadini meno abbienti che non avessero trovato risposta alle loro richieste.

“Una manna!”

Il sindaco ripeteva in continuazione la frase biblica. La storia del crociato si arricchiva non solo di parole, ma anche di carte con bolli e timbri, di ordinanze, di iniziative benefiche, perché alcuni dei postulanti erano stati incredibilmente soddisfatti. Avevano ottenuto quello che chiedevano.

Fu anche per questi motivi che, in concomitanza con le richieste del suo assessore ai lavori pubblici di rivedere il piano regolatore, il sindaco sollevò la questione in consiglio comunale, con voto contrario delle opposizioni; anche se erano d’accordo, perché in politica così si fa.

“Dobbiamo dare vita a questa area abbandonata della città.”

Il desiderio di vedere le pietre e i macigni, le rocce e gli scavi centenari della collina trasformarsi nel castello su cui tutti avevano sempre fantasticato, aveva contagiato non solo la borghesia, ma anche la gente comune. Non parliamo degli studi tecnici  che già si consorziavano per offrire progetti e dati planivolumetrici in scala, quale concorso gratuito di idee, all’esame della commissione urbanistica e a quello dei munifici signori Bourricots considerati ormai cittadini onorari.

Ma con grande scorno degli architetti locali, la commissione scelse il progetto presentato da uno studio tecnico di Milano, su sollecitazione degli stessi mecenati. L’edificio pur maestoso e imponente, disegnato su base quadrata in vetta alla collina era tuttavia tutt’altro che un castello, ma piuttosto una villa con abitazione, foresteria, giardini, parco. Tutti gli spazi a piano terra erano destinati a museo. I Bourricots erano non solo cultori d’arte e di storia, ma si rivelarono anche esperti conoscitori delle leggi e delle norme urbanistiche locali, dei veti e delle indicazioni del ministero dei beni ambientali, della sovrintendenza ai beni archeologici e mai avrebbero proposto delle soluzioni architettoniche contrarie al buon gusto e ai vincoli paesaggistici. Il loro progetto, studiato nei minimi particolari, non incontrò ostacoli e ottenne alla fine l’approvazione unanime in consiglio comunale, fatto inconsueto e sorprendente. La cerimonia della posa della prima pietra per la costruzione del castello, o meglio del primo picchetto per delimitare le fondazioni, ebbe luogo venerdì 15 dicembre.

Il sindaco, persona avveduta e scaltra, ma superstiziosa, tentò fino all’ultimo di anticipare di un giorno per evitare gli scongiuri e le credenze(le del detto sulle opere iniziate di venerdì che non finiscono mai, ma non fu possibile.

I Bourricots, che dovevano partire per la Toscana per assistere al rinvenimento di una tomba etrusca, l’ebbero vinta. Il sindaco tuttavia la spuntò su un altro fronte.  In tutti i documenti la villa doveva essere definita “castello”. La bugia serviva alla cittadinanza e tutti la approvarono. Un po’ alla volta il termine sarebbe passato come obbligatorio e insindacabile. I francesi non fecero una piega, anzi  si arresero facilmente alle consuetudini e alle esigenze locali.

La convenzione tra le parti, stilata alla presenza del notaio Giampietro Valdemarin, stabiliva che la collina era data in comodato gratuito ai Bourricots per cento anni, dopo di che tutto il complesso sarebbe stato donato alla città. Ad una sola e unica condizione, che intanto fosse insediato il tanto atteso e sospirato museo archeologico della terraferma veneziana.

Al sindaco esibirono adeguate garanzie finanziarie dimostrando di disporre di certificati di deposito e di fidejussioni  bancarie per un ammontare di trenta milioni di euro.

I Codevigo si opposero con tutte le loro forze al progetto, non perché non lo ritenessero degno della città, ma perché impediva la realizzazione delle loro ambizioni.

Già il nonno, padre dell’attuale capostipite Giovanni Carlo Antonio, aveva tentato in passato di impadronirsi legalmente della collina per costruirvi una piccola reggia familiare, una grande villa, stile palladiano a sigillo di un secolo particolarmente florido per la famiglia. Tuttavia, pur essendo stato un importante gerarca del regime fascista, il suo sogno non era stato assecondato, anzi era stato bocciato in alto loco, con suo grande dispiacere e scorno.

Poi negli anni della ricostruzione e del centrosinistra, Antonio era stato importante esponente doroteo e aveva ripreso il disegno paterno, ma inutilmente. Ebbe anzi dispiaceri e denunce per tentata corruzione di pubblici ufficiali. Tutto era finito nel dimenticatoio non appena aveva rinunciato ai suoi progetti. La concorrenza era spietata, c’erano pool di banche, di industriali, di calzaturieri che miravano di impadronirsi della collina per costruire ristoranti e alberghi.

I Codevigo, da due secoli, mantengono la tradizione di farsi battezzare con tre nomi, però quello autentico è l’ultimo. Contro ogni norma e regola. L’estremo tentativo di aggiudicarsi quei terreni demaniali, ormai divenuti discarica a cielo aperto, era stato di Francesco Pier Maria, il figlio di Antonio e fratello maggiore di Federica. Giovane e brillante avvocato che, coerentemente con la secolare politica lungimirante e prudente della famiglia, era ora assiduo militante progressista e in tale veste sedeva in consiglio comunale. La famiglia sapeva sempre cogliere il segno dei tempi per restare a galla, pretendendo per sé non solo il predominio e la soggezione degli altri, così come esigono da sempre il denaro e il potere, ma anche il rispetto, il che a volte è un abuso se non una prevaricazione.

L’avvocato Pier Maria esigeva dai suoi colleghi consiglieri anche ciò che era scandaloso chiedere ossia il privilegio di approfittare della sua carica per ottenere la cessione della collina, non per niente, si capisce. Avrebbe riconosciuto qualcosa a chi avesse aiutato. Il partito però non poteva permettersi uno scandalo del genere troppo palese, per cui l’ultimo rampollo dei Codevigo era stato stoppato come i suoi padri. Questo era stato uno sgarbo difficile da digerire. Per tale ragione aveva disertato il consiglio comunale quando fu deciso di realizzare il progetto Bourricots. Federica non si era mai schierata politicamente, ma era pronta a farlo, qualora i progressisti fossero stati sconfitti alle prossime elezioni e avessero vinto i conservatori.

I Codevigo avevano vissuto le glorie e il tramonto della Serenissima, sempre da protagonisti. Nell’ultimo secolo però vedevano costantemente bloccate le loro ambiziose pretese, pur essendo ai vertici del potere. In famiglia c’era sempre un rampollo pronto a cambiare politica e schierarsi con la classe dominante. Molte altre famiglie di recente ricchezza, ormai potevano competere con loro senza remore e senza timore. Tuttavia con la loro forte presenza nell’azionariato della banca locale potevano ancora condizionare la vita e la morte di tante piccole imprese e questo contribuiva a mantenere alti i loro livelli di superbia e di arroganza. Inoltre Pier Maria Codevigo aveva fatto notevoli e fortunati investimenti nel settore delle telecomunicazioni traendo profitti che andavano ben oltre le più rosee previsioni.

La solidità del potere di una persona o di una istituzione si misura anche dal grado di protervia e di spregiudicatezza che si poteva permettere. Ecco, la persona che in casa Codevigo godeva di maggior prestigio e credito, per la sua abilità di agire con flemmatica alterigia e palese sprezzo delle regole, era senz’altro Federica. Vedeva che funzionava e non si tirava indietro, aggiungendo alla sua indubbia avvenenza quel tocco di fierezza che la rendeva ancor più temuta e ammirata.

Il giorno del taglio del nastro per l’avvio dei lavori sulla collina Montecucco erano presenti, oltre alle autorità e ai maggiorenti della città, il provveditore agli studi, il direttore della banca artigiana, il parroco monsignor Battista Perico, i presidenti delle associazioni produttive, culturali e di volontariato.

Federica Codevigo era presente in qualità di presidente della associazione ambientalista “Salviamo la Terra”.

L’egoismo familiare traboccava lieve e imperturbabile in tutte le loro iniziative, anche in questa che sembrava di semplice beneficienza. Volevano partecipare a qualunque iniziativa. La terra era da salvare, ma la loro. Tali sottigliezze non sempre sono colte dalla gente comune che, inconsciamente, spesso parteggia per chi non dovrebbe. Quando interruppe il discorso del sindaco innalzando un vistoso cartello che inneggiava alla natura da conservare  e non da violentare con colate di cemento, invece di essere allontanata, fu applaudita. Fu tutto inutile ugualmente, perché il programma proseguì con la benedizione del parroco e la posa della prima pietra. I politici locali però si accorsero che i Codevigo avevano in serbo qualcuno di emergente sui banchi dell’opposizione. Chiunque vincerà le prossime elezioni amministrative sappia per tempo che tra le sue fila avrà comunque un rappresentante della famiglia.

Ciò che stupiva nei signori Bourricots era la convivenza nella stessa persona di un elegante tratto di signorilità e la modestia del loro modo di vivere quotidiano. Alla pensione “Casa Giulia” dove alloggiavano erano conosciuti per la loro riservatezza e la loro cortesia. Incontrandoli alle cerimonie ufficiali o nelle riunioni in municipio, l’assessore Massari provava una certa soggezione per la loro indubbia cultura e per quell’aria di sfida, quel modo distratto di trattare affari importanti come se non lo fossero. Questo atteggiamento, in particolare della signora, lo metteva in condizione di forte disagio. Non aveva potuto sottrarsi, al loro invito a cena per  discutere alcuni dettagli e per festeggiare in tutto relax il buon inizio del grandioso progetto cittadino di cui  loro tre, sia pure con ruoli diversi, erano i protagonisti.

La cena fu di una semplicità disarmante. In municipio erano abituati a ben altro trattamento quando invitavano gli ospiti. Arrivarono tre minestrine di verdure, tre minestrine? semplici lavande, eppure la signora Bourricots ebbe la capacità di imbastire una conversazione con il marito di ampia visione sulla salute, sul mangiar leggero di sera, sui benefici delle erbe sapientemente scelte.

“C’è una punta di salvia in più, Prosper, non ti sembra?”

“A voler essere pignolo c’è un pizzico di sale che poteva essere risparmiato, per il resto, mi sembra buona.”

“La pastina è leggermente scotta, non le sembra, assessore?”

Massari aggrottò le ciglia non sapendo che dire, inghiottiva qualcosa che gli dava il voltastomaco. Scosse leggermente il capo per cui ognuno poteva interpretare la risposta come voleva. Per secondo portarono un po’ di  spinaci cotti al burro e una fettina di vitello tonnato, trasparente, tre grissini a testa.

“Preferiamo stare leggeri, alla sera.”

“Indubbiamente, si dorme meglio” azzardò l’assessore. Tagliò corto per dare alla serata un’altra piega.

“Non è detto.”

Denise ricordò una brutta notte a Tarquinia. Erano stati a visitare un museo etrusco.

“Avevamo cenato leggero anche quella sera, eppure fu una nottata che non le dico.”

“E’ vero, cara, avevano abbondato con il pepe.”

“Quando conosceremo il professor  Narcisse?” chiese di punto in bianco l’assessore.

“Noi beviamo acqua di fonte, ma se lei desidera un buon bicchiere di vino non faccia complimenti.”

“Per carità, preferisco anch’io acqua fresca non gasata.”

Il locandiere portò una caraffa d’acqua fresca dell’acquedotto cittadino, ricca di cloro, che Massari usava appena per innaffiare le rose. Fece loro compagnia in attesa che si passasse a discorsi seri.

“Nostro figlio arriverà presto, molto presto.”

Prosper Bourricots passò insistentemente la salvietta sulle labbra asciutte.  Mangiarono una albicocca sciroppata  a testa.

“Prende il caffè, assessore?”

“Volentieri.”

Vedeva concludersi quella finzione di cena, che tanto preoccupava la digestione dei suoi anfitrioni, e l’inizio della conversazione che tanto lo interessava.

“Un caffè per il signor assessore” ordinò Prosper Bourricots.

“Nostro figlio Narcisse sarà qui tra qualche giorno, per Natale.”  Denise rispose al posto del marito che tergiversava.

“Lo speriamo.”

Prosper tossicchiò più volte, come se si dovesse liberare da chissà quale impedimento di respiro.

“Narcisse è cagionevole di salute, vive su una carrozzella”  disse tutto d’un fiato.

“Oh, mi dispiace.”

Massari era sorpreso più che dispiaciuto, temeva un qualche rallentamento nei programmi.

“Ma non abbia alcun timore.”

Sembrava che Denise gli avesse letto nel pensiero.

“E’ lui la persona più determinata della famiglia, è lui che ha voluto il museo e la villa, il castello come dite voi, e così sarà fatto nei tempi stabiliti.”

“Dovrete scusarlo, è una persona che, ovviamente, si sposta poco, sarà con noi che terrete i contatti.”

I loro pareri sembravano disposizioni. L’assessore prese atto anche di questo, convincendosi che la convivenza con i Bourricots sarebbe stata dura nei due anni successivi.

“Comunque nostro figlio sarà ben lieto di incontrarla e di conoscerla” concluse, sorridendo finalmente, Prosper Bourricots.  Era l’unica buona notizia della serata.

 

IL LIBRO DELLE GRAZIE

 

La novità della bacheca, ossia del libro delle grazie, non era affatto uno scherzo. Alcune invocazioni o petizioni, le più sincere e autentiche, secondo la gente, stavano avendo risposta positiva.  Sono fatti strani, insoliti, dapprima se ne parla sottovoce, nella ristretta cerchia familiare per vedere l’effetto, poi la notizia ha delle riprove, delle conferme, allora comincia a dilagare amplificata e gonfiata, senza tuttavia eliminare il fattore essenziale. Un benefattore misterioso, giudice nella scelta dei casi, esisteva davvero e lasciava la sua firma: il conte di Montecucco.

L’ufficiale giudiziario, Dante Fiorini, è uno degli uomini più buoni di questo mondo, secondo lui, odia il suo lavoro che consiste nel sequestrare i beni dei malcapitati, nell’ingiungere loro l’ordine di sfratto, nel minacciare e nel terrorizzare le sue vittime per farsi pagare, di questo vive e non può transigere. E’ il suo mestiere. Quella mattina di dicembre posteggiò la sua Panda di servizio di fronte al numero civico 187/ter in via Barbariga dove abita la vedova  Marcozzi con cinque figli dai due ai dieci anni. Ogni volta era una lagna, un tormento, una supplica infinita, ma questa volta non c’era niente da fare doveva pignorare il letto, le sedie, un vestito del defunto, perché da due anni non pagava l’affitto. C’era una sentenza esecutiva e presto ci sarebbe stato lo sfratto. La donna vive di un sussidio del comune ed è in attesa di una casa popolare, che però è ancora da progettare. Dante Fiorini trasformò il volto in grugno e bussò con violenza alla porta.

“Prego, si accomodi.”

“Signora, basta con i complimenti, qui bisogna pagare.”

La vedova Marcozzi era ben pettinata e in ordine, contrariamente al solito, e un sorriso celestiale emanava dal suo volto, un sorriso di pace, di  quiete, di raggiunta felicità. L’ufficiale guardò la donna, guardò in giro su cosa mettere gli occhi rapaci. Pensò che la poveretta fosse ammattita.

“Signora, non facciamo scherzi, non svenga proprio ora, mi deve firmare le carte, mi deve pagare.”

“Quanto?”

“Come quanto?”

“Devo sapere esattamente a quanto ammonta il mio debito per poterlo saldare.”

I bambini attorno guardavano estasiati la scena, era come se partecipassero ad un pranzo di prelibatezze da cui tutte le loro viscere, stanche e disabituate alla sazietà, avrebbero finalmente trovato soddisfazione. Per la prima volta la loro madre alzava la testa e guardava fiera il suo interlocutore.

“Non scherziamo, signora Marcozzi, voi mi dovete novemilaottocento euro, più venti euro di bolli, pronta cassa.”

“Va bene, contate per favore.”

Estrasse dal corpetto una busta rossa gonfia di biglietti da cento.  L’esattore dapprima parve interdetto poi li contò, erano cento pezzi da cento nuovi fiammanti, schioccavano musica tra le sue dita mentre li sfogliava. Li contò tre volte, aveva bisogno di tempo per pensare.

“Complimenti, signora, sono contento per la vostra famiglia, ora purtroppo non ho il resto.” Era confuso, sorpreso. “Come facciamo?”

“Per favore,  signor ufficiale giudiziario, li tenga come ringraziamento per la pazienza che ha avuto  con noi disgraziati  in attesa che arrivasse questo aiuto dal cielo.”

“Per carità, signora, non dica neppure per scherzo. Ma come aiuto dal cielo? in che senso?”

La vedova Marcozzi raccontò come ispirata che due sere prima, fuori c’era una nebbia fitta, aveva sentito bussare alla porta. Non aspettava nessuno a quell’ora insolita. Riferisce con pignoleria quanto accaduto.

“Chi è?” chiesi.

“Il signore di Montecucco.”

“Mio Dio, i fantasmi” pensai  stringendomi i piccoli al petto.

“Non abbia paura, signora, le porto la sua liberazione” disse la voce dal buio. Rivive quegli attimi e li descrive con mezze frasi, a scatti, emozionata.

“Fisso la porta spaventata, da sotto vedo passare una busta rossa, la prendo, la apro e trovo i denari necessari ad estinguere il mio debito e un biglietto con un indirizzo dove avrei trovato lavoro come addetta alle pulizie degli uffici e della fabbrica Labor Srl, lavorazioni plastiche, dopo Santo Stefano.

L’ufficiale giudiziario Fiorini è confuso, firma ricevute e fa firmare liberatorie, è contento dell’epilogo insperato e inatteso, rincula salutando ripetutamente, dimenticando di dare il resto.  In poco tempo la notizia si propaga, fa scalpore, alimenta curiosità e perplessità. I più intelligenti ci sono dappertutto, quelli che credono di avere il pallino per risolvere i mistero,vanno alla Labor Srl e s’informano.

“E” vero che dovete assumere la vedova Marcozzi?”

“Certamente, dal ventisette dicembre.”

“E come mai?  Chi ve l’ha presentata?”

“Raccomandata? Nessuno. Abbiamo messo un annuncio sul giornale locale “Annunci economici” cercando personale per le pulizie, ci ha telefonato una agenzia con la segnalazione e abbiamo accettato. Abbiamo poco tempo da perdere, siete arrivati tardi, il posto  ormai  è stato assegnato.”

La vedova Marcozzi ha un solo rammarico, non poter ringraziare di persona il suo benefattore.

La presenza del fantomatico benefattore è stata notata in tanti altri piccoli episodi. Sono manifestazioni filantropiche più che altro, accadono anche altrove, periodicamente, e di solito sono opera di zitelle o di vecchi bigotti che hanno impegnato la loro gioventù ad accumulare ricchezze e prevaricazioni e sperano, a fine corsa, in un angolo di paradiso sparpagliando i loro beni, prima che istituzioni e improvvisati parenti ne facciano strazio con l’aiuto di avvocati. Questo si pensa in giro.  Eppure un ragazzo di diciotto anni, affetto da una grave malformazione cardiaca giudicato incurabile in Italia, era a Parigi per essere operato, grazie ad una cospicua somma fatta recapitare in incognito, ma non troppo, dal fantomatico signore di Montecucco. La stessa firma era sulla lettera di saluto e di augurio che faceva recapitare alla locale casa di riposo l’arredo completamente rinnovato di tutte le stanze degli ottanta ospiti, lasciati in semiabbandono in locali di evidente degrado dalle famiglie e dalle istituzioni; la spesa ammontava a circa centomila euro. L’amministrazione presa in contropiede, per paura di una inchiesta, aveva accettato senza battere ciglio e rinnovato l’arredo del vecchio istituto, menando pure vanto.

Al Golf club, Farinati sostiene la tesi che si tratta di una messinscena, di una presa in giro alla città e se la prende con il sindaco che trucca e spaccia un’origine storica con invenzioni  fasulle, ma tanto convinte, da sembrare vere.

“E’ una mancanza di pudore.”

“E’ fiuto politico, giova molto all’immagine.”

“Macché, è puro masochismo.”

“E Massari? All’assessore, evidentemente piace collaborare alla propria presa in giro.”

I notabili della città discutevano di ben altri argomenti. Non vedevano di buon occhio l’operazione del comune con gli archeologi francesi.

“Si tratta di una donazione alla città”  arrischiava qualcuno.

“Capirai, fra cento anni! E a che prezzo? A condizione che il Comune collabori alla realizzazione del museo.”

Antonio Codevigo era doppiamente irritato. Gli era stato carpito sotto il naso un affare  formidabile, l’urbanizzazione della collina. Ci sarebbe stata una movimentazione di milioni e la sua banca non avrebbe tratto alcun vantaggio. Infatti i pagamenti degli stati di avanzamento erano stati commissionati alla storica Cassa di Risparmio.

“Eppure sento che non finirà così!” dichiarava a chiare lettere e a voce alta ovunque si trovasse. Tutti sapevano che non erano parole al vento. Parlava un uomo potente abituato a sgomberare la strada da chi gli bloccava il passo. Il vecchio Codevigo era una persona che badava al sodo, agli affari, non alle dicerie, alle favole pur simpatiche, non dedicava neppure un attimo del suo tempo, si preoccupava della pioggia di beneficenza che si abbatteva a piccoli rivoli sulla città.

Molti la pensavano come lui. Una sola persona era seriamente preoccupata dal comportamento del signore di Montecucco. Federica Codevigo aveva ricevuto un biglietto di auguri il giorno del suo trentaseiesimo compleanno, a firma del fantomatico conte. Il testo era ambiguo e sibillino. Elargiva auguri a piene man a una persona distinta, di valore che non conosceva. Sembrava una scontata cortesia tra nobili.

“Ma a cosa allude?”

Persona molto diffidente, sospettava di tutto e di tutti. Quel signore era forse a conoscenza delle sue iniziative negli affari più delicati che covava, all’insaputa anche del fratello. C’era un garbuglio di interessi, di persone, di dicerie da cui era difficile districarsi. Sapeva che si sarebbe opposta comunque con tutte le sue forze e conoscenze al progetto dei Bourricots di costruire sulla collinetta in ottima vista sul paesaggio.

Avrebbero signoreggiato sulla cittadina, una volta finito.

“Chi si credono questi ultimi arrivati? Avranno a che fare con me!”

Nessuno conosceva le sue intenzioni, eppure questo discorso sulla sua persona di valore la disturbò. Una volta, da ragazza, usava spesso questo tono. Intimoriva i suoi coetanei, teneva strette le poche amicizie che era ammesse al suo giro. Ora voleva dimenticarlo. Non era più un gioco di furbizia  erano in gioco investimenti e guadagni troppo importanti.

 

GIOVANI

 

A coronamento del corso di studi li attendevano gli esami. Ma al liceo scientifico “Alessandro Volta” nessuno era ansioso per questo. Mancavano molti mesi ancora alla fine dell’anno scolastico e il primo pensiero di tutte le ragazze era già quello di essere bene accompagnate al ballo consueto a fine giugno, nello sfarzoso parco di Villa Pisani.

Era una consuetudine nella cittadina rivierasca, iniziata per caso e trasformatasi negli anni in un evento sociale, obbligatorio ormai. Vi partecipavano oltre ai giovani neo diplomati di tutte le scuole superiori del circondario, anche genitori, amici, parenti, estimatori, autorità. Era una ulteriore occasione per mostrasi, esibirsi, rivaleggiare.

I preparativi, i mormorii, i suggerimenti cominciarono a emergere durante le vacanze di Pasqua.

Tutto ciò aveva un difetto. Era una manifestazione molto costosa, impegnativa, organizzata soltanto da alcune famiglie benestanti, a cui gli altri si accodavano per necessità, in subordine. Negli ultimi anni non tutti i neodiplomati vi partecipavano, perché la festa spesso si trasformava in esibizione di superbia per alcuni e di sottomissione per altri. Alla fine si parlava più di affari e di progetti. I ragazzi e le ragazze, invece, non aspettavano altro per dedicarsi agli scherzi e ai corteggiamenti.

In quel giugno 1983 Napoleone Bordin vi partecipò di controvoglia, perché conosceva i comportamenti dei compagni benestanti che tendevano a chiudersi in gruppetti, a escludere la massa. Supplicò il compagno di classe Giorgio Farinati di partecipare. Erano amici, si sarebbero fatti compagnia. Non tutti potevano o volevano annullare l’invito ricevuto perché, l’assenza in una occasione simile, avrebbe pesato moltissimo nella successiva ricerca d‘impiego, nelle amicizie e nei contatti che contano. E poi era una splendida occasione per fraternizzare tra compagni e compagne che avevano raggiunto la maturità degli studi. Era una occasione che molti invidiavano, soprattutto coloro che non avendo raggiunto un diploma erano esclusi.

Non erano previsti abiti particolari. Particolari i giovani lo erano già per la loro età e per la voglia di emergere e di affermarsi nel lavoro e nella comunità.

L’organizzazione della festa era presieduta, inevitabilmente, da Giovanni Carlo Antonio Codevigo, padre della corteggiatissima loro compagna Federica.

Alla festa erano presenti quasi duecento persone. La giornata era splendida, il clima gradevole; era piovuto il giorno prima.

Il viale di ippocastani, di tigli e di faggi  era tutto una festa di profumi e di un verde smeraldo, riempiva gli occhi di allegria e il cuore di buonumore. I cancelli di Villa Pisani erano aperti fin dal mattino, per coloro che dovevano preparare tavoli, piattaforma per il ballo, vivande e bibite. Festoni e lampade colorate erano appese tra i due filari del vialone ombroso,. Una compagnia di musici solfeggiava già ore prima per provare gli accordi, una soprano gorgheggiava sottovoce per provare gli acuti.

Verso le cinque del pomeriggio arrivarono i primi invitati che si cercarono per i saluti, per i soliti convenevoli. Le ragazze fecero subito gruppo, ma solo per adocchiare dall’interno i ragazzi più simpatici o di cui erano, credevano, innamorate. Parlavano, dicevano, non si capivano. Erano impegnate a cercare il ragazzo con cui avrebbero fatto il primo ballo. I ragazzi chiassosi e spavaldi parlavano solo di esami superati, delle prossime vacanze. Qualcuno di calcio. Facevano chiasso tra di loro. Ridevano per la solita barzelletta spinta raccontata da chi si era divertito molto a sentirla raccontare. Ma non riusciva a far ridere altrettanto. Poi cominciarono a spargersi, a salutate da lontano con la mano, a cercare la compagna preferita. C’erano molte ragazze festose con i loro gridolini, sorrisetti e sottintesi che solo loro capivano. Ci furono i primi approcci, le prime passeggiate distensive fino al labirinto e alle scuderie. Gli adulti stavano già seduti a pasteggiare e a parlare di politica e di finanza. C’era pure chi era presente per stare vicino alla figlia, ma non entrava nella cerchia del potere. I Codevigo arrivarono con due ore di ritardo, accolti festosamente. Molti si affrettarono a salutare. Federica si slanciò verso le compagne. Indossava un abitino celeste, annodato in vita, scollato, scarpine basse, i capelli raccolti a chiffon che scuoteva continuamente per guardare, per cercare qualcuno.

“Non c’è che dire, è la più bella.”

Lo diceva Giorgio Farinati, uno dei numerosi innamorati.

Segretamente, molto segretamente. Perché esporsi prima significava essere allontanati dalla bella figliola. Voleva essere sempre lei a scegliere a chi dare la parola, la confidenza, a lanciare un bacino. I suoi interessi per qualcuno erano momentanei. Non amava legami con nessuno, ma libertà assoluta. Sapendo di essere bella e ricca, aveva corteggiatori a non finire, che scartava a piacimento. E non tornavano più. Anche Bordin l’aveva osservata e scartata, perché non adeguato al suo rango e perché era troppo vanitosa. Da un po’ di tempo Napoleone sentiva gli occhi fissi di Federica puntati su di lui. Si girava all’improvviso ed era così. Lei sorrideva appena, a volte lo salutava con la mano alzata. Da prima si preoccupò e si chiese: perché? Parlottava con qualche compagna e scoppiavano a ridere. Napoleone si convinse che ridessero di lui. Era un ragazzo intelligente, di bell’aspetto, non ricco e questo era molto grave, molto escludente in certi ambienti.

I gruppetti chiassosi cominciarono a scomporsi e a riunirsi come a scuola in attesa di conoscere il voto.

Farinati, Ubaldini e Carlesso, compagni di corso, discutevano animatamente sul tema d’esame su Quasimodo: “Ed è subito sera”. A loro non interessava più nulla ormai, ma dovevano passare il tempo in attesa di agganciare qualche ragazza. Napoleone Bordin si sentì toccare una spalla. Era Federica che gli sorrideva.

“Mi prometti un ballo questa era?”

“Altroché!”

Di più non seppe dire. Mai l’avrebbe immaginato. Gli altri tre erano rimasti allibiti. Di loro, il meno espansivo con le ragazze era proprio Bordin. Farinati era il più avvilito. Quell’invito l’aveva atteso e sognato molte volte. Sorrise all’amico. “Beato te”, biascicò appena. Da lontano il solito gruppetto di compagne rideva piano, adocchiando, parlottando. Chissà di cosa. Una ragazza di solito timida, lo chiamò e gli fece i complimenti.

La serata filava liscia, la gente era sparpagliata, avevano tutti mangiucchiato ai tavoli self service, con economia. La musica languiva, la cantante a un certo punto smise per un abbassamento di voce. Coppiette spontanee si erano già formate e si preparavano al ballo. Era questo il clou della serata. Tutto il circo si rianimò avvicinandosi alla piattaforma nel piazzale della villa, di fronte al laghetto. All’attacco delle musiche da ballo, le prime coppiette si esibirono senza alcun timore. Un po’ alla volta altre si slanciarono, vinta la paura della novità. Ben presto la piattaforma fu completa. Non si ballava più, ci si stringeva, spingeva, urtava, ma nessuno ci badava. Molti di quei giovani potevano stare insieme pubblicamente, osare senza alcun rimprovero: Anzi alcune mamme erano orgogliose della sicurezza dimostrata dalle loro figliole.

Codevigo guardava tutto di sottecchi, soddisfatto. Guardò in giro, guardò la piattaforma. No, Federica non c’era. Conoscendo la sua indole un po’ dispettosa pensò che attendesse che la pista da ballo fosse più libera per sorprendere il pubblico con le sue flessuose movenze, allacciata al più avvenente dei ragazzi. Era curioso di vedere con chi. Cominciò ad innervosirsi, perché Federica non si vedeva. E neppure le  sue tre quattro amiche preferite.

Federica sorridente camminava a braccetto di Napoleone, tutto rosso e agitato. Si erano trovati, passo dopo passo all’ingresso del labirinto. L’avevano varcato, senza accorgersene, tanto era attratto dalla ragazza che gli prestava inattese, ma graditissime attenzioni. Parlavano del tramonto, della luna con gobba a ponente, beneaugurante, dei fiori e delle siepi sagomate a figure, della classe, dei ragazzi.

“Tu sei semplice e affascinante, perché un po’ misterioso” disse a Napoleone, che restò sorpreso.

Non si riconosceva, ne mai a scuola era emerso che un simile pensiero potesse esistere in qualcuno nei suoi riguardi. Le ragazze lo trascuravano assai, perché non si faceva apprezzare, non faceva complimenti sapendo di ricevere comunque sgraditi sberleffi. Non era come i compagni più smaliziati e spiritosi. Federica parlava a voce alta, senza timore che qualcuno li sentisse. Anche da questo si intuiva che lei poteva. Nessuno avrebbe fatto meraviglie della improvvisa confidenza tra loro due. Ad una curva del vialetto Federica avvicinò il suo viso, la sua bocca al quella di Napoleone, chiuse gli occhi e attese un bacio. Napoleone si irrigidì, pur attratto era impreparato. Federica aprì gli occhi lo guardò, lo fissò arditamente, poi abbassò una spallina del suo abitino celeste scoprendo un seno. Napoleone li sognava i seni di una donna, gli piaceva sognare, ma quell’offerta impudica e ingiustificata lo irrigidì ancora di più. Non era un avventuriero, era un romantico, quei momenti li sognava diversamente.

“Copriti.”

Le parole gli erano uscite da sole, senza pensarle, senza volerle, naturalmente.

Federica si ricompose. Era verde e tremante come una foglia. Umiliata e offesa. Indietreggiò di un passo, gli puntò il dito.

“Me la pagherai” sibilò. “Io valgo un miliardo. Tu, niente!”

Subito sgusciarono da misteriosi cespugli le tre amiche preferite, avevano visto e sentito tutto, riso piano della scena, della trappola in cui Napoleone era caduto. Il ragazzo era di sasso. Era stato uno zimbello pubblico, a sua insaputa, contro la sua volontà. Una festa di introduzione nella società si era conclusa nel peggiore dei modi.

I Codevigo reagirono duramente. Napoleone Bordin fu escluso da qualsiasi altra festa e ricorrenza, esiliato dalle ragazze e da molti suoi compagni. Ci fu chi pensò a un suo gesto ardito e incontrollato. Chi pensò fosse più sciocco di quello che la sua modestia suggeriva.

Le voci si sparsero secondo il racconto della ragazza. Molte persone per bene furono disgustate. Tutti si schierarono per convenienza con la famiglia Codevigo, e poi, se non altro, come apprezzamento per la magnifica festa a Villa Pisani. Anche Giorgio Farinati fu sorpreso, ma non abbandonò l’amico. Continuò a frequentarlo e anni dopo, laureati in ingegneria, fondarono una società assieme. L’episodio del labirinto segnò la vita di Napoleone, gli procurò ostacoli di ogni genere, centellinati ma implacabili, soprattutto finanziari quando ebbe a che fare con la Banca di Credito Rivierasco dei Codevigo. Farinati non ruppe alcun rapporto con i compagni di scuola. Neppure con Federica che, qualche anno dopo, decise di sposarlo. Fu un atto d’impulso, d’amore a sorpresa. Farinati accettò, si sistemò. Di fatto si mise comodamente a servizio della famiglia Codevigo. Doveva ubbidire in tutto, vivere nella villa patrizia, con tutti gli agi e i benefici che il nuovo ruolo gli assegnava d’ufficio. La volta che osò dire a Federica che sarebbe stato bello avere una casa solo per loro due, di avere dei momenti intimi senza altre presenze, dei figli, di poter disporre del loro tempo a loro piacimento, ebbe parole dure dalla moglie.

“Vuoi il divorzio? Dimmelo, perché ho una sola famiglia, questa.”

Giorgio Farinati piegò il capo definitivamente. L’arrogante poteva farlo solo fuori. D’accordo? Bene! Segnale di assimilazione e di assorbimento familiare definitivo.Da allora si dimostrò di pessima disponibilità verso gli altri, compreso Napoleone Bordin che trascinerà scientemente alla rovina.

 

NAPOLEONE BORDIN

 

La sala d’aspetto della stazione era popolata da una strana fauna notturna che col buio alzava  la testa e diventava arrogante, aggressiva. Erano tutti i mendicanti e i postulanti che di giorno si mimetizzavano agli angoli delle strade e schizzavano fuori a pulire i vetri delle auto o a mendicare sui marciapiedi con le gambe incrociate e un piattino per le monete davanti. Erano dell’est europeo, del medio oriente e nordafricani che convivevano difficilmente, venivano al riparo dalle intemperie, trovavano una panchina e un servizio igienico. Alcuni russavano, altri imprecavano, qualche altro litigava e minacciava il samaritano volontario che portava loro un tozzo di pane e una confezione di latte. Appartati, diffidenti e vergognosi, stavano i mendicanti locali, i falliti di recente, i rimasti soli al mondo, i disperati, i senza lavoro e senza dignità. La notte era afosa, le porte erano aperte, l’aria  puzzolente e irrespirabile. Un signore ben vestito, giacca di lino chiara, estiva, scarpe nuove, si vedeva che non conoscevano ancora il ruolo della spazzola, passeggiava nervosamente davanti alla sala d’aspetto, evitava di entrare. Un tipo barbuto e traballante si alzò, uscì, lo intuisce guardingo, timoroso, gli chiese una sigaretta. Non fumava quel signore. L’altro lo guardò sprezzante, non gli credette. Lo offese in una lingua straniera, fatta di monosillabi sibilati. Tipi come lui avevano ancora alcune ore della notte per farsi temere, poi, con la luce del giorno, con l’ingrossarsi delle file agli sportelli per i biglietti e della folla sulle pensiline, si abbassavano, si incurvavano, tornavano a odiare a livello terra. Chiedevano una elemosina sufficiente per continuare a soffrire. Per loro fortuna c’erano i volontari con un tozzo di pane buono. L’uomo inaspettatamente resse lo sguardo provocatore, calcolatore del mendicante, rintuzzò il suo attacco virtuale, fece capire che non lo temeva, anzi avanzò un piede per tenere le distanze. L’altro lo studiò, poi arretrò, gli sputò sulle scarpe nuove e rientrò con un ghigno minaccioso nella sala dove mancava il respiro. Arrivò il treno per Milano-Ginevra-Lione. Il viaggiatore, guardò in giro con circospezione, non aspettava qualcuno, guardò come se non volesse farsi notare da qualcuno; i passeggeri erano rari e frettolosi. Salirono in tre sullo stesso vagone, avevano la prenotazione per lo stesso scompartimento vuoto; erano stati fortunati avevano trovato posto all’ultimo istante. La coppia di stranieri, non giovanissimi, si affannò a sistemare i  voluminosi bagagli.

Il signore in giacca di lino diede loro una mano, lui stranamente non aveva bagagli. Il treno lasciò la stazione di Padova alle due del mattino, si infilò nella campagna buia, la sagoma nei colli si intravedeva appena in contrasto con il cielo stellato.

“Prosper, siamo stati fortunati a incontrare questo gentile signore.”

La signora era francese, si capiva dall’accento, ma parlava pure perfettamente italiano. Sorrise guardando garbatamente il loro compagno di viaggio che stava già socchiudendo gli occhi per appisolarsi. Rispose per gentilezza al sorriso della signora.

Iniziò così la straordinaria vicenda che sto per narrarvi.

“Cara, ci sono tante persone gentili a questo mondo. Il viaggio è lungo, permette, signore, che ci presentiamo? Prosper Bourricots, e questa è mia moglie Denise. Siamo stati in viaggio di studio e stiamo tornando a casa, a Lione.”

Il giovanotto strinse le mani, borbottò: piacere. Poi si sentì in dovere di aggiungere qualcosa, non molto.

“Complimenti, parlate molto bene la nostra lingua. Scendo a Ginevra, speriamo sia meno caldo in riva al lago.”

“Non sempre, non sempre”  disse e ripeté la signora minuta, scattante, occhi mobili, attenti.

“Se si ferma molto le consiglio l’Hotel du Rhône, ottimo sotto tutti i punti vista, e poi ha una magnifica visione del fiume che esce dal lago, sembra un braccio muscoloso, gonfio della forza di un gigante buono.”

Prosper ora non aveva alcuna intenzione di riposare e fece di tutto per incantare il suo interlocutore e invogliarlo a tenergli compagnia nella conversazione. La notte era lunga, il viaggio era lungo. Nonostante le luci non fossero state abbassate, Denise sembrò assopirsi, tuttavia confermava con il capo ogni cosa detta da suo marito.

Prima di Vicenza passò il controllore, chiese i biglietti, diede la buona notte, smorzò le luci. Il viaggiatore si tolse la giacca, stava sudando, nonostante l’aria condizionata, stava riflettendo e l’impegno intellettuale lo affaticava visibilmente. Prima di arrivare a Milano avrebbe potuto prendere una grande decisione.  Provò a saggiare il terreno.

“Vivete soli?”

“Oh. sì! La nostra passione è l’archeologia e la nostra patria è il mondo, amiamo la libertà e un po' di avventura. Viaggiamo molto.”

Prosper era visibilmente contento di rispondere e parlava dei viaggi in Palestina, in Iraq nonostante le sanzioni, in Italia, ma era curioso a sua volta.

“Chi  va a Ginevra, come minimo è banchiere o mi sbaglio?”

“Sì e no.”

Si intuiva che aveva voglia di confidarsi, ma ancora non era il momento. Allora Denise, che sembrava addormentata intervenne misurando le parole, ammiccando appena.

“Lei custodisce un segreto e fa bene a tenerlo per sé. Lo si avverte dal fatto che lei non si è presentato, signor ...?”

Fece una lunga pausa. Aveva parlato con gli occhi chiusi, e non sentendo risposta, li aprì, in attesa.

Prosper parlava del loro lavoro e delle loro ricerche, degli aiuti finanziari, delle fondazioni francesi, svizzere e del Liechtenstein. Erano bene introdotti a Vaduz. Prima di arrivare alla stazione di Milano il signore dall’abbigliamento sportivo, eccessivamente misurato nel parlare, sapeva già molte cose su quella strana coppia, a prima vista modesta, ma che pur tuttavia doveva essere agiata per potersi permettere una vita culturalmente impegnata e libera come la loro.

“Posso unirmi a voi?”

“Unirvi a noi?”

Questa volta Prosper era stato preso in contropiede.

“Qual è la vostra professione?”

“Sono ingegnere.”

“Lo chiederemo a nostro figlio, a Narcisse” intervenne Denise.  “Lui saprà certamente.”

“Narcisse è nostro figlio” precisò ulteriormente l’uomo. “Alix è invece nostra figlia, dipinge, ama l’arte”

“Permettete che mi presenti, mi chiamo Napoleone Bordin.”

Non era stato un gran che come introduzione, ma i coniugi Bourricots si apprestarono ad ascoltare una incredibile storia. Era questione di tempo e di luogo. Napoleone non avrebbe mai potuto risolvere da solo positivamente il problema eccezionale in cui si era venuto a trovare del tutto impreparato. Avrebbe avuto presto bisogno di una spalla forte, di fiducia su cui appoggiarsi, di cui fare affidamento. Pensò di avere trovare le persone che facevano per lui, al suo caso. Se avesse perso quell’occasione forse non ne avrebbe trovato altre. Troppo complicate, troppo difficili sono certe situazioni nella vita. Però, a volte, la soluzione è lì, davanti agli occhi, solo che non ci credi. Perdi l’attimo, ed è perso tutto.. Napoleone arrischiò, colse l’attimo.

La conversazione fu lunga e molto interessante. Scesero tutti e tre a Lione, a giorno fatto. Napoleone andò a conoscere Narcisse.

Il giovane, di bell’aspetto, un fisico armonioso di chi pratica le palestre, abbronzato come tutti i viaggiatori, capelli sparpagliati, da artista, si presentò con robusta stretta di mano e un largo sorriso. Barba corta, scura. Sembrava una statua. Se non fosse stato per gli occhi che fissavano come punteruoli i suoi interlocutori. Certamente era stato preavvisato. Giornalista, reporter di guerra, inserito nel mondo dell’alta finanza era freddo e pacato. Essenziale. Napoleone si sentì intimidito. Se non fosse stato per la conoscenza fatta con i genitori, veloce, ma appassionata, si sarebbe ritratto. Non era il caso che si pronunciasse, che rivelasse i suoi piani ad un ulteriore sconosciuto.

Il ragazzo era in sedia a rotelle.

Fu la signora Denise a prendere la parola. Erano in un salottino, bene arredato con foto di opere d’arte e tele di pregiata fattura alle pareti. L’appartamento, in un edificio condominale di tre piani, discreto, come i suoi  proprietari, si trovava in boulevard Victor Hugo 148. Era un ampio viale alberato, con insediamenti anonimi, tutti uguali, abitati da operai e impiegati del ceto medio. Napoleone Bordin ebbe da subito l’impressione che i Bourricots fossero persone importanti che volevano celarsi in un ambiente discreto. Si capiva che si mimetizzavano, che non volevano dare nell’occhio. Doveva, alla svelta, intuire e capire perché. Una decisione l’aveva già presa, anche se c’è sempre una riserva che resiste fino all’ultimo. Sapeva che avrebbe dovuto fidarsi di sconosciuti, ma doveva trovare degli alleati, dei collaboratori fidati. Si stava preparando a rivelare interamente un grande segreto. Aveva bisogno di persone ignote che lo aiutassero. Compito estremamente difficile nella sua situazione. Solitamente impossibile. Che lo aiutassero a raggiungere uno scopo assai elevato. Doveva riscuotere l’immensa vincita tramite persone di assoluta fiducia, di esperienza che agissero in sua vece per mantenere ad ogni costo l’anonimato. La casualità non è sempre casuale. Dipende da scelte veloci, fortunate. Tutto fu deciso al primo istante, a prima vista. L’impressione positiva fu reciproca. Fu così che iniziarono e si svilupparono, in treno verso la Francia, confessioni, propositi, patti. Dapprima sottilmente, poi decisamente emersero rivelazioni importanti, di reciproco interesse.

I Bourricots avrebbero fatto da autorevole tramite con le banche e gli istituti finanziari. Napoleone Bordin avrebbe messo notevoli suoi capitali per portare Narcisse a un miracoloso recupero con interventi chirurgici specialistici a Los Angeles.

Narcisse ferito in un attentato suicida a Bagdad, durante la guerra del Golfo, aveva salvato la vita. Ma non le gambe. Amputate in un ospedale da campo americano, fortunosamente.

“Mi è andata bene.”

Fu la prima cosa che disse, dopo un lungo interminabile silenzio che era servito a tutti per raccogliere idee e pensieri. E sorrise appena. Aveva risposto a una domanda non formulata, ma evidente, obbligatoria nei pensieri dell’interlocutore italiano.

Alle sue spalle, in penombra, aveva una guardia del corpo, servitore e amico. Lo si intuiva da come il paralitico era guardato e trattato. Persona atletica, tarchiata seguiva come un’ombra il suo paziente mecenate. Il suo volto era senza una piega, immobile. Conosceva solo la lingua francese. Loro parlavano entrambe le lingue.

“Malik, per favore”, disse Denise.

“Oui, madame.” E, inchinandosi, si assentò.

Tutto si concluderà a Vaduz, entro 90 giorni.

Napoleone si trovò più ricco del conte di Montecristo. Narcisse sarebbe partito in autunno per la California con una équipe medica franco-americana.

Il piccolo impiegato comunale subì un intervento chirurgico facciale a Lione. Si trasformò in tutto e per tutto nel figlio dei signori Bourricots. Ne studiò le mosse, gli atteggiamenti, la pronuncia. Imparò il sacrificio di passare giornate intere, immobile su una sedia a rotelle. Si allenò a rinverdire gli studi scolastici di francese. Malik seguì Narcisse.

Napoleone vide Alix, per la prima volta, a Parigi in Place de la Concorde in un bistrot dietro l’angolo. I genitori le avevano descritto Napoleone Bordin e la sua storia. La invitavano vivamente ad occuparsi di lui in un momento del tutto nuovo ed estraneo alle sue abitudini. Ma importante anche per la loro famiglia. Alix dipingeva paesaggi, era esperta e critica d’arte, per questo era sempre in viaggio. Esponeva a Berlino, visitava l’Errmitage e gli Uffizi, dove era conosciuta e stimata, nonostante la giovane età. Non aveva ancora trenta anni. Alta, sottile, bionda, somigliava al padre, mentre il fratello era scuro di capelli, somigliava di più alla madre. La sua patria era il mondo. Altro che “asinelli”, quei ragazzi era scaltri, estroversi e colti.

Accettò di buon grado. Era appena rientrata da Boston dove l’avevano invitata in istituti d’arte per una serie di conferenze sull’Impressionismo francese. Era innamorata di Monet.

L’incontro fu una sorpresa per entrambi. Napoleone ebbe l’immediata impressione di avere di fronte una donna eccezionale per sicurezza e disinvoltura. Ispirava fiducia da come lo guardava, da come parlava, da come suggeriva. Alix, infatti, vide subito che il suo interlocutore era confuso, bisognoso di un amico fidato a cui svelarsi. Si offrì a entrare nella sua avventura.. Troppo grande e straripante era ciò che gli era felicemente successo, che non riusciva a cavalcare gli eventi con la dovuta disinvoltura e sicurezza. Alix avrebbe potuto approfittarne. Quasi sempre in casi simili chi aiuta ne approfitta senza pudore. Quella famiglia francese era eccezionale. Forse perché i suoi componenti era già sazi e saturi di interessi culturali, sociali, economici, non galleggiavano affatto su venali problematiche che avevano già accantonato. Vivevano come si dovrebbe vivere: cercando sempre nuovi orizzonti, senza strafare, senza sopraffare, tenendo l’esperienza acquisita come un piedistallo da cui spiccare il volo per scoprire nuove dimensioni di vita inesplorate e perciò affascinanti. Senza calcoli soltanto venali, perché altrimenti cascherebbe tutto. Già, la loro visione della vita era quella di agire in tutta sicurezza e rispetto, ottenendo alti gradi di serenità e godimento. Ancor più ora che era a loro offerta l’opportunità di vivere rinnovandosi giorno per giorno. Ogni persona per essere felice dovrebbe avere ogni giorno un traguardo nuovo, superiore a quello di ieri. Non è facile. Ma i Bourricots ci provavano.

Incredibilmente, il più beneficiato di tutti sarà ancora una volta il piccolo impiegato comunale diventato, dopo anni di grigiore, miliardario. Grandi cose lo attendevano, soprattutto ricordando da quali bassifondi risaliva dopo esservi stato violentemente scaraventato. Parlarono a lungo. Lei conobbe tutto. Si intesero.

“Sarà una meravigliosa impresa” disse. “Mio fratello presto sarà lontano, difficilmente sarà coinvolto nel nostro piano a causa delle sue difficili condizioni di salute. D’ora in avanti tu sarai Narcisse. Lo sostituirai. Dove e quando sarà necessario sarò la tua ombra. Ti insegnerò i suoi comportamenti, le sue conoscenze e la lingua. Solo per capire. Ma tu non dovrai più parlare in pubblico. Il volto si può cambiare, ma la voce tradisce. Sarò io la tua guida.”

Napoleone, ora Narcisse, la abbracciò commosso. Un desiderio di rivalsa, il bisogno di recupero della sua immagine, della sua vita sorse improvviso in lui. Capì che d’ora in poi coloro che lo avevano ferocemente contrastato, avrebbero dovuto temerlo. Pregustava già la sua vendetta. Cambiò volto, cambiò sguardo.

Prese deliberatamente la mano di Alix e la baciò. Lei lo lasciò fare.

“Bene!” disse Alix e sorrise. “Per prima cosa cambia cravatta, colori troppo sfumati.”

Le sue parole erano perentorie, essenziali.

 

IL RAGIONIERE DELL’UFFICIO ANAGRAFE

 

Il ragioniere Giacomo Marcolongo era prossimo alla pensione. Passava lunghe ore allo sportello a guardare il volto di decine e decine di persone e si interrogava. Pensione sì, ma dopo? Era più bassa di una paga già miserella. Aveva famiglia, moglie casalinga con tre figli che studiavano e costavano. E lui non ce la faceva più No no, doveva resistere. La poltroncina su cui sedeva da quasi quaranta anni aveva preso le sue forme. La sua spalla destra era ingobbita, perché era la mano destra che si protraeva in avanti per ore, ogni giorno, per scrivere, per timbrare, per porgere, per ricevere. Da ragazzo aveva sognato, aveva scritto poesie, si era innamorato. Fine! Non aveva mai avuto un attimo di respiro, di godimento gratis. Sempre lavoro e preoccupazioni. Sua moglie Evelina non alzava mai la testa dalla cucina, dalla casa da sbrigare, dagli abiti da rattoppare e stirare. Dai figli da seguire a scuola e che ora  escono di sera e tornano tardi. Stava sveglia fino alle due di notte, ascoltava la chiave girare nella toppa, sentiva dei passi noti, poi si assopiva. Aveva poche visite. Aveva dovuto rinunciare agli inevitabili, graditi, pettegolezzi che si spalmano sui vicini, sui parenti, sulle amiche. Inutili, perché silenziosi, anche se spesso il cerchio si chiude e quello che doveva stare segreto appare in tutta la sua lucentezza. Aggravato. Perché ci sono sempre delle aggiunte. Però tra signore è uno sfogo necessario, aiuta a giustificarsi, a pensare almeno “beh! non sono come quella”.

Guardava il volto di poveri e ricchi, professionisti e operai, di vedove e anziani in cerca di un sussidio e si interrogava.

“A chi potrei chiedere un lavoretto, un incarico, una mano, dopo anni di servizio, di sorrisi, di scambi si saluti?”

Non vedeva nessuno. Chi veniva all’anagrafe aveva sempre delle preoccupazioni sue che si aggiungevano a quelle che tutti avevano già. Così pensava. Decessi, nascite, matrimoni, cambi di residenza, stato famiglia, separazioni, passaporto per l’estero.

“Come mai, Giannino?”

“Vado all’estero, cerco lavoro come gelataio.”

“Dove?”

“In Germania.”

“Ah!…”

Non vedeva sbocchi, non vedeva appigli, speranze, maniglie a cui aggrapparsi. Questo termine l’aveva imparato sentendo molti dire che per riuscire nella vita devi ammanigliarti, devi avere una mano da un potente, quasi sempre disonesto, devi entrare nel suo circolo vizioso, sarai ricompensato. E catturato per l’avvenire. Non sarai più libero. Il ragioniere Marcolongo aveva resistito a tutte le tentazioni. Autenticava firme e molti cercavano l’imbroglio, di intestarsi la pensione della madre paralizzata, incapace di presentarsi allo sportello, a scapito degli altri fratelli. Si era sempre rifiutato. Si era fatto una fama di sciocco. Invece era soltanto onesto,  e naturalmente povero. Però nel suo intimo si interrogava.:

“E’ mai possibile che non ci sia mai uno spiraglio per gente come me?”

Chinava il capo e timbrava, scriveva, faceva fotocopie, sorrideva meccanicamente al nuovo utente allo sportello.

Una mattina, dietro il vetro, apparve un volto nuovo. Quando disse il suo nome, fu contento di conoscerlo, almeno di persona. Tutti ne parlavano.

“Sono Prosper Bourricots, vorrei trasferire la residenza di mio figlio Narcisse, da Lione in Riviera. Sono l’amministratore della nostra società di famiglia Bourricots & C. snc, delegato del presidente, mio figlio. Ecco le credenziali.”

“Volentieri, signore, ma deve essere l’interessato che si presenta allo sportello a fare denuncia. Oppure, prima passa un vigile urbano nella attuale residenza per vedere se effettivamente c’è un trasferimento. Sa, è la legge, è la burocrazia.”

E mostrò un volto addolorato per avere compiuto il suo dovere.

Prosper Bourricots non arretrò di un millimetro.

“Ha ragione, signore, faccio entrare subito mio figlio, se la fila può attendere, sa c’è difficoltà per le scale. Deve sapere che Narcisse è paraplegico da molti anni, non si muove da solo. Lo chiamo subito. La sua futura residenza sarà la villa in costruzione sulla collina.

“Voi chiamate il luogo <castello>. Ora siamo in albergo a Villa Verde. La nostra residenza è a Lione.”

Diede gli estremi.

“Abbiamo acquistato una villa veneta in via Brentanova 75, è da sistemare, ma sarà questa la nostra residenza provvisoria.”
Entrò una carrozzella su cui era sistemato un giovane con occhiali scuri, capelli da artista,  labbra serrate. Un messo comunale aiutò la sorella a far superare alcuni gradini a Narcisse.

Un foglio prestampato con la richiesta di residenza in città fu compilato, il giovane firmò secondo la sua sigla “na.bo.” Narcisse Bourricots firmava così anche in banca e in minuscolo. Era questa una caratteristica della famiglia: esserci senza apparire troppo. La pratica iniziò il suo iter regolare. Prosper fece allora avvicinare la moglie che ringraziò il ragioniere Marcolongo per la precisione e la meticolosità.

“Che ne dici, Prosper? Magari avessimo una persona così precisa al nostro servizio, a curare la nostra ordinaria amministrazione.”

Marcolongo restò senza parole. Voleva dire qualcosa, ma era troppo improvviso e lusinghiero il messaggio cifrato, troppo ultimativo l’approdo che gli veniva lanciato, almeno a prima vista. Già, non si sa mai.

Ma la signora Denise insistesse.

“Ci pensi, venga a trovarci, ormai l’indirizzo lo conosce.”

In municipio non si parlava d’altro, di questa famiglia francese che aveva ottenuto una regolare, ma costosa licenza a costruire: dal Comune, dalla Regione, dalla sezione locale dei “Verdi”. Il richiedente, Narcisse Bourricots, tramite l’amministratore delegato e padre, signor Prosper, aveva ottenuto tutti gli incartamenti e le autorizzazioni necessarie a costruire una suntuosa villa sulla collina Montecucco, detta da tutti il castello. Il piano terra sarebbe stato destinato a museo archeologico a beneficio della comunità e di tutti gli amanti di cose antiche. Una sterpaglia di rovi, con rovine di una costruzione antichissima, sarebbe stata bonificata e trasformata nell’edificio più importante della Riviera. Orgoglio di tutti i cittadini. Un po’ anche degli amministratori che non vedevano proprio niente di singolare, di particolare, di personale. Come dire? Di vantaggi taciti e impronunciabili nemmeno l’ombra. Eh sì! Niente corruzione. Si erano interessati personalmente il sindaco Anacleto De Marchi e l’assessore all’edilizia privata Leone Massari.

Paradossalmente erano gli unici a mugugnare in famiglia. Nessuno capiva perché, tranne alcuni esperti che lo intuirono. I Codevigo, ad esempio. Ma, allora, davvero la concessione edilizia era inattaccabile?

Vivo interesse lo dimostrava infatti il noto architetto Pier Maria Francesco Codevigo, figlio di Antonio. Famiglia agiata e potente non solo nella cittadina. Si opponevano alla costruzione della villa, pomposamente chiamata castello. Avanzavano pretese, di diritto di prelazione, avendo presentato in passato vari progetti, ma troppo personali. Parlavano di inesistenti diritti di cittadinanza, disponibilità assoluta di mezzi, di volontà di accettare tutte le prescrizioni e gli eventuali suggerimenti della commissione edilizia, della giunta comunale, del sindaco. Disposti a tutto. Avevano perduto inutilmente bustarelle pesanti distribuite intorno. Sembrava che i Bourricots fossero inattaccabili. Vincevano sempre tutti gli ostacoli e i ricorsi. Antonio s’interrogava e non capiva. Con tutto quello che il loro progetto, mai iniziato, gli era costato. Ma chi erano mai questi dannati francesi! Allora capì. Questi corrompevano più di lui. Doveva scoprire e incastrarli. Era vero. La corruzione è ampia, universale, attorcigliata, ha suoi tempi e modi e limiti, comprende un vasto giro che collega tutti i fili e compromette tutti i corrotti . Se uno si ribella e ribalta il tavolo cadono castelli di carte, si scoprono altarini pericolosi per tutti. Pochi si salverebbero. E’ meglio subire, tacere e meditare come rifarsi. La corruzione coinvolge molti, si pratica sotto traccia, fingendo, tacendo, altrimenti si perdono anche futuri affari, si perde credito nel giro della disonestà ammanigliata, autogiustificata. Conviene tacere e aspettare la prossima occasione.

Il nuovo Narcisse conosceva bene i suoi concittadini, immaginava i loro pensieri, i loro calcoli e li anticipava.

“La bugia? Non so come spiegarlo”.

Se chiedeva per scrupolo. Certo, la corruzione era diversa dalla bugia. La prima è malvagia, la seconda non lo è, se non è un passaggio della stessa corruzione. Spesso la bugia è l’inizio di un atto di giustizia, di recupero, di rivalsa, di resurrezione. Questo pensava il già Napoleone Bordin.

 

IL CASTELLO

 

La costruzione del castello di Montecucco procedeva rapida. I lavori erano stati affidati a una nota impresa edile del luogo che lavorava con la collaborazione di diverse altre imprese subappaltate, specializzate nel lavoro indotto: intonacare, tracciare e stendere i cavi elettrici,gli impianti idraulici, opere di pavimentazione, di costruzione dei serramenti, di posa dei coppi. L’impresa che doveva posare le tegole aveva poco lavoro. Erano poche le superfici in pendenza da coprire con i coppi. La villa-castello, su richiesta della stessa amministrazione, aveva una linea che, se fosse stata proposta dal cliente, sarebbe stata bocciata dalla apposita commissione. Ad un certo punto, il sindaco chiese esplicitamente la costruzione di un edificio simile ad un castello, per rinnovare e  irrobustire la leggenda popolare del crociato che, di ritorno dalla Terra Santa, in illo tempore, si sarebbe insediato in un turrito, piccolo castello proprio là sulla collina. Poi, nei secoli era crollato per mancata manutenzione.

I Bourricots non sollevarono alcun problema, anzi avevano fatto di tutto, con appropriate conversazioni o silenzi, per convogliare i pensieri dei tecnici comunali e degli assessori a suggerire quello che Narcisse pensava e voleva. Cioè proprio quel progetto.

C’è tuttavia da dire che i Bourricots avevano già speso notevoli somme per superare la burocrazia, gli intoppi finti e veri, ma tutto alla luce del sole. I loro emolumenti avevano ingrassato soprattutto avvocati e studi tecnici pronti e aggiornati, non già i politici. E questo aveva notevolmente innervosito l’assessore Massari che si considerava l’inventore del progetto dei Bourricots, era stato lui a presentarli alla giunta, ad insistere per la realizzazione del museo sperando, ovviamente, di ottenere qualche gesto di gratitudine non solo pubblica e sociale. Ma niente di tutto questo si era verificato. Vista la loro crescente e inutile ostilità, mormoravano, seguivano l’onda, tutto ciò serviva per non perdere il favore popolare. Potevano esserci vantaggi futuri, se confermati nelle prossime elezioni amministrative. C’è sempre un’altra occasione. I Bourricots non erano corrotti, erano solo scaltri.

Pier Maria Codevigo aveva mangiato la foglia. Conoscendo le trame che loro erano soliti usare, decise  di scoprire se c’era sotto qualcosa per bloccare i lavori e ottenere il diritto, o l’opportunità, di continuare un’opera sospesa dalle autorità per manifesta corruzione. Non poteva essere altrimenti. Così si imbarcò in un’iniziativa che gli costerà cara. Parlò a suo padre.

“Il terreno su cui stanno costruendo di chi è?” si chiese.

Il vecchio Antonio Codevigo ebbe un sussulto. Era vero, non c’era chiarezza, non c’erano certezze. Da chi i Bourricots avevano acquisito l’area fabbricabile sulla collina? Dal demanio? Ma può il demanio cedere, alla chetichella, senza bando di concorso un’area così pregiata, senza che nessuno sappia e partecipi alla gara di assegnazione?

Presentarono ricorso in Comune, alla Regione e alla magistratura contro il Sindaco che si allarmò e sospese provvisoriamente i lavori di costruzione del castello, in attesa di approfondimenti. Tali atti sono di competenza del’Ufficio tecnico che niente aveva obiettato al momento del rilascio della concessione edilizia. I Codevigo lo sapevano, eppure insistettero nel loro teorema.

La Bourricots & C. snc sospese i lavori, ma presentò immediatamente una contro denuncia con richiesta di danni assai onerosi contro i Codevigo e contro chiunque altro collaborasse al blocco dei lavori. C’era intralcio nella costruzione di opera di pubblico interesse, regolarmente concessa dalle autorità competenti. I Codevigo volevano raggiungere il loro obiettivo di disturbare, di stancare i costruttori, per indurli ad abbandonare l’opera.  L’amministrazione era più facile intimidirla, corromperla. Volevano indurre il sindaco a contraddirsi il sindaco a contraddirsi, a fare il lavoro sporco di rottura del contratto per carenza di elementi certi sulla proprietà. Il sindaco si spaventò a morte, corse dai Codevigo e disse  brevi parole.

“Che volete? Io non voglio andarci di mezzo.”

Gli risposero che aveva ragione e che doveva seguire i loro consigli. A questo punto intervenne Federica Codevigo che agiva sempre nell’ombra, ma era il cervello della casa. Propose di incontrare il presidente Narcisse Bourricots per consigliargli una uscita onorevole dall’affare o sostenere una battaglia legale con loro ricorrenti, perché, a suo dire, non c’era solo negligenza grave del sindaco, ma anche millantato credito da parte loro. Il che avrebbe messo nei guai un po’ tutti.

Il sindaco Anacleto De Marchi era molto preoccupato. L’assessore Leone Massari non si faceva vedere più in municipio. Ringraziò il cielo per non avere cercato di ottenere tangenti. De Marchi propose un incontro tra le parti in municipio, assistito dall’ingegnere capo dell’ufficio tecnico. La proposta fu accolta. Per i Bourricots si presentò Alix, sorella del presidente e sua delegata plenipotenziaria. Il titolare, data la sua precaria condizione di salute aveva dato pieni poteri alla sorella, che si presentò con un legale di fiducia. I Codevigo si presentarono in tre: Federica, il marito Giorgio Farinati e un noto avvocato esperto di procedura penale.

Le persone convenute sapevano di giocarsi una posta altissima, erano tutti assai composti.

Parlò il sindaco chiarendo il motivo della convocazione, passò quindi la parola all’ingegnere capo dell’ufficio tecnico. L’ingegner Vincenzo Alicata si profuse in una serie di spiegazioni tecniche, aiutandosi con tabulati, con planivolumetrici, con verbali della commissione, con copia della delibera del consiglio comunale che approvava.

“Signori!” intervenne Fedderica Coderigo. Sembrò un grido di guerra.”Cosa state cercando di dire? Nessuno discute sulle cubature o sulle linee progettuali. La domanda è una sola: di chi è il terreno su cui la società Bourricots sta costruendo? E’ stato acquisito regolarmente? Con quale atto? Chi è stato il venditore? Il sindaco, che ha firmato atti, delibere e licenze, ce lo dica.”

Il sindaco balbettò poche parole

“Il sindaco non si occupa e non può occuparsi di queste cose. Ha i consulenti apposta, che sono qui, legale e tecnico, non mi hanno fatto alcun rilievo, e quindi io ho firmato la concessione. Non farlo sarebbe stata una omissione di atti d’ufficio.”

L’ingegnere Alicata capì che toccava a lui. Il segretario comunale sudava freddo, ma era contento di essere là solo perché non poteva esimersi.

“Mi è stata presentata autodichiarazione, tramite autentica notarile che dichiarava che il possesso esiste e che sarebbero stati allegati al più presto documenti probatori regolari, appena terminati atti complessi che il notaio Valdemarin stava raccogliendo, ma che aveva già opportunamente controllati di persona.”

Le parti avevano tutte parlato, tranne Alix Bourricots.

“Signori” disse Alix con calma olimpica, ”se ci sono errori noi siamo qui per rimediare, siamo qui anche per rinunciare all’opera e tornare in Francia. Anzi siamo disponibili a rivolgerci prima ad un altro comune del circondario. Il nostro è un intervento soprattutto benefico, a vantaggio della comunità, vogliamo costruire un museo, senza oneri a vostro carico.” E guardò il sindaco.

Le reazioni dei presenti furono contrastanti. Il sindaco si dichiarò dispiaciuto se ciò avvenisse. Ma era solo una risposta diplomatica. Vedeva aprirsi uno spiraglio insperato. Il tecnico, pur non essendo d’accordo, seguì il sindaco. Si toglieva una dolorosa spina.

Federica Codevigo si lanciò in una furente filippica contro tutti, contro l’imprudenza del sindaco, contro la superficialità dell’ufficio tecnico, contro la vanità dei francesi venuti impudicamente a spadroneggiare in  casa d’altri.

Respirò, ma non aveva finito.

Ciò permise ad Alix di dire la sua opinione.

“La documentazione in nostro possesso è regolare. Abbiamo speso finora due milioni per spianare il terreno, di scavo, di fondazione e muri di elevazione. Altre spese ci sono per le ordinazioni già fatte e, se non le ritiriamo, abbiamo onerose penalità. Comunque per noi non c’è problema, chiediamo ai ricorrenti, o a chi per essi, un rimborso di quattro milioni di euro e il discorso finisce qui.”

L’ingegnere Giorgio Farinati rimasto fino allora in silenzio chiese alcuni minuti di sospensione per consultarsi con la moglie,  che voleva replicare. Si sentiva vincitrice. Ma poi accettò.

Farinati si era convinto che un’opera così importante e costosa non poteva essere iniziata senza regolare licenza, senza regolare possesso dell’area. Sembrava tutto troppo facile.

“C’è qualcosa che non mi convince” disse. Era una persona assai prudente.

Questo pensiero sottile era penetrato anche nella testa di Federica. Ma impulsiva com’era però lo scartò. Espose il suo piano.

“Paghiamo quanto chiesto, liberiamoci da questo Narcisse e subentriamo noi. Ci guadagneremo comunque. Gli atti, magari imperfetti e incompleti, devono esserci. Sentiamo anche il notaio Valdemarin. Ma direi di accettare la loro rinuncia per noi onerosa. Lo sapevamo già. Non è la prima volta che questi fatti succedono.”

Il marito intervenne, preoccupato della facilità con cui sembrava sciogliersi un grosso dilemma.

Ma Federica Codevigo insistette, con cipiglio duro.

“Andiamo avanti!”

“Chiediamo un rinvio, sentiamo a casa.”

Questo per Federica era un’offesa. Lei sapeva cosa fare e quando! E lo disse sibilando le parole.

“D’accordo, però riflettiamo un attimo, rinviamo, sentiamo tuo padre e tuo fratello. Chiediamo un breve rinvio. Dovremmo essere più cauti, dovrebbe essere il Comune  a  chiedere a loro un risarcimento per aver deturpato un territorio demaniale. Anche il sindaco dovrebbe pagare.”

Vedendo silenzio nella moglie andò avanti.

“Federica, allora va bene. Accettiamo tentando prima un ribasso, poi  ci rifaremo con la costruzione. Accettiamo di pagare la liberatoria. Loro firmano l’atto di abbandono dell’opera, noi paghiamo le spese da loro sostenute. Ma poi ci troveremmo nelle loro stesse condizioni di impotenza.”

Federica era già avanti con i suoi ragionamenti, neanche lo sentì.

“Siamo pronti a subentrare, sia pure in modo oneroso. Eventuali difficoltà? Qui non ce ne sono per i Codevigo.”

Per la prima volta avevano da contattare con persone non del luogo, ben preparate, ben fornite di mezzi, che non conoscevano. Che non si impressionavano per niente.

Tornarono in seduta. Federica arrischiò, propose il pagamento di tre milioni alla società Bourricots per la loro rinuncia all’opera. Chiedeva a latere di vedere e ottenere tutti i documenti in loro possesso che li avevano indotti ad operare fino a quel punto. Non voleva che ci fossero condizioni o pesi e misure ignoti. I documenti, ne era certa, li avrebbe usati lei, dopo una severa verifica.

Era convinta che i francesi si fossero scocciati di tutta questa burocrazia e che non vedessero l’ora di levarsi dai piedi. Erano stranieri. Fece un errore: non era questa la questione e poi il proprietario non era straniero. Ma lei non lo sapeva.

Firmarono un atto di riconciliazione e di risoluzione di contratto, davanti al sindaco, ai testimoni e al segretario comunale in funzione di notaio. Prima però Alix Borricots chiese e ottenne l’aggiunta di una postilla.

Alix si chinò verso il suo legale, parlarono sottovoce.

“Tre milioni? Va bene” disse la donna, vi veniamo incontro e finiamo qui”. Era perentoria e conclusiva. La stessa Federica fu come ipnotizzata. Saltò sulla sedia. Accettò.

La somma di tre milioni di euro, non era un’inezia, neanche per i Codevigo, ma apriva una prospettiva desiderata, ambita e molto remunerativa in avvenire. Federica sentiva crescere il suo credito in famiglia e nella loro comunità cittadina. Fu concordato che l’operazione di chiusura e di pagamento fosse conclusa entro ventiquattro ore, all’indomani, presso la Banca del Credito Rivierasco.

Se non fosse stato onorato l’impegno, tramite versamento della somma risarcitoria concordata, la penalità sarebbe raddoppiata. Federica sapendo che la banca era praticamente della famiglia non batté ciglio e accettò.

“Sei stata troppo precipitosa” disse ancora una volta il marito.

“Non vedo rischi.”

Farinati era colto da brividi, ma poi gli passò. Troppo felice era la moglie per privarla di quelle emozioni di conquista. Solo che l’imprudenza e la superbia possono giocare brutti scherzi.

All’apertura della Banca del Credito Rivierasco, l’indomani, il dottor Massimo Donati, ricevette nel suo ufficio, un po’ stretto, le parti.

Conoscendo l’argomento, spiegò per prima cosa che gli era appena giunta da Perth, in Australia, una mail del Consolato d’Italia che lo informava che la documentazione riguardante il signor Mario Carpinet, ultimo erede vivente di una famiglia veneta emigrata nell’emisfero australe negli anni ’70, riguardante la proprietà Montecucco, secondo regolare richiesta, era stata formalizzata, raccolta e già spedita in Italia. La rinuncia era valida ad una condizione: che non ci fossero spese, passate e presenti, di qualunque tipo a suo carico

Il Carpinet, contattato anticipatamente dallo studio legale De Rossi & Mancini, aveva accettato subito la cessione della collina, per modica cifra, pur di liberarsi da quella sterpaglia che lo tormentava da anni con richieste di pagamento di imposte e tasse arretrate da parte dell’esattoria provinciale. Che mai aveva onorato.

I consolati, disseminati nel mondo, sono lì apposta per tutelare regolari interessi dei concittadini lontani. I documenti sarebbero arrivati a stretto giro di posta, come la Banca aveva raccomandato. Possedeva già le copie di tutto. Come pure i Bourricots. Tutto in regola, tutto a posto.

I Bourricots, avendo bisogno di una banca locale si erano già rivolti al Credito, aprendo un conto e depositando una somma considerevole, per pagare le forniture, le imprese, i lavoratori.

Per il direttore tutto era regolare, non vedeva problemi.

Fu ordinato ed effettuato il versamento di tre milioni di euro dal conto Codevigo al conto Bourricots.

Sembrava tutto in regola, come stabilito, come voluto. Ma non era così.

Un cerchio di ferro sembrò stringere il capo di Federica. Perché non era stata più prudente? Sentiva fatti, notizie e informazioni che, se conosciuti prima, avrebbero modificato tutto.

A ulteriore chiarimento, tramite il sindaco, fu convocato d’urgenza il funzionario dell’ufficio anagrafe. Il ragioniere Marcolongo accorse trafelato e descrisse la storia della famiglia Carpinet, di origine friulana, emigrata in Australia nei primi anni settanta: genitori e tre figli. L’unico rimasto era Giulio Carpinet che periodicamente veniva bersagliato con richiesta di pagamento di imposte e tasse, che regolarmente evadeva. Tutto registrato nei registri dell’anagrafe.

Da laggiù non sapevano come disfarsi di quel peso, di quella collina che nessuno voleva: né l’agricoltura, né il turismo, né come dono a qualche istituzione benefica. Si liberò del peso molto volentieri, purché il nuovo proprietario si accollasse i debiti con il fisco. Poté così dedicarsi interamente alla sua attività assai fiorente nella ristorazione.

L’acquirente, il signor Narcisse, aveva accettato l’acquisto della sterpaglia. Per procura aveva firmato tutti gli atti. In precedenza, un dipendente del comune, tale Napoleone Bordin, disse proprio così Marcolongo, caro amico ora scomparso, aveva fatto ricerche presso il catasto, su richiesta dell’esattoria per capire qualcosa, se si poteva inseguire l’emigrante, se si poteva ricavare qualcosa da quel terreno incolto con rovine. Grazie a lui abbiamo messo a fuoco la vera situazione.

“Ora finalmente non ci saranno più pendenze e seccature. Se va in porto l’operazione, come spero, non ci saranno più inadempienze per il nostro  ufficio e quello delle finanze”, concluse.

“Perché non sono stata avvisata?” urlò Federica, in modo isterico. Si vedeva sconfitta sul suo terreno, a casa sua.

Il direttore spiegò che si trattava di normali procedure bancarie, con un cliente di lusso, inoltre  non si trattava di prestiti, di mutui, di conti scoperti. I Bourricots non ne avevano bisogno, usavano solo il loro denaro, in modo lineare e corretto.

“E’ vero, avevano chiesto al Credito di fare da tramite con una Banca di Perth per portare a termine l’operazione, con mezzi finanziari propri.” Normale, a suo dire. “Questo tipo di operazione lo facciamo anche con gli stranieri che lavorano in Italia. Abbiamo contatti con le loro banche all’estero.”

Giorgio Farinati si sentì scorticato vivo. Non era stato ascoltato, ma ora sarebbe stato incolpato. Viveva dai Codevigo con tutti gli agi, ma senza poter dire una parola. Come erano potuti cadere, scientemente, in una trappola simile? Pensò alle conseguenze in famiglia, in banca, in società. Tremò per la sua impresa. Avevano sbagliato tutto, trascinati dall’ira. I potenti sbagliano poco, però, quando succede, lo fanno in grande. Peggio di tutto fu il ridicolo in cui caddero i Codevigo, con palese piacere della gente comune.

La famiglia Codevigo aveva pagato tre milioni di euro alla società Bourricots, secondo i patti. Per cosa? Per niente. Senza ottenere niente in contropartita. Era inaudito, impensabile. Federica restò chiusa in casa per giorni e giorni. Sembrava il diavolo incatenato, trasandata come si era lasciata andare. Litigò con il marito perché non aveva saputo frenarla.

Lo smacco subito e la sconfitta voluta così apertamente, da persone che si credevano esperte di finanza, fece il giro del circondario e della provincia intaccando fortemente, per la prima volta, il prestigio, la credibilità e la solidità finanziaria della famiglia.

Narcisse Bourricots continuò la costruzione del castello, che ormai come tale cresceva davvero. Aveva ai vertici quattro torrette circolari da cui ammirare la vasta campagna sottostante.

Ignaro di tutto, perché era un uomo semplice che non volava ad alti livelli, Marcolongo si presentò, suonò a casa Bourricots in via Brentanova 75. Era un edificio a due piani,con un spazioso locale dotato di attrezzature sportive, al piano terra, e con locali  da adibire a biblioteca e uffici. La palestra era servita per sedute di recupero fisico di pazienti bisognosi di lezioni di aerobica, dopo interventi chirurgici complessi. La signora Denise non c’era, ma la figlia sapeva tutto.

Parlò con Alix che aveva a fianco il fratello infermo. Era venuto ad accettare la loro offerta di lavoro in ufficio. I due parlarono sotto voce tra loro.  Il malato assentì immediatamente.

Il ragioniere Marcolongo si sarebbe licenziato dal Comune, avrebbe assunto occupazione presso la famiglia, come contabile, bene stipendiato, in regola con posizione contributiva, assistenziale e ogni altro suo diritto assicurativo.

Il ragioniere voleva baciare le mani a Narcisse, ma fu tenuto lontano. Vide che erano pallide, smunte. Capì.  Credette di capire che quell’uomo stava male. Si ritirò retrocedendo con il cuore gonfio di attese  e di nuove speranze.

 

IL MUSEO

 

L’immobilità gli costava cara. L’uomo, che d’ora in avanti chiameremo soltanto Narcisse, era tutt’altro che debole e malato. E’ facile essere beffardi, anche nelle avversità, quando si ha la solidità economica che ce lo può permettere. La sua figura sottile non deve ingannare, aveva praticato atletica e canottaggio. Tramite l’Immobiliare Solare aveva acquistato per tempo una villa veneta, disabitata, perché oggetto di disputa tra eredi. E quindi abbastanza disadorna e abbandonata. La fece restaurare ricavandone una suntuosa abitazione signorile. Era l’orgoglio della gente comune, ma oggetto di invidia da parte delle èlite che ricche lo erano da sempre, ma non fino a quel punto. In più di uno cominciò a insinuarsi un dubbio, una domanda inquietante. Chi c‘era dietro i Bourricots?

Qualcuno azzardò un’ipotesi assai inquietante nel territorio, di recente citato nelle cronache come luogo quieto in cui si era inserita la mafia sbarcata dalla Sicilia, prima come luogo di confino, poi come luogo di conquista. C’erano stati episodi di criminalità che avevano interessato la stampa nazionale. Certamente dietro la colta e civile famiglia francese, si doveva celare qualcosa di losco. L’ipotesi mormorata, come la calunnia, è all’inizio un soffio che diventa vento, poi ciclone. Lo sappiamo. La gente cominciò a parlare male di Prosper e Denise. Quest’ultima faceva le spese da sola, ma visto che era trattata con diffidenza, chiamò alle sue dipendenze due fidate ragazze indicate, tra sue parenti, dal ragioniere Marcolongo: Giuseppina e Carlotta. Le ragazze lavoravano a tempo pieno. Era stato loro raccomandato, molto chiaramente, che il posto dipendeva da loro. Massima discrezione, niente mormorazioni né in casa né con le amiche. Accettavano? Accettarono con convinzione, subito, vista anche la difficoltà di trovare occupazione adeguata agli studi liceali. Spontaneamente si erano dedicate alla sartoria e alla cucina. Erano perfette per gli studio secondari.

Erano le persone ideali. Marcolongo, che le aveva indicate, garantiva della loro serietà. Per i lavori domestici particolari, di giardinaggio e di cura degli animali che avrebbero preso, chiamarono da Mantova una famiglia indiana Shik. Silenziosa, fedele, felice di avere trovato un approdo sicuro. Avevano degli amici in quella provincia, li avevano conosciuti a una mostra del Mantegna, che già avevano alle loro dipendenza altri indiani. Loro tramite vennero in Italia dei parenti. Aaron era il loro capofamiglia, portava un nome inglese Era vissuto cinque anni in Palestina e in Giordania, territori spesso in guerra da dove era uscito.

La presenza dei Bourricots cominciava a farsi notare non solo per le invidie, ma anche per lodare il modo di vivere semplice, pur dimostrando abbondanza di disponibilità finanziaria. Qualcuno cominciò a invitarli alle manifestazioni folkloristiche paesane e alle feste di famiglia. Raramente accettavano, adducendo scuse riguardanti l’età, la salute, il bisogno di quiete. Spesso erano assenti per i loro viaggi culturali all’estero.

I figli invece era più residenziali. Anche loro non avevano contatti. E questo non era comprensibile. Bisognava trattarli da quello che erano, da signori. E chi poteva cominciare i primi contatti, a fare i primi inviti se non i Codevigo?

Gli inviti erano fatti anche perché ci si attendeva il ricambio della cortesia. In molti era grande la curiosità di vedere come era stata ristrutturata e arredata Villa Mocenigo Valier. Era una villa veneta appartenuta nel settecento a una nobile famiglia veneziana di dogi, e poi all’ultimo proprietario il commendatore Graziano Valier, morto senza figli, distrutto dalla sifilide. L’immobile era stato lasciato in eredità a un pio istituto che non vide l’ora di realizzare qualcosa cedendo un peso, per loro irrecuperabile. E invece fu recuperato. Ora brillava nella verde campagna poco lontano dal fiume che nei secoli scorsi portava i pregadi e la loro corte a villeggiare in Riviera.

Villa Mocenigo Valier era a due piani. Al piano terra c’erano i servizi vari, i depositi, un ampio salone che doveva essere servito da cucina, da lavanderia, da sartoria. Il primo piano aveva stanze alte e ampie, come è nelle ville venete. Decorazioni alle pareti, e sul soffitto. Anche qui c’era un ampio salone delle feste con tavoli pregiati abbandonati, che saranno sistemati da provetti mobilieri. Unico disordine, ma obbligatorio: i caminetti a legna, molto in uso nei secoli  precedenti era tenuti come decoro, come documenti storici. Erano stati sostituiti da indecorosi, ma necessari impianti idrici, elettrici, di riscaldamento. C’erano ampi poggioli da cui i nobili si affacciavano per prendere il fresco, per ricevere gli omaggi e i saluti a mano alzata degli invitati che si sollazzano nei prati, nei labirinti, lungo i viali alberati. In questa villa, come in altre, si tramavano congiure, si contrattavano spedizioni di galee in oriente, si concordavano matrimoni e tradimenti obbligatori tra nobili. E’ sempre così tra ricchi. Hanno tutto, vogliono anche il peggio. A sud c’era un’ampia scalinata che introduceva direttamente nel salone delle feste. Pari salone con finestre strette che non permettevano sguardi indiscreti c’erano al pian terreno. Per disposizione di Narcisse sarà arredato a palestra.

Luogo ideale per praticare esercizi ginnici di sera e di notte con luci abbassate per recuperare l’agilità fisica. I finestroni erano alti, a vasistas. Nessun occhio indiscreto vi poteva penetrare. La finzione, la bugia lo costringevano a quella condizione, per libera scelta, per realizzare i suoi piani. Finora i suoi comportamenti studiati e guardinghi, le trasformazioni dei punti salienti del volto avevano funzionato. Il naso, la bocca, gli zigomi ritoccati, l’immobilismo e la mancata pronuncia di parole, giustificata da intervento chirurgico, conseguente a ferite subite in operazioni di guerra, dove aveva svolto un pericoloso lavoro di reporter free-lance, sembravano funzionare. Nessuno finora aveva minimamente sospettato che Napoleone Bordin fosse vivo e presente. L’unico rischio di cui si vantava, aperta sfida, era la firma in sigla: Na.Bo., stava per Narcisse Bourricots.

Si teneva sveglio di mente e aggiornato non solo praticando aerobica e ginnastica, ma anche restando costantemente informato sugli avvenimenti.

L’intervento edilizio doveva essere stato costosissimo, si mormorava. I Bourricots si servivano ampiamente della Banca del  Credito Rivierasco, il cui presidente, Antonio Codevigo, cominciava a cambiare opinione sui francesi. In un periodo in cui i depositi scarseggiavano, le esposizioni per concessione di mutui e di fidi, di conti in rosso era in aumento preoccupante, dopo il periodo  di concessione di prestiti facili per guadagnare clienti. Ora quella linea di operatività si stava rivelando una botte forata. Il direttore veniva costantemente rimproverato, ma le colpe non erano solo sue. Avevano difficoltà a rientrare anche imprese solide che a loro volte stentavano ad incassare dai loro clienti. Ebbene quel cliente, i Bourricots, era davvero una manna. Cominciò a vedere i nuovi venuti con occhio di riguardo, da uomo di mondo e d’affari. Spinto anche dal figlio Pier Maria, che aspirava alla successione al padre nella direzione degli affari di famiglia. Con la sorella era in corso una gara per dimostrare ciascuno la propria abilità e astuzia. Federica di recente aveva perduto, agli occhi del padre e della gente, fiducia e stima. Cominciò a sorridere a Prosper le poche volte che lo vedeva in Banca.

La curiosità maggiore era sui figli che si vedevano pochissimo in giro. Alix aveva fama di essere una bella ragazza, ma pochi la vedevano. Qualche rampollo, come i figli gemelli di Ettore Mezzavia, commercianti in granaglia, cominciava a farci un pensierino su quella ragazza brillante e simpatica. Quando si incontravano di sfuggita era sempre sorridente.

Di Narcisse si dicevano solo parole sospese, di compassione: così ricco e così sfortunato.

La famiglia difficilmente era al completo. Se erano presenti i genitori, erano lontani i figli. E viceversa. C’era in casa sempre qualcuno a vigilare, a ordinare, a esigere, a pagare. I dipendenti occupavano la castaldia. La casa in via Brentanova 75 era stata venduta.

A sud-est c’era la stanza di Narcisse, Alix aveva la sua stanza oltre il salone, a sud. In mezzo un ampio corridoio attraversava tutta la villa dividendo  i locali, metà a nord, metà a sud. La villa era attorniata da bosco in particolare a nord. Il personale di servizio era presente di giorno.

Nel sottotetto c’era un salone enorme, pari a tutto il palazzo, parzialmente diviso in stanze appartate con divisori a gesso.

Anche i lavori del castello di Montecucco erano da poco terminati. Là andarono ad abitare Prosper e Denise, al piano superiore. Al piano terra ci sarebbe stato il museo archeologico, con reperti recuperati dai vari piccoli musei locali che raccoglievano pezzi trovati negli scavi  effettuati in tutto il territorio della gronda lagunare. Era un’altra opera di alto valore per le caratteristiche, le finiture e le funzioni alle quali era parzialmente destinata, che dava prestigio alla cittadina. Nelle case, negli uffici, nelle scuole, in piazza non si parlava d’altro. Tutti volevano conoscere i mecenati francesi e, possibilmente, essere invitati all’inaugurazione.

All’inaugurazione era stata invitata anche la Soprintendente regionale ai beni culturali che già aveva dato il suo assenso nel momento della approvazione del progetto di costruzione, oltre che di recupero e salvaguardia ambientale Era stato realizzato un progetto di grande prestigio e valore. La parola “salvaguardia” era diventata di uso comune, ma di ruderi c’era ben poco da salvare. Tuttavia erano stati la molla che aveva fatto scattare tutto. Era stata materializzata una leggenda.

Tutti i preparativi della festa erano stati seguiti dal ragioniere Marcolongo, che aveva un suo apposito ufficio al castello. Preparare l’elenco delle persone da invitare, a cominciare dal sindaco Anacleto De Marchi fu motivo di gioia immensa. Mai avrebbe  pensato, dopo una lunga vita dietro una piccola scrivania, poter invitare le autorità restando dritto, sorridente. Prego di qua, diceva E lo ubbidivano.

I lavori si erano conclusi felicemente con grande cura dei particolari. I Bourricots erano soddisfatti. Così pure il sindaco che, dopo due anni di attese e di preoccupazioni per le invidie dei paesani e delle loro rimostranze, vedeva coronato un sogno: la sua amministrazione sarebbe stata ricordata in futuro. Avevano un museo di tutto rispetto. L’assessore stava sempre un passo indietro, scottato dal tentativo dei Codevigo di far cadere il progetto e di aggredire la giunta. Sopra la collinetta, ad ammirare il vasto edificio, attorniato da piante d’alto fusto, che aveva trasformato quel luogo, che tutti ricordavano impraticabile e in rovina, c’erano persone colte, c’erano molti curiosi. Si cominciava a cambiare opinione sui magnati stranieri. Aumentava però la curiosità. Chi erano mai? Come facevano ad essere in possesso di mezzi finanziari di quella levatura? Tutte opinioni che si gonfiavano e si sgonfiavano da sole, bastava ignorarle. Ma chi non aveva dimenticato era Federica, ridimensionata  anche in famiglia. Il suo matrimonio con Giorgio Farinati era entrato in crisi. Lei lo teneva lontano, lui aveva incontrato altre passioni, ma niente di irreparabile era avvenuto. Federica non si interessava neppure di questo. Aveva un chiodo fisso: capire. Si era fatta più bella, ma anche più velenosa, diffidente. Aveva uno sguardo che trapassava, per questo non trovava più tenerezze, amicizie, solidarietà. Aveva un grande tormento vedere diminuita la sua importanza nella società civile, pur appartenendo a una famiglia che era sempre stata al di sopra di tutto e di tutti. Fin da ragazza, a scuola, aveva goduto di umiliare i compagni, a tenere lontane le compagne che negli studi si distinguevano. Ricordò che si era divertita soprattutto con un ragazzo, Napoleone Boldrin, che d’accordo con altre ragazze, aveva cercato di umiliare in tutti i modi in pubblico con successo. Forse perché in quel periodo si era invaghita di lui, attratta dalla sua mancanza assoluta di invidia o di ostentata superiorità. Godeva del male che faceva, purché altri fossero presenti a sostenerla e ad applaudirla. Era stata spietata, senza una ragione particolare nell’offendere un ragazzo timido e corretto come Napoleone, durante una festa di diploma, a fine anno scolastico, a Villa Pisani. L’aveva sfidato, l’aveva provocato con discorsi, con carezze, con sorrisi, con l’offerta fisica di sé ottenendone un fiero rifiuto. Era successo un attimo prima che lei chiamasse le compagne nel labirinto ad assistere ad una aggressione studiata nei minimi particolari. Ad essere sorpresa e ridicolizzata, inaspettatamente, era stata lei. Alle sue azioni non dava spiegazione. Non lo sapeva neppure lei. Era malvagia fino al punto di soffrire se qualcuno si difendeva. Aveva agito poi in modo di sposare il suo migliore amico, per di mostrare un ulteriore disprezzo, tentò di distruggere la sua partecipazione societaria, tentò di opporsi fino all’ultimo perché trovasse un misero posto precario in municipio Voleva far conoscere cosa si poteva ottenere con il denaro. E i Codevigo erano ricchi, più di qualunque altro.

Erano trascorsi due anni dall’inizio dei lavori, dalla disputa con i Codevigo, quando i Bourricots, in un sabato pomeriggio di maggio tagliarono il nastro assieme al sindaco. Grandi applausi, gran  tintinnio di calici, scambi di sorrisi e di consensi. Era presente metà del paese. Il piccolo castello con le sue quattro torri era ben visibile da tutta la campagna circostante.

Prosper, tra la sorpresa generale, volle che il museo, avesse un nome famoso francese: Napoleone.

In ricordo di Bonaparte che nel 1807 aveva acquistato la vicina Villa Pisani, perla della Riviera, diventata anch’essa, molti anni dopo, museo.

Napoleone Bordin, nelle vesti di Narcisse, conduceva una vita piena di  interessi culturali e di viaggi con Alix. In paese rimaneva l’essenziale, chiuso nella sua sedia a rotelle. Ma quando viaggiava a San Pietroburgo, al Prado a Madrid, nel Tibet con la sua fedele accompagnatrice, respirava aria nuova. Poteva muoversi come voleva, sempre con il suo angelo custode che lo riparava da sorprese, da intoppi, da incontri o colloqui indiscreti, imprevisti e pericolosi. Per tutti egli era morto, non esisteva più, tranne che nel ricordo di pochi intimi. Aveva dato sfogo a tutte le sue energie represse e umiliate in paese. Sotto mentite spoglie. Irriconoscibile, grazie anche alla sua prudenza. Miracolo della bugia. Era e non era come la farfalla che si mimetizza, immobile, tra i fiori variopinti, in attesa che la rondine passi oltre? Per lui la bugia era la sopravvivenza nell’incognito. Non c’erano margini o spazio per tornare indietro. Gioiva nell’aiutare, discretamente, con severa attenzione, persone sfortunate, gioiva nel vedere i suoi detrattori, coloro che lo avevano distrutto arrancare. Però voleva anche vivere, anche uscire da quel piccolo mondo che l’aveva visto soffrire. Coloro che ora si muovevano meno erano proprio i suoi genitori adottivi: Prosper e Denise che curavano, con l’aiuto dell’impareggiabile ragioniere Giacomo Marcolongo e di altre fidate persone, il museo, l’abitazione soprastante.

Aveva fatto molto clamore un messaggio apparso sulla bacheca posta in piazza per raccogliere istanze anonime, critiche, minacce o lodi sperticate commissionate.

Il messaggio era misterioso, laconico e stuzzicò la fantasia di molti. Rivolto a chi? Forse era una velata allusione, una dichiarazione d’amore con parole cifrate.

“Copriti!”

Alcuni lettori abituali ignorarono del tutto il messaggio.

Qualche altro pensò alla cosa più comune: qualcuno ha il conto scoperto in banca. Era un invito, o una provocazione, a mettersi in regola. Qualche altro ancora pensò che fosse una trovata dei titolari di abbigliamento che si facevano pubblicità gratuita in un luogo da cui tutti passavano. I Villani, esperti in tessuti, fecero finta di niente, perché niente sapevano, anzi accettarono che si pensasse ad una loro furbizia. “Eeeh!” mormoravano appena, sorridendo.

Narcisse era divenuto insopportabile. A se stesso soprattutto. Perché sentiva crescere  dentro un odio implacabile per coloro che l’avevano ridotto in miseria, a rifiuto della società, perché fallito, perché divenuto povero. Non per sue incapacità, ma perché ridotto così dai potenti ricchi, grazie ai loro possedimenti, alle loro banche, ai conti grassi dai quali non gocciolava mai niente per nessuno, se non per ulteriore profitto. Usurai per superbia e vanto, avevano  sempre vinto.

Narcisse, su consiglio di Alix, era stato invogliato a dimenticare il passato, a partire insieme per luoghi remoti, in cui vivere serenamente i giorni che stavano loro davanti. Ma lui aveva rifiutato, anche se all’inizio con titubanza, perché tra loro due cominciava inevitabilmente a crescere una naturale, piacevole dimestichezza, fiducia reciproca.

Tale scelta fu dolorosa, perché non era l’uomo violento e vendicativo di cui stava assumendo ogni giorno di più le sembianze. Ma una rovinosa caduta lo stava trascinando nel baratro della vendetta. Ad attenuare questa sua rabbia, aveva escogitato la trappola del libro delle grazie dove si potevano esporre desideri, speranze, dileggi, timori, rabbie. Tutte unite da un solo filo: una richiesta di aiuto che cercava in maniera anonima, ma vistosa di soddisfare. Creando ancor più sconcerto, interrogativi e malumori, soprattutto tra i veri potenti che si vedevano scavalcati da autori ignoti e sicuri. In  queste opere di beneficienza lentamente lasciò trapelare che dietro la sigla Na.Bo. si nascondesse, velatamente, Narcisse Bourricots. Godeva di questo. Sapeva di essere inattaccabile. Era una ulteriore sfida ai signori del denaro che sempre avevano spadroneggiato, intimidendo persino le autorità, negando loro piccole le prebende consuete.

 

L’OPERAIO

 

Ettore Malinverni, da poco sposato, lavorava a Porto Marghera ai forni. Parola terribile per qualunque operaio, perché significava fatica oltre i limiti per intensità, per calore e per pericolo. Qualcuno ci era caduto dentro e la vedova si vide consegnare un cartoncino, simile a un diploma e una piccola prebenda. Fine. Ettore Maliverni aveva un fisico robusto e un coraggio da leone sia per l’età, sia per le capacità, sia per il bisogno. Si era impegnato con la banca locale con un mutuo assai pesante, che però gli aveva permesso di acquistare una vecchia bicocca contadina che stava trasformando in civile abitazione con l’aiuto dei compagni. Erano aiuti che si scambiavano con competenze diverse, complementari.

Molti operai avevano raggiunto il sogno di una casa lavorando di festa, di notte, durante le ferie. Con un debito taglia collo, Ettore aveva rischiato, aveva ottenuto il prestito necessario che restituiva a rate con interessi pesanti, che ignorava, perché poteva lavorare di più. E lo faceva volentieri. Anche perché aveva un figlio appena nato. Per lui sognava già un futuro migliore di quello di operaio agli altiforni. Lontano dalle umiliazioni, dalle cattiverie, dai pericoli incessanti. Un pericolo altrettanto esistente era quello di restare disoccupato. Sarebbe stata la rovina. Avrebbe perduto la casa, se non avesse pagato le rate alla Banca del Credito Rivierasco. Per questo non ci pensava e rischiava. Si distingueva tra gli altri, sperando di essere notato di avere un premio, uno straordinario,  qualcosa che gli permettesse di arrotondare il suo salario. Osò anche ad offrirsi per ore straordinarie alla villa Mocenigo Falier tramite il ragioniere Marcolongo, già amico di suo padre, ora defunto. Marcolongo assai gentilmente gli aveva fatto capire che per il momento non occorreva, ma che avrebbe tenuto presente.

Ettore era volonteroso e non arretrava facilmente. Si offrì come giardiniere domenicale ai signori Codevigo. Se ne intendeva di piante da potare, da piantumare, da innestare. Inaspettatamente fu accettato. Lavorava sodo, teneva bene le aiuole, potava le siepi, ma non pagavano. Un giorno, dopo due mesi di lavoro, osò chiedere di essere pagato. Non gli fu rifiutato, ma rinviato per fare tutto un conto a fine stagione. Non avevano fatto alcun contratto, ma non pensava di poter avere problemi dai potenti Codevigo.

I compagni di lavoro si complimentavano con lui. Ettore non parlava, rimuginava, ci stava male, non riuscendo a capire un simile comportamento. Qualcuno gli chiese addirittura se sapeva se occorresse un altro giardiniere. Disse di no. Per sua difesa. E perse anche quell’amico. Lo ritennero troppo superbo e lo isolarono. Essere isolato in fabbrica era la morte civile. Al padrone severo e ingiusto, si aggiungeva il sindacato dei compagni. Si riunivano tra loro, ma Ettore non lo chiamavano. Se cadeva una trave vicinissima, nessuno gli urlava: attento! Ettore cominciò a deperire, a non capire perché tutta la sua onesta, la sua buona volontà venissero calpestate così apertamente e ingiustificatamente.

Una sera parlò a sua moglie di questi fatti. Lei qualcosa aveva intuito. Si spaventò ancor di più, perché non c’era alcuna spiegazione. Era sempre più stanco e svogliato, distratto. Non faceva più lavoretti straordinari e i soldi cominciarono a mancare. A strozzarlo era il debito del mutuo per la casa, puntuale, inflessibile, implacabile. Con qualunque stagione, con qualunque situazione o disgrazia.

Cominciò a saltare una rata. Il direttore della banca gli fece una ramanzina invitandolo ad essere puntuale.  Non doveva ripetersi. Perché la banca, prima o poi, gli avrebbe procurato lo sfratto.

Andò a casa disperato per il buio che si presentava davanti inatteso e incapace di trovare soluzioni.

Susy, di sua iniziativa, partì, andò alla villa dei Codevigo a reclamare cinque mensilità di arretrati per lavori eseguiti in villa. Il personale la stava già mettendo alla porta, perché non era di competenza loro quanto chiedeva, e perché abituati ad adeguarsi ai padroni.

Apparve come un miracolo Federica. Attraversava di corsa il salone. Vide la donna. Chiese alla sua cameriera cosa volesse. Le fu detto.

Federica, stralunata, si volse di scatto e scacciò l’importuna.

”Vergognati!” disse e si allontanò.

Ma non parlava di lei, parlava di sé. La donna restò senza fiato, senza saliva, senza coraggio di presentarsi a casa a riferire all’ignaro marito. Uscì in strada.

Neanche a casa dei ricchi le cose vanno sempre bene, pensò. Quando succedono guai sono grossi e possono fare tentennare anche le più robuste querce. Nella villa dei Codevigo, da un po’ di tempo, c’era un clima burrascoso. L’incomprensione e la vanità erano il simbolo della famiglia. Anche tra di loro stavano maturando diffidenze e volontà diverse e incompatibili. Avevano l’abilità di nascondere i loro pensieri e le loro intenzioni. Sentivano l’elettricità crescente nei loro rapporti, ma nessuno voleva svelarsi, esporsi, chiedere o minacciare per non essere il capro espiatorio. Erano tre le forze preminenti nella casa. E già in passato chi si opponeva a qualche progetto, trovava subito due forze coagulate contro, facendo cadere ogni iniziativa. Questa era la situazione di stallo, e a forza di comprimersi avrebbe portato a uno scoppio improvviso e imprevisto con risultati catastrofici, se non fosse intervenuto un miracolo. E il miracolo arrivò.

 

LA FAMIGLIA CODEVIGO

 

Sul Libro delle Grazie apparve una scritta, era una invocazione o era una minaccia?

“Non finirà così!”

Molti curiosi drizzarono le orecchie, attesero sviluppi, ma non si verificò nulla.

Alga Noemi Federica Codevigo si manifestò in incognito, ma in maniera irruenta, se c’era qualcuno che doveva capire, quello era il momento. Un vulcano nella sua mente era sul punto di esplodere, poi si decise di controllarsi, di lasciare che altri si scoprissero, quando pensavano che tutto in città si era normalizzato. Non era possibile che degli stranieri potessero spendere più della sua famiglia, non sopportava che i francesi usassero le banche come se fossero proprie, che nessuno si interrogasse seriamente, che le autorità accettassero questo nuovo assetto del territorio, che la popolazione fosse meno riverente verso i Codevigo.

Giovanni Carlo Antonio aveva tre nomi per onorare il nonno Giovanni che aveva creato il loro piccolo impero da semplice sarto di campagna. Carlo era il santo del suo onomastico, san Carlo Borromeo. Il quattro di novembre da sempre si festeggia in famiglia, con pochi invitati scelti. Antonio era il nome voluto dalla madre, donna pia, devota a Sant’Antonio di Padova. Anche lei si chiamava Antonia. Era morta giovane. Ogni anno, il 13 di giugno, vanno in Basilica al Santo a pregare. Andando si sentono buoni, tornando riprendono il loro gusto per gli affari, che non sono mai puliti. I loro propositi di una vita più corretta, meno aggressiva con il prossimo, erano sempre di breve durata. Anzi li consideravano una imperdonabile debolezza. Essere temuti era un obbligo di cui ormai si erano assuefatti, un comportamento che bisognava guadagnarsi e mantenere in pubblico. Pure in privato! Anche la sua padronanza si era indebolita in famiglia. Il figlio era più remissivo, la figlia troppo avventata e imprudente. Aveva sperato nel genero, ma Farinati preferiva viver defilato, tra i lussi, le compagnie, le donne, i piaceri. Non disturbava, per questo era stato subito accettato. Ma da lui era impossibile attendersi pareri, consigli, interessi di lunga durata. Il loro mondo preferito era quello della menzogna che tutto offusca, come il nero di seppia, che ti permette di muoverti, di agire come se fosse giorno, e tutto vero quel che dici. Poi finisce che anche tu ti convinci che sia così, anzi perdi il controllo di tutto e ogni sopruso diventa per te un diritto.

Antonia Codevigo volle chiamare sua figlia secondogenita con il nome di Alga, perché segno di semplicità, di purezza, limpida come l’acqua in cui vive. Volle chiamarla anche Noemi, personaggio biblico, amante della famiglia, vedova e nutrice devota di un ragazzo da cui sarebbe nato David, da cui sarebbe nata Maria. Federica fu un nome suggerito da sua suocera. Accettato di buon grado, tanto la bambina era già carica di storia e di santità. Erano già una guida, un  insegnamento. Ma per Federica niente si avverò di quanto sperato. Crebbe ribelle, intelligente ed astuta, facile a mentire e a nascondersi, secondo l’aria che si spirava in casa. Di umore nero come abitudine di vita, cercò sfogo nei contatti, sempre predominanti, con amici e amiche, che lentamente selezionava per fedeltà e soggezione. Già al liceo vide assottigliarsi il numero di persone che la seguivano per interesse, per l’accoglienza in villa, per il vanto di avere contatti altolocati.

Conservò a lungo l’amicizia di Fedora Valitutti, di Chiara Scocco, di Annalena Donati, figlia del direttore del Banco di Credito Rivierasco. Erano spesso assieme, fin da ragazze, appunto, ed erano complici dei suoi scherzi e dei suoi gesti scomposti. Annalena ricordò a lungo la sera a Villa Pisani quando Federica si prese gioco platealmente di Napoleone Bordin, anche con parole e gesti non conformi alla buona educazione e al suo rango. Attrasse con le sue moine il compagno di studi e lo rese zimbello di fronte alle sue amiche. Si scoprì il seno, ma invece di ottenere sbalordimento o consenso si sentì pugnalare con disprezzo e rifiutare. Rifiutare lei? Una Codevigo? “Giammai!” Giurò vendetta che sempre mantenne inalterata fino alla scomparsa del ragazzo. Il modo e i tempi non furono mai chiariti, ma a lei non importò più. Restò inalterato l’odio per colui che l’aveva umiliata di fronte a tutti, perché inevitabilmente la notizia si diffuse ben presto. Strana storia quella di Napoleone, ingegnere meccanico, prima associato in ditta con suo marito, aiutato dalla banca di famiglia e poi privato dei finanziamenti promessi di cui ogni impresa in espansione ha bisogno. Fallì, la società fu sciolta, ma tutti i beni passarono ai Codevigo. Non  gli diede pace fin che visse, riducendolo a semplice impiegato comunale all’ufficio anagrafe. Gli permise il pane, purché fosse comunque una palese umiliazione.

Due vendette giurate crebbero insieme, ma presto si esaurirono per mancanza del contendere. Napoleone scomparve misteriosamente, nessun parente o amico lo cercò. Fu presto dimenticato. Federica, scomparso l’oggetto della sua rabbia, si placò, anche se provò molto dispiacere di avere perduto un nemico di cui aveva bisogno per continuare a combattere le sue battaglie perdute.

In quei giorni confusi avvennero fatti inspiegabili, su cui ogni tanto la gente tornava a fantasticare. L’enorme vincita al superenalotto da parte un personaggio sconosciuto, forse cittadino, forse di passaggio, ma di cui non si erano visti comportamenti di sconvolgente benessere, aveva lasciato di stucco tutti. Si sperò a lungo di conoscere il fortunato vincitore.  Col tempo cominciò invece ad affievolirsi l’interesse della gente, che lentamente cominciò a pensare che non fosse vero .

Ai Vecchi Mulini fu trovato un cadavere nudo, irriconoscibile per gli strappi alla carne del morto. In quei giorni scomparve anche un mendicante di strada. Non s’era più visto, ma di lui non si occupò nessuno, neanche i carabinieri, perché non avevano alcuna denuncia, alcuna identità da seguire, alcun pubblico interesse.

Questi misteri col tempo furono dimenticati, ma non da tutti, non da Federica. C’era qualcosa di inspiegabile che la tormentava, che non le dava pace. Ogni tanto sognava Napoleone, non più timido compagno di scuola, ma  diavolo sghignazzante che la tormentava, che non le dava pace.

Conosceva troppe cose che non doveva sapere. Ne parlò alle amiche che non le badarono. Annalena soprattutto le consigliò di non inseguire inutili fantasmi.

 

NARCISSE BOURRICOTS


Il conte di Montecucco riapparve al’improvviso con una risposta molto chiara alla minaccia dei Codevigo esposta sulla bacheca al centro del paese con la richiesta delle grazie. Non si trattava davvero di una gentilezza.

“Non finirà così!” recitava una inserzione scritta a stampatello.

“Cosa vorrà mai dire?” si chiedevano i passanti.

Chi si allarmò fu Federica Codevigo che si pose subito una domanda categorica.

”Chi è costui?”

Monsignor Battista Perico, parroco della cittadina e vicario foraneo, terminata messa prima, entrò in canonica dove la perpetua Diletta gli stava versando il caffè. Il profumo lo ristorò e si sedette davanti al televisore per vedere le notizie del televideo. Suonano alla porta, Diletta va ad aprire e si trova davanti un parrocchiano di cui sapevano l’esistenza, ma che non era tra i praticanti. Era su una sedia a rotelle, accompagnato dal giovane iracheno Malik che conosceva appena. Era troppo discreto, riservato, anche lui viveva mimetizzato nell’ombra, serviva fedelmente il suo padrone che non poteva muoversi da solo. Infatti non usciva mai, non aveva amici, stava sempre in casa.

“Buongiorno, reverendo” disse a fior di labbra Malik.

“Buongiorno a voi, signori”, disse il parroco.

Gli consegnò una busta chiusa, mise un dito in croce davanti alle labbra  e subito si ritirarono.

Monsignore per un attimo si credette don Abbondio abbordato dai bravi. Gli danno un ordine e subito si eclissano. E che ordine! Che altro mai poteva pensare? Si rivolse alla perpetua, per avere un’impressione, ma era impegnata ai fornelli e non gli badò. Aprì la busta e trovò una discreta somma per le opere parrocchiali. C’era anche un biglietto a stampatello firmato Na.Bo. con una scritta che non ammetteva repliche. Non erano incontri di tutti i giorni. Pensò ad uno scherzo.

“Non dimentico.”

Poteva affiggerla al Libro delle Grazie? Gli fu chiesto in modo perentorio.

Il parroco si sentì subito tra due fuochi: il benefattore e un interlocutore sconosciuto.

“Perché a me?”

Mandò il sagrestano Olivo ad affiggere il messaggio alla bacheca per togliersi il pensiero e subito aprì  il breviario secondo il segnalibro.

“Vanitas vanitatum et omnia vanitas.” S’imbatté in questa locuzione del libro sapienziale del Qohelet e subito si fermò a meditare.

Molti passavano davanti alla bacheca, alcuni tiravano dritti, altri incuriositi si fermavano a leggere e a fare illazioni. Passò anche Federica e, a vedere stampate le sue stesse parole, ammutolì. Come se qualcuno le avesse letto dentro. Ne parlò con il marito, ma Giorgio più imbambolato del solito cadde dalle nuvole. Si era invaghito di Annalena Donati, della libertà e del prestigio della sua famiglia che considerava  più della propria. La signora corrispondeva. Era questa una delle passioni di Giorgio Farinati che, in casa Codevigo, viveva da mantenuto, altro non gli interessava.

Prosper e Denise Bourricots avevano organizzato per tempo una festa al castello per  mostrare alcuni pezzi preistorici trovati da una impresa edile nella stessa zona in cui erano stati rinvenuti i primi reperti. Si trattava di due antefisse che andavano poste sulla facciata delle ville e di tre anfore quasi intatte con iscrizioni e fregi da decifrare. L’incontro, dopo il saluto dei padroni casa, sarebbe proseguito con la conferenza di un illustre luminare della Soprintendenza ai Beni Culturali di Padova, sarebbe seguita interviste della stampa e quindi da un ricco rinfresco nel parco  della villa. Mondanità e cultura rendevano l’evento, e quindi l’invito, assai appetibile. I Bourricots avevano invitato il sindaco, il maresciallo dei carabinieri, il pretore, i maggiorenti della città insomma, nonché alcuni amici stranieri, i presidenti di alcuni musei di prestigio e diversi cittadini altolocati che non si potevano non invitare. Si entrava al castello esibendo l’apposito invito per evitare la ressa, la confusione. Il convegno doveva essere di élite. Alix passava da un gruppetto all’altro con il suo sorriso e con le parole adatte alla circostanza e alle coppie.

Vide Federica Codevigo al cancello d’ingresso che discuteva con uno dei loro collaboratori. Non la lasciavano entrare. Le si avvicinò, la prese per mano e la condusse in uno dei posti liberi in fondo alla sala. Si trovò sola, guardata dai vicini con sorrisi ironici. Si sentì davvero una esclusa, una intrufolata. Non lo sopportò. A schiena dritta, distraendo i presenti, si avvicinò a Giorgio Farinati suo marito, lo invitò ad alzarsi e insieme uscirono tra un brusio generale. Un fatto che poteva essere dimenticato esplose clamorosamente in tutta la sua gravità tra in presenti. Se ne parlò anche in città, perché il fatto fu ampiamente diffuso dalla stampa locale. Tra i presenti c’erano l’assessore Massari, il ragioniere Marcolongo, il notaio Valdemarin, dirigenti scolastici, ma non c’era alcun Codevigo. Farinati era stato invitato, ormai era evidente, per altri motivi e non di rappresentanza. Il suo posto vuoto era ora un buco nero su cui convergevano gli sguardi di tutti. Alix sorridente occupò il posto vuoto e ravvivò la stanca conversazione con i relatori con domande intelligenti e competenti. Portò il saluto del fratello impedito e concluse con un cordiale arrivederci. Pier Maria Francesco, allibito per lo smacco subito, ingigantito dal comportamento della sorella, non si dava pace. Guardava suo padre per avere un parere, una risposta, da persona che aveva sempre saputo dominare gli eventi. Lo vide serio, ma capì che era solo preoccupato per lo scarso raccolto del mais, rovinato dalle avverse condizioni climatiche in Polesine dove avevano possedimenti. La grandine aveva fatto una strage di granaglie e di uva, ettari di foraggi erano ancora piegati a terra.

 

FEDERICA SI TROVA ANCORA IN UN LABIRINTO

 

Tra i vari compiti di un sindaco c’è anche quello di dare udienza al pubblico. Molte persone passavano a salutare, a raccomandare, ma soprattutto a chiedere un aiuto. Non tanto pecuniario, compito riservato all’assessore ai servizi sociali Carletti, quanto piuttosto a chiedere una mano per un posto di lavoro, per la sistemazione del figlio appena diplomato, per l’assistenza domiciliare della madre inferma. Il sindaco De Marchi, su appuntamento, riceveva tutti. Sapeva chi era la persona con cui doveva parlare e quindi chiedeva lumi in tempo all’ufficio tecnico, al capo dei vigili, al segretario comunale. C’è sempre una firma, una multa da conciliare, un parere su cosa pensa dell’amministrazione la gente della contrada. Era un tempo bene impiegato e conveniente, più alla amministrazione che al postulante.

Tra le persone richiedenti udienza, ci fu una mattina, anche Alix Bourricots.

“Bene!” Le farò i complimenti per la bella cerimonia al castello.

“Buon giorno, sindaco, bella giornata oggi.”

“Complimenti, signorina” le rispose.

E subito la giornata si rabbuiò. Era venuta a paralare di un fatto che poteva rivelarsi grave, assai grave. Il notaio Valdemarin aveva ricevuto l’incarico a procedere da un signore di Udine, tale Ulderico Betti, che rivendicava dei diritti sulla collina Montecucco. Il signor Betti era cugino di primo grado del Crepet, emigrato in Australia. Aveva saputo della decisione di cedere del cugino, ma a sua insaputa, per cui accampava ora dei diritti, se non altro di prelazione. Rintracciare in Crepet si era rivelato subito impossibile.

“Che ci posso fare io?” chiese il sindaco.

“E” stato il Comune a garantire la fattibilità di tutta l’operazione, di voi ci siamo fidati. Speriamo non ci siano intralci, anche perché l’opera è ormai conclusa.”

Alix non si dimostrava preoccupata, anche quando avrebbe dovuto. Era una graziosa signorina che sapeva tenere con tutti buoni rapporti e gradevoli conversazioni in qualsiasi momento. Restò in attesa.

“Capisco! Sarà mia premura sentire l’ingegnere Alicata dell’ufficio tecnico e il segretario comunale. Possiamo vederci in settimana, magari in presenza anche del notaio?”

Fu trovato un accordo, poi parlarono di altre cose frivole per stemperare la tensione.

Ulderico Betti lasciò il suo campetto sperduto tra i monti del Friuli, a Canebola, e venne a lavorare nel parco, a curare i giardini, a coltivare l’orto dei signori francesi in Riviera del Brenta.

In municipio non ci furono più incontri sull’argomento. I Codevigo che avevano tanto sperato nello scoppio in novità esplosive, restarono delusi. Non successe niente, così si rassegnarono ancora una volta.

La vita scorreva normale sia lassù al castello, sia nella villa padronale. I signori avevano ripreso a viaggiare, mentre la conduzione degli affari era riservata al pignolo e pratico ragioniere Marcolongo, che aveva provveduto ad assumere le persone riservate, necessarie, che ubbidivano ai suoi ordini. Napoleone e Alix trascorrevano molto tempo in villa, vivevano more uxorio, in quanto non erano affatto fratelli. Il vero fratello di Alix viveva in America. In città conducevano una vita riservata per non creare scompiglio nell’opinione pubblica. Napoleone, dopo il sacrificio giornaliero che lo costringeva a vivere da recluso, passava molto tempo serale in palestra a tenere allenato il suo fisico e a curare la sua salute. Non era più il piccolo impiegato dell’anagrafe, ma un distinto signore che, purtroppo, durante il giorno, nelle rare uscite,  non parlava, e non si muoveva senza la carrozzella.

La rivendicazione di diritti di prelazione del signor Ulderico Betti si risolse nel migliore dei modi. Fu assunto alle loro dipendenze offrendogli un lavoro sicuro e una residenza  al castello. Lassù alla rocca gli fu assegnato l’incarico di guardiano degli animali  da cortile che sapeva allevare con competenza e maestria. A Malik fu concesso di tornare brevemente in patria.

Con la sua solita spavalderia, il commerciante Mezzavia  si presentò al castello di  Montecucco e chiese udienza ai signori per offrire la sua disponibilità per eventuali affari che, nelle famiglie signorili, non mancano mai. Il ragioniere Giacomo Marcolongo lo ringraziò, ma con l’a fermezza necessaria.

“Ora non ne abbiamo bisogno.”

I signori Bourricots sapevano trovare sempre la migliore soluzione ai problemi. Era questo un segnale di efficienza. Mezzavia diffuse invece la diceria che erano i dipendenti a comandare, perché i padroni si disinteressavano degli affari. Ne parlò con il vecchio Codevigo per via della compravendita delle granaglie. In casa Federica si insospettì ancor più. Chiese udienza al tuttofare Marcolongo, suonò, ma si trovò di fronte il Betti che brevemente raccontò di sé e della fortuna che aveva avuto incontrando i signori francesi.  Capì subito la tecnica degli stranieri! I nemici non li combattevano, li inglobavano, se li facevano amici. Si trovò ancora in un labirinto da cui non riusciva ad uscirne, ad aggravare l’accerchiamento in cui era coinvolta

Nella cassetta della posta trovò una lettera in busta chiusa. L’aprì ed ebbe, come un pugno nello stomaco, il suo messaggio di ritorno.

“Sì, non finirà così!”

A parlare con lei sembrava ci fosse una persona che la conosceva molto bene. Se non fosse morto e dimenticato, avrebbe detto che una simile vendetta poteva essere di una sola persona.

“Bordin, sei tu!”

Il messaggio si ripeté per vari giorni. Ma, era possibile? No, non era possibile!

Decise di assumere un atteggiamento contrario, non si sarebbe più nascosta, ma avrebbe agito alla luce del sole. Avrebbe percorso passo a passo la sua vita degli ultimi anni, avrebbe controllato tutto e sarebbe di certo risalita al nodo che, una volta sciolto, tutto avrebbe spiegato. Si rasserenò. Avrebbe agito come il salmone che, in  acque chiare, risaliva il fiume fino ai luoghi della sua nascita, dove tutto cominciò.

 

LA FESTA AL PARCO DI VILLA PISANI


Eduardo Mezzavia, uno dei gemelli del commerciante di granaglie, si presentò dai Codevigo con un gran mazzo di rose rosse per la signora Federica. Era giovane e il suo ardire poteva benissimo essere inteso come gesto di cortesia e di rispetto. Il ragazzo azzardò, volle consegnare personalmente le rose. Sapeva che la signora avrebbe gradito e che non avrebbe fatto meraviglia il suo comportamento libero, considerato che anche il marito faceva altrettanto.

Federica accolse con parole di gioia l’omaggio e porse a Eduardo una mancia, che il ragazzo cortesemente rifiutò. Non era un garzone, il suo era un omaggio personale e spontaneo.

La notizia si diffuse e arrivò anche a Napoleone e Alix a San Pietroburgo dov’erano in visita all’Ermitage per ammirare opere pittoriche del Giorgione, del Tintoretto e del Canaletto. Apprezzavano molto gli artisti veneti, così vicini alla loro residenza. Narcisse Bourricots, alias Bordin, spedi a Federica, in maniera anonima, una meravigliosa matriosca con filetti dorati. La cameriera la trovò nella cassetta della posta. La signora fu colta di sorpresa, perché non capiva la ragione di un simile omaggio. La aprì e trovò un biglietto dorato con una scritta carica di significati.

“Sì, non dimentico!” Restò di sasso! La firma era chiara: Na.Bo.

Temette l’impossibile, poi capì. Erano i Bourricots che le scrivevano, in maniera palese e gentile. Forse per stemperare i veleni che si erano accumulati in seguito ai loro difficili recenti rapporti. Il suo carattere di ferro incominciò ad avere qualche screpolatura. Doveva convincere suo padre a organizzare la festa del raccolto, non in campagna nel Polesine, ma da loro in villa Falier in Riviera del Brenta. Avrebbero invitato tutti maggiorenti della città e del comprensorio, di categoria e del commercio, le associazioni agrarie, il pretore e il maresciallo dei carabinieri, alcuni scrittori e musici noti. Sarebbe stato un momento spettacolare da non dimenticare. La stampa avrebbe scritto fiumi di inchiostro per presentare il progetto unico del suo genere finora in Riviera.

Il vecchio abituato a guidare gli eventi e non a subirli, si entusiasmo e pensò le cose in grande. Perché non organizzare la festa a Villa Pisani, pagando i dovuti oneri, dando sfoggio di potenza di mezzi e di nobiltà, se non altro per rispetto al luogo?

Federica fu subito d’accordo. Pier Francesco, schiacciato in casa da due personalità forti, era sempre più in preda a crisi mistiche. Abbassò la testa e accettò.

Fiat voluntas vostra”, borbottò.

A Giorgio Farinati, l’idea di primeggiare in una occasione in cui la galanteria era d’obbligò, approvò all’istante. Furono distribuiti ordini, incarichi e inviti. Doveva esserci una folla di invitati per onorare una famiglia così munifica e popolare. Dovevano esserci musici per suonare villotte veneziane, e con le braccia e con la voce già intonava Marietta monta in gondola, le Glorie del Nostro Leon, Vecio gondolier e naturalmente pensava a sé e al suo coraggio. Ci sarebbe stato tempo per improvvisare sketch, brevi parole di benvenuto che non guastano mai. Decise subito per una tavolata padronale lungo il viale dei glicini, vera pioggia di fiori blu e bianchi, con posti riservati alle autorità, attorno al capotavola, poi altri tavoli sparsi dove gli invitati si sarebbero sparsi a loro volontà. L’incarico della mensa sarebbe stato assegnato alla rinomata ditta Pronto Pasti a Domicilio snc di Padova. Il loro dipendente Ettore Malinverni avrebbe guidato la squadra di operai per distribuire nei luoghi ombreggiati sedie e tavoli. Era stato assunto e

lavorava dai Codevigo.

Federica decise di invitare, sia pure a malincuore, i signori Bourricots.

Rodolfo Mezzavia, esperto di comunicazione, vero spin doctor della città, si offrì per fare da megafono dell’evento, sperando sempre di mantenere viva la sua nomea di mediatore e consulente. I figli sparsero la voce ingigantendo ancor più l’evento che cominciò ad essere atteso con grande curiosità e interesse.

Dall’entourage dei francesi non ci fu alcun scossone all’invito. Giacomo Marcolongo continuò nel suo incessante lavoro di amministratore, Ulderico Betti continuò a seguire i suoi lavori agricoli, Denise e Prosper erano anch’essi  in viaggio, a Lione, mentre i figli erano in Russia, ma questo si sapeva. Le domestiche continuarono a tenere puliti il museo e la villa. Il museo archeologico continuava ad avere visite di scolaresche e di esperti del settore.

Federica pensò anche a sé, a come passare il tempo, tra  una portata e l’altra, tra una suonata e un discorso, tra un riunirsi in crocchio e un tornare al proprio posto. Ci sarebbero stati tempi noiosi di stanca da riempire in qualche modo. Si preoccupò di invitare le sue amiche preferite con le quali avrebbe malignato il necessario. Avrebbero fatto anche una passeggiata al labirinto, se non altro per ricordare i vecchi tempi.

Fedora, Chiara e Annalena accettarono volentieri, era anche un modo di rompere il solito tra tran di vita in una cittadina di campagna. Soprattutto Annalena fu felice, perché di recente c’era stato un certo distacco tra loro due a causa delle bravate, delle avances di Giorgio Farinati, donnaiolo impenitente. Senza dubbio era un bell’uomo, ma superficiale, che non riusciva mai a realizzare i suoi sogni, ne economici ne sentimentali.

Arrivò il giorno tanto atteso. Tutto si svolse come previsto, secondo una organizzazione accurata. Nel tardo pomeriggio, la musica di sottofondo accompagnava gli invitati ormai distratti e soddisfatti, il programma lasciava liberi tutti di muoversi a proprio agio, prima del previsto clou finale, i fuochi d’artificio.

I Bourricots erano presenti, stavano distaccati secondo la loro consueta discrezione. Se ne stavano appartati a discutere tra loro dei recenti viaggi in America. Il padrone di casa si avvicinò ad ossequiare gli ospiti facendo un inchino e il baciamano alla signora Denise.

Federica mostrò il punto in cui ebbe lo scontro con Napoleone Bordin, lo mostrò alle amiche, mentre loro mostrarono il varco nella siepe dove stavano nascoste ad assistere al misero spettacolo di cui ora si vergognavano. Ad un tratto sentirono un urlo.

“Tu!”

Accorsero, ma la trovarono svenuta. Nei occhi sbarrati era rimasta l’immagine del vecchio compagno di scuola, Napoleone Bordin. In fondo al vialetto, prima della curva, videro Narcisse in carrozzina a rotelle accompagnato da Malik.

 

LA FOLLIA

 

“Ho sentito la sua voce, mi ha detto parole tremende.”

“Quali parole?”

“Io non dimentico.”

Anche anni dopo ci fu chi si ricordò che Federica cominciò da quel giorno a non essere più lei. Immaginava fantasmi, si spaventava delle ombre, evocava spiriti che la minacciavano. In famiglia ci fu grande preoccupazione e smarrimento, sembrava una cosa passeggera e invece cominciarono a pensare a un consulto neuropsichiatrico. Lei si ribellò con tutte le sue forze per l’umiliazione della minacciosa apparizione al parco e per il crollo della sua immagine. Fu visitata dall’illustre specialista professore Fracassi di Bologna che ventilò varie ipotesi. Chiese di poter dialogare con la paziente, ma visti i scarsi risultati dei colloqui, propose un consulto con il famoso collega professor Riccoboni dell’università di Padova. Ancora  una volta il male, invece di ridursi si espandeva .Non trovava quiete, non dormiva più. I medici cominciarono a diradare la loro presenza. Chiamare qualcun altro era rischioso. Vedeva sempre un morto che le parlava con poche sillabe, ma per lei intollerabili. Si avvicinava il rischio che le nuove visite avrebbero avuto diagnosi e terapie diverse e controproducenti. Non è la prima volta che queste cose succedono. A questo punto c’è un’altra conclusione da trarre, che il paziente è spacciato. Antonio Codevigo divenne furioso, andò al castello a parlare con Denise e Prosper, i quali caddero dalle nuvole, non avevano alcuna spiegazione da dare. Allora chiese di parlare con Narcisse, che tanto scompiglio sembrava aver seminato nella sua famiglia.

“Parlare? Narcisse non parla, è mutilato.”

Giorgio Farinati, senza l’appoggio della moglie, si vedeva già espulso da quella casa. Pier Maria e la moglie Adele non avevano mai avuto molto credito in famiglia, attendevano sempre le decisioni del padre, decisioni che adesso non arrivavano.

“Chiedo di vederlo, per favore”, aggiunse.

Masticò queste parole con grande amarezza, a bocca asciutta.

Sulla porta della sala di villa Valier in via Brentanova, spinto da Malik, apparve Narcisse. Al suo fianco c’era Alix. Narcisse indossava occhiali scuri e rimaneva nell’ombra. Fu Alix a fare gli onori di casa. Sistemò dei fiori sul tavolo e fece sedere il Codevigo.

“Prego” disse la ragazza.

Antonio Codevigo, fatto insolito per lui, biascicò alcune parole per chiedere i lumi necessari  che gli facessero capire cosa stava succedendo.

“Alla festa in villa Pisani, mi è stato detto, c’è stato un incontro casuale tra mia figlia e il signor Napoleone Bordin, che però è morto da tempo. Vedo oggi una persona somigliante, il signor Narcisse Borricots, che però è scomparso durante la guerra del Golfo. Non capisco il nesso. Chiedo chi dei due era presente alla festa?”

Domanda pleonastica, esagerata, parlava di due scomparsi, di cui uno era lì. Ma non doveva esserci nessuno dei due.

“Come mai?”

Corrugò la fronte, chiuse gli occhi e aspettò.

Alix, che stava passando il pomeriggio leggendo “Le Avventure di Pinocchio”, descrisse, a sorpresa, la scena dei medici, la civetta, il corvo e il grillo parlante riuniti al capezzale del burattino inanimato.

“Se è vivo non è morto, però se è morto non è vivo.” Riassunse così il suo pensiero.

“Quello che stiamo vivendo non è una favola,” disse.

Codevigo si offese. Decise di far aprire un’inchiesta in tribunale su entrambi i personaggi, era necessario andare a fondo, ben oltre l’evidenza.

Persino il ragioniere Marcolongo si dimostrò spaesato. Dopo anni di lavoro fianco a fianco con Napoleone, non scorse somiglianze e non seppe smentire la morte di Napoleone.

Persino il parroco don Perico apparve scettico. Aveva fatto una predichetta alla svelta e chiuso subito l’argomento. Lo stesso ufficio anagrafe aveva certificato il decesso. Non aveva alcun senso arrampicarsi su vie impervie e grottesche. Lo diceva anche l’opinione pubblica.

La vita, il lavoro, gli affari chiamavano, non ci si poteva più distrarre. Antonio  Codevigo si tuffò nel suo consueto lavoro sperando che il tempo potesse chiarire i dubbi.

Federica fu portata a Milano in una clinica privata riservata a lungo degenti, sorvegliata a vista per timore di gesti scomposti.

Napoleone Bordin, nelle finte vesti di Narcisse Bourricots, cominciò a vacillare, a riflettere sull’inutilità della sua vendetta contro una persona che si era distrutta da sola. Per la prima volta fu colto da scrupoli che lo tormentavano anche di notte. Decise di collaborare in incognito alle sue cure. Contattò eminenti studiosi di malattie mentali, di demenza senile perché salvassero Federica.

Dalla piazza sparì il Libro delle Grazie. La stampa diventò benevola nel trattare il caso senza fare insinuazioni. La gente provava compassione vedendo che anche i potenti potevano tremare.

Alla clinica Bucciarelli di Milano vennero insigni geriatri e neurologi da Berlino, da Mosca e da Los Angeles. Si erano incontrati ad un congresso a Londra e si erano fatti attenti al caso. Sì, era un caso che meritava di essere studiato a fondo mettendo a confronto le diverse esperienze e i diversi referti.

Il dottor Inigo Soares, già candidato al premio Nobel per la medicina, venuto in visita a Milano, azzardò una diagnosi severa.

“Irrecuperabile!”

Dopo un ulteriore consulto si parlò chiaramente di morbo di Alzheimer precoce, di demenza senile. Federica cominciò ad avere fasi di amnesia, di difficoltà a rispondere alle domande.

“Dove mi portate? Come faccio a mettermi la vestaglia?”

Napoleone Bordin decise di dare una svolta ai suoi comportamenti. Alix conduceva una vita frenetica e convenne che una pausa ci voleva, anche perché questa furia di correre portava a un deterioramento dei loro rapporti coniugali. Decisero di fare un viaggio lontano dalle solite rotte, andarono a Faro nell’Algarve di fronte all’oceano. Era tanto tempo che desideravano visitare il Museo Municipale del XIII secolo, con manufatti preistorici e medievali.

Una sera di burrasca, mentre stava impavido ad ascoltare l’urlo del mare in tempesta, Napoleone si scoprì disarmato.

 

NUOVE FAMIGLIE

 

“Pronto Narcisse? Sono tua sorella, sono Alix.”

Da New York rispose una voce cristallina, sembrava a pochi passi.

“Alix, come va? Perché mi chiami in piena notte?”

“Dobbiamo vederci, abbiamo cose importanti di cui parlare.”

“Desidero anch’io vedervi, anch’io ho cose importanti da comunicarvi. Ho la fortuna di avere Aaron che mi è sempre vicino, mi assiste in tutto. Siamo stati insieme in Palestina e in Giordania, siamo tornati da poco. Abbiamo visitato la città di Petra, incantevole. E’ scavata nella roccia rosa, è molto faticoso arrivarci, specie nelle mie condizioni. Ho avuto bisogno dell’aiuto  dell’ambasciata francese ad Amman. Ti racconterò tutto appena arrivo in Europa.”

Prosper, un giorno, mentre con la moglie stava mettendo un po’ di ordine nella saletta dei reperti, si ricordò del dono avuto dal pallido geometra che lo aveva invogliato a restare in Riviera. Era una delle poche persone che ancora si ricordavano di Lino Vanuzzo.

Neppure la dottoressa Monica Zampieri, più giovane, lo aveva conosciuto. Tuttavia si lanciò in un’impresa importante: educare i figli degli altri alla conoscenza.

Anche questo è stato un modo per ricordare il geometra che abitava al Ponte, di fronte al’inizio della via Annia. Senza questa ragazza, la storia del Museo sarebbe stata diversa.

Prosper si ricordò di quando aveva conosciuto quel timido geometra di campagna che gli aveva offerto dei reperti fossili, altri di epoca romana, altri medioevali dissepolti casualmente durante scavi improvvisati di una fornace a Sambruson. Desiderava che fosse data loro una dignitosa esposizione. Anche in seguito avevano mantenuto buoni rapporti col Vanuzzo, fino alla sua morte.

Suonò il telefono, era il figlio Narcisse dagli Stati Uniti. Dopo brevi convenevoli lo avvisò che stava tornando.

“Possiamo vederci a Lisbona? Là ci sono anche gli altri.”

“Incontriamoci all’aeroporto Portela.”

Erano stati una volta alle foci del Tago, ad Almada, la città che sta di fronte alla capitale. Erano stati a visitare i famosi siti archeologici che richiamano molti appassionati di cose antiche. Denise disse subito che tornava volentieri in quei luoghi che avevano visitato troppo velocemente.. Affidarono tutta la gestione della casa al fedele ragioniere Marcolongo.

All’albergo Soledad, con gestori spagnoli, ci fu un caloroso incontro atteso da tempo. Avevano scelto un hotel poco appariscente per essere sicuri di essere lontani da sguardi indiscreti. Era questo il loro stile di vita. Il nero di seppia avrebbe potuto essere per loro un motto nobiliare.

Narcise lentamente si presentò in piedi. La madre impallidì. La sua flemma la lasciò allibita.

“Figlio mio!” esclamò commossa.

Alix lo abbracciò con le lacrime agli occhi. Perfino Prosper era sorpreso. Narcisse camminava, sia pure lentamente.

Napoleone vedeva cadere anche la sua ultima barriera. Non era più necessario fingersi paralizzato in carrozzella. Ciò significava pure che a casa non poteva più tornare. Sarebbe stato come scoperchiare una tomba. La sua identità non esisteva ne avrebbe potuto essere ricostruita. Si scoprì solo al mondo, di un altro pianeta.

Narcisse cominciò a raccontare che a Los Angeles si era sottoposto ad un intervento chirurgico assai delicato. Era rimasto sotto i ferri in sala operatoria 12 ore, aveva trascorso tre mesi di riabilitazione per abituare il fisico a recuperare stabilità, gestualità, postura e per abituarsi ad indossare arti artificiali che ogni sera venivano tolti con l’aiuto di Aaron. Poteva muoversi con maggiore libertà, poteva sbrigare le attività essenziali della sua vita da solo.

Dopo aver raccontato tutto e ascoltato le novità del paese, sul far della sera, stavano ad ammirare le luci della città, il tramonto del sole sul mare. Narcisse con un grande sorriso disse che quello non era il suo tramonto, ma il suo nuovo giorno. Si alzò, chiamò una  graziosa donna, vestita in maniera sportiva che sorrise a tutti.

“Questa è Elisabeth, la mia fidanzata.”

La persona più felice fu Alix che fraternizzò subito con la ragazza americana, sperando di tornare presto in Italia. Avrebbero trovato casa e una sistemazione in Riviera dove avrebbero potuto vedersi tutti i giorni.

Alix aveva preannunciato cose importanti da dire al fratello, ma a questo punto niente era più importante della nuova vita di Narcisse. Fu egli steso a stuzzicarla, a chiedere notizie sulla loro vita, erano rimasti troppo tempo distanti, i contatti telefonici erano stati sempre brevi e disturbati. Bastava sentirsi dire che tutto andava bene.

Era stato intervistato dal Daily  Mirror locale per strada, durante un viaggio nel Texas, sulle disfunzioni dei servizi di trasporto e sui suggerimenti per le autorità distrettuali per combattere l’inquinamento atmosferico.

“Sono Elisabeth Campbell, vi parlo da Los Angeles,, vi trasmetto l’opinione dei cittadini scelti a caso, ecco, lei signore, cosa ha da dire?”

Erano i giorni che precedevano l’intervento e non aveva altre preoccupazioni che  quelle  sull’esito dell’operazione alla Casa di Cura Ortopedica Generale della città, e lo disse.

“Mi spiace, ho altri pensieri, mi devo ricoverare.”

“La verrò a trovare, non mi sfugge, sa.”

Fu così che iniziò una casuale, bella amicizia che col tempo si trasformò in amore. La ragazza andò a trovarlo durante la sua lunga degenza, ad assisterlo; di notte c’era Aaron.

Conobbe la sua famiglia, cominciarono a convivere. A casa percepivano appena quanto era successo. Ne erano felici e basta. Del resto Narcisse era una persona saggia, matura che sapeva badare a se stessa. L’incontro di Lisbona fu uno dei momenti difficili per tutti, dovevano ordinare, organizzare il loro futuro senza rovinare il castello di carte, che pazientemente si erano costruiti.

Adesso il nero di seppia diventava più necessario che mai per sopravvivere. Erano fortunati, perché i mezzi finanziari non sarebbero mai mancati a nessuno di loro. Era la loro immagine, la loro presenza esteriore nella società che dovevano essere mantenuti secondo gli schemi abituali e spesso ostentati.

Il ragioniere Giacomo Marcolongo quasi abbracciò il signor Narcisse Bourricots, contento di rivederlo dopo tanto tempo. Mai avrebbe pensato di incontrare Napoleone che per tutti era morto e sepolto. Lo trattava con riguardo, facendo un’ampia relazione sull’andamento dell’azienda. Ormai il Museo era diventato un’azienda con bilanci che elencavano con precisione entrate, perdite e profitti. Il bilancio era fiorente e rassicurante.

Il sindaco Anacleto De Marchi, appena rieletto sindaco, volle invitarlo ad un ricevimento in municipio in occasione dell’inaugurazione della nuova biblioteca comunale nel parco Milite Ignoto. Era presente tutta la nuova giunta con il nuovo assessore ai servizi sociali Ilario Carletti.. Il manufatto era stato realizzato grazie alla donazione di ignoti benefattori. Il nuovo aspetto di Narcisse diventò sempre  più un fatto normale.

Elisabeth e Narcisse andarono ad abitare nella villa veneta in via Brentanova 75 dove continuava il servizio della domestica Carlotta. Fu l’unica persona in tutta la città a porsi la domanda inquietante.

“Ma come è possibile che un intervento di chirurgia ortopedica abbia accorciato i piedi? Calzava scarpe del modello 44 ed ora calza quelle del modello 42!”

 

GIOVANNI CARLO ANTONIO

 

L’armonia, che aveva permesso alla famiglia Codevigo di raggiungere molti traguardi impensabili dalla generazione precedente, non era più la stessa.

Il patriarca Antonio aveva problemi di salute sempre più spesso. Il  medico di famiglia gli aveva consigliato di rallentare le sue attività e di sottoporti a dei check-up completi, perché c’erano vari scompensi che andavano valutati. Per sicurezza, diceva il dottor Trivelli, doveva sottoporsi a un pacchetto di esami per monitorare lo stato generale di salute e controllare le funzionalità generiche dell’organismo. Di più non poteva dire, senza referti in mano. Era la prima volta che Antonio  Codevigo vedeva bloccata la sua intensa attività. Aveva superato i settanta anni ed aveva ancora traguardi davanti a sé, ma anche stanchezze improvvise, dei capogiri prima mai notati.

Volle vederci chiaro e chiese un consulto di specialisti di geriatria. Il professor Marinoni gli parlò a chiare lettere.

“Antonio, dovresti allentare e passare la mano.”

Pier Maria si accorse subito del cattivo umore di suo padre e del rallentamento della sua conduzione aziendale. Anche il fattore dell’azienda nel Polesine cominciò a rivolersi a lui piuttosto che a suo padre. Era un bravo esecutore, seguiva gli ordini e non discuteva, sicuro di essere sulla retta via. Ma un capo, un uomo da prima linea non sarebbe mai stato, Lui, gli ordini, li eseguiva, non li impartiva.

Un giorno si erano presentati i Mezzavia a proporre un affare di vendita preventiva di granaglie e di investire maggiormente in azioni, di giocare in borsa dove si guadagna in un giorno più di un anno di lavoro. Gli propose pure di disfarsi delle stalle e di vendere subito il bestiame. Grosso errore privare i campi di concimazione naturale I vitelli da latte guadagnavano bene e subito. Mentre gli animali da allevamento richiedevano manodopera e spese di mantenimento. Suo padre mai avrebbe dato ascolto a simili suggerimenti. Erano proposte che spaventavano Pie Maria, ma anche lo lusingavano. All’inizio prudentemente si tirava indietro. Altri proprietari osavano moderatamente e le perdite non erano mai devastanti, come pure i guadagni non erano mai esaltanti. Era un divertimento della classe benestante e questo a loro bastava. Erano persone esperte, come suo padre, sapevano quando era il momento di rischiare, altrimenti stavano in disparte.

Il Farinati già da tempo era ai margini della famiglia. Con Federica non andava più d’accordo, perché era considerato un perditempo ed ora anche un donnaiolo. Decisiva era stata ancora una volta sua moglie, nonostante i malanni che la tormentavano. La sua salute declinava sempre più e nella famiglia cominciarono i malumori imprevisti, a presentarsi i mediatori, i falchi, che, con il pretesto di dare consigli cercavano solo vantaggi economici per sé. Il Mezzavia era uno di questi, che, pur essendo stato respinto di brutto, non demordeva.

Alla fine Federica commise un altro dei suoi errori fatali. Invece di stringere le file dei suoi parenti, di irrobustire l’alleanza familiare, cominciò a disprezzare e a emarginare. Suo marito non aspettava altro. Con una valida giustificazione, chiese il divorzio e andò a convivere con Annalena Donati, continuando a condurre la sua vita di gaudente.

I due perni della famiglia cominciarono a girare a vuoto. Mentre per Federica il male era lento e cupo, gli annebbiava la vista e la memoria, per suo padre le cose erano più gravi. Un tumore al fegato stava crescendo e dopo molte radioterapie e sedute di chemioterapia il fisico si mostrava sempre più prostrato e debole. La metastasi non si fermava, le cure non servivano più. Cominciarono i dolori insopportabili, l’inappetenza. Non riusciva stare a letto, non riusciva a stare sul divano. Passava ore in silenzio e al buio.

Il professor Marinoni parlò a Pier Maria scuotendo la testa.

“Non arriva a Natale.”

Il notaio Giampietro Valdemarin consigliò di fare presto.

Era il mese di settembre, le rondini si radunavano sui fili dell’alta tensione pronte a spicare il volo per la loro migrazione autunnale, i ragazzi iniziavano il nuovo anno scolastico, dalla campagna circostante saliva l’odore acre dei mosti, per la natura era in movimento, era il momento del passaggio, della raccolta dei frutti del proprio lavoro.

Le visite degli amici cominciarono a diradarsi.

Antonio intuì tutto. Si chiese per chi e perché aveva lavorato tanto. Chiese di vedere il vicario foraneo monsignor Perico. Non era certo un praticante della chiesa e dei sacramenti, ma nell’ora decisiva della resa dei conti, capì che era giunta il momento di fare un esame di coscienza. Era anche il momento di disporre le sue ultime volontà testamentarie per non lasciare motivi di litigi e di processi tra i suoi eredi.

Il lavoro si presentò subito complesso, si dovevano  fare inventari e ricerche di tutte le proprietà e depositi bancari. Contrariamente alla sua volontà lasciò un mare di guai. Fece in tempo a stabilire un lascito a favore del seminario vescovile. Un pomeriggio, in forma ufficiale venne addirittura il vescovo di Padova a benedirlo, a ringraziarlo e ad amministrargli l’unzione degli infermi.

Le voci arrivarono a casa Bourricots. Giacomo Marcolongo incontrò Ettore Malinverni e chiese notizie.

Elisabeth, Prosper e Denise avevano accompagnato Narcisse all’Istituto Rizzoli di Bologna per un ricovero day hospital e per un controllo di accertamento da ripetersi ogni sei mesi. Si trattava di pura prevenzione, così la sua salute sarebbe stata sempre monitorata. Per questo i problemi dei vicini  Codevigo li sfioravano appena.

Prima ancora della sua morte sorsero problemi. Troppi erano i nodi irrisolti in famiglia e negli affari. Intervennero i consulenti che cavalcarono l’onda e aggravarono le dispute per giustificare o garantire la loro presenza.

Pier Maria e Federica giunsero a odiarsi. Ognuno si vedeva intrappolato nella sua impotenza o per l’incapacità di decidere o per la difficoltà di districarsi nelle complesse vicende lasciate da suo padre e per la sua confusione mentale. Vedeva folle di postulanti invadere la casa a chiedere, a vantare, a minacciare. Ma l’unica follia era la sua. Giovanni Carlo Antonio morì la notte di San Silvestro.

Fuori infuriava una burrasca di neve che seppelliva ogni cosa. Negli angoli della villa e delle strade lo strato bianco saliva nella città addormentata.

 

LA STORIA E’ FINITA

 

L’anfiteatro romano di Nîmes è uno dei monumenti antichi più prestigiosi. Gli storici lo paragonano, ovviamente, al Colosseo, opera voluta dall’imperatore Vespasiano, monumento per eccellenza. E’ un classico, per chi studia la storia dell’arte non può dimenticare il più grande anfiteatro del mondo che si trova al centro di Roma. Alix lo aveva già  visitato da studentessa ed ora voleva farlo conoscere a suo marito. Il paragone tra le due città è molto interessante, come il confronto tra due mondi che sono un unico mondo.

Cinque anni sono passati dagli ultimi avvenimenti nella città della Riviera. Non solo Antonio Codevigo è scomparso, anche i suoi genitori Denise e Prosper sono passati all’altro mondo in silenzio come erano vissuti. Pochi se ne sono accorti.

Il patrimonio della famiglia Codevigo si è liquefatto come neve al sole. Pier Maria gode dell’assistenza dei servizi sociali del Comune, grazie all’intervento dell’assessore Cassetti della nuova Giunta.

Federica ha un fisico distrutto dalla malattia e dal suo malessere confusionale. Vive in un istituto per insani mentali, guardata a vista, come altre persone nella sua stessa condizione.

Napoleone, alias Narcisse, vive anche lui lontano dall’Italia, in quanto per tutti non esiste. E’ un fantasma. Eppure c’è una persona che ai fantasmi crede, che ha capito che Napoleone è vivo, ma mai ha parlato con nessuno, neanche con il diretto interessato per non far cadere il mistero come un castello di carte. E per non rovinare la sua vita. Quest’uomo è il ragioniere Giacomo Marcolongo.

Napoleone accompagna la moglie alle conferenze, alle tavole rotonde, vive nella sua ombra, con discrezione. Possiede mezzi finanziari sufficienti per farlo.

Alix, da fuori corso, si è laureata, è chiamata da importanti istituzioni pubbliche a presentare i suoi libri di arte classica. Ha una attività stressante, partecipa a congressi, a dibattiti, tiene conferenze. Di Roma e di Nîmes conosce tutto sulle strade, sui ponti, sugli acquedotti che rappresentano tuttora ricordi vivi del passato storico. In occasione del dibattito tenuto di recente ad Avignone ha diretto i lavori del convegno con il delegato pontificio, il direttore del Centro studi del Palazzo dei Papi e il Sindaco della città guidando gli interventi degli studenti delle scuole superiori.

“Il dipartimento del Gard ha molte similitudini con il Lazio.” Lo dice spesso.

I veri Bourricots tengono i contatti con i loro cari con visite concordate a Lione, non lasciando trapelare niente sulla loro esistenza. Hanno  una figlia, Madeleine, coetanea di Maximilian figlio di Alix. Porta il cognome dei Bourricots, perché Bordin non esiste. I due cugini Bourricots si conoscono già, hanno tre anni e per loro non esiste alcun segreto.

Ad accudire il piccolo Maximilian, già dalla nascita provvede una babysitter creola, della Martinica, Joséphine. Convive con Aaron e assieme tengono in ordine la casa e assistono il  bambino durante le assenze dei genitori.

Il due maggio scorso, nell’anniversario della morte di Leonardo da Vinci, sono stati ad Amboise, dove è sepolto, hanno visitato la sua tomba in forma anonima in mezzo ad altri turisti. Alix quand’era in Italia aveva visitato le Gallerie dell’Accademia ed era tuttora in corrispondenza con la direzione. In occasione della esposizione al Louvre del famoso disegno dell’Uomo Vitruviano porterà anche Maximilian e il papà a conoscere l’uomo modello del mondo.

Certo è impossibile paragonare il livello culturale e la vitalità di Alix con quello di un’altra protagonista della nostra storia, Alga Noemi Federica Codevigo.

Immobile nel suo mutismo, nel suo letto di dolore attendeva solo una fine soporosa, nel sonno. Negli ultimi tempi era stata colpita da una sindrome motoria ipocinetica ingravescente. Non poteva compiere alcun atto senza la presenza di un aiutante.

Marcolongo ottenne il permesso di una visita fuori orario alla casa di cura degli infermi con disabilità mentale e motoria, cercò di parlarle, ma fu inutile.

Quando Bordin, accompagnato dal suo capoufficio, andò in visita restò a lungo in silenzio, poi le accarezzò una mano, la tenne stretta e si inchinò. Ogni rancore giovanile era scomparso, si sentiva  partecipe del dolore della sua compagna. Assieme avevano sofferto, si erano inflitti superbe offese per niente. Quelle cattiverie ora apparivano in tutta la loro vanità.

“Perdonami,”  sillabò.

Federica in un lampo di lucidità aprì gli occhi, lo vide e si intenerì. Mosse il capo e gli rispose nello stesso modo.

“Sei tu?” chiese.

“Si Federica, sono Napoleone.”

“L’avevo capito.”

Sorrise appena e si assopì per sempre.

Tra cento anni non si saprà più niente dei personaggi di questa storia. La polvere del tempo avrà cancellato ogni cosa di ciò che era stato e di ciò che poteva essere e non è stato.

Questa storia, come in tutti i romanzi, ha molti nomi inventati, ma il filo che descrive le vicende e i personaggi è vero.

 


 

INDICE

UNA LOTTERIA                                                         1

I SIGNORI BOURRICOTS                                          3

LUIGINO SCRINZI                                                   4

IL LIBRO DELLE GRAZIE                                          7

GIOVANI                                                                9

NAPOLEONE BORDIN                                             11

IL RAGIONIERE DELL’UFFICIO ANAGRAFE                13

IL CASTELLO                                                           15

IL MUSEO                                                               18

L’OPERAIO                                                             20

LA FAMIGLIA CODEVIGO                                         21

NARCISSE BOURRICOTS                                         22

FEDERICA SI TROVA ANCORA IN UN LABIRINTO      23

LA FESTA AL PARCO DI VILLA PISANI                       24

LA FOLLIA                                                               25

NUOVE FAMIGLIE                                                     26

GIOVANNI CARLO ANTONIO                                     28

LA STORIA E’ FINITA                                                29

 


a cura di L. Zampieri


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ultimo aggiornamento (Lunedì 11 Novembre 2019 11:30)

 

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