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Ins. Andrea Zilio, sindaco, scrittore, poeta

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PERSONE - PERSONE IMPORTANTI

 

Maestro Andrea Zilio

sindaco, scrittore, poeta

LA  MIA  FESTA  CONTINUA

C’era un solo paese al mondo senza nome. Anzi, fino a qualche decennio fa, ne aveva tre quattro, per cui non sapevi mai come scriverlo o dove abitavi. Dove abiti? A S.Bruson, a San Bruson, a Sampreson. Alla Castagnara, a Piazza Vecchia di Gambarare di Mira, un segnale stradale indicava, venendo dalla Romea, a sinistra per Sanbruson, proprio accanto alla villa di Giovanni Favaretto Fisca, sindaco di Venezia. Anche alle scuole elementari ogni classe lo scriveva come voleva. Anche le mappe del Comune erano plurime. Le maestre erano da fuori, per loro bastava il suono e un pennino nuovo a campanile. Le mie pagelle in cinque anni riportano tre sedi diverse della stessa scuola. Poi venne il codice di avviamento postale che cancellò tutti i nomi tranne uno, in ordine alfabetico: Sambruson. Il mio paese si chiama Sambruson, da S. Ambrogio patrono la cui statua è collocata in vetta al campanile, più di 60 metri, se ben ricordo. Succedevano cose strane nelle scuole, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Sono nato nel 1937 e nel 1940  frequentavo l’asilo, o scuola materna, con suor Piersofia, suor Servidea, suor Ada. L’asilo c’è ancora, le suore dorotee non ci sono più, ci sono maestre, dicono filippine. Ma questo non lo so esattamente. C’era una suora severissima, la alta e magra suor Ada che dispensava facilmente qualche scappellotto senza sapere perché l’avevi preso, c’era l’artista suor Piersofia che suonava il pianoforte e ci faceva recitare e cantare in coro. Io mi ribellai perché non mi piaceva esibirmi in pubblico. Mi escluse. Fui molto soddisfatto perché avevo capito subito come un piccolo poteva farsi ascoltare dai grandi. Poi c’era suor Servidea, piccola, parlava sempre, ci raccontava storie, ci leggeva poesie stampate da La Scuola, casa editrice di Brescia. Una volta, ero piccolo ma me lo ricordo ancora, suor Ada mi dette un gran ceffone. Perché? Perché, mi disse, ero passato sotto la rete di confine, ero andato fuori dell’asilo senza avvisare a recuperare un pallone. Non ero stato io, glielo dissi, era stato Renzo Zamengo. Tutti lo chiamavamo Picerillo, come suo padre basso di statura. Mi rispose che era stato uno bambino con il nome che cominciava con la zeta. Feci qualche lacrima, ma fu importante, imparai che non è bene fidarsi di tutti subito. O forse aveva ragione, mi aveva fatto pagare un errore in anticipo, sapeva che adesso o dopo ci sarei andato. Infatti, in seguito, prudente e guardingo, pareggiai il conto, perché a recuperare il pallone, senza essere visto, ci andai due volte.

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Ho sprazzi di luce, chiarissimi, di quegli anni. Percorrevo a piedi più di due chilometri da casa a scuola. Altrettanto al ritorno in mezzo ai campi dove abitavo in una casera in affitto in via Calcroci ora via Galilei. Oltre alla cartella di cartone avevamo una sporta con una borraccia, ricordo militare, con il latte che le suore ci scaldavano a mezzogiorno. Per la stradina di campagna si raccoglievano i ragazzi delle varie case. Venivano con me mia sorella Luciana e mia sorella Letizia, mia cugina Giovanna, poi incontravamo i ragazzi degli Albertini, dei Bareato, dei Pastore, dei Mescalchin, dei Saccarola, dei Roson, dei Salviato, dei Saorin, dei Vescovi con il mio amico Saverio, una amicizia forte che dura ancora. Gli altri sono quasi tutti morti. A cominciare dai miei fratelli e sorelle, tutti più giovani di me. Con alcuni di quegli antichi compagni ci vediamo di sfuggita in cimitero quando andiamo a portare una carezza ai marmi. Ci salutiamo accennando ad un sorriso  e poi ognuno va alla tomba dei propri cari. Mi chiamo Andrea Zilio, ma attorno al mio nome c’è un bel discorso da fare. Sono nato il trenta novembre, giorno di S. Andrea e mio nonno, morto l’anno dopo, uomo pio e buono come la sua terra che coltivava, sgretolava con le mani, la toccava con la lingua per capire se era grassa, se sapeva di concime o no per scegliere poi le sementi adatte, mio nonno, dicevo, pretese di chiamarmi con il nome del santo del giorno. Devo averlo già detto in qualche parte. Comunque è andata così. Mia madre, che si chiamava Giustina Scocco, Quajo di soprannome, era stata a servizio a Roma presso la famiglia di un dottore che lei poi nominerà sempre con devozione. Vicino a villa Ada lavava, stirava e accudiva due bambini, uno si chiamava Fausto. Lei volle che il primo dei suoi figli si chiamasse così. Da tutti a Sambruson sono conosciuto come Fausto. Una volta in canonica ho visto il mio atto di battesimo e ci sono entrambi i nomi. Poi con l’avvicinarsi degli anni delle scuole il mio nome ufficiale fu quello dell’anagrafe. Ci fu una resistenza ad oltranza del mio nome Fausto (in casa, in paese, gli amici mi chiamano ancora e solamente Fausto e sono passati più di ottanta anni) persino la maestra, Frasson di Dolo, lo scrisse sulla pagella di terza. Perciò Andrea dovrebbe rifare tutte le scuole, comprese le magistrali, perché ha perduto e non recuperato un anno scolastico. Mio padre si chiamava Abramo. Il suo nome è tutto un programma. Non ho rischiato la fine di Isacco, solo perché nessuno gliel’ha chiesto, altrimenti avrei sì rischiato anch’io. Era religiosissimo, conosceva molti episodi storici della Bibbia che d’inverno, in stalla al calduccio, ci raccontava. In quegli anni ogni famiglia oltre al nome aveva un soprannome, il soprannome degli Zilio era Cuco. Quando gli chiesi il perché di quel nome, mi raccontò questa storia. Suo nonno, che si chiamava Gustin amava la caccia, come mio padre del resto. Andava a piedi a caccia in barena, ma tornava a casa spesso a mani vuote. Come va Gustin, cosa hai preso oggi? Gnente gnente, gnanca un cuco. Il cuculo è il più sciocco degli uccelli, non sa neppure costruirsi un nido. Un altro giorno chiedono a Gustin: cos’hai preso oggi? Niente niente nemmeno un cuco. Alla terza volta gli chiedono: Cuco cosa hai preso oggi in valle? Niente niente! Fu così che Gustin Zilio e i suoi discendenti si chiamarono Cuco.

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Se passate per Sambruson vedrete che c’è ancora la via Argine  Sinistro. E’ l’antico argine del fiume Brenta che fino a meta dell’800 scorreva da queste parti prima di sfociare in mare passando per Corte di Piove di Sacco. Negli anni ’40 del secolo scorso, nelle bassure dell’antico alveo, si raccoglievano le acque piovane e noi ragazzi andavano a frotte a rotolarci nel fango credendo di nuotare. Non ho mai cercato di imporre agli altri i miei giochi, ma quando li vedevo annoiati chiedevo ai miei coetanei se avevano voglia di frutta. Qualcuno diceva di sì, qualcuno tentennava, qualcuno aveva paura. Venite con me senza paura dicevo e li portavo oltre la ferrovia nella campagna lavorata dai miei. C’erano tutti i tipi di frutta. Venivano, si riempivano il torace di albicocche stringendo la canottiera tirando la cinghia dei pantaloni. La cinghia era un normale balso ossia una cordicella fatta di erbe selvatiche di fosso attorcigliate usate per legare i mannelli di spighe durante la mietitura. Sono le stesse che si usavano per impagliare sedie. Nei mesi estivi con i ragazzi delle Bacanelle, la via più lunga e disagiata di Prozzolo, andavamo in valle ossia nelle acque della laguna dove c’erano le barene, isolotti di brughi che gli uomini tagliavano in primavera per usare al posto della paglia, la paglia la mischiavano con l’erba spagna. Mancava molto al primo taglio di maggio. Andavamo con  fratelli e cugini, a piedi da Sambruson, passavamo dai Quajo, dai Cuco, dai Bigarani, dai Riseti, non dai Parafin perché erano baruffanti. A volte qualcuno diceva di passare per Ca’ Diedo, dove stavano i Bricioea dal nome del capofamiglia piccolo e simpatico, come una briciola. A volte i soprannomi dipendevano da un difetto, da un vizio, da un lavoro, da una provenienza. A chieder la deviazione di percorso erano i più grandi e noi curiosi seguivano contenti. Vi abitavano tre meravigliose ragazze che appena sentivano la frotta di ragazzi uscivano e di nascondevano dietro i grandi morari dell’entrata del loro cortile. Loro ridevano e scherzavano per attirare l’attenzione, poi usciva il Bricioea e la nostra banda se la squagliava. Andare in barena in barca, tra ghebbi e velme era una avventura, bisognava affidarsi a qualcuno più grande che sapeva di remo e che conosceva le tane per pescare i go e i cefali. Non ho mai preso i go perché avevano i pungiglioni in testa, di cape invece ne ho raccolte tante e mangiate sul posto incrociandone due a due e aprendole con una leggera pressione. Era una gara di astuzia andare a vongole, o cape come dicevamo in campagna. A cape andavamo scalzi, in braghete corte e con la bassa marea. Dovevi fare un passo, fermarti, osservare il fondo, se vedevi un leggero sbuffo di fango là sotto c’era la capa che filtrava l’acqua cercando qualcosa da mangiare. Si rivelava da sola, bastava abbassare la mano e tirarla su. In barena, se non sei esperto, non ti porti dietro l’acqua da casa, allora patisci la sete e quindi non puoi restare a lungo. Ricordo di essere andato a cape con Bruno Polo e Gastone Disarò, quando facevo il segretario in latteria e loro lavoravano il latte producendo casatelle e latte pastorizzato. Bruno Polo è morto qualche anno fa e mi sorride quando passo nel cimitero nuovo di Sambruson. E’ stato cremato e riposa nella tomba di suo padre. Una volta noi tre, sotto la guida di Bruno che guidava una barca a motore, dopo una gran pescata di cape, rientravano alle  Giare dove c’erano le cavane per il riparo delle barche. Eravamo fieri della nostra pescata e stanchi. Le cape erano state tolte dal fango e prima di portarle a casa bisognava lavarle. C’era sulla riva una grossa cassetta di polistirolo, proposi di vuotarle là dentro e poi di trascinare il carico con il motore acceso. Dopo pochi metri si ruppe il laccio, la pescata andò a fondo e noi rimanemmo impalati a guardare. Eravamo lungo il canale, in un posto profondo, perdemmo tutto. Il lavoro di una giornata andò perduto in un attimo. Sbadataggini simili non mi capiteranno più. Già, anche perché non andai più a pescare con loro. Deve essere stata la mia idea geniale ad averli fatti arrabbiare. Perché so che loro ci ritornarono. Volevo restare loro amico, così feci finta di niente. All’età della classe quinta, erano in voga le bande, non solo per andare a frutta nelle campagne degli altri, ma anche per organizzare giochi, a volte pericolosi, ma da cui non potevi restare escluso, perché significava essere scartato dai tuoi coetanei. Nella grande pozzanghera del canale, si riunivano i ragazzi di contrada per sguazzare e per tramare qualcosa. Parallelo all’argine sinistro, ormai strada di passaggio, successivamente asfaltata, c’era l’argine destro. Di questo argine, apparentemente insignificante, ne ho parlato a lungo in “Addio alle fionde”, era la meta delle nostre conquiste. Coperto di canne, robinie, piccoli pioppi, sabbioso e friabile era la tana, la palestra delle nostre battaglie con le fionde. Come i ragazzi della via Pal, le bande che si contendevano il possesso di questa piccola collina, abbattuta in seguito per recuperare sabbia da costruzione, erano due. C’eravamo noi, campagnoli, della banda delle Marigate, nome di cui mi sono subito innamorato, tanto che costituisce tuttora la mia e-mail, c’era poi la banda del Ponte, agguerrita e temibile, con alcuni capi spicci di mani e abituati a prendersi tutto quello che volevano. Tra loro ricordo Gilberto Segato, i fratelli Lazzari, Gianni Boran, Tasi, Carlo Darici.  Era inutile battersi con loro, bisognava subito ritirarsi, però ci furono occasioni in cui le parti si rovesciarono e la banda delle Marigate ebbe stranamente la meglio. Non mi ripeterò, chi ha voglia legga ”Addio alle fionde”.

Nel Canale passammo la nostra migliore infanzia, imparammo l’amicizia, lo spirito di gruppo, la lealtà, il coraggio. Ci fu qualche esagerazione? Sì! Ma non tale da rompere equilibri necessari per esistere e continuare a confrontarsi. Sono passati sessanta-settanta anni eppure ci sono ancora vecchi che si ricordano di aver giocato sulle rive del fiume Brenta, deviato poi ai confini con Padova. Le rive erano state anticamente vigilate, per ordine del Magistrato alle Acque, dal madrivo per controllare che non ci fossero improvvise piene o fontanassi. Il madrivo era il maestro di riva, nome che in seguito si trasformò in Marigo. Ci sono tuttora molti Marigo a Dolo, Sambruson, Calcroci, Prozzolo, Campagna Lupia, Bojon. Ci sono ancora brevi tratti della riva destra a Calcroci e a Bojon, tuttora selvosi. Per lunghi tratti l’argine destro è servito per deporre le rotaie per la vaca mora, che parte da Cavarzere, passa per Sambruson, e va a Mestre, era il treno degli operai che andavano a lavorare negli stabilimenti di Portomarghera. Ai lati delle rotaie, c’erano e ci sono ancora, delle siepi di biancospini che servivano da avviso e da difesa per chi lavorava nelle campagne attorno, avvisavano del pericolo degli attraversamenti. In primavera la fioritura del biancospino era uno spettacolo, d’estate tra le fessure delle piante spinose, i ragazzi del Ponte venivano nel nostro territorio a spiare le donne che, abbastanza spogliate, prendevano il sole stese sulla ghiaia. Era la spiaggia dei poveri. Quando sentivano il fischio del treno, raccoglievano le vesti, scendevano la scarpata della ferrovia e aspettavano che fosse passato. I ragazzi del Ponte scappavano. Ecco erano occasioni per mettere le cose a posto, bastavano per capire che anche loro non erano così coraggiosi come sembrava. Io abitavo allora nella campagna attraversata dalla ferrovia, perciò pensai, chissà perché!, di farmi vedere, dopo tutto ero a casa mia. Negli stessi biancospini, non ricordo in che mesi, passavo con mio fratello Eugenio a raccogliere i bovoeti, piccole lumachine, che restavano attaccati ai rami dopo grandi piogge (li bollivamo con aglio e prezzemolo ed erano un piatto prelibato). Praticai un foro tra i biancospini, osai farmi vedere, provai a tossire. Reazione? Nessuna. Erano sempre almeno in tre e continuavano a rimanere stese a prendere il sole. Non potevo neanche raccontarlo, tanto era umiliante. Lo faccio ora, perché parlo di semplici cose di campagna che mi piacciono. Di quelle donne giovani e belle nessuna è qui.

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I primi anni di scuola elementare, ricordo bene, meglio di tanti altri anni successivi, furono turbolenti e dolorosi per le nostre famiglie: figli e mariti in guerra, bombardamenti, il famoso ricognitore Pippo, aereo militare che passava di notte e bombardava dove vedeva luci accese nelle case. Le donne pregavano, ci nascondevamo sotto la tavola per ripararci dai calcinacci che scendevano dai soffitti, dai muri in case che avevano le cucine ricavate da un a parte di stalla e le camere ricavate da una parte di granaio. Io e le mie sorelle e la cugina Giovanna correvano per i campi a raccogliere i volantini che gli aerei alleati lanciavano per la popolazione invitandola a non collaborare  con i tedeschi e i fascisti. Una parola! Da sotto, da terra non era facile come per chi stava per aria, al sicuro. Beh, mica tanto! Una notte, Pippo volava basso e ogni tanto lanciava razzi per illuminare il suolo. Ma questo, una notte, fu il suo guaio. La contraerea lo abbatté. Cadde in via Brentoni a Sambruson, nei campi, se ben ricordo, dei Bortolozzo. La notte stessa tanta brava gente, si fa per dire! depredò tutto quello che poté dall’aereo fumante, cannocchiali, razzi, armi, occhiali militari, stivali del pilota. Una cosa certa, che non si notò, dato il buio, fu la soddisfazione di vedere un nemico morto. Il giorno dopo nessuno sapeva niente, nessuno aveva visto niente, nessuno aveva sentito niente. A casa mia, come vi ho detto, io corsi il rischio di chiamarmi Isacco, figlio di Abramo, nome troppo pesante da portare. Mio fratello Eugenio, secondo maschio di casa, non la passò liscia  fu chiamato come il nonno, Eugenio, così pure un cugino, tanto per ribadire  l’affetto per gli antenati. Non ho mai conosciuto mio nonno, ovviamente, ma ho visto più volte la sua foto sulla tomba in cimitero a Sambruson, poco lontano dalla chiesetta, vestito da alpino, grandi baffi e sguardo severo. Non so se per la sua saggezza, per la sua miseria, per il suo ruolo di capofamiglia. Essere capofamiglia era estremamente importante nelle famiglie patriarcali contadine. Mio nonno Eugenio e mia nonna Emma ebbero sei figli: Abramo, Attilio, Amelia, Valentino, Luigi, Rosa. La famiglia si allargò con la nascita di diciannove nipoti, di cui sei sono morti. Ma intanto ognuno dei figli aveva formato una sua nuova famiglia, trovato una nuova casa, ma sempre a Sambruson. Nelle case di campagna, ricordo, non mancava mai il cibo: pane e latte, lardo e cotica, salami e sangue di maiale c’erano sempre. Mancava tutto il resto, cioè quel piccolo di più che ti rende allegra la vita, un giocattolo, un dolcetto, una carruba in più e delle straccaganasse nella calza della Befana, un paio di scarpe, diverso dagli zoccoli, una coltrina da mettere in camera nella propria finestra. Quando i figli di Eugenio, morta anche nonna Emma, si spartirono i campi e gli attrezzi, da piccoli benestanti si trovarono in quattro povere famiglie. Amelia e Rosa si sposarono e uscirono con la loro dote. A casa mia, la prima sera che ci riunimmo a cena nella nuova famiglia, ricordo che mia madre Tina aveva preparato una grande polenta che scodellò sulla tafferia e tagliò con il filo in tante fette che subito mescolammo in una scodella di latte. Il latte non mancava mai, al mattino, a mezzogiorno risi con il latte, latte con la polenta. Alla sera dopo la scodella di latte inzuppammo una crosta di pane con dell’aceto e le nostre labbra diventarono rosa. Guarda guarda Abramo che belle labbra rosa hanno i nostri figli questa sera, nel nome del padre e del figlio e dello spirito santo. Mio padre era sul  selciato seduto su una sedia sfondata a fumare una sigaretta “alfa” fatta su con la cartina e guardava serio nel buio della notte. Non è solo la mia storia questa, raccolgo tante storie della gente di Sambruson. Io sono uno di loro, qui per caso, ho voglia di scrivere parole che restino come lapidi che non si cancellano, parlo perché c’ero, parlo di cose vere, di gente vera, ma sto raccontando la nostra storia, raccogliendo tanti fili che annodo, intreccio, anticipo, scavalco per raccontare un mondo piccolo, unico, importante, essenziale perché nostro paese di campagna. Vorrei che con una parola sola, Sambruson, si capisse tutto di noi. Vado su e giù nel raccontare, perché i lampi non vengono tutti insieme e non sempre hai voglia di ascoltarli, di temerli, di sfidarli. Oggi due novembre, cuore infranto, dolore che ci inchioda alla nostra croce, siamo stati a Sandon a piangere sulla tomba di Alberto nostro figlio, io e Silvana madre addolorata. Da anni il cancro al cervello lo divorava, lui sorrideva lo stesso, tentava di curarsi, ci incoraggiava, andava a lavorare a Vigonza dai signori Benetti che lo amavano e lo aiutavano, ci diceva che stava vincendo il male, poi è crollato. Il glioma, pur operato tre volte, lo stava divorando, gli ha toccato il senno, non ha più capito niente. La sua morte dolorosa e drammatica ci ha lasciati sfiniti, sgomenti. Ha lasciato la sua giovane sposa Sabrina, Marco ed Enrico, piccoli tesori sbalorditi, senza più guida, noi vecchi genitori senza il bastone della nostra vecchiaia. Ci hanno accompagnati Carlo e Mariangela, amici d’infanzia, custodi silenziosi e delicati delle nostre pene, siamo stati reciprocamente testimoni di nozze, da sempre ci aiutiamo, ecco non potevo oggi parlare di altre cose lontane, queste parole mi sono straripate e le stendo qui davanti a voi che leggete perché sappiate che un’amicizia d’infanzia è una fraternità. Anche se ho appena finito la lettura  di “La morte è niente” di Henry Scott Holland. E’ un freddo che riscalda.

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Il Palazzo dei Leoni è una villa veneta di Mira, là ho frequentato la scuola media. Finita la quinta il mio destino era segnato: la zappa. Furono più di una le circostanze che mi portarono vicinissimo all’abbandono della scuola, la chiamo scuola perché era troppo presto parlare di studi, anche se le prime nozioni di latino le appresi il primo anno di scuola media. Scuola media a cui non ero destinato. Mio padre Abramo, capofamiglia dopo la morte dei loro genitori, si sedeva a capotavola  e una volta alla settimana mostrava a tutti i conti sulla vendita del bestiame, i conti del latte, del consorzio agrario, degli affitti. Le donne restavano in cucina. Quell’agosto alla fine dei conti disse poche parole, io ascoltavo dietro la porta, perché me la sentivo che stava succedendo qualcosa di importante, di decisivo per la mia vita. Mia madre Tina, in famiglia era chiamata così, aveva supplicato mio padre a parlarne in famiglia con gli altri fratelli. Silenzio. Ho un problema fuori campo da dirvi. Se mi dite no non si fà, se mi dite sì, ebbene allora si fà. Silenzio. Fausto vorrebbe continuare la scuola, occorrono i libri. Silenzio. Non c’è solo lui, ci sono anche i vostri figli. Attilio parlò per primo. Disse che si doveva fare, per gli altri si parlerà quando sarà il tempo. Valentino scosse la testa. Era stato in guerra in Grecia, in Albania, era sbarcato a Brindisi con l’armistizio, era stato a lungo oltre la linea gotica, si erano perse le sue tracce. Dopo una lunga pausa accennò di sì con la testa. Luigi, il più giovane, voleva bene a Fausto, era del ’22, aveva appena quindici anni più di me, disse di sì sorridendo. Bene, disse mio padre, me ne ricorderò, domani Fausto andrà a ripetizione dalla maestra Maria Saccarola, c’è ancora qualche settimana, deve prepararsi e affrontare gli esami di ammissione. La preparazione andò bene, fui ammesso alla scuola media, al Palazzo dei Leoni. Il primo anno fu durissimo, non avevo vocabolari, non ne chiesi per non gravare sulla famiglia patriarcale, andavo a scuola con i pochi libri in una sporta di paglia, con una bicicletta regalatami dalla zia Lina, sorella di mia madre. Abitava dopo il Porto Menai, sulla riva sinistra del canale, da lei mi rifugiavo quando pioveva e quando tornavo con la fame. Avevo ancora quattro chilometri da percorrere. Faticavo molto, nessuno a casa capiva di algebra, di francese, di latino. Ero il più fortunato di tutti i miei compagni. Fui l’unico  della mia età, il primo a Sambruson ad avere iniziato gli studi per diventare maestro elementare. Fu subito la mia passione. Ero curioso, leggevo tutto, chiedevo libri in prestito alla biblioteca Ispirato da cosa? Non lo so, mi dicono che, già da piccolo, fingevo di leggere la Difesa del Popolo, giornale della diocesi Padova, che entrava quasi obbligatoriamente in tutte le case della contrada, spesso lo portavo io stesso, raccoglievo a fine mese la quota di abbonamento e portavo il ricavato all’arciprete don Luigi Rimano. Il primo anno, non so come, alla fine andò tutto bene, il secondo anno fui rimandato ad ottobre. D’estate ripassai tutto da solo, tra una aratura e una vendemmiata, perché non potevo dire che stavo perdendo tutto, stavo perdendo l’anno, dovevo dare una mano nei campi, come gli altri. La professoressa Anna Zampieri mi diede sette al posto di cinque e passai in terza. Preside era il professore di lettere Tiziano Freschi, di cui ho ancora un buon ricordo. Ebbi dei bravi compagni ricordo benissimo Gianni Polo, con lui ci sentiamo ancora ogni tanto, Dino Berati che andrà migrante in Argentina, Vettorazzo figlio del bidello, Meneghin cartolaio, Moro Lin di nobiltà veneziana, Annoè (mi sembra Guido e Lucia che diventerà maestra), Maran che si diplomerà geometra. Delle ragazze ricordo la Videni e la bella del gruppo, Aglaia si chiamava, futura  preside in una scuola media a Mestre. Le ragazze erano piuttosto schizzinose, o forse sembrava a me che avevo poco coraggio di avvicinarle. C’era una graziosissima compagna che scherzava sempre, mi piaceva, ma non parlava con me, stavo lontano, certamente mi avrà giudicato immaturo. Penso che, su questi primi avvertimenti del sesso, avesse ragione. L’ultimo anno andò liscio, non mi pettinavo più con la riga in parte, ma alla umberta. Cominciai a tirare calci al pallone con la squadra parrocchiale Ambrosiana. Non fui rimandato in latino perché un professore di religione passando e ripassando tra i banchi, durante l’esame scritto, metteva il dito su alcune  frasi sbagliate. Senza  parlare. Pensa e ripensa per alcune trovai la soluzione. Fui promosso. E adesso? Avevo di fronte un nuovo baratro. Durante l’estate aiutai nei campi sollevando mia madre che aveva già da curare la cucina,il pollame, rammendare, lavare con la cenere, curare le oche, le anatre, i conigli, i tacchini, il maiale. In  quel periodo le famiglie dei fratelli si erano divise. Nella campagna restarono Abramo e Luigi, metà ciascuno, mentre Valentino e Attilio andarono fuori in altre due piccole campagne. La mia presenza nei campi si faceva nuovamente necessaria. I miei fratelli e le mie sorelle erano troppo piccoli. Avevo diciassette anni quando nacque mio fratello Graziano.

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Devo tornare un attimo indietro e parlare di nonna Emma. Aveva undici anni meno di mio nonno, gli sopravvisse undici anni, morirono della stessa età. Ero il più grandicello dei nipoti, la accompagnavo quando usciva in biroccino tirato dalla cavallina Tosca. Era energica, tutti figli le ubbidivano. Fin che visse si sedette lei a capotavola. A casa nostra nessuna altra donna fu uguale a lei. Andavamo a trovare le sue sorelle e suo fratello Toni Quaio alle Baccanelle, in seguito chiamata Fratelli Cervi, la sorella Nora claudicante per una malattia infantile, la sorella Antonia in via Liberazione, ma all’inizio aveva un altro nome che non ricordo, altri parenti di Campagna Lupia. Dopo la Liberazione, dopo la fine della guerra, Prozzolo di Camponogara, aveva una amministrazione di sinistra e cambiarono molti nomi di vie e di piazze con nomi patriottici. Nacquero accese discussioni, perché si diceva che i nuovi amministratori facevano scomparire i nomi della tradizione per lanciare nomi di partigiani e di avversari del fascismo che, pur essendo caduto, aveva diversi adepti nascosti nelle file della democrazia cristiana. Nel partito dello scudo crociato crescerò anch’io, guarderò in cagnesco molte brave persone, lavoratori, fittavoli come noi, ma che non andavano in chiesa. Tra i miei avversari c’era lo zio Germano, fabbro sotto una tettoia, ingegnoso, dormiva in un granaio su una stramazzo di paglia e aspirava a giorni migliori per sé e per i suoi figli. La stessa aspirazione di mio padre, credente assoluto, lo zio Germano assolutamente no. In quei giorni, nel primo dopoguerra, la povera gente era manipolata dai soliti potenti dicendo che dovevano difendere i principi. I principi non erano uguali per tutti, in teoria, pur essendo uguali nelle aspirazioni finali. Questo scontro sui nomi tradizionali delle vie del paese dura tuttora. Nel mese di maggio dell’anno 2015, erano giunti alla 35^ edizione, si celebra, sotto un tendone, ma anche all’aperto per le vie del paese vicino alla chiesa, la Festa del Folklore – Palio delle contrade (rigorosamente con i nomi tradizionali). Le contrade si sfidavano in vari giochi: delle pignatte, del tiro alla fune, del taglio di una trave uguale nel minore tempo possibile, nel teatro in costume rievocando scene di vita lontana raccontata dai vecchi, cori di storie di una volte, filastrocche, barzellette, ballo, cucina, pranzo comunitario, il miglior dolce delle famiglie di contrada, lotteria. I giudici non erano del paese, ma di Dolo e di Sambruson, perché imparziali. Ma c‘erano sempre discussioni, arrabbiature e promesse di rifarsi l’anno dopo. Organizzatori erano Arnaldo Gobbi, Mario Ferrari e il parroco. Adesso c’è il Circolo “Comunità di Prozzolo” Parlo spesso di Prozzolo, perché mia madre quando si sposò si trasferì a Sambruson, ma il legame parentale è rimasto intatto. E quale arbitro nel Palio delle contrade hanno chiamato anche me.

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Un’altra donna eccezionale fu nonna Vittoria, quando si sposò con nonno Agostino, vedovo, trovò tre figli già nati, grandicelli, ne portò uno, ne fece. Alla fine i fratelli Scocco furono undici. Nonna Vittoria, che non era mia nonna, ma io l’ho sempre considerata e chiamata così, mi voleva un gran bene. Quando andavamo con mia mamma Tina, attraverso i campi, a piedi, a trovare i parenti, mi offriva l’unica ricchezza che avevano, un bicchiere di vino clinton, un biscotto fatto in casa. Cose che la povera gente fa. Quando la mamma della mia mamma morì lasciò quattro figli piccoli: Lina, Guido, Aldo e Giustina o meglio Tina. La mia mamma non conobbe mai la sua mamma perché mori mettendola al mondo. D’inverno, vicini al focolare ci raccontava le sue storie da bambina e si commoveva perché non  aveva mai visto la sua mamma, neanche in fotografia, non sapeva neppure dove era sepolta, forse a Campoverardo. Si fecero delle ricerche ma non si trovò niente; era nata nel 1915, prima guerra mondiale, c’erano altri pensieri. Per i grandi, ma anche i piccoli avevano i loro dolori. Nonna Vittoria portò in dote, si può dire, Nino, che si sentì sempre estraneo, un intruso. Poi nacquero Pasquale, che noi chiamavamo Gusto, Odino, Germano, Bepi, Aronne, Maria. Sono tutti scomparsi, i loro figli, usciti dal fango della loro lunga strada, sono diventati infermieri, architetti, operai specializzati affermati e rispettosi. Un discorso a parte meritano Lina e Tina. Andarono a diciassette anni servette a Roma, come tante altre ragazze venete, in una casa signorile vicino a villa Ada, in un mondo mai pensato, mai conosciuto, da temere. Si comportarono come molte donne moldave e romene ai nostri giorni, ne più ne meno. Furono fortunate perché trovarono una famiglia meravigliosa, il cui nome non ricordo più. Si alternarono: quando Lina ritornò a casa perché doveva sposarsi, prese il suo posto Tina che rimase fino al suo matrimonio, anno 1936. Nel 1966 cercai ingegnosamente il loro numero di telefono, li trovai, dissi che ero Fausto, (era il nome di un loro figlio), che mia madre mi aveva parlato di loro, che diceva sempre, quando voleva insegnarci qualcosa di bello: come diceva il signor dottore di Roma… Si parlarono a lungo, con commozione e con la speranza di rivedersi. Cosa che non avvenne. Ne mai più ci parlammo. Fece in tempo di comunicarci che suo figlio Fausto, reclutato, era stato spedito soldato, da Mussolini, nella campagna di Russia da dove non era più tornato.

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Alla scuola media, al Palazzo dei Leoni, passai giorni lieti e veloci. Dovevo arrancare negli studi, e correre in bicicletta ogni giorno, andata e ritorno, con bel tempo, pioggia o neve. Per questo passavo da Porto Menai, perché la zia Lina mi dava un riparo all’occorrenza. Ma in primavera sceglievo un percorso più breve: via Calcroci e poi via Argine sinistro, via Carrezzioi, via Ettore Tito, via Marconi, Mira Taglio, Mira Lanza, là di fronte alla fabbrica che produceva candele, glicerina e sapone, divisa dal Naviglio, c’era il Palazzo dei Leoni. Nei primi anni del dopoguerra, molti ragazzi cadetti, uscirono, si deva così, dalle famiglie patriarcali, andarono a lavorare in fabbrica, la più vicina era la Mira Lanza. Chissà quante volte, percorrendo via Ettore Tito, sono passato davanti alla casa di Silvana, era l’ultima casa di Sambuson. Molti anni dopo, una sera trepidante bussai a casa sua, lei naturalmente mi attendeva, entrai e chiesi a sua madre Tosca di poter discorrere con la figlia. Mi disse di sì, ma dovevo chiederlo anche a suo padre Carlo che si trovava in una trattoria al Taglio con Simon Rossi e altri amici a fare una partita a carte. Mi avvicinai, lo ricordo benissimo, quasi recitai la mia richiesta, coram populo, mi rispose di sì balbettando, non per timore, ma perché balbettava davvero. Lo vidi felice, ma non per molto tempo, morirà presto, negli stessi giorni di J. F. Kennedy, presidente degli Stati Uniti. Perché ricordo questo fatto storico? Perché Silvana mi ricorda ancora suo padre morto giovane per malattia trascurata ai reni, era diventato giallo e senza forze. Per lei il fatto storico che segnò la loro famiglia fu questo. Avevo una lambretta a quei tempi, mi serviva per spostarmi in Riviera del Brenta per varie supplenze nelle scuole elementari, e quando mi presentavo dalla morosa in moto mi sembrava di essere un signore. Sulla  strada statale, parallela a via Marconi e il Naviglio del Brenta, quasi di fronte alla famiglia Marchiori, abitava il professore di matematica Annoè. Suo figlio, in classe prima, piano rialzato, era in banco con me. Era un professore molto severo, se sbagliavi non aspettava che ti correggessi, che ci ripensassi, era subito un bel cinque. Quando entrava, nessuno fiatava. Una mattina di giugno, un lunedì, entra in classe, si siede alla sua cattedra, si prende la testa tra le mani e piange. Ho ancora la pelle d’oca. Cosa sarà mai successo? Tutti attendevamo una parola, un cenno. “Il vostro compagno Alvise è morto,” sillabò. Guardammo il suo banco vuoto. Era vuoto davvero. Alvise era un ragazzo, rosso di capelli, vispo, sempre sorridente, disturbava volentieri quanto poteva, perché suggeriva, dava una mano a tutti. Il professor Annoè lo aveva rimproverato duramente il sabato precedente perché colto sul fatto: aveva passato un foglietto ad una ragazza, la più bella, Aglaia, con parole galanti. Gli dispiaceva di avere rattristato un ragazzo d’oro per una sciocchezza simile, che forse aveva fatto anche lui a suo tempo. Era successo che domenica pomeriggio, il giorno prima, lui era orfano, era andato con la famiglia dei cugini in spiaggia alle Giare, era la spiaggia dei poveri, le persone si mettevano il costume cambiandosi  in mezzo ai campi di granoturco della famiglia Pra, famosa e benestante che possedeva a due passi  un importante maneggio con cavalli da corsa che correvano all’ippodromo di Ponte di Brenta. La cosi detta spiaggia delle Giare era una barena, tanti isolotti che con la bassa marea sembravano galleggiare sull’acqua salsa. Lo specchio d’acqua era melmoso, non sempre era solido, spesso nascondeva delle tane scavate dai vortici dell’acqua con le maree. Un cuginetto cadde in una buca invisibile, ma profonda, stava per annegare. Alvise si lanciò, lottò, lo salvò, ma perse la vita. Lo trovarono più tardi gonfio di fango. Fu l’evento che ci ammutolì, ci fece fare le lacrime e ricordammo Alvise per tutti e tre gli anni di scuola media. Sono passati molto di più di cinquanta anni e mi ricordo ancora di Alvise.

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Ho letto in questi giorni un libro semplice, molto semplice, ma molto intenso per l’animo vibrante che muove l’autore e che riesce a  trasmetterti. Ami subito le sue memorie dalla prima all’ultima pagina, anche se il suo paese, Azinhaga, è un piccolo paese portoghese alle soglie di Lisbona. Per lui è importante perché è il suo, lo conosce bene. L’autore è José Saramago, il libro è “Le piccole memorie”. Mi sono avvicinato a lui perché il narrare semplice, scorrevole delle cose che conosce, che ama, che formano la misura per tutto ciò che imparerai dopo, è sempre stato anche il mio desiderio, la mia ambizione nel parlare, nel raccontare. In centoquarantadue pagine ti incanta per sempre. Il volumetto del premio Nobel per la letteratura mi è stato segnalato dalla professoressa Monica Boesso docente di lettere al liceo artistico Amedeo Modigliani di Padova. Mia nipote Irene è sua allieva e nostra corrispondente. Il libro è un mosaico, il lungo racconto non diviso in capitoli, ma unito da tante tessere, non una successiva nel tempo alla precedente, ma appaiono vicine solo per affinità di pensieri, di azioni, di comportamenti di personaggi, di insegnamenti, di suggerimenti, di suggestioni. Mi scrive che non solo le persone, ma anche gli alberi, gli animali, gli eventi in apparenza casuali, lo sguardo delle altre creature spesso riescono a dire di più sugli umani di un trattato di storia, di sociologia,  di etica. Il presente racconto non segue il tempo, ma il filo, il filo dell’amore per le cose, per le persone, per i ricordi del mio paese Sambruson. Non ci vivo più, ma chiedo sempre agli amici del Circolo Trovemese: come va a Sambruson? Sono già disponibili, spesso mi precedono. Ci sono molte cose vecchie, molte persone di cui è rimasto il ricordo su cui puoi costruire dei ragionamenti nuovi e articolati, delle riflessioni che ti appagano. Questo metodo di narrare esclude qualunque nostalgia. Il passato non torna più, tutto rotola, tutto scorre, tutto cambia, diceva Eraclito, serve ad appoggiare il nostro futuro su basi note, solide, immodificabili. La professoressa Boesso, originaria di Fiesso d’Artico, dopo aver letto il mio libro “La contrada dei sicomori” ha avuto parole delicate e profonde nella lettera che ha voluto inviarmi. Mi ha detto di amare la nostra terra, la nostra Riviera del Brenta, di aver conosciuto Sambruson attraversandolo per andare a Sottomarina, in tre in Vespa, lei bambina davanti, al posto dell’anguria. Suggestivo. Mi ha detto di amare la campagna, le bestie, (i contadini chiamavano bestie gli animali delle loro stalle), gli alberi che certamente s’interrogano e si meravigliano di noi, dei nostri comportamenti insani verso la natura, di noi stessi infine. Chi lo sa! io lo credo, ogni creatura sente a modo suo. Penso si meraviglino delle stranezze che commettiamo contro di loro, facendoci del male.

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Dopo la terza media il mio percorso scolastico era concluso. Con rammarico presi confidenza sempre più con la zappa e con l’aratro, sennonché avvenne anche questa volta un fatto imprevedibile. La paronsina Letizia Segato Marangio, maestra, figlia del proprietario della campagna lavorata da mio padre Abramo, venne a godere del verde, dei frutti, della quiete (per lei!), si fermò a chiacchierare, ad interrogarmi sul come stai, cosa fai, cosa farai, ti piacerebbe andare a scuola… Per creanza risposi normalmente, dicendo che, sì! mi piacerebbe. Era una persona affabile, gentile, sincera. Mio padre aveva tutt’altra idea per il bisogno di un aiuto nei campi, ma si lasciò convincere, sostenuto da mia madre. Decise di mandarmi a scuola a Padova. Ma studiare cosa? Mi interrogò. Credevo si ricordasse qual era il mio sogno: insegnare a scuola, e per aiutarlo a convincerlo suggerii le magistrali, di quattro anni, invece di cinque. Gli facevo risparmiare un anno di fatiche. In realtà mi piaceva da sempre insegnare in una scuola elementare. Non ero mai stato a Padova, neanche al Santo. Per arrivare all’istituto Amedeo di Savoia duca d’Aosta, dovevo percorrere via Calcroci, ora via G. Galilei, via Villa, via Argine sinistro, mettere la bicicletta allo stallo da Cencio, percorrere a piedi via Zinell Destro, oltrepassare il naviglio sulla passerella di ferro, dove ora c’è il ponte Vittorio Veneto, percorrere un breve tratto della statale per arrivare alla fermata del tram della Società Veneta, esattamente dove ora si fermano le corriere. Per un ragazzino spaesato di quattordici era come scalare un grattacielo. Invece di scoraggiarmi mi esaltai di fronte alla prima prova difficile fuori casa, fuori paese, in città. Ma chi mi portava a Padova? La maestra Letizia mi condusse in via del Santo a Padova, mi insegnò il percorso più breve, mi portò in segreteria e, a sue spese, provvide alla mia iscrizione. A casa mia neanche si rendevano conto di queste cose. Imparai presto. L’unica grande difficoltà, prima dei libri, era la strada lunga in bicicletta che dovevo percorrere. Andavo alle magistrali, ancora senza vocabolario di italiano. Incontrai altri ragazzi, ricordo tra i primi Costantino Saccarola (ahimè ci ha lasciato pochi mesi fa!), andava all’istituto Calvi. Era l’inizio degli anni 1950. Compagni di  classe, di treno, e poi di corriera, furono Paride Zuin, futuro architetto, Francesco Zabeo, futuro assicuratore della compagnia Generali, Violin futuro giornalista del Gazzettino, Zara che morirà appena diplomato, Franzolin Peppino che veniva da un paesino dopo Piove di Sacco. I nostri professori: La Via e Pavanello di italiano e letteratura classica, Dal Santo “Bastian” di latino, “la Cogoma” di chimica. Mi ambientai presto, facendo qualche brutta figura, ma conquistando posizioni nel coraggio di affrontare momenti difficili. Uno dei momenti difficili fu un concorso di atletica tra gli istituti superiori. Da noi i maschi erano una sessantina, le femmine alcune centinaia (esattamente non ricordo). Il professore di educazione fisica doveva formare le squadre che dovevano poi confrontarsi allo stadio dell’Arcella. Nonostante la mia offerta fui scartato per il mio fisico mingherlino, pur essendo scattante. Molti compagni declinarono perché gli allenamenti creavano problemi per il rientro a casa. Alla fine il professore, allargando le braccia, si decise di scegliermi tra i rappresentati dell’Istituto per la corsa degli 80 m. ad ostacoli. Facemmo una selezione, ma eravamo solo in due da scegliere, due volontari. Nella selezione di istituto arrivai secondo, primo arrivò Franzolin. Molti risero, io no, perché incominciarono a conoscermi e a ricordarsi di me, perché ero stato rappresentante del Duca d’Aosta. Perché imparai da subito a non buttare le occasioni. E questo titolo solo pochi potevano vantarlo. Una cretinata che non dimenticherò mai fu il tentativo di tradurre un esercizio dall’italiano al latino in una interrogazione orale. C’erano due ripetenti con noi, uno si chiamava Tonello da Pontevigodarzere e un altro era Beniamino Brocca, da Limena, diventerà un pedagogista e politico di fama nazionale, sottosegretario alla pubblica istruzione nei governi Goria, De Mita, Andreotti per la pubblica istruzione. Ci scambiavamo panini con salame, pinza di fichi e mi parlava delle sue escursioni in montagna, all’ombra dei chiostri al Santo. Fu l’autore della riforma della scuola media superiore italiana sotto il nome “Decreti Brocca”. Tonello spacciò per una buona idea una spacconata: ingannare il professore Dal Santo, che chiamavamo “bastian”, perche era sempre contrario a tutto quello che rispondevamo, è facile, diceva. Tonello era uno che aveva un certo seguito. Interrogato, mi presentai insolitamente sicuro, mi guardò con gli occhiali sul naso. Vuoi venire caro, vuoi tradurre caro, fammi vedere caro; mi parlò con la sua abituale sufficienza e mi porse il suo testo, facendomi appoggiare il mio sulla cattedra. Sapeva tutto, non volle infierire, me la cavai alla meno peggio, anzi bene. Mi mise nel registro un bel cinque, al posto del solito quattro.

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Tullio Nalato, impiegato in pensione, diffidava di tutti. Perché ognuno ha il suo interesse, bada solo a quello. Chiunque ti avvicina senza motivo, in realtà un motivo ce l’ha. Non sei tu, non è la tua famiglia, non è il tuo lavoro, ma è il tuo partito politico, non è la tua religione, ma il tuo potere che cerca. Sta cercando le parole per spezzare il velo che tu stendi sugli altri per diffidenza, perché conosci la gente, ti schermi, ti difendi dall’intrusione di chi ti avvicina dicendoti: oh, proprio te! Questo è l’antipasto ed è un mese invece che studia l’assalto di sorpresa. Tullio lo sa e non lo sorprendi. Ha sempre un angolo della bocca piegato in un sogghigno, come per allontanare chi lo avvicina. Le amicizie, i rapporti, i contatti vuole essere lui a cercarli, solo così si sente al sicuro, perché nessuno imbroglia sé stesso. Per questo, pur avendo avuto incarichi importanti nel partito, nell’amministrazione comunale e dell’ospedale civile non appariva mai in maniera plateale a raccogliere dove non aveva seminato, semmai aiutato a seminare. Era un dirigente del PCI, partito comunista italiano. Questo lo ostentava, le sue azioni dovevano essere come medaglie per il partito che rappresentava in maniera corretta e inflessibile, non certo per sé. Mai una bestemmia, una oscenità usciva dalla sua bocca, quanto ne sentiva qualcuna stava in silenzio, non gli interessava. Ma che cos’era quest’uomo? Nient’altro che un galantuomo, vissuto modestamente, morto povero. Perché non aveva mai approfittato del suo potere nelle pubbliche amministrazioni per ottenere regalie, omaggi, i denari della corruzione, vantaggi per i propri parenti. Visse nel secolo scorso, nel pieno della corruzione facile, istituzionale, esattamente come adesso, solo che viene chiamata cambiamento e quindi la mano di bianco sulla parete scalcinata rende nuovo  e buono ciò che non  lo é. Esigeva dagli altri il rispetto e la stima che ogni uomo per bene si attende. Anche il giorno del suo funerale, sotto lo squero a fianco della sede del suo partito ci fu la cerimonia laica. C’era una folla presente con fazzoletti rossi al collo, un oratore esagitato, come se fosse stato presente un organizzatore di uno sciopero a Porto Marghera, esaltò  la sua fede nel comunismo contro tutti gli altri. Fece male perché tra i presenti c’erano molti estimatori non del partito, ma della persona. Erano anni difficili e molte cose, molte persone venivano facilmente considerate sgabelli su cui salire, per avere licenza di dire qualunque cosa, invece, alla fine, era solo un mezzo per sé, per meglio apparire, per meglio ottenere il consenso della platea a proprio vantaggio.

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Uomini e giorni a Sambruson, potrebbe essere questo il titolo, a patto che si considerino anche le donne protagoniste del nostro paese di campagna nel secolo scorso, quando per decenni la vita ha avuto il suo ritmo uguale e malinconico. Come le acque che scendono al ponte dei mulini a Dolo quando macinavano il grano e il mais  e ora che costituiscono breve e immobile curiosità turistica. Questo succede quando il Naviglio è in secca e l’acqua basta appena per l’altro ramo dove la navigazione dei burchielli continua lenta e soporosa. Le turiste inglesi sembrano estasiate ad ammirare, dietro grandi occhiali scuri, le ville venete, in realtà sonnecchiano in attesa di vedere piazza S. Marco sottacqua, le case colorate e i merletti di Burano, i vetri lavorati di Murano, le ragazzine orientali che aprono la mano con due-tre semi per i colombi aggressivi. Una volta il territorio di Sambruson arrivava fino ai mulini, allo squero, alla riva dei calafati. Quando Dolo era appena un incrocio di strade, Sambruson era un importante centro agricolo, la chiesa era matrice di quella di Dolo, le barche con le merci tirate dai cavalli lungo la golena erano uno spettacolo quotidiano. Le ville venete in territorio di Sambruson erano numerose, Badoer, Priuli, Carminati, Rizioli, Baffo, Ferretti, Tito, Velluti, Villa Maria in via Badoera, Morosini, nonché l’attuale canonica, già proprietà della famiglia patrizia dei Badoer. Le ville venete erano numerose, ora quasi tutte fatiscenti, sono passate spesso ad altri proprietari o trasformate in enti pubblici. Non sto facendo lo storico, sarebbe altro il ritmo e l’obbligo di severa e minuziosa ricerca, sto solo raccontando quello che ricordo, che ho conosciuto, che mi ha incuriosito ed emozionato del mio paese. Tra le fole che si raccontano c’è anche la fantomatica storia della rivolta delle femmine di Sambruson contro le truppe francesi occupanti. La storia è raccontata da un prete, don Giorgio Zaghi, cappellano della villa, del paese, che descrive in rime la loro lotta contro i francesi e la potente famiglia Badoer che aveva il patronato della nomina e nel trasferimento del parroco. I fatti narrati sono del 1801, anni napoleonici. In quei tempi, e non solo, i soldati nelle terre di conquista facevano fare altre cose, altro che parlamentari. Comunque dopo un momento di curiosità nella scoperta del carteggio, che descrive  in maniera romanzata i fatti, ora non se ne parla proprio più. Non è di queste fantomatiche storie che mi interesso, ma delle umili fatiche delle donne dei campi. Trascurate, dimenticate, ignorate perché le donne, anche nel 1900, mangiavano sedute su uno sgabello a imboccare i figli piccoli, a scodellare la polenta, a lavare mastelli con lenzuola e mutande, a trascinare il pancion da incinte. A Sambruson i vecchi ricordano la maestra Marin Foccardi Stella e la maestra Italia Meneghelli, sorella del sindaco Riccardo. La prima è stata mia maestra in classe quarta. La famiglia Meneghelli è stata la più importante di Sambruson, arricchitasi con la concia delle pelli che prelevavano dai macelli ben oltre il mandamento. A casa loro lavoravano diversi uomini di Sambruson, in mezzo al sale, ai liquami, agli odori nauseabondi che si spandevano per tutto il centro paese in via Brusaura, via Ponte,  via Vllla, via Cimitero, via Stradona sollevando malcelate proteste. Anche Mario Marchiori vi lavorava, e poi suo figlio Silvano. Quando nacque Silvano, ora ha 82 anni, ed è mio cognato, mi racconta che suo padre doveva andare d’urgenza all’ufficio anagrafe a denunciare la nascita del figlio. Ma Riccardo gli disse no! oggi ci sono delle consegne. Attese due giorni e poi disse: ora vado! C’erano ancora le consegne. Allora si offrì Toni Menegazzo che andò in Municipio, denunciò, ma si sbagliò di due giorni. Scrisse il giorno della sua visita non quello della nascita. I registri erano tutti scritti a mano in perfetta calligrafia da un ufficiale dell’anagrafe. Non correggibili, tutto consultabile. Tranne i modi spicci in azienda, Riccardo fu presidente della Latteria Sociale, podestà in Comune durante il fascismo e successivamente benemerito sindaco di Dolo. Spesso i sindaci di Dolo erano di Sambruson. Durante la sua amministrazione fui suo assessore in giunta; parlava e ascoltava sempre in piedi per rispetto ai consiglieri a cui dava la parola, nonostante avesse un polmone solo, dopo un intervento chirurgico. Era stato eletto nelle file della democrazia cristiana, ma non fu mai  iscritto. Parlava sottovoce, ma non importava, al suo fianco aveva un valoroso capogruppo, partigiano della Osoppo. Antonino Segatti, friulano di Latisana, dirigeva l’ufficio della ditta Morassutti a Dolo. Una pattuglia di suoi compagni, nel febbraio del 1945, fu decimata a tradimento dai partigiani di Tito, guidati da un certo Giacca, alla malga di Porzus, posta sul confine sopra Caporetto. A Dolo non lo ricorda più nessuno, tranne Ulisse Moron, Paolo Gottardo, Vincenzo Grandesso. Ha un vicolo, ora via, intitolato a lui, così recita la targa segnaletica. Meneghelli la meriterebbe, non ha neanche quella.

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A primavera, marzo-aprile, a Sambruson i ragazzi erano costretti a dare una mano nei campi. La loro bassa statura e le loro piccole mani erano più adatte a sciaresare, a schiarire le file delle barbabietole e del mais. Dove non arrivano le mani dei ragazzini provvedevano gli adulti con una zappa piccola. Le barbabietole e il mais nascono con una fogliolina appena, poi, man mano che crescono, hanno bisogno di spazio, se non lo trovano, crescendo si soffocano tra di loro e il raccolto è perduto. Era un lavoro che si faceva chinati o con le ginocchia che affondavano nella terra quando andava bene. Se c’era siccità le zolle facevano male alle ginocchia. Anche le ragazze partecipavano. La seminatrice spargeva i semi perché nascessero a ciuffi, non in righe sempre uguali, questo per agevolare la zappatura. Noi ragazzini per fare presto ad arrivare alla carreggiata opposta eravamo sbrigativi, invece di levare le radichette più esili lasciando quella più robusta e avvantaggiata, inavvertitamente le scalzavamo tutte, allora si prendeva la radichetta migliore e la si ripiantava con un dito senza farci notare. Se il terreno non era umido nessuna si salvava, allora lì restava un buco. Quando a scuola svolgevamo il famoso tema “come hai trascorso la giornata di ieri?”, mostravamo gli indici gonfi e rispondevamo: siamo andati a sciaresare. C’era poco da dire. E il tema era bello e svolto. C’erano altri lavoretti destinati ai ragazzini: la vendemmia e  fare ”cime e foglie”. Il lavoro tra le canne alte di mais, spesso intaccate dalla piralide, in mezzo alle polveri di carbonchio, sotto il sole e al sudore opprimente per il caldo, i ragazzini andavano a strappare le foglie del mais prima che seccassero, erano buone per la greppia. I grandi tagliavano anche le cime, ne facevano dei fasci che i ragazzi abbracciavano e portavano fuori dal campo dove sarebbe passato il carro a raccoglierle. Sempre roba da greppia per risparmiare l’erba medica per l’inverno. Le pannocchie erano raccolte in grandi cesti dagli uomini, erano pesanti. Andavano all’assalto del campo di mais, quando  la pannocchia era matura, era secca e s’inchinava verso il suolo. A volte il tempo imponeva i lavori e l’aiuto della manodopera. I chicchi staccati dal tutolo con la sgranatrice venivano messi ad essiccare sul selciato. Le bambine vigilavano per allontanare i colombi ghiotti di un pranzo per loro già pronto. La raccolta delle pannocchie era faticosa, perché non si poteva tenere in cesto e infilare un chiodo, o uno speo, un rametto appuntito di sanguinella, per aprire le brattee e spiccare le pannocchie bianche o gialle. Anche la polenta avrebbe avuto questi colori. Nelle famiglie patriarcali c’erano molti ragazzi nei cortili che era comandati a dare una mano, anche se controvoglia. Ma non potevano disubbidire. Lasciavano le trottole, gli aquiloni e le fionde e si gettavano in quel mare verde di polveri da prurito. Tra le stoppie crescevano anche fagioli e zucche. Non c’era paga per i ragazzi e le ragazze, ma solo un semplice complimento: bravo, brava. Imparavano senza accorgersene che ognuno deve guadagnarsi il pane e la polenta con il lavoro, intanto. Poi sarebbe stato così per tutto il resto. I vecchi osservavano e comandavano. I padroni venivano con il fresco ad ammirare e a fare i loro conti di mezzadria.

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La fortuna delle piccole famiglie contadine fu la Latteria Sociale di Sambruson. In maggioranza fittavoli e mezzadri, piccola cesura di campagna, una vacchetta o due, ore libere per fare i braccianti nelle masserie più grandi nei momenti dei raccolti. Latte e uova ce n’erano sempre, anche più del necessario. A volte capitava, specie d’inverno, che in famiglia il latte in più venisse usato,per fare il quartirolo o il formaggio senza sale o il burro.  Vittorio Emanuele Terzo, per grazia di Dio e volontà della Nazione re d’Italia, l’anno miillenovecentotrentadue, decimo dell’era fascista, addì sette del mese di ottobre in Comune di Dolo in un locale della Cattedra Ambulante di Agricoltura, avanti a me Mioni avv. Arrigo si sono costituiti …. Tra cui il conte Colloredo Mels Alfonso nato a Udine e residente a Dolo, in realtà a Sambruson. Così inizia l’atto costitutivo della Latteria Sociale di S.Bruson. Colloredo fu il primo presidente della Cooperativa. Da notare come il notaio Mioni scriva sull’atto ufficiale: S.Bruson. Fu l’evento storico più importante di quegli anni non solo per il nostro paese, ma anche per quelli confinanti: Mira, Lughetto, Lugo, Calcroci di Camponogara, Fossò, Vigonovo, Paluello di Strà, Dolo, Pianiga. La sede per molti anni è stata quella storica, al Ponte di Sambruson nell’edificio, ora modificato e sede di un’importante fioreria. Lavoratori e poi contabili importanti furono Igino Disarò e soprattutto Carlo Masato. Nel 1957 i soci della Latteria erano 427. Il latte prodotto veniva raccolto e misurato in strada, dai lattaroli, lo mettevano in un bidone appoggiato sulla canna della bicicletta e convogliato in latteria. In seguito, per l’aumento del latte e delle distanze furono usati i camioncini. Su uno di questi, il lattarolo Roberto Polo mi permise, all’inizio degli anni 1960, di fare prova di guida per conseguire la patente. Ci conoscevamo bene perché nel 1957-1958 sono stato segretario contabile della Cooperativa, in sostituzione di Carlo Masato, il notissimo Carletto, partito per il servizio militare, scuola sottufficiali. Io partirò due anni dopo per il Car di Bari, alle casermette. La naja all’inizio fu molto dura, per la disciplina, per gli orari, per il rancio, per i servizi, per le  marce, per la lontananza da casa. Nelle mie fantasie poetiche, alla notte, di  guardia ai gruppi elettrogeni, guardavo la luna; avevo scritto a mia madre di fare altrettanto. Certe notti, dopo il silenzio, mi sembrava di essere a casa. Le parlavo con voce sommessa stando attendo all’ufficiale di picchetto. La mia fissazione di essere zelante, mi portava a fare spesso servizi di camerata e convinse il mio comandante, tenente Sciacovelli, a farmi fare il servizio di guardia alla porta carraia il giorno di giuramento del reggimento. Come premio quel giorno saltai il pasto, c’era addirittura in premio una pastina! Il linguaggio era proprio da naja, all’inizio ti meravigli, poi ci fai l’abitudine e ti butti. La naja è servita a svegliare molti ragazzi assopiti, a creare amicizie con ragazzi di altre regioni, a diventare responsabile. Dovevi esserlo, se sbagliavi pagavi. Ricordo che il capitano Gavi quando passava in rassegna il plotone ci diceva: vi siete lavati il coglioncino sinistro? Era una sintetica lezione di igiene. Il sergente di ronda ci spronava a stare attenti nel passo uguale per tutti e tre, a salutare contemporaneamente i superiori portando la destra al berretto. Con uno scatto. Li mandiamo tutti in caserma e le donne sono tutte nostre, diceva il sergente. C’erano ragazzi molto smaliziati e arroganti, altri timidi costretti ad esserlo. Penso a Salvatore Palumbo di Catania, che dormiva sul letto a castello sopra di me e da sotto gli vedevo un grande coltello che aveva nascosto sotto tra il telo e la coperta. A cosa ti serve? gli chiesi. Prova a provocarmi e te accorgi! Diventammo amici, anche perché è facile esserlo con me. Gli leggevo le lettere che riceveva e gli scrivevo le sue in risposta, errori compresi, come mi dettava. Alla sera, dopo la ritirata, nel semibuio della camerata perché non voleva farsi vedere. Finii in fureria a gestire i piani dei servizi quotidiani, il quadro punizioni e quello dei permessi e delle licenze. Ci siamo sentiti per telefono per molti anni dopo il congedo.

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Carletto mi aspettò in latteria dove ero andare ad acquistare del formaggio grana che loro comperavano al ribasso per agevolare i soci. Ci vedevamo, ma abitavamo in vie lontane l’una dall’altra e quindi i rapporti erano al minimo. Diventeremo grandi amici, lo sono tuttora le nostre famiglie. Era il contabile della Latteria sociale, uomo di fiducia del presidente Bepi Migliorini, famiglia benestante, persona competente e stimata, ma sempre arrabbiato. Visto ora, dopo tanti anni, penso che fosse per farsi temere. Era abituato a comandare energicamente agli uomini che lavoravano a casa sua. Diventeremo testimoni dei rispettivi matrimoni e padrini dei nostri primi figli, il suo Roberto e la mia Paola. Carletto è una persona che pensa molto prima di parlare, fa i suoi calcoli e poi parla sicuro di avere una risposta positiva. Così è stato anche quella volta che mi comunicò la sua partenza per la naja, e quindi l’assenza di diciotto mesi dal lavoro. Io facevo il supplente in Riviera del Brenta, racimolando magri mensili. Mi propose di sostituirlo in segreteria mentre era via. Lui avrebbe avuto il posto assicurato al suo rientro, io avrei avuto un anno e mezzo di paga sicura. Migliorini accettò e così cominciai uno dei miei tanti lavori extra-scolastici trovando presto l’adattamento e la capacità di condurli a buon fine. Fu così che si consolidò l’amicizia con i dipendenti Bruno e Roberto Polo, Gastone Disarò, Angelo Bovo, Mirko Cerato, Ottorino Maso, Mario Bassan, il fratello di Rosetta Malaman, la Catina del latte, Nereo Sguaccin, Nino Marchiori. I Marchiori a Sambruson sono numerosi, ma non sono parenti. Ci sono tre ceppi diversi: i Pessato di via Marinelle, i Pessaton di via Villa, i Pastore di via Ettore Tito. Silvana è una Pastore, chissà! Forse i suoi antenati facevano i pastori. Molti in casa avevano una capra o una pecora. C’erano poi i revisori dei conti, i sindaci: Piero Danieli detto Canea, Ernesto Segato detto Cioci, Francesco Ruvoletto detto Porseeta. C’era anche un bravo ragazzo di Modica, Vincenzo Spadaro,  venuto al nord per cercare lavoro. Lo trovò, si impratichì, poi tornò a casa. Era bravo casaro, sapeva lavorare e farsi ascoltare.  A Modica fondò un caseificio. Morì poco tempo dopo all’improvviso lasciando grande rimpianto e un’impresa avviata. Mi accorgo che parlo spesso di persone di queste storie che muoiono. Una storia ha un inizio, uno svolgimento e una fine, come i temi di scuola. E’ quello che sto facendo, niente altro. I dipendenti erano di gran lunga più esperti di me nel conoscere il titolo di grasso del latte, di raccogliere la panna per fare il burro, nel conoscere i soci che potevano mescolare acqua al loro secchio di latte  prima della raccolta. Scoperti, venivano iscritti nel “libro nero” e pubblicati all’albo per un mese. Che tutti vedessero e perché fosse un ammonimento. Non mi piaceva, ma Migliorini era inflessibile. Carletto dalla scuola sottufficiali mi assisteva e mi consigliava. L’ispettore si chiamava Coppetta, seguiva i raccoglitori con la sua bicicletta e piombava nel momento della consegna. A volte il contadino sbadatamente! rovesciava il latte per terra, Coppetta si precipitava, raccoglieva poche gocce di latte e tornava in latteria dove aveva gli strumenti chimici per misurare il livello di grasso e quello di acqua. Bastava questo per mettere in riga tanti imbroglioni che in realtà erano dei poveracci maltrattati da tutti. D’altra parte la latteria non poteva vendere a famigliole, che venivano ad acquistare mezzo litro di latte, darglielo annacquato. La cooperativa, saggiamente condotta, offriva però molte agevolazioni ai produttori che rigavano dritti. Divenne una piccola banca che concedeva piccoli prestiti, piccoli anticipi, accettava di vendere prodotti in debito da saldare in seguito con le consegne, acquistava all’ingrosso crusca per i bevaroni, secchi d’acqua con la crusca nutriente, per le mucche che si erano appena sgravate. Il consiglio di amministrazione era una proforma. La direzione della cooperativa era del presidente e del segretario. Il presidente ascoltava spesso il segretario contabile. Capitò un giorno Alfonso Donà, famiglia numerosa, due vacchette, sempre in difficoltà. Sale le scale, entra in segreteria, berretto in mano. Posso? si siede e tace. Cossa ghe zé, Fonso? Se la magna che la viva? Penso di sì Fonso. Bisognava interpretare la povera gente spesso con la mente ottenebrata dal bisogno. Parlava della suocera malata che non poteva mangiare un  brodetto ordinato dal medico, perché non poteva acquistare la carne della bestia che aveva allevato. La carne costava troppo. Il segretario, prima che contabile, doveva essere consulente, suggeritore, controllore, confessore, uomo di fiducia. Gli allargò il prestito.

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I soci della Latteria lavoravano la terra e basta,  non avevano svaghi, divertimenti, viaggi di piacere. Nel primo dopoguerra ci pensò Migliorini, con il suo successore Secondo Vescovi, a organizzare gite sociali. Arrivò fino a otto corriere alla volta con più di 400 gitanti. Possidente, aveva manie di grandezza e contattava la Polizia stradale per avere una scorta durante il viaggio per evitare di rompere il corteo e per evitare incidenti. Visto a distanza non era poi così strano. Ogni corriera aveva un capo corriera, un consigliere che non stava nei propri panni nel verificare dopo ogni sosta se c’erano tutti, se qualcuno si era perso. Tutto ciò serviva per dire: bravo, bravo presidente, anche se c’era sempre qualcuno che si lamentava per l’orario di partenza o di rientro, per la sosta, per i bisogni igienici solo alle tappe previste, per aver dimenticato qualche ritardatario. A Bassano del Grappa, c’era la prima sosta e tutti gli uomini in fila a orinare lungo la mura, prima della statua del generale Giardino, a Trento si criticava il monumento ad Alcide De Gasperi perché era troppo serio e superbo, a Bardolino assaggiavano il vino: ciareo, poco gusto ma bon. Il contadino poco stimato per la sua scarsa cultura, cercava di non farsi nemici, cercava di accontentare tutti, stava nel mezzo, scontentando alla fine tutti. A Rovereto qualcuno ammirava la campana dei Caduti, Maria Dolens, in silenzio. Pensava ai propri vecchi morti sul Grappa. Durante il viaggio non si guardava il paesaggio, ma si parlava di raccolti, di vitelli appena nati, di grandinate, di affitti. La quota della gita veniva trattenuta nel pagamento del latte nel mese successivo. Sì, insomma, più che un divertimento era un viaggio d’affari.

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A Sambruson, gente di campagna, terra contadina, mai nessuno si sarebbe impegnato in politica, senza Antonino Segatti. Lo chiamavano Nino. Era molto robusto, veniva da Dolo in bicicletta da donna e si fermava in un locale parrocchiale che chiamavamo sezione, a parlare di politica. Chi parlava di politica creava attenzione. Aveva salvato la pelle per puro caso, poteva essere stato benissimo tra  i suoi compagni partigiani caduti nell’eccidio di Porzus. Eravamo incantati dal suo dinamismo, dalle sue conoscenze, dalle sue esperienze. Passammo parola, a Sambruson si costituì il primo gruppo di ragazzi che si interessavano e parlavano di politica Non c’era consuetudine. Sembrava sapessimo, invece era lo stupore della gente che sentiva dei ragazzotti parlare di cose nuove, di responsabilità nuove, di libertà, dei patti agrari, di patto atlantico a creare un’aureola importante attorno a noi. Noi ci credevamo. Andammo poi a riunioni comunali, a congressi provinciali, cominciammo a dividerci tra noi, perché per strada si incontrano sempre nuovi maestri che cercano di catturarti, non per le idee, ma per fare massa, pressione, potere personale. Ci fece conoscere a Dolo, al Teatro sociale, ora trasformato in ambulatori e sedi di agenzie, il senatore Eugenio Gatto, l’onorevole Mario Ferrari Aggradi, l’onorevole Vincenzo Gagliardi e, a Venezia, il presidente del consiglio, il vulcanico Amintore Fanfani. Noi che vivevamo nel mondo cattolico creammo molte attese, soprattutto da parte di chi cercava di migliorare la propria posizione sociale, una promozione, un lavoro, uno scatto di stipendio. La raccomandazione cominciò a divenire il tramite unico a cui tutti pensavano, anche quando non serviva, ma almeno per vantare la conoscenza del personaggio importante. Al mio esame di stato per il posto di ruolo, avevo chiesto una raccomandazione al senatore Gatto, penso che abbia contattato uno dei commissari. Durante la prova orale spiegai al meglio il pensiero del pedagogista fiammingo Ovide Decroly e il metodo Montessori. I commissari chiacchieravano tra di loro, erano le tre del pomeriggio, mese di giugno, sudavo il doppio, non mi davano retta. In uno scatto di rabbia e di incoscienza mi alzai per andarmene. Stavo giocando il mio avvenire da sconsiderato. Un professore si alzò, mi prese per un braccio, mi obbligò a sedere, mi disse di ripetere le mie spiegazioni, ampliandole. Era un atteggiamento inconsueto. Passai dalla teoria alla pratica, improvvisai una lezione in una classe quinta di storia e geografia. Mi andò molto bene, raggiunsi il punteggio necessario e nell’ottobre 1962 passai di ruolo in soprannumero. Il senatore Gatto mi invio un biglietto: sei contento?  Cosa devo dire? Lo ringraziai, ma ancora adesso che sono in pensione non so se è stata bravura mia o sua. Non andai più alle sue riunioni. Sono passati molti anni, ma mi ricordo ancora del Decroly, appassionato della scuola attiva, del gioco come avviamento al lavoro, morto chinandosi a raccogliere un fiore nel giardino della sua scuola.

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La fiera di S. Martino a Piove di Sacco, l’antica Pieve d’Isacco, è sempre stata il mio sogno, ma non ci sono mai andato. Rinviavo sempre perché temevo non mi piacesse. La gente a Sambruson ne parlava già nei giorni di vendemmia e quando era ora partiva in bicicletta, stava via tutto il giorno e tornava a notte con il fanalino acceso. Viene notte presto da S. Martino. L’undici novembre è una data fondamentale per la gente di campagna. Si paga il saldo dell’affitto, si riscuotono dal consorzio agrario, dalla cantina sociale il saldo per i prodotti consegnati, grano, granoturco, barbabietole, uva. Si fanno i conti delle spese e delle entrate e restava poco da scialare in casa dei mezzadri e dei fittavoli. Sì, perché a Sambruson la maggioranza dei lavoratori della terra  era di mezzadri e di fittavoli. I possidenti erano pochi e poco socievoli. Erano le famiglie liberali, parlavano di libertà per tutti, ma intendevano la libertà di fare quello che volevano. Andavano alla fiera per dimostrare a sé stessi e agli altri che un giorno di festa potevano permetterselo. Guido Quaio, Guido Scocco, lustrava la sua Belfort una settimana prima, metteva l’olio alla catena, gonfiava le gomme, controllava i fanali davanti e di dietro, provava l’altezza della sella, metteva del mastice e delle pezze di camera aria nella busta nel sellino posteriore, della carta vetrata, salutava tutti e partiva. Attento alle macchine! Macché non sentiva, aveva già  deciso dall’anno prima. Per strada incontrava altri, parlavano di prezzi, della qualità dei prodotti dei campi, degli sbalzi di stagione, delle piogge che avevano fatto ammuffire l’uva, la peronospora non perdona, e di chi aveva subito dato il solfato di rame salvandola. Vendeva e comprava granaglie, paglia e fieno per conto d’altri e si guadagnava una provvigione. Erano in due a contendersi la piazza, ma Riccoboni era specializzato faceva solo quello. Era un piacere vederlo trattare. La gente lo sapeva e lo chiamava per fare qualche affare. Chi gira molto conosce di più di chi sta solo vicino al proprio pagliaio. A mezzogiorno mangiavano la trippa o una pastasciutta o patata americana o le caldarroste. L’eccellenza era la fiera del bestiame. Era tutto un brulicare di corna, di cappelli, di muggiti, di grida e più confusione c’era più la rinomanza di Piove di Sacco cresceva. Quaio non faceva solo il sensale, aiutava anche nel lavoro dei campi a casa nostra, era il fratello di mia madre. Viveva con noi. Per fare il mediatore non ci sono scuole, ci vuole passione, ci vogliono occhio, tempi, capacità di valutare il peso di un vitello guardandolo, la secchezza del grano palpandolo, l’età di un cavallo alzandogli le froge e guardandogli la dentatura. Tra il brulicare di cappelli, si fece capannello attorno a tre che trattavano. Era Albino Pastoreto che tentava di fare l’affare. Teneva per i polsi due anziani e gridava: affare fatto, affare fatto. Ma uno dei due chiudeva la mano, fingeva di andarsene. Albino non mollava il secondo, rincorreva il primo e ripeteva l’offerta con piccole modifiche. L’affare era fatto quando ambedue picchiavano forte la mano destra sulla mano destra dell’altro per tre volte di seguito. Un affare sulla piazza del mercato era più sicuro di una bolla notarile. La parola del contadino  era sacra.  C’era anche gente che bighellonava, erano alla fiera solo per il gusto di esserci, per poterlo raccontare. Nessuno era distratto, ognuno tirava gli occhi, tirava le orecchie per capire, allungava il collo per imparare, per conoscere. C’era anche chi allungava la mano e si prendeva la bicicletta appoggiata al muro o il cesto posato a terra. Alla fiera ognuno andava sperando di fare un affare. C’era anche il compare che fingeva di intromettersi, di sostituirsi nell’affare. Ma in  queste cose garantiva il mediatore conosciuto e garante. Tutti tornavano a casa con qualcosa in più o qualcosa in meno. Abramo, mio padre, diceva che in ogni affare c’era sempre chi ci guadagnava e chi ci rimetteva, non si era mai alla pari. In mezzo a questa gente di campagna ero immerso testa e tutto, come quando d’inverno stai sotto le coperte testa e tutto e stai bene.

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A Piove di Sacco ci sono stato anch’io, in agosto presso la ANB, Associazione Nazionale Bieticoltori. Le supplenze erano rare, invece di aiutare la famiglia era la famiglia che mi aiutava. Ero appena tornato dal militare e avevo la morosa. Era l’inizio degli anni 1960. Franco Cazzuffi, funzionario della ANB, mi presentò al commendatore Giuseppe Pra, dirigente regionale dellla Associazione e titolare del maneggio alle Giare, dirigente della Cassa di Risparmio e del Consorzio agrario, futuro fondatore della Cantina sociale di Sambruson in via Brenta Bassa. Mi assunse per due mesi, agosto e settembre, come pesatore di barbabietole presso le pese pubbliche di Sambruson e Lughetto. Negli anni successivi andai anche a Malcontenta, Piazza Vecchia, Campagna Lupia, Prozzolo, Bojon. Bisognava essere alla pesa, alle quattro del mattino, buio pesto, c’erano già carri in fila, arrivava il camion con alte sponde, da caricare a forcate. Fu un lavoro stagionale, durante le vacanze scolastiche. Io rappresentavo i bieticoltori, Egidio Castaldello rappresentava gli zuccherieri. Eravamo insieme per controllarci a vicenda, finimmo per collaborare perché non ci fossero imbrogli o errori nella pesa. La pesa pubblica era davanti alla sua trattoria, sopra c’erano le loro stanze. Arrivavo puntuale con la mia solita lambretta, Egidio era già là. A giorni alterni c’erano tre camion da caricare, alle quattro, alle otto, alle quattordici. I caricatori era quattro, due per la motrice, due per il rimorchio. Salivano sul carro dei contadini e, a testa bassa, per ore, con forcate continue lanciavano le bietole nei cassoni. Le forche avevano i branchi arrotondati per non ferire le bietole. A un certo punto, all’improvviso, un operaio dello zuccherificio balzava sul carro, chiedeva di riempire un sacchetto a caso, due forcate, una di qua e una di là, stava prelevando i campioni, uno per carro. Portati allo zuccherificio servivano a calcolare la tara e poi il peso netto da pagare, finita la stagione. Era una gara di furbizie. Il contadino pagava un’ombra in osteria allo scaricatore in modo che si lasciasse alle spalle tre quattro barbabietole belle pulite e ben affusolate. Saliva l’operaio e diceva: butta! Lo scaricatore zac di qua e zac di là. Il contadino aveva sempre vantaggio perché i caricatori, l’operaio, il pesatore erano del posto. Egidio non voleva perdere clienti in osteria, io ero già a loro favore. Però a volte, senza preavviso, arrivava anche il controllore dei controllori.  Per gli zuccherieri c’era Mazzetto un omino sempre arrabbiato, perché sapeva che era necessario. Il suo stipendio dipendeva dalla severità e dagli eventuali verbali di protesta che inviava alla sua direzione. Per i bieticoltori il controllore era Franco Cazzuffi, arrivava calmo e sorridente, come sempre, perché  questo era il suo stile. I camion con più di duecento quintali di  carico partivano due tre ore dopo per gli zuccherifici di Pontelongo, Bottrighe e Cavarzere, importante polo dell’industria saccarifera. Franco fu una persona importante per Sambruson, organizzò la squadra di calcio Ambrosiana, ci portava a giocare a pingpong nella sala della villetta dove abitava nella boaria di Dante. Molti giovani si rivolgevano a lui fiduciosi, aspettando qualcosa. Altro non c’era a Sambruson. Lui e sua moglie Delma chiameranno me e Silvana come padrini di battesimo della figlia Maria Teresa, ora insegnante di scuola media. Loro saranno padrini di battesimo di nostro figlio  Alberto. Per la sua onesta intellettuale, per le sue competenze agricole e sportive Franco fu eletto in seguito assessore allo sport, con l’amministrazione del sindaco Orlando Minchio. Orlando sarà sindaco da ricordare per il suo impegno per la ricostruzione delle case di campagna di Sambruson distrutte da una  tromba d’aria. Fu disponibile ad aiutare tutti anche con troppa faciloneria che oggi non sarebbe perdonata, con concessioni di licenze edilizie facili, cooperative operaie, promesse di lavoro. Stretta fu la collaborazione con i suoi avversari politici: Amedeo Bosello, Tullio Nalato, Antonino Carbone, Gino Manesso, Guido Tonelli. Non so, forse i suoi anni furono di vera pace sociale nel comune di Dolo. Non mi è mai piaciuta la sua amicizia con il postino di Arino, perché non dava niente, voleva solo. Era inaffidabile. Arino è la frazione nord, Dolo è il capoluogo, Sambruson è la frazione sud. Da sempre era impossibile raggiungere Arino da Dolo perché non c’era strada di collegamento. Fu l’amministrazione Meneghelli a deliberare la costruzione di una strada nuova in mezzo ai campi che fosse la continuazione della strada dei morti, così chiamata da sempre, perché si dice fungesse da pericoloso confine tra la Serenissima e la signoria dei Carraresi di Padova. Fu progettata dallo scolo Tergolino a piazza Mercato con una grande curva perché non spezzasse la campagna e perché le automobili non arrivassero in centro ad alta velocità. Per agevolare questa decisione c’è ora una rotonda che viene da Arino e si divide in tre rami: una verso il campo sportivo e la piscina comunale, una, la via Pasteur che conduce all’ospedale, una che passa davanti alla caserma dei carabinieri, e il Municipio. L’intitolazione di una via a Louis Pasteur, inventore del siero antirabbico merita di essere raccontata. Il chimico Pasteur nacque a Dole nel Giura, Franca-Contea. Agli inizi degli anni 1970 si presenta a Dolo una delegazione con le maire de la ville, il sindaco, per conoscere e per invitare per un gemellaggio a Dole gli amministratori locali. Il motivo? La singolare omonimia. L’amministrazione andrà a Dole e sarà composta dal sindaco Minchio, dall’assessore Stanislao Puliero, da Antonino Carbone e da me. Fu un viaggio in auto avventuroso, ricevimento signorile nella sala des mariages. Non se ne fece nulla perché ci furono cambi di amministrazioni. L’idrofobia canina provocata da un morso è mortale per l’uomo. Pasteur sperimentò delle difese immunitarie che sconfissero il male. Quando Carlo Masato volle la pastorizzazione del latte nella Latteria di Sambruson per combattere i batteri, usò l’applicazione delle scoperte di Pasteur. Non fu ne il primo nell’ultimo, fu un intervento necessario, perché il latte raccolto, sbattuto nei camioncini della raccolta arrivava in latteria, soprattutto nella stagione calda, quasi guasto. Non poteva essere ne venduto ne lavorato. Durante la pastorizzazione la temperatura non può raggiungere i 100 gradi, perché avviene la sterilizzazione e la perdita di qualità organolettiche, ma devi raggiungere i 75 gradi.

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Sto scrivendo di cose che conosco, quindi è inevitabile che faccia qualche riferimento a me, è per garantire la genuinità e la verità sulla gente del mio paese. Carletto e Giannino sanno di queste righe che sto scrivendo, con loro ne parlo. Non scrivo solo per dire quanto siamo bravi, ma anche di coloro che sono indifferenti, che approfittano degli altri, che guardano e aspettano. Mi sembra giusto. Mi hanno fatto ricordare di avere avuto anni di grande attivismo e anni di grande rifiuto, di accidia assoluta. L’attivismo mi ha portato anche all’esaurimento e al ricovero ospedaliero, quando si interruppe la mia esperienza di sindaco del Comune di Dolo per mancanza di una maggioranza  in consiglio. Mi parve di avere fatto tutto quello che sapevo e potevo, mi spinsi ai margini ad osservare. Stavo male, era contrario al mio essere, ci voleva una spinta improvvisa, diversa, provocatoria, incoraggiante, motivata per invertire la china su cui stavo precipitando. E la spinta arrivò per caso,  forse, da una persona che non mi aspettavo. Francesco Bosello era un dipendente di segreteria sanitaria all’Ospedale di Dolo, ma era soprattutto dirigente dell’AVIS,  Associazione Volontari Italiani del Sangue. Era stato segretario di sezione, dirigente provinciale, regionale e quindi nazionale, assessore alle finanze. Ero semplice iscritto all’Avis, da diversi anni, donavo due tre  volte all’anno, raggiunsi 84 donazioni prima di smettere per cancro alla prostata felicemente superato, però intanto avevo superato anche l’età di donazione ammessa. Lavorava duro in assemblee, riunioni, incontri con le scuole, con i sindacati, con i lavoratori di categoria, nelle caserme, nel mondo dello sport, era presidente del tribunale del malato, e nessuno lo sapeva, tranne gli addetti ai lavori. Una domenica mattina, tornando da messa, passai davanti al municipio dove erano in corso il rinnovo delle cariche sociali. Scende i due gradini, mi ferma e mi dice: entra! Sorpreso lo guardo, mi sorride e continua: c’è bisogno di te. Entro, mi trovo in lista, vengo eletto consigliere del direttivo sezionale. Eravamo di idee politiche opposte, eppure mi dimostrò fiducia. Tanti amici del mio orientamento politico, in un momento difficile, non mi avevano dato alcun incoraggiamento. Conobbi i donatori di sangue, pochi erano intellettuali, professionisti, benestanti. Trovai solo operai, contadini, gente semplice che per strada neanche guardi, eppure erano donatori di sangue in maniera volontaria, gratuita, anonima. Andai con l’Avis nelle assemblee di Dolo Palazzetto dello Sport, Cazzago, Sambruson Cinema Parrocchiale, Campagna Lupia, Fossò, mi impegnai nelle scuole superiori di Dolo, nelle scuole medie di Dolo, Sambruson, Campagna Lupia, Pianiga a parlare della donazione di cui ero diventato grande sostenitore. Presentai al direttivo il progetto “Proemio Nazionale Samaritano”. Aspetta!, mi disse. Ne parleremo la prossima volta. Non fu un diversivo. Nel frattempo ne aveva parlato separatamente con gli altri, li aveva convinti, perché all’inizio erano riluttanti, parlare del samaritano sembrava fare una lezione di catechismo. Invece il samaritano era un ignoto che aveva fatto del bene gratuitamente, come i donatori di sangue. Il Proemio, come una introduzione a un discorso, per merito, silenzioso ed efficace di Francesco, si affermò in Italia, in Svizzera, in Francia. Collaborarono anche il presidente pro tempore Sante Biasiolo di Oriago e Gigi Boschin, tuttora validi e presenti, come soprattutto il coordinatore attuale del Proemio Giuseppe Polo. Nel 2007  chiesi al sindaco Antonio Gaspari di porre nella segnaletica stradale la scritta “Dolo città del Proemio Nazionale dell’AVIS dal 1996”. Chieste e concesse le autorizzazioni all’Anas, fu fatto. Chiunque entri a Dolo vede la segnaletica e sa. La nostra sezione era intitolata “Riviera del Brenta” perché comprendeva quasi tutti i Comuni, tranne Camponogara e Strà. Allora c’erano più di 1500 donatori iscritti che donavano al centro trasfusionale dell’ospedale di Dolo. Essere donatore mi salvò la vita. Dopo l’ultima donazione a 65 anni, presi una breve vacanza con Silvana a Campolongo di Cadore. Tornai a casa e trovai una lettera dell’Avis che, insolitamente, mi convocava in urologia in ospedale. Mi fu diagnosticato un cancro fulminante alla prostata, che, grazie alla donazione, era stato diagnosticato in tempo. Venne Francesco a trovarmi in corsia dopo l’intervento, sorridente mi disse: che problema c’è? Era il suo solito intercalare, il suo modo di superare il primo impatto di ogni problema. Non c’è più! Adriana passa lenta sul marciapiede di via Guolo con un mazzo di crisantemi stretti in  mano. La gente si ricorda ancora e la saluta.

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Non solo Palumbo, ma molti altri commilitoni del Car di Bari e poi della SACA Scuola di artiglieria contraerea di Sabaudia, mi furono amici. Con alcuni ci sentiamo periodicamente e sono trascorsi tanti e tanti anni. Cose da non crederci. Mi  chiama spesso Claudio Iotti, un emiliano ora residente in provincia di Varese, sul lago Maggiore, ci sentiamo con Costantino Coloru, sardo residente a Milano, Pasquale Amoruso di S. Severo Foggia, Luciano Buzzoni di Lentini Siracusa, Angiolo Capacci di Arezzo. Per ognuno avrei una storia, soprattutto su Pasquale Traficante di Rionero in Vulture, poi residente a Como. L’artigliere più fedele agli appuntamenti telefonici è Claudio, ci raccontiamo i nostri acciacchi e parliamo dei lontani turni di guardia. Ma non ci mandiamo fotografie, siamo irriconoscibili. Riconoscibile è invece la grande amicizia che ci legava. Mi chiama caporale. E’ vero, il giorno del congedo ebbi il baffo, appena il tempo di cucirlo sulla manica. Abitavo ancora in via Galilei e venne due anni dopo a trovarmi con un suo amico, di ritorno da Venezia, Costantino Coloru. Che bella rimpatriata! Boezi Claudio e Luigi Verticchio di Roma non siamo riusciti a rintracciarli. Capacci aveva una varietà di bestemmie incredibile, se la prendeva in un toscano esilarante con Gesù figlio di Giuseppe falegname e Maria casalinga, nato Betlemme, distretto militare di Gerusalemme. Alla sera a turno in camerata parlavamo nel nostro dialetto per passare il tempo, per ridere, ma anche per raccontare le nostre passioni, le nostre ambizioni, le nostre paure, del nostro futuro. Dovevo ancora affrontare l’esame di stato per l’assegnazione del posto di ruolo e leggevo spesso “I Promessi Sposi” per la prova di italiano. Capacci, quando lo rintracciai dopo anni, mi disse: aspetta un po’, sei quello dei Promessi Sposi sotto il braccio? A Bari venne il Vescovo ausiliare militare a celebrare una S. Messa a tutto il reggimento. Costretti! Alcuni pregavano, molti imprecavano, altri erano indifferenti, almeno risparmiavano le marce e il fastidioso pas-so! pas-so! Il cappellano passava periodicamente per le camerate e una volta chiese se c’era qualcuno non cresimato che voleva esserlo con la venuta del vescovo. Uno alzò la mano: Pasquale Traficante. Raccontò che il giorno precedente la cresima, anni prima, suo padre aveva litigato con il compare, si annullò tutto e più si presentò l’occasione. Mi chiese il favore, accettai, ci furono alcune sere di istruzione e venne il gran giorno. Erano in cinque i cresimandi e cinque commilitoni erano i padrini. Io ero il padrino di Pasquale. La sera, in libera uscita, gli offrii una cenetta in una piccola trattoria fuori caserma. Spesi 150 lire, la diaria giornaliera era di 120 lire. Dalla prima licenza ritorno con un pacchetto di dolci fatti in casa da sua madre, con un biglietto che mi salutava chiamandomi … caro compare.

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Nelle case di campagna tutti dovevano rendersi utili, tutti dovevano fare qualcosa. C’era un rapporto particolare con gli uccelli: oche, anatre, pulcini, anatroccoli, tacchini, galline, passeri, cardellini, merli, tortore, colombi, storni, cesene. Le ragazze andavano a pascolare le oche, i ragazzi mettevano le trattole nel fieno caduto sopra la neve con un boccone di pane  schiacciato. Le oche andavano lungo la riva dei fossi dove cresceva l’erba scanferla di cui erano ghiotte e s’ingozzavano senza fine. Le oche non hanno misura nel mangiare, c’erano anche le massaie che le ingozzavano con un aggeggio apposito con cui introducevano forzatamente grano per farle ingrassare prima. I maschi rincorrevano le ragazze ad alti spiegate schiamazzando facendole spesso scappare. I ragazzi andavano di sera con le reti a picchiare sui pagliai e gli scandei, i fienili sporgenti dove i passeri trovavano riparo per la notte. Sergio Minchio veniva con la rete e con suo cugino che con un bastone picchiava il fienile, gli uccelli scappavano, bé qualcuno incappava nella trappola. Raccontavano di avere fatto una cena di osei scampai. Già, appunto di uccelli scappati! Intanto erano passati nelle case dove gli anziani si riunivano a filò a giocare a carte, a mangiare muneghe, tortona e a bere vino. A Gastone Disarò in latteria a Sambruson venne un’idea formidabile, la confidò solo a un estraneo fidato. Nella campagna dei Velluti che confinava con il depuratore c’era un gran fossato di confine, sulle rive incolte c’erano ramaglie di salici, di robinie, di nespoli, tutte piante basse. In dicembre, da S. Ambrogio, ogni sera, calavano stormi infiniti di cesene, strepitavano fino a tardi, frullavano le ali, si appollaiavano sui rami e passavano la notte fuori dai pericoli di chi riposava a terra. Partirono in due con un sacco da quintale per la crusca, si avvicinarono alle frasche, uno tenevano il sacco aperto un altro picchiava sui rami convinti di prendere un sacco, appunto! di uccelli. Ci fu un gran fracasso, una grande fuga di volatili, grandi richiami spaventati, grande paura dei due cacciatori da sacco. Scapparono, persero il sacco e ne parlarono dopo qualche giorno quando il fattore dei Velluti si presentò in latteria a chiedere se era stato rubato qualcosa nel caseificio, perché erano stati trovati due sacchi da crusca abbandonati nei loro campi. Gastone si chiese a lungo chi poteva essere stato dei colleghi, ma non lo seppe mai. Un altro tentativo che a volte riusciva era quello del telaio di legno con la griglia di rete sottile. Veniva appoggiato a terra, il lato opposto veniva inclinato e sorretto da un rametto, legato alla  base con uno spago. Sotto si mettevano mangime, polenta, croste di pane. Quando il tordo andava a beccare, si tirava lo spago e l’uccello era catturato, alzando il telaio per prenderlo, qualche volta scappava. Caccia diffusa a Sambruson era quella alle sassegne, alle cesene. Ci voleva pazienza e fortuna, bisognava appostarsi dentro ai fossi asciutti e aspettare. Venivano a stormi con rumori improvvisi di battiti d’ali e di becchi. Si gettavano sui medicai. Bisognava aspettare che si avvicinassero. Con la doppietta partivano due colpi e due erano i caduti. Era più una soddisfazione, un vanto, una gara di tiro, perché il freddo e il fango non valevano la cattura. Ma tutto serviva per raccontarlo, raddoppiando i tordi uccisi. Attilio Cuco, grande appassionato di caccia passava ore appostato. Ma un anno volle rischiare e non rinnovò la licenza. Lo beccò il guardiacaccia che venne furtivo non per i campi e per la strada, ma a testa china lungo la ferrovia. Gli sequestrò la doppietta, fu portata in caserma e per riaverla dovette pagare una grossa multa. Indaga e indaga, a denunciarlo fu un Tassetto, lì vicino che si vedeva disturbato da uno non in regola. Lui lo era. Non si salutarono più. Ma la doppietta serviva a ben altro e senza licenza, in ogni casa ce n’era una per ogni uomo. Di notte, d’inverno, nella stagione in cui si uccidevano i maiali e si facevano su i salami, sentivi sparare e altre doppiette rispondevano. Era un modo di incoraggiarsi, per dire ci sono anch’io, all’erta sto! Ma i ladri sapevano dove e quando andare. Quando c’era un lutto, di sera quando si era filò non di notte, quando per fare  spacconate si raccontavano i trucchi messi in atto per tenere lontani i malandrini. In osteria in piazza Brusaura c’erano due osterie, da Organo e da Romano. Nella seconda andavano i ragazzotti a giocare scopa all’asso e passavano una serata  bevendo acqua gasata e caramelle. Da Organo andavano i vecchi, i capi famiglia, passavano i pomeriggi d’inverno consumando una trippa, una aringa salata che faceva bere, una zuppa di verdure anche se a casa avevano di meglio. Chiacchieravano e chiacchieravano. Arturo Albertini raccontava che a casa sue due volte erano stati i ladri, ma lui li aveva spaventati e poi aveva cambiato stanghe e luoghi. Armedio Castellini guardava giocare e ascoltava, imparava. Mano Dartora che durante le processioni della Madonna del Rosario dirigeva il passo dei capati con la tonaca, avanti col Cristo che la procession se ingruma! diceva, raccontò che c’erano foresti in giro, che bisognava unirsi, passare parola. Non facevano altro che spiattellare le loro disponibilità, le loro paure, le loro debolezze. Toni Disarò faceva il custode delle biciclette quando la gente andava alle funzioni domenicali del pomeriggio. Appoggiavano le biciclette alle mura del recinto, della chiesa, del patronato. Si guadagnava qualche mancia che un po’ alla volta diventò tariffa. Sull’onda delle chiacchiere, per acquisire credito cominciò a vantarsi di aver sentito da Tizio e da Caio cose inesistenti. Ma le raccontava come se fossero vere. Raccontò invece un fatto vero, ma nessuno gli credette. Aveva messo tre stanghe di salami, di musetti, di sopresse non in cantina ma in soffitta, sotto il tetto al fresco. Nessun foresto poteva arrivare lassù senza passare per la sua camera. Lasciò passare venti giorni, da santa Lucia venne una gelata che gelò e rovinò tutti i salami. Andò a tastare. I salami, appena insaccati  vanno tenuti in cucina al tepore della polenta e delle minestre, solo poi vanno messi al fresco. Ma non al gelo. Suo cugino Egisto invece aveva messo le stanghe direttamente al fresco, alcuni sotto sabbia, in cantina, chiusa con doppio lucchetto, c’era solo una boccarola sul  muro per far passare un po’ d’aria. Cristo santo! Disse proprio così! gli hanno portato via tutti i salami senza toccare lucchetto, senza rompere il muro, senza scavare, ma niente di niente. Come hanno fatto? Diedolo Modesto, che tutti chiamavano il Diavolo, per la sua furbizia e la cattiva fama che aveva azzardò una spiegazione. La buttò là, ma tutti capirono, a casa provarono ed era vera. Il furto era avvenuto in maniera ingegnosa, silenziosa in questo modo. Dalla fessura o boccarola i ladri avevano fatto passare un paletto con un sacco che avevano posizionato sotto la coppia di salami e musetti, con una robusta canna a cui era stato fissato un coltello erano  passati sopra ad ogni coppia di insaccati, con un colpo secco avevano tagliato lo spago e panfete!,  erano caduti due alla volta nel sacco che lentamente avevano ritirato. Dove sei stato fino a quest’ora brontolavano le mogli, quando vedevano i mariti intabarrati tornare. Allora per calmarle raccontavano quello che era successo. Oh, mariassanta senti senti! La notte era salva.

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Di Diedolo molti sospettavano, perché era un furbo di tre cotte, esperto e raffinato, soprattutto perché nessuno l’aveva mai preso con il “morto” nel sacco. Si raccontava, sempre in osteria da Organo quando il vino o la grappa fatta in casa con un alambicco particolare e un fuoco lento, avevano fatto effetto, che da Mazzucato e da Sella in Brentasecca avevano rubato tutte le galline in una volta sola senza che i cani abbaiassero. A Diedolo misero un litro di merlot sul tavolo e gli chiesero se sapeva niente, se sapeva come potessero succedere certe cose. Ben su di giri, cominciava col dire: è facile. Nelle grandi aie contadine di Sambruson in via Stradona, Brentasecca, Calcroci, Brentoni c’erano alte pioppe. Le chiamavano così perché  tozze e robuste, i pioppi invece sono alti e slanciati, con ampio aereale entro cui alla sera si rifugiava il pollame salendo per una scaletta stretta fatta di due soli fili di ferro, tenuti vicini con altri a mo’ di pioli su cui salivano galli e galline a passare la notte all’aperto al riparo da ladri, faine, volpi. E’ facile! Spiegò tutto come se fosse stato sul posto al momento del furto. Ai piedi della pioppa, in un catino si mette del solfato di rame, usato anche per pompare le vigne e difenderle dalle muffe. Si accende sopra un fuocherello, il fumo velenoso sale, addormenta le galline, rendendole insensibili e cadono da sole nel sacco come pere mature. L’hai mai fatto Modesto? Ma siamo matti! Di questo parlava la gente dei campi, senza radio, senza televisione, senza telefono, senza computer che ci tengono prigionieri e silenziosi in casa. C’era del vero? Certamente. C’erano falsità? Certamente.

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I Fattoretto erano chiamati Jan, adesso non più, si parla in lingua a casa, per la strada, con  le ragazze, in palestra, al campo sportivo. E’ una bella novità, significa che anche i proletari possono farsi  intendere, possono farsi ascoltare. Dire una parola in piazza, era un modo di dire, di alto significato. Se parli in piazza tutti ti ascoltano. Poter leggere, parlare soprattutto ci rende liberi. Don Milani che insegnava a Barbiana ai figli dei contadini volle fornire ai tacitati della parola, l’arma necessaria per conquistare il diritto di esserci, di pesare, nella propria comunità. Senza la parola nessuno ti conosce. Nessuno ti dà retta, diventi una cosa. Appena finita la guerra, dai Fattoretto al Ponte Novo si fermano due operai che tornavano da Marghera con i loro borsone e le loro biciclette a ruote larghe, in tuta, maniche fatte su. Frenano, uno alla volta entrano in cortile. Bonasera permesso? Bonasera avanti! C’è il padrone? Eccolo qua, sono io, che c’è? Fattoretto sulla porta di casa, braccia conserte, stile padrone a casa sua, guarda spavaldo i due forestieri. Uno dei due scende dalla bicicletta, la passa al compagno, velocissimo. Dai borsone estrae due pezzi di mitra, li innesta e spara. Fattoretto viene segato a metà. I due salgono in sella e senza fretta vanno verso il centro. La gente dirà verso Campagna Lupia. Negli ultimi mesi di guerra c’erano state sparatorie tra partigiani e fascisti. Schermaglie, minacce, nulla più. Tutta gente che si conosceva. Fattoretto, dicono fosse stato un sostenitore del regime. I partigiani erano soprattutto comunisti. Non  avevano paura di nessuno, nei loro comizi erano furenti sempliciotti, alla Peppone e don Camillo. Ma tra loro c’era sempre il pazzo che nessuno riusciva a trattenere che commetteva eccidi in un tempo senza ancora autorità costituita, con rancori dissepolti, con voglia di vendette. Fattoretto non era colpevole di niente, solo di qualche parola provocatoria che faceva intendere chissà quali malefatte nascoste. Pagò duramente la sua posizione di benestante e di invadente. I carabinieri indagarono, insabbiarono, dimenticarono. La famiglia sconvolta si chiuse nel suo dolore e nessun dei ragazzi Fattoretto si interessò di fatti politici del giorno. Neanche Renato, compagno di scuola alle elementari di Sambruson. Gli interessarono le belle ragazze prima di noi. Anche lui ha la sua tomba nel cimitero di Sambruson accanto a mio fratello Eugenio. Sua moglie ancora una signora distinta, saluta tutti con un sorriso. Suo figlio si è dato alla politica, è della Lega Nord. Si diceva che gli assassini fossero di Campagna Lupia, solo perché era una zona rossa, nulla più. Nel marzo 1945, due mesi prima della fine della guerra, la contraerea  di Mestre aveva abbattuto un caccia inglese. I due piloti si erano lanciati con il paracadute atterrando in aree lontane tra loro. Uno dei piloti fu catturato, dell’altro si persero le tracce. Non trovarono nemmeno il paracadute. Iniziò la caccia al nemico che doveva essere ferito e straniero, nessun contadino sapeva parlare inglese, ma le autorità sbatterono contro un muro di silenzio. Gli uomini, veri partigiani, sapevano tutto, ma continuarono a vivere normalmente, in realtà rischiosamente, più di prima. George si chiamava. I partigiani delle profonde Baccanelle, ai confini con Campagna Lupia, l’avevano trovato, raccolto, medicato e nascosto. Ogni notte cambiava nascondiglio, dormiva nei fossi, nei pagliai, nelle barche rovesciate nelle barene, nei fienili delle persone fidate, lontano dalle case, dai canili. L’inglese venne rifocillato, fornito di abiti borghesi, gli fu ordinato di non parlare mai per non far notare la sua lingua straniera. Tra gli artefici dell’impresa c’erano Bepi Scocco, detto Quaio e altri due di Campagna Lupia. Dopo la liberazione fu consegnato agli alleati e di George, partito precipitosamente, non si seppe più niente. Dieci anni dopo, anno 1955, Giorgio, così lo chiamavano alle Baccanelle tornò con la moglie, visitò le famiglie che l’avevano aiutato, fecero grande festa, poi ripartì. I ragazzi partigiani iscritti a nuovi e contrastanti partiti si divisero, si dispersero, facendo dimenticare una bella impresa. Io la ricordo ancora perché dai Quaio, a casa di mia madre, da nonna Vittoria, se ne parlò a lungo.

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Ho già detto qualcosa di Mòcari, il cane dei Cuco, buono e paziente, disteso sul fieno vigilava di notte la casa, di giorno andava spesso a caccia in valle e nelle barene. Recuperava sempre, portava le alzavole colpite. Quando era la stagione le donne andavano a moeche e masenete in acqua bassa e il cane faceva compagnia, nessuno le importunava. Non era un cane di razza, ma era di una bella stazza, tanto da tenere lontani gli altri cani e gli importuni. All’ora di pranzo stava sotto la tavola come Lazzaro in attesa che il ricco Epulone di casa lasciasse cadere una fetta di polenta, un osso da spolpare, una scodella di latte avanzato. Nessuno si alzava da tavola senza una carezza che accettava allungando il collo guaendo come solo i cani affezionati sanno fare. Sono convinto che gli alberi abbiano una loro personalità, che sappiano chiedersi del perché, del come mai gli uomini cambiano di umori, di comportamenti, di simpatie, così, all’improvviso, senza giustificato motivo. Penso che anche per i cani sia valido il discorso, perché sanno amare e rispettare, sanno essere grati e sanno essere scontrosi quando è ora. Come mai? Non sono in grado di rispondere, ma sento che è così. Una volta aveva avuto occhi vispi e scatti repentini, ora un po’ meno perché gli anni pesavano anche a lui. Ho già detto di Mòcari scrivendo “La contrada dei sicomori”, ma ne parlo ancora, perché era un personaggio decisivo per i ragazzi nati in quella corte di campagna. A molti aveva insegnato a camminare, con loro aveva giocato riportando il bastone lanciato per gioco, si era lasciato tirare le grandi orecchie, con loro era andato a nuotare nel fiume Brenta. Una volta ne aveva tirato a riva uno dei Naletto che era scivolato sulla sabbia e stava per venire trascinato dalla corrente. D’estate c’erano molti ragazzini imprudenti. Sono cose sempre successe, ma non sempre c’è un amico cane che veglia su di te. La famiglia patriarcale dei Cuco, alla morte dei vecchi genitori, sentì il bisogno, ma più che altro l’urgenza di sogni diversi, di traguardi separati. Ogni maschio di casa era sposato, aveva moglie, dei figli, dei bisogni e capacità diverse, delle speranze che i patriarchi tenevano sopite, perché non volevano cedere il comando. La loro morte, per le spose, fu una liberazione. In certi casi si sa, l’uomo obbedisce stranamente alla donna ed è contento quando la vede intraprendente e giudiziosa al posto suo nei momenti di debolezza. Divisero le stanze, i campi, gli attrezzi, il bestiame, pagarono in anticipo la dote alle sorelle, trasformarono, come sempre avevano fatto, tettoie e granai in nuove cucine e nuove camere. Il nuovo sembrava bello, sembrava facile perché atteso e sognato, ma fu invece un incubo. Certi lavori nei campi, che tre uomini potevano fare facilmente, ora ognuno da solo non ce la faceva. Le donne, che a volte risparmiavano i solchi e le insolazioni, dovettero gettarsi nei campi a dare una mano al marito con più lena di prima e non è che alla fine il reddito fosse maggiore. A tavola si notarono i primi segnali di ristrettezze, anche Mòcari se ne accorse. La cucina non era più quella, la cuccia non era più quella, di carezze non ce ne furono più. Venne considerato una spesa in più, ognuno pensò che se lo prendesse a carico qualcun altro, magari chi aveva figli più piccoli. Mòcari queste cose non le sapeva e non le capiva. Lui cercava di comportarsi come sempre, ma la risposta delle persone era diversa. Anche i ragazzi, vedendo gli adulti cominciarono a scansarlo, le donne a rifiutargli l’osso e la fetta di polenta, gli uomini non ebbero più tempo di andare a caccia. Mòcari cominciò a soffrire tremendamente, in quella casa non c’era più nessuno con lui. E quando uno è solo, è costretto a muoversi, a cercare un appiglio. Si alzò dalla paglia, s’incamminò per lo stradone, raggiunse la provinciale e restò a guardare i primi camion che sferragliando andavano da Mestre a Piove di Sacco. Si fermò a lungo sulla rampa, perché la strada provinciale, che chiamavano strada alta, era sull’argine sinistro dell’antico alveo del fiume. Assente, confuso, abbandonato attraversò, andò a cozzare contro il primo camion e, sbattuto sulla riva, restò come uno straccio. A casa solo qualcuno notò che Mòcari era sparito, ma gli passò subito. Tornò a casa dopo due giorni, trascinandosi sfracellato, incapace di camminare. Nessuno lo raccolse, nessuno gli badò, tirò dritto, non incontrò alcun samaritano. Si distese sulla sua paglia, appoggiò il capo sulle zampe anteriori, chiuse gli occhi e morì.

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A Sambruson  la gente non è migliore ne peggiore di quella dei paesi vicini. Ci sono sempre casi particolari che spiccano nella massa e fanno parlare di sé. Ma in genere la gente lavora sodo, aiuta chi è nel bisogno, sa di poter contare su una mano nei momenti dei raccolti, quando è pressante e occorre subito. Il raccolto non ti aspetta, se passa la maturazione perdi l’uva, viene la grandinata, le spighe scoppiano e il grano cade a terra, l’erba medica s’infradicia, seccata male fa la muffa, le mucche non la mangiano, la terra va arata prima delle grandi piogge. Non puoi seminare se le zolle sono dure come pietre e l’erpice non serve. Nella stessa contrada una mano la si scambiava senza pensarci troppo. C’erano anche persone che si offrivano a ore, erano i braccianti, avevano solo le loro braccia da offrire. Si accontentavano di essere pagati in grano, farina, patate, cipolle, latte, un pollo. Toni Bisacco detto Vissineo, perché per vivere doveva correre sempre come il vento, andava a ore dai Cuco, dagli Albertini, dai Caeto. A mezzogiorno lo tenevano a pranzo, mangiava a tavola con i coetanei. Non si usavano posate oltre il cucchiaio e la forchetta. Se doveva starnutire si alzava da tavola, si voltava dall’altra parte. Imparate! diceva Tina ai figlioli. Appena poté lasciò Sambruson e andò a lavorare a  Milano, di lui si persero le tracce. Dieci anni dopo si presentò a salutare e a chiedere se avevano bisogno di qualcosa. Faceva il mobiliere, il rappresentante per l’esattezza, andava a vendere. Ma era venuto per salutare per informare che se la stava cavando bene. Nelle case contadine non si comperavano mobili nuovi, in cucina bastava la madia per la farina, in camera bastava un comò con la specchiera, la zara per l’acqua per le prime abluzioni al mattino. D’inverno l’acqua del contenitore era ghiacciata. Non c’erano zanzariere, manco a parlarne. C’erano mosche in casa e ovunque, richiamate dal latte e dalle stalle. Le donne le catturavano con il pigliamosche, una striscia adesiva collante, scendeva dal soffitto e a vederla pendere sopra il piatto non era un bel vedere davvero. Alvise dei Cuco studiava alla luce del lume a carburo. A volte in casa usavano il lume a petrolio: aveva una boccia per l’infiammabile e dentro uno stoppino bagnato, la fiammella era riparata dagli spifferi dal canfin. E si chiedeva se gli sarebbe mai riuscito ad  andare in giro con la sicurezza di Toni Bisacco, che mai era andato a scuola. A scuola di ricamo andavano le ragazze, finita la quinta. Trascorrevano giornate con la testa china sul tamburello a passare fili colorati sulla tela riuscendo a realizzare piccoli capolavori che le signore del paese venivano a vedere, spesso a comperare. Già parlavano di matrimonio e, come la Madonna, non conoscevano nessun uomo. Le ragazze di Sambruson si sposeranno tutte con ragazzi del paese, i genitori apprensivi vigilavano, si informavano non del ragazzo, ma della famiglia, chiedevano non il loro nome, ma di quello della famiglia. Gabriella sposerà Paolo, Lidia sposerà Cesare, Luciana sposerà Silvano Marchiori, Paola Masato sposerà Saverio Vescovi, Mariangela Vescovi sposerà Carlo Masato. C’erano doppie parentele. Più sicuri di così! Vivranno a lungo e avranno molti figli. Saranno, loro ad andare a scuola. Chi andava a scuola a Padova, alla stazione di S. Sofia, incontrava negozianti balordi che vendevano pacchi di lenzuola, litigavano con il “compare” che fingeva di intromettersi nell’affare, ma dentro c’erano solo giornali. A casa li aprivano e restavano di sasso e qualcuno se la prendeva con il Santo che erano andati a invocare. Da Sambruson si andava anche al Santo a piedi per sciogliere un voto. Ci sono andato anch’io quando sono stato promosso all’istituto magistrale e sono diventato maestro. Mia madre è venuta con me, le ho mostrato la scuola, il bar dove a mezzogiorno andare a pranzo, la tomba di S. Antonio dove passavo la mano per chiedere un’altra grazia; la gente dietro spingeva. C’è sempre folla al Santo. Le mostravo il chiostro con le colonne e le scritte dei devoti e degli studenti. Le mostrai anche la mia firma. In seguito sarà tutto cancellato, per fortuna. Le mostrai anche le firme di Brocca e di Zuin, di Degaspari e Franzolin di Correzzola, compagni di classe, come se fossero stati parenti. Un po’ lo eravamo. Olindo Moretti, residente a Sambruson, ama la poesia e  ne scrive. E’ nato a Concadalbero di Correzzola, conosceva il maestro Peppino Franzolin, nato nel suo stesso paese. Dico conosceva, perché purtroppo da poco ci ha lasciati. Me lo ha comunicato una domenica mattina dopo aver letto “le letture” alla ufficiatura per Alberto nella chiesetta di San Pio in ospedale a Dolo. Ho cercato una foto tra i ricordi di scuola del 31 maggio 1955, è lì vicino a me sorridente.

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I casoni in via Stradona, si trovavano vicino alla casa dove, da sposata, era andata ad abitare la zia Amelia Zilio. Tetto di paglia o di canne palustri su muretti grezzi e travi di legno, anzi pali di oppio, pavimento in terra battuta che a Pasqua si vangava per livellarla; dove si camminava di più si consumava di più. Il riscaldamento era inesistente. O meglio si metteva una pietra nel forno della cucina economica, pur essa in pietra, calda la si avvolgeva in un panno e la si metteva sotto la coperta. C’era pure la borraccia piena d’acqua calda, c’era la munega: quattro legni, una piastra e dei paletti per fare un parallelepipedo, dentro si metteva un catino con braci incandescenti. Riscaldavano subito, ma erano pericolose, un piccolo movimento le faceva cadere sulle lenzuola che ne uscivano bucherellate. Ci fu un geometra poeta a Sambruson, poi professore di matematica alla scuola media Reginaldo Giuliani a Dolo, appassionato di cose antiche del paese. Ma antiche molto. Parlo di Lino Vanuzzo. Scoprì dei reperti archeologici romani, scheletri, tronchi preistorici, armi da taglio, corna di cervo, una lastra funeraria intitolata a Quinto Fabio Volsio. A quattro metri di profondità. Molto più antiche dei casoni non lontani! Ci dovevano essere foreste in questo territorio prospiciente la laguna, e maree tali da seppellire nel corso dei secoli queste terre pianeggianti e acquitrinose. Di tutto ciò molto ha scritto e studiato la archeologa di Sambruson dottoressa Monica Zampieri. Dalla sua cameretta al Ponte, sopra la macelleria di famiglia, guardando la dritta via Stradona, antica via Annia, vedeva i casoni, nelle notti insonni, guardava, sognava, scriveva. Il paese non lo amava, perché scriveva dolci poesie dedicandole a un giovinetto piuttosto che a una giovinetta. Fu giudicato persona da schivare, eppure non fece mai nulla di male, fece solo del bene. Soffrì tremendamente il suo isolamento, dedicò il suo tempo a viaggi, scuola, cultura, insegnamento, ricerche storiche, poesie. Una mi ha profondamente colpito quando l’ho letta nel 2004: Ultima. La scrisse prima di morire. L’ho scelta per me in questo momento di dolore, che mi ha tarpato le ali che mi portavano a scrivere e a far tremare i pilastri della mia fede. Nostro figlio Alberto è morto, non c’è più, rapito in un lampo, in uno schianto, divorato dal male crudele che ti distrugge e non perdona. Faccio violenza a me stesso e cerco di parlare della gente di casa nostra, del mio paese per ringraziare i molti che ci sono stati vicini e hanno pianto con noi. Ultima. La mia festa è finita./Depongo la cetra silenziosa/ e la lampada spenta/ sulla soglia funerea/ della muta magione./ Ma intanto la danza continua,/ o Signore/, ed io non son più degno/ d’assistervi./ Continua la danza eterna/ dei mondi e degli atomi,/ delle stagioni e delle ore/ ed io non vi son più. /Nel dissolvimento della materia/ continuerò a danzare/ dapprima coi vermi,/ poi un giorno la mia polvere/ danzerà coi venti,/ poi infine col nulla./ E l’anima mia quale danza/ eseguirà?/ A quale festa, o Signore,/ verrà ammessa?

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Sambruson è un paese scentrato, fuori centro. La chiesa, le poste, la scuola elementare, le scuole medie, il monumento ai Caduti, piazza Brusaura, campo sportivo, cinema si trovano ai margini del territorio. Oltre, a ovest, ci sono solo campi, la campagna  Meneghelli. Quando all’inizio degli anni 1960 fu deciso di costruire le nuove scuole elementari, che si trovavano dove ora c’è la piazza S. Valentino, l’amministrazione comunale deliberò di costruire due plessi, uno dove ora ci sono le scuole e la palestra e un altro in via Stradona, la più lunga e popolosa, verso Porto Menai, dopo il capitello di S. Antonio, per andare incontro alle numerose famiglie che vi abitavano. Su via Stradona vi confluivano, e tuttora confluiscono, varie vie e vicoli collaterali. Sennonché, per i due progetti già approvati, dopo le elezioni amministrative, la nuova Giunta, su consiglio delle autorità scolastiche, mutò destinazione. Si decise di costruire un unico complesso con tutti i sussidi didattici, biblioteca, riscaldamento, personale ausiliario e non pluriclassi. Ma annullare il progetto delle due scuole avrebbe comportato l’annullamento del finanziamento. Si decise di costruire i due edifici scolastici, ma vicini e non lontani. Là ci sono ancora, là ho passato i migliori anni di insegnamento. Là sono conservati i reperti archeologici dell’Antiquariun di Sambruson, trovati da Lino Vanuzzo, illustrati da Monica, custoditi dal circolo anziani “Trovemose”. Voglio bene alla gente della mia terra, dicendo che il paese è scentrato non intendo le persone, ma il territorio. Chi vive in periferia va a messa a Dolo e a Camponogara, chi vive in via Ettore Tito è andato a scuola a Mira, chi vive in via Stradona alla domenica è andato a fare la partita di tressette a Piazza Vecchia, chi vive in via Casin Rosso è andato a scuola a Calcroci. Il Casino rosso per Camponogara e Casin rosso per Sambruson è una lunga via che scende dalla strada alta e va fino a via Brenta secca, divide esattamente a età due comuni. Vuole la tradizione, a cui bisogna credere fino ad un certo punto, che un tempo in questo territorio ci fossero solo campi e che in mezzo alle vaste campagne fosse stato costruito un casone dipinto di rosso, per scorgerlo in mezzo al verde, dove i lavoratori giornalieri mettevano a riparo gli attrezzi, le vivande, l’acqua potabile, il vino. Piazza Brusaura, dalla notte dei tempi si chiama così. Si vorrebbe sia stata la piazza, primo nucleo abitato a dare il nome al paese. Non credo. Molti anni fa le case erano in parte di legno, i casoni erano di paglia, molto probabilmente, quando gli incendi erano frequenti, si pensa ci sia stata una grande “bruciatura”, un grande incendio a distruggere le abitazioni. Ci mancava anche questa versione per complicare il nome di Sambruson. Bè, ho visto anche scritto Santo Bruxone. Anche questo a dimostrazione della confusione esistente, prima che le Poste Italiane mettessero ordine e pubblicassero l’Annuario stradale con il Cap.

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Il nonno spiegò ai ragazzi l’importanza di vedere e di dire le  cose secondo il proprio punto di vista. In maniera responsabile. Cos’è un punto di vista, chiese Alvise? Significa parlare secondo la propria opinione, che deriva dalla propria conoscenza, dalla propria esperienza, dalla propria coerenza, rispose il nonno. In un angolo dell’orto c’era un fico che, nel mese di aprile, cominciava a diventare tenero e dei ciuffi di foglioline cominciavano ad annunciare che era ancora vivo, dopo la burrascosa invernata. Le mamme oltre la siepe, il lunedì di Pasqua giocavano a rugoleto. Una piccola buca era stata scavata con discese dolci, per ripianate, pulite dagli spigoli e dai sassolini, battuta con una vanga, lisciata con la cenere della cucina economica, ecco pronto uno scivolo, il rugoletto. Le mamme rotolavano le uova sode colorate con il caffè, con il brodo di radicchio, con il vino cotto lasciate scendere contemporaneamente. Era il divertimento del lunedì delle feste, lunedì dell’Angelo, delle mamme di campagna, cognate, che almeno nella settimana santa avevano qualche ora per loro. Tocca a me? No no tocca a me! Toccava a chi riusciva a far andare più avanti il proprio uovo colorato, a riprenderlo e a farlo scendere di nuovo. Chi veniva toccato doveva pagare una penalità. Nonno Abramo fumava la sua prima alfa del pomeriggio seduto su una sedia di paglia, oltre la siepe, ascoltava Tina, Pina, Rosa, Amelia e Cesira indaffarate nel loro innocente divertimento. Quante sono? Chiese il nonno. Sono in  tre, disse Alvise. No, sono cinque, ho visto venire anche la Cesira Bertin, disse  Luciana.  Allora  sono quattro, disse la cugina Giovanna. Per parlare bisogna conoscere, bisogna vedere. Il nonno suggerì ad Alvise di arrampicarsi sul fico e di guardare direttamente spostando i rami. Alvise, esperto di arrampicate su frutteti, salì scalando i tre rami divaricati come una scaletta. Salì troppo velocemente, l’ultimo ramo si spezzò e cadde. Il fico è debole, è tenero, non bisogna esagerare, bisogna conoscere la durezza dei legni degli alberi. Le donne preoccupate accorsero. Erano in quattro. Il nonno imperterrito chiese quante erano le donne.  Quattro, dissero tutte le ragazzine. No, cinque! disse Alvise dolorante. Lui le aveva viste, la Cesira non aveva figli, non era accorsa, stava raccogliendo le uova di tutte per riporle e mangiarle per cena. Alvise capì che le apparenze a volte ingannano e che tutto ciò che sembra sicuro non sempre lo è. Bisogna conoscere! E conoscere a volte costa. Erano molti gli insegnamenti che nelle corti contadine  venivano impartiti sul posto, senza banchi, senza cattedre, senza maestri. Alvise se lo ricorderà e molte sue lezioni a scuola si svolgeranno in cortile a Sambruson, sotto un grande salice piangente, guardando, ascoltando, imitando, pensando, riflettendo, ricordando, confrontando, facendo silenzio. La civiltà contadina era ricca di saggezza, non nata da calcoli, da interessi, ma dal fare, dallo sperimentare, dal provare, dal verificare.

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Quando si avvicinava il momento del parto delle mucche, momento molto atteso dalle famiglie contadine, tutti si davano da fare. Ne ho già parlato nel volumetto “I giorni della merla”, ma aggiungo qualcosa.

 

 

Gli uomini del vicinato accorrevano a dare una mano. Sarebbe venuto il loro turno. I ragazzi facevano silenzio, i più grandi si avvicinavano alla porta della stalla. Le donne bollivano l’acqua. I vecchi facevano quello che ormai erano usi fare, silenzio. C’erano insoliti movimenti, insoliti richiami, c’era il boss che dava ordini. Tira, aspetta, alza, gira, mi raccomando tira, e quando dico tira tirate tutti. C’erano sempre tre quattro uomini. Il capo entrava nella vagina con la mano unta di olio di lino per tastare in che posizione era la testa del vitello che stava per nascere. Se il vitello si presentava con la testa appoggiata alle zampe anteriori il più era fatto, se si presentava al contrario c’era il rischio di perderlo, c’era l rischio che l’ombelico si staccasse prima di uscire dalla madre e cominciasse a respirare da solo. Come tutti, anche noi. Dagli Albertini chiamarono Abramo Cuco, era esperto come un veterinario per i numerosi parti che aveva condotto a buon fine. Lo chiamavano le famiglie della contrada di via Calcroci. Quel  giorno era a casa sua. La vacca burlina stesa sulla paglia muggiva piano, si lamentava, occhi sbarrati, gambe tese, caspita se si lamentava!  Il capo diede ordine di stare pronti, aiutò il muso a uscire dalla madre, legò un laccio alle zampe anteriori e diede ordine di tirare lentamente, senza strappi, senza interrompere, senza pause. Il parto quel giorno fu facile, il vitello uscì, steso sulla paglia brancolava, si dimenava, tentava di stare in piedi, impresa a lui sconosciuta, come quella di respirare. Abramo, grondante di sudore, con la paglia pulì la bestiola, poi prese la boccia dell’aceto, ne mise in bocca una buona sorsata e lo soffiò sul muso del vitellino che scosso arricciò il naso e fece un grande respiro, era vivo, era pronto a continuare a respirare. Le donne guardavano il cielo e ringraziavano, perché non tutti i parti andavano a finire bene. Arrivò la caraffa di vin brulé per tutti. Fuori tirava la bava, leggera ma penetrante. Dopo il parto ai ragazzi più grandi veniva dato un incarico, vigilare quando sarebbe caduta la placenta, era indispensabile per la salute della vacca. Quando avvenne, Alvise corse ad avvisare suo padre. Bene bene rispondeva, e gli accarezzava la testa. Allora anche lui si sentiva protagonista. Molti anni dopo, pensando alla sua infanzia si ricordava di questi eventi e sorrideva mettendoli sulla carta, perché fossero indelebili, come la carezza di suo padre, la preghiera di sua madre quando gli rimboccava le coperte, il gioco con le sorelle Luciana e Letizia, quando prima di addormentarsi si sfidavano a trovare cinque nomi di persone, di città, di alberi che cominciassero con la stessa lettera dell’alfabeto. Letizia si sposerà tardi, andrà ad abitare ad Arino, i suoli figli sono all’estero a lavorare: Elisa in Scozia in una stamperia, Francesco, geometra, a Copenaghen lavora in una importante impresa italiana che sta costruendo la metropolitana. Paolo è vedovo, a casa continua  a riparare marmitte e a fare favori, mi porta le verdure del suo orto. Ecco come gli antichi ragazzi e ragazze hanno ramificato e rinforzato il paese, modificandolo, migliorandolo. Anche Luciana non c’è più, le sue figlie? Raffaella gestisce un importante ristorante della Riviera, Anna fa l’infermiera in medicina all’ospedale di Dolo, ha due figli, vive ad Arino, Giuseppe lavora alla Veritas e continua a vivere in via Marinelle con suo padre Silvano Marchiori. Nessun figlio di contadino lavora la terra dei padri. Sambruson è irriconoscibile, molte famiglie sono arrivate, molte professioni sono cambiate, a lavorare la terra sono rimaste poche persone che sono riuscite ad raggruppare la terra, le piccole proprietà non ci sono più, la piccola stalla non c’è più. Sambruson per anni è stato un paese cristallizzato, soprattutto negli anni 1950 e 1960. Non sono un economista, non seguo la ricchezza che si trasforma, sono una persona che pensa e descrive l’umanità di una piccola comunità che cambia.

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Il campanile di Sambruson è nominato da tutti per le sue campane, per il nome che dà al paese la statua di S. Ambrogio che svetta lassù sulla cuspide. E’ stato il punto di riferimento nelle campagne quando, mancando gli orologi nelle case, i contadini si regolavano nei lavori dal sole, dalla meridiana del campanile e della canonica e dal suono del mezzogiorno. I suoni delle campane sono diversi, se c’è la messa, se c’è una occasione solenne, se c’è un matrimonio o un funerale, se c’è la campana a martello. Per i funerali cambiano i tre rintocchi per un uomo, 2 rintocchi per una donna. L’Ave Maria del mattino e della sera hanno un suono che tocca l’intimo, che ti raccoglie, che ti porta a pensare alle cose celesti, spirituali, mentre lasci le fatiche della giornata o ti avvii a quelle del nuovo giorno, ritemprato dal riposo. Quanto stupore, quanta armonia, quanta quiete, serenità, raccoglimento sorgono nell’animo, nel cuore uno sguardo alle opere di Giovanni Segantini: Angelus Domini, Ave Maria a trasbordo, tele stupende, nella penombra del raccoglimento, ti acquietano, ti rasserenano, ti ispirano. Chi vive all’ombra del proprio campanile è signore del suo paese, della sua casa, della sua parentela, non è uno che viaggia, che vaga, che ha sguardi lontani che trascurano il proprio piccolo campo, il proprio orto. Esattamente il contrario di ciò che avviene ai nostri giorni, la conoscenza è universale, immediata, turbolenta, affannosa. Ricordo le mamme che alzavano la testa dai mastelli ascoltando la campana: chi è morto? chi si sposa? che santo è oggi? Quel suono era l’argomento della mattinata per le spose curve sulla tavola da lavaggio. C’era la campanella per la messa, c’era il segno, c’era il concerto. Quando il cielo era minaccioso e si temeva la grandinata, nei campi si aspettava la campana a martello, era una invocazione, era un grido, era un  aiuto che si chiedeva coralmente al cielo. Chi non era credente aspettava il campanon perché diceva che il suono squarciava le nuvole, spaccava la minaccia, disperdeva il temporale. Passata è la tempesta, odo augelli far festa… Il tocco di Giacomo Leopardi rappresenta uno squarcio di serenità dopo una rovinosa minaccia. Leggendo la poesia, capisci dalla prima parola che il sole sta per tornare, che la pace torna. Capisci l’animo, le paure, le speranze dei lavoratori della terra. Il 27 ottobre 1996 nel ventesimo anniversario della fondazione della corale parrocchiale, parroco don Lorenzo Carraro, mi fu chiesto di esprimere alcuni pensieri nella pubblicazione che illustrava la storia e i principali concerti religiosi della Schola Cantorum. Ritengo appropriato riprendere qui la prefazione che feci in quell’occasione. Perché  cantare? Tra i tanti modi di esprimersi, la parola, la scrittura, la pittura, la mimica … il canto è forse il più bello, perché immediato, spontaneo, allegro. Quando si canta si è felici, si è sereni, si è in pace. Si canta tra amici, si canta alle feste, si canta in famiglia, si canta in chiesa per esprimere lode a Dio. Sentire cantare per le strade o nei campi, una volta, girando per i nostri paesi, dava un senso di sicurezza, di allegria, di essere in compagnia, di non essere soli, di stare tra brava gente. Il canto è anche armonia, esige coralità, pretende conoscenza e rispetto delle regole, è misura, è equilibrio, è scuola, aiuta a stare bene insieme. Cantiamo in chiesa per mettere le ali ai nostri pensieri, ai nostri voti, ai nostri desideri. Nei momenti di grande emozione, al termine di un funerale, di un matrimonio, di una messa solenne, le voci composte e controllate si lasciano andare … note e voci si intrecciano, commozione e sguardi si scambiano, l’impeto sale, i cuori battono all’unisono, diventano coro, una sola preghiera, una sola invocazione a Dio. In quel momento siamo comunità parrocchiale unita in preghiera, gradita agli occhi del Signore. In quel momento crediamo. Ci sono a Sambruson due cose che ci uniscono tutti: le campane e la schola cantorum. Non c’è famiglia che nella sua storia non abbia avuto occasione per averli tutti per sé per annunciare forti momenti di gioia e di dolore; sono proprio questi due gli argini entro cui, come un fiume, scorre la nostra vita. Molti di questi pensieri mi sono venuti conversando con Carlo Masato maestro di musica storico della corale di Sambruson. Altri pensieri mi sonno sorti dopo aver sentito Pietro Barillaro. Lui calabrese sa, io ambrosiano non sapevo e nonostante la mia passione per il mio paese non lo avevo notato. Il nostro campanile ha un orologio, ma le sue lancette sono ferme, non batte le ore. L’orologio si era rotto, ma era stato riparato ed è in  canonica in attesa di poterlo riposizionare in sicurezza sul campanile. Chi lo fa? Chi lo autorizza? Chi è d’accordo? Chi può opporsi? Quanto costa? Tutto bloccato dalla burocrazia, dall’indifferenza. Ora ascoltare il vento che reca il suon dell’ora dalla torre del borgo (Giacomo Leopardi) non interessa più. Basta un cellulare, uno smartphone. Anche i tetti delle case di campagna incolta si scollano, si scrostano, ammutoliscono e le tegole, le tradizioni solide e antiche, una alla volta cadono. L’ora canonica della cena, dello studio, della riunione di famiglia è facoltativa. Non c’è più lentezza, non c’è più calma, siamo in fuga.

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Ci mettemmo d’accordo di passare l’ultimo dell’anno in una delle nostre case chiamando delle ragazze. Eravamo cresciuti insieme, passavamo le serate di festa andando alle sagre in tutti paesi vicini. In bicicletta. In realtà a nessuno di noi piacevano le sagre, ma era una scusa per cercare ragazze che non fossero sorelle o cugine, con cui passare la serata scherzando, parlando, offrendo qualcosa. Cercavamo di sparpagliarci per non disturbarci a vicenda, poi ci ritrovavamo sbandati, scapoloni. Tornavamo a casa in fila indiana per non parlarci delle nostre delusioni. Dalle facce capivamo che eravamo di polli che difficilmente avremmo rimorchiato qualche ragazza seria con i nostri modi di approccio troppo ingenui. Le ragazze più sveglie non sceglievano certamente nessuno di noi per fare confidenze, conoscenza. Avevamo terminato il servizio militare, eravamo in attesa di un posto di lavoro, di pensare a una propria famiglia, ma al di fuori del paese eravamo a prima vista dei bamboccioni. Alla nostra lenta maturazione senza dubbio contribuivano le nostre famiglie, anni 1960, troppo severe, troppo religiose, troppo timorose, poco fiduciose delle nostre capacità di gestire i nostri comportamenti nella società. In realtà c’era una mancanza d libertà generalizzata che costringeva i genitori a comportarsi con noi, come i loro genitori si erano comportati prima della guerra.  Confluivano due atteggiamenti autoritari: quello del regime, quello della chiesa, entrambi esigevano obbedienza. La libertà di cui sentivamo il bisogno era ancora oscurata dalla società in cui eravamo immersi, in cui eravamo  protagonisti al negativo. La libertà non significa fare quello che si vuole ma quello che si deve e il dovere è un atto di coscienza, di consapevolezza di cui non si può fare a meno. Un uomo ha bisogno di misurare la propria responsabilità e una persona è responsabile se è lei stessa a guidare le proprie azioni. Quando eravamo ragazzi non ci veniva chiesto il nome, ma si diceva … di chi sei? Era la famiglia che garantiva per te. L’ultimo dell’anno 1960 fu una notte stupenda, squarciammo le nostre teste, i nostri dubbi, la diffidenza delle nostre famiglie. Ognuno scoprì quella sera la propria simpatia, il futuro amore, l’attuale famiglia. Quella sera conquistammo la nostra libertà che non piacque a don Carlo Segala, parroco e santo uomo. Dal pulpito criticò severamente i bravi figlioli che andavano a festini danzanti. Sì, perché quella sera facemmo un po’ di allegria, di musica, quattro salti in un tinello stretto. Grazie a lui, d’incanto, si apri una barriera, comprendemmo che quello che avevamo fatto era giusto e che avevano sbagliato coloro che consideravamo saggi protettori. Agimmo responsabilmente nelle professioni, nei mestieri, conquistammo stima  e fiducia. Tra i ragazzi che si notavano a Sambruson c’era Orlando Minchio, abitava nella profonda Brentasecca. Ragioniere, studente di economia e commercio, sindaco del Comune, ricostruì il paese dopo il tornado del 1970. Seppe destreggiarsi tra le opposte fazioni politiche, ottenendo la stima e il voto in consiglio comunale. Fu in questo momento di massimo splendore personale che iniziò la sua rovina. Si credette invincibile, libero di dire e di fare quello che l’istinto gli suggeriva, e tutti lo seguivano. Finito il mandato, senza alcuna esperienza, sicuro di sfondare, sicuro della carismatica sua parola, si inventò la professione di consulente finanziario. L’inizio fu brillante, entusiasmante, riusciva ad ottenere finanziamenti dal fondo di ristabilimento del consiglio d’Europa per la creazione di nuovi posti di lavoro, andava a parlare a Parigi senza conoscere il francese, le banche gli stendevano il tappeto rosso. Si sentì libero, perché non vedeva ostacoli  davanti a sé. Poi una banca gli chiese il rientro immediato di prestiti che aveva chiesto e ottenuto, l’abbattimento del fido; la voce si sparse, molte banche fecero altrettanto. Credeva bastasse la sua parola. Non bastava, ogni prestito va restituito. Continuò a promettere e a non mantenere la parola. Occorreva denaro contante, non girate di assegni a vuoto per rientrare. Iniziò la rovina, il penoso fallimento. Immediatamente lo colpì una lunga, mutilante malattia, morì ricordato solo da pochi amici. L’uso sfrenato, incontrollato della libertà, da onnipotente lo ridusse a niente. La libertà è bella e pericolosa, va gestita con accortezza, la si conquista duramente, la si perde facilmente.

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La popolazione di Sambruson è sempre oscillata attorno ai tremilacinquecento abitanti (anno 1961) dediti alla agricoltura, la loro vita negli anni ante guerra e post bellica è stata scandita dalle stagioni, dalle turbolenze atmosferiche, dalle nascite prolifiche in autunno, perché le donne restavano incinte soprattutto in inverno con la stagione fredda, scarsi lavori nei campi, bisogno di stare vicini nelle giornate di bora, pioggia, neve e galaverna. Le giornate d’inverno le passavano nelle stalle, al tepore del fiato dei bovini o in cucina accanto al focolare alimentato a legna. Le famiglie benestanti erano poche. Non ero tra quelle e non so come passassero la cattiva stagione. Certo non in stalla tra gli animali. Le famiglie che giudico benestanti non erano più di una decina. La  brava gente buona e gentile non aveva voglia ne tempo ne capacità di creare scandali. Per scandali intendo quelli di sempre: ambizione di potere e quindi di ricchezza a scapito di chi non sapeva e non poteva difendersi, desiderio della donna d’altri. Come nei film, nelle cronache, nelle storie di adesso ci sono due trame prevalenti: donne e denaro.  Che piaccia o no, ma a Sambruson ci sono stati entrambi i casi. L’ambizione del potere la esercitava chiunque si trovasse un gradino più in su, con moderazione, ma senza attenuanti, senza rallentamenti. I mezzadri e i fittavoli non potevano alzare la testa e protestare, i braccianti dovevano solo guardare e sperare. Che gli uomini potessero guardare le donne d’altri non è un mistero, soprattutto nei meriggi afosi, quando non si tornava a casa per pranzare e si restava all’ombra dei salici di fosso (i salgari), dei platani, dei pioppi in attesa che si attenuasse la canicola. Sì, ci sono stati degli incontri amorosi imprevisti, imprevedibili e irripetibili. Non era l’amore, era il sole. Di queste cose si parlava sottovoce, spesso per denigrare, qualche volta per vantarsi. Però un vero scandalo a Sambruson ci fu. I figli di una delle famiglie più ricche del paese, educati nell’istituto convitto privato “Erminio Filippin” di Paderno del Grappa, raggiungevano alti livelli di studio, erano gli unici a farsi chiamare sior e, dopo forzata astinenza, a guardare con l’insistenza e la garanzia dell’impunità le belle spose e le belle ragazze, che, naturalmente, portavano nome, dote e bellezza di altra nobile famiglia. Italo, sposato e felice con la deliziosa e ricca Tonia s’invaghì perdutamente di un’altra sposa, altrettanto benestante. Le voci si sparsero, la gente sorrideva di nascosto, perché godeva, invidiava chi poteva permetterselo. Perché la brava gente , ed è,  buona gentile a seconda. La famiglia se ne accorse, impose al figlio di rientrare nei ranghi del matrimonio, della società e della professione. Il farmacista Meneghelli, incurante delle minacce e dei mormorii del paesani, abbandonò la casa e si sistemò dall’amante, che a sua volta ruppe il suo matrimonio. Questi eventi ora non rientrano neppure nella cronaca rosa, allora fecero scalpore oltre i confini del paese. La Tonia si consolò presto e convolò con il fratello del marito, docente universitario. E tutto finì lì, perché la famiglia tornò a vivere nella sua agiata ipocrisia, incurante dell’opinione del paese. Alla cerimonia di esequie del padre, ex-sindaco Riccardo Meneghelli, mosignor Guerrino Ruffato, parroco di Dolo,  volle celebrare lui a Sambruson per onorare il grande elemosiniere con tutti i bisognosi, soprattutto i parroci. La chiesa era gremita all’inverosimile, dal pulpito il suo volto sembrava in tranche, con occhi e bocca socchiusi pronunciò come ispirato un commosso panegirico illustrando la vita e le opere del defunto. Ma quello che colpì e sbalordì tutti fu l’elogio alla esemplare testimonianza di fede della sua famiglia, degli alti valori morali dimostrati dai figli, esempio per tutte le famiglie. Finì con un crescendo di lodi, sempre ai figli, che fece uscire dalla chiesa anzitempo diversi fedeli che mormorarono a lungo sulla inaffidabilità di certi preti. Ero presente. Riuscì ad impossessarsi della “vera” di valore di un pozzo storico dolese che  fece trasferire in maniera rocambolesca nel cortile del del patronato. Il Comune la recuperò ed è tuttora esposta al pubblico sul lato sud del municipio. Incontrai da vicino monsignor Ruffato alla benedizione del nuovo monoblocco dell’ospedale generale provinciale di Dolo, presenti autorità civili e militari, primari e personale, cittadini appositamente invitati. Una predica da quaresima, che poco c’entrava con l’evento! L’ultima volta che lo vidi da vicino fu il 4 novembre 1978, festa nazionale, presente il ministro Costante Degan. Finita la santa Messa, andammo in sacrestia, sindaco, ministro, capigruppo dei partiti di sinistra a ossequiarlo e a ringraziarlo per la partecipazione religiosa a una cerimonia civile. Mi investì con fredde parole: era ora che ti facessi vedere! Ero sindaco, frequentavo regolarmente i sacramenti, non andavo a baciargli l’anello o a consultarmi su quale strada asfaltare o sul piano regolatore. Gli risposi freddamente: a Dio quel che è di Dio, a Cesare quel che è di Cesare. Ero là ad ossequiarlo, non a titolo privato, ma in rappresentanza dell’amministrazione comunale con maggioranza DC-PCI-PSI-PSDI, non potevo non essere coerente. Non rappresentavo me stesso, ma anche i consiglieri non credenti. Poco tempo dopo, colto da Alzheimer, si ritirò nell’Opera della Provvidenza Sant’Antonio di Sarmeola che riceve tutti i sacerdoti anziani o malati. Di lui pochi si ricordano. Andai una volta a salutarle don Carlo, incontrai anche lui, occhi svagati, mi conobbe appena. Fu il fondatore della Associazione don Lorenzo Milani che crea relazioni tra le persone favorendo i contatti formativi, umani, morali, civili, sociali. L’associazione è molto attiva, organizza incontri biblici, esercizi spirituali, incontri a tema, concerti di musica in duomo, pellegrinaggi,  spettacoli cinematografici e teatrali al cinema Italia. Aveva la vocazione di fare quello che voleva, qualche volta molto bene.

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Nella primavera 1976 il numero  delle persone partecipanti alla Festa della Primavera fu superiore a quello dell’anno prima. La festa scolastica si stava affermando. I palloncini offerti dall’Avis con un messaggio di pace e di amicizia per tutti bambini del mondo, con il proprio indirizzo e la richiesta di corrispondenza ebbe un successo straordinario. Due settimane dopo il lancio arrivò a casa dello scolaro Giuseppe Minto, residente in via Alture, ortolani, una lettera inviata dai signori Caruana di Aix-en-Provence, Francia. Dicevano che avevano visto scendere il palloncino, lentamente, nel loro giardino, avevano trovato l’indirizzo e scrivevano alla scuola perché desideravano restare in corrispondenza. L’evento fu oggetto di entusiastica discussione in classe, nel circolo didattico, tra le famiglie che avevano figli che frequentavano la scuola “Daniele Manin” di Sambruson. Qualche settimana dopo, a mezzogiorno, mi telefona la signora Minto per dirmi che  a casa sua era arrivata una famiglia con il cartoncino della Festa della Primavera e chiedeva di Giuseppe. Non capiva una parola di più, perché parlavano straniero, chiedeva aiuto. Mi precipitati, trovai due persone anziane, marito e moglie di Aix-en-Provence. Ci spiegammo, ci abbracciamo, restammo a pranzo. Parlammo di molte cose, i genitori Minto sorridevano se lo facevo io, altrimenti stavano seri. Spiegai ai genitori di Giuseppe che che monsieur Caruana era un “pied-noir”, un francese, residente in Algeria e rientrato in patria nel 1962, dopo la rivolta, operaio in pensione. La giornata si concluse felicemente con la promessa di rivedersi, come succede in questi casi. Non ci vedemmo più. Negli anni successivi ci furono altri ritrovamenti, altra corrispondenza, altri incontri. Un palloncino un anno finì in Croazia, un altro finì in Grmania, un  altro ancora in un bosco in provincia di Como. L’aveva trovato un ragazzo diciottenne del luogo, andava a pesca e vide il palloncino sgonfio dondolare appeso a un ramo vicino a un torrente. Scrisse, volle informazioni molto calorose dalla ragazza che aveva lanciato il messaggio. La maestra gli scrisse: Elena è una bambina di sette anni, frequenta la classe seconda, grazie comunque per le gentilezze. Un altro contatto avvenne in autunno, con il nuovo anno scolastico. A ottobre era arrivata una lettera da Ravenna. Un ragazzo contadino l’aveva trovato mesi dopo l’atterraggio in un campo d’erba medica. Il  palloncino era stato raccolto dalla rastrellatrice, imballato e scoperto quando l’imballo fu aperto per foraggiare il bestiame. Furono anni di intenso lavoro, con la partecipazione entusiasta di tutte le diciotto classi del plesso, del corpo insegnanti, delle famiglie. Le iniziative scolastiche, individuali e collettive furono molteplici, coinvolgenti, interessanti con la partecipazione attiva dei ragazzi e delle ragazze che si ricordano ancora dei loro maestri. Nelle classi  quinte si organizzavano visite guidate alla latteria sociale e con Antonio Pajaro alla cantina dove i genitori erano soci, alle fattorie agricole dove vedevano come erano fatti i polli veri, vivi, non erano quelli appesi in macelleria. A scuola facemmo il burro con l’aiuto di Carlo Masato segretario della latteria che ci forniva la materia prima e gli strumenti, si pigiava con le mani l’uva portata dai ragazzi, si metteva in un grosso recipiente a “bollire”, imitando i lavori nei tini domestici. Venivano nelle classi quinte il professor Amos Luzzatto e il presidente dell’Avis Francesco Bosello a tenere lezioni sulla composizione del sangue: globuli rossi, globuli bianchi, piastrine. Veniva il capo dei vigili Lorenzo Puliero a tenere lezione sui pericoli della circolazione stradale e sui segnali da rispettare. La nostra scuola non insegnava solo matematica, storia, ortografia, ma dava da subito lezioni di vita. L’anello alla zampa di un pettirosso, portato a scuola da un genitore ci permise un’interessante serie di lezioni. Rinchiuso in una scatola forata, tenuto in mano con cautela scoprimmo che l’anello alla zampa sinistra conteneva un numero. Ci chiedemmo: perché? Scrivemmo alla LIPU-Lega Italiana Protezione Uccelli inviando l’anello staccato. Il pettirosso fu liberato. Da Bologna ci scrissero rimproverandoci, perché, tolto l’anello, avevamo interrotto un esperimento di identificazione. L’anello permette di conoscere i tempi e i luoghi delle migrazioni, capito? Tenetene conto in caso di altre catture, ok? Ok, facemmo tesoro dell’ammonimento. Però questo tipo di corrispondenza ci spinse, per le nostre lezioni di geografia, a scrivere alle principali ambasciate per ottenere l’invio di opuscoli, depliant, libri, francobolli, giornali del loro paese. Ogni ragazzo aveva scelto sull’elenco telefonico di Roma l’indirizzo di una ambasciata, a ciascuno arrivò un plico di documenti. Bè, arrivarono anche documenti di propaganda (Unione Sovietica) e di costi degli alberghi (Parigi). Li usammo per i confronti e per la compilazione del nostro giornalino di classe. Ogni ragazzo fu maestro per gli altri nell’illustrare le caratteristiche della nazione scelta. Eravamo in ventisette, l’anno scolastico era salvo.

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Emilio Zen, alla fine degli anni 1990 è stato assessore alla Pubblica Istruzione del comune di Dolo, abita in via Del Vaso, ha gestito in maniera lodevole il comitato di gestione della biblioteca comunale. Prima nessuno lo conosceva, veneziano, insegnante elementare alla Gazzera, un sobborgo del comune di Venezia a ovest di Mestre, si è dedicato alla cultura dolese con ammirevole passione. Era riuscito ad attirare attorno a sé, in un periodo di forte confronto politico, persone di diversi orientamenti, ma appassionati di letteratura, invitandoli a mettere a disposizione della comunità, parte del loro tempo libero. Non avevo mai parlato insieme, non lo conoscevo, era in una amministrazione di sinistra, mi disinteressavo di politica. L’approccio è fantastico, di quello genuini che ti catturano. A me succede così. Mi telefona con queste parole: non ci conosciamo, ho bisogno di lei. Silenzio. Caspita! Ma chi sei? Cosa vuoi? Si presenta, si spiega. Stava formando il comitato per la gestione della biblioteca, conoscendo la mia passione per i libri, chiedeva la mia collaborazione. Anch’io non la conosco, ma mi fido di lei. Catturato! Nacque un gruppo formidabile di discussione, di proposta, di studio che rese fiorente la cultura dolese. Insieme si scelsero e si fissarono gli abbonamenti ai giornali, formando una buona emeroteca, curando l’informazione, la diffusione delle nuove opere letterarie, programmava mostre, cerimonie, incontri con gli autori, con gli insegnanti di ogni ordine e grado, l’invito di intere scolaresche ad ascoltare autori e lezioni di buona scrittura. Era una novità! Da questo comitato nacque il Premio letterario “La Seriola”. L’idea mi nacque dopo aver visto una lastra di marmo a Dolo in zona Giudecca con la scritta”Hinc potus urbis”. La Seriola è un piccolo corso d’acqua che porta tuttora acqua potabile a Venezia per dissetarla. La prendemmo come simbolo della biblioteca che si prodigava per dissetare il bisogno di cultura della popolazione dolese e della Riviera del Brenta. Il premio letterario ha preso il volo soprattutto per merito della bibliotecaria dottoressa Ornella Vanuzzo punto di collegamento dell’assessorato, con le scuole, gli insegnanti i lettori, l’Inner Weell, sezione femminile del Rotary, gli autori che inviavano i loro racconti in  gara. Il premio? Un libro! E la pubblicazione dei racconti  dei vincitori. La dottoressa Vanuzzo riusciva a tessere una perfetta trama tra questi protagonisti e a renderli tutti utili, importanti e soddisfatti, aumentando i frequentatori della biblioteca. Quale è stato il premio per la bibliotecaria? Lo spostamento ai servizi educativi e concessioni cimiteriali. Non sono un pesce fuor d’acqua, la mia acqua  sono stati i libri, sono stati i colleghi insegnanti, é stata la lettura che fin da studente mi ha procurato un appetito insaziabile di conoscere. Non parlare di maestri non mi è possibile. C’è qualcuno che voglio ricordare, perché merita uno sguardo, una pacca sulla spalla. Mario Poppi insegnò alla scuola Daniele Manin di Sambruson qualche anno prima. Abitava alle Gambarare, diventerà preside di un istituto padovano di scuola media superiore. Amante del suo paese, fece molte ricerche presso archivi pubblici, privati, diocesani per scoprire notizie di diversi secoli fa riguardanti il suo territorio. Non lo vedo da tanti anni, non so cosa faccia ora, di certo sta leggendo. La sua passione di storico lo condusse a pubblicare ponderosi volumi documentati con precisi riferimenti a luoghi e persone delle Gambarare. Interessante è stata la sua ricerca su Dolo negli anni 1400 e 1500 illustrata in due conferenze, anno 2010, nell’auditorim dell’istituto “M. Lazzari” di Dolo su iniziativa di Sonia Giacomello infaticabile presidente dell’Università Terza Età della Riviera del Brenta. Più ancora voglio ricordare i colleghi Gianni Deppieri e la moglie Bianca Donà, siamo stati con le aule fianco a fianco. Deppieri, amico d’infanzia di Poppi si mosse sulle sue tracce, ha fatto ricerche storiche su Sambruson e ha scritto di uomini illustri o benemeriti cercando notizie alla fonte, intervistando parenti e conoscenti dei personaggi. Le sue pubblicazioni brevi, intense, ricche di fotografie, che non guastano mai, sono state illustrate da prestigiosi oratori. L’unico difetto? Le interviste ai familiari, lo spolvero di ritratti o foto di famiglia, il ricordo di amici carissimi ha portato alla realizzazione di figure non storiche, perché viste e descritte al cinquanta per cento, solo nei pregi, senza difetti, e questo è un limite. A mio avviso, naturalmente. Una figura storica va vista anche alzando il tappeto cercando sotto e descrivendo anche i punti oscuri, le negatività, i difetti, solo allora la ricerca è completa, si può dire storica e imparziale. Il maestro Antonio Armellin, vicesindaco ai tempi della amministrazione Meneghelli, insegnava alla scuola Edmondo De Amicis, fu un uomo di cultura di grande disponibilità verso gli altri. E’ stato il primo bibliotecario di Dolo. La biblioteca si trovava nella stessa scuola. Da lui ricevetti tutti i libri di Dumas, Joyce, Kafka, Manzoni, D’Annunzio, Tolstoj, Dostojewski, Selma Lagerlof, Pearl S. Buck, Jack London, Ivo Andric, Verga, Grazia Deledda.

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In questo momento di dolore, per la morte drammatica di mio figlio Alberto, mi è esplosa la voglia, anzi! la volontà, il desiderio, la forza di parlare di tante persone che nel corso della mia vita ho conosciuto, da cui ho ricevuto lampi di luce, per far chiarezza al mio percorso. Fermarsi non si può, anche se niente sarà come prima. In questo momento buio, il due novembre tornando dal cimitero di Sandon, dove ero andato ad accarezzare la sua lapide, ho sentito il bisogno di ricevere ancora luce dalle tante persone che ancora mi guardano negli occhi e piangono con me, mi dicono una parola, qualcuno niente ma mi abbraccia. E’ stato il due novembre, pioveva!, ritornando da Alberto che ho deciso fermamente di scavare, riscoprire tutte le persone che hanno camminato con me o attraversato la mia strada per dire loro: grazie, la mia festa continua. Aiutatemi! Statemi vicino. La  poesia di Lino Vanuzzo comincia dicendo … la mia festa è finita, e mi piace moltissimo, mi ha ispirato un titolo contrario. Lui era vissuto solo, morì dimenticato, salvato nella memoria solo dagli anziani del Circolo Trovemose. Ci sono tante persone che mi amano, e che amo, hanno allietato i miei giorni, non le posso dimenticare e so che non mi dimenticheranno. Di molti parlo, perché ricordo molte cose, molte le ho estratte dai miei diari, di altri non mi sono dimenticato, vado avanti fin che la lampada avrà olio sufficiente, fin che il fiato mi sorregge, fin che Marco ed Enrico avranno bisogno di una carezza, di una parola, fin che potrò chiedere loro: oggi, come è andata a scuola? Basta poco per sorridere, basta cogliere il momento, le grandi cose sono fatte di tante piccole cose. La mia vita, la mia festa, è stata piena di affetti, di passioni, di conoscenza non conclusa, e questa scrittura ne è un esempio. Il buon Dio mi ha arricchito dei suoi doni, non disprezzo niente, non butto niente, lo ringrazio, gli chiedo di assistermi nel momento della prova, me e quelli chi mi stanno accanto. Più volte ho scritto che la vita è una meravigliosa trappola, è un  cerchio che si chiude, ignorarlo è da incoscienti. Mi rialzerò e cercherò che la mia vita continui con gli stessi slanci, con gli stessi amori, ad occhi aperti, consapevoli, a piè fermo, fino all’ultimo. Non è facile, ma è possibile. All’aggiustamento dei miei pensieri mi ha aiutato Alberto. Ogni tanto mi inviava pensieri scelti che leggeva, che riceveva. Prima di me aveva raggiunto la vetta, mentre arrancavo. Al mattino spesso mi inviava preghiere che riceveva da Edizioni Messaggero di S. Antonio di Padova. Questa preghiera ho ricevuto da mio figlio tre anni fa. “Signore aiutami a capire che non devo continuare a piangere coloro che vivono presso di Te. Essi hanno già ciò a cui aspiro, vedono e toccano ciò che per me è pura speranza”. Grazie, figlio mio.

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Quando andavamo solo in bicicletta, era una gara in famiglia per stabilire a chi toccava. I più grandi avevano la precedenza. Gareggiavo pedalando, come Coppi e Bartali, con Giannino Segato e Mario Menegazzo partendo dal monumento ai Cauti poi in via Argine sinistro, via Monache, via Cimitero e piazza Brusaura. Il primo vinceva un grappolo di uva moscata, il secondo un grappolo di uva S. Giacomo, il terzo si accontentava di un grappolo  di uva bacò. Passavamo a fianco della bottega di Piero meccanico che per me era scomoda. Un po’ più avanti, sotto il campanile, Emo Marin immergeva in un catino pieno d’acqua le sue camere d’aria gonfie, le spremeva per scoprire da dove usciva il gorgoglio che rivelava il foro procurato da qualche broca staccatasi dagli zoccoli. Emo era un personaggio scherzoso sempre allegro che trovava un soprannome a tutti i ragazzi della piazza, ne ricordo due: Suste e Brische. Suste morirà giovane, Brische diventerà professore di matematica all’istituto per geometri di Mirano. Al Ponte, davanti al mulino, attaccava pezze il gobbetto Masiero, curvo, molto serioso, di poche parole, che però distribuiva camere d’aria rotte ai ragazzi per fare striche da fionde. Alla sua scomparsa lo sostituì Italo Cerato, un po’ parsimonioso. Andavamo dal gobbetto perché ci sembrava più affidabile. Cosa ci fosse da temere poi? Eppure un giudizio simile mi fa pensare a quanto poveri eravamo e su cosa eravamo costretti ad emettere giudizi perentori. Il personaggio più originale era senz’altro Piero meccanico. Non ho mai conosciuto il suo cognome, ma era l’unico ad avere accanto al nome il suo “dottorato”: meccanico. Era basso di statura, sempre unto e bisunto in mezzo a mastici, oli, pedali e catene, fari da sistemare, lampadine da sostituire, pezze e strofinacci. Era molto malmesso, la sua officina (?) era angusta, spesso lavorava in strada, rovesciava la bicicletta, sella e manubrio in terra, muoveva la lingua e la testa, attento come se stesse lavorando a una Ferrari. C’era chi lo prendeva in giro, lui si alzava, alzava il braccio, lo muoveva minaccioso, ma non avrebbe fatto male a una mosca. Molti andavano da lui anche per un consiglio. Ci andai anch’io a chiedere quanto costava una dinamo perché la mia non mi funzionava più. La guardò, mi guardò e mi disse ciò che da noi si distribuisce come una laurea: mona! pulisci il copertone dal fango, non vedi che la rotella della dinamo scivola, non gira, non produce energia. E poi aggiunse l’offesa: sapientone! Tra la sua bottega e l’osteria di Giovanni Organo bazzicavano di sabato sera i caporioni del PCI, attaccabrighe, non perché lo fossero, ma perché i bigotti così li volevano. C’erano Fioretto Brusegan operaio, Bepi macellaio, Niero operaio, Gardellin oste, Rocco Riccardo operaio che attaccavano manifesti e discorsi con chiunque incontravano diffondendo le loro idee sull’Unione Sovietica. Un sabato sera, mentre un onorevole veneziano di cui non ricordo più il nome, faceva il suo comizio affacciandosi dal poggiolo dell’osteria, non mi allontanai, anzi mi avvicinai, in maniera ben visibile, oserei dire sfacciata a metà comizio, mentre tirava il fiato, interruppi il deputato dicendo che quello che proclamava sulla Cina comunista e su Mao era solo propaganda, improponibile per l’Italia. Mi guardarono infuriati, non successe niente. Ma fui additato. A casa mi dissero: stai attento, non fare il maleducato. Da ragazzo pur non essendo un ardito non mi sono mai tirato indietro, anche se qualche volta sarebbe stato meglio. Ero stato un inutile provocatore. E l’incolto Piero meccanico, il reietto me l’aveva spiegato con una sola parola.

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Giampietro era un bambino vivace, ma dopo la morte della mamma si era trasformato in remissivo, in abulico. Chiamai suo padre, mi chiese consiglio, parlammo, diventammo amici. Gli chiesi una mano per la Festa della Primavera, per preparare il palco della premiazione, la chiesi a lui e a Dino Chellin dei Podisti dolesi per segnare i percorsi nella campagna. Giampietro collaborò molto. Il padre Rinaldo in  seguito mi riferì buone cose e mi chiese lui una mano. Anzi, tre mani, per la redazione del periodico di Umorismo e Satira “La Cagnara” e la mostra di opere di grafici e giornalisti nazionali, per il Carneval dei Storti. I storti, scritto in dialetto veneto, erano gli storici gelati dolesi avvolti in una cialda aperta e storta. La parola, infatti, si scrive in dialetto. A Dolo c’è una piazza che porta il nome: piazza dei storti. Entrai a far parte del gruppo folkloristico “La Lanterna”. La Lanterna era il nome della pizzeria di famiglia. Vennero nel gruppo molte persone, per lo più grafici, umoristi, designer, esperti in rime, operai per la preparazione dei carri mascherati con meccanismi elettrici. Vennero anche Vincenzo d’Agostino e Pietro Barillaro, la giornalista del Gazzettino Alda Vanzan, persone di cultura e esperte di norme legislative, conoscitori delle amministrazioni pubbliche. Per molti anni a Dolo, nelle sale del centro culturale dell’ex-Macello, furono premiati noti vignettisti, con visite successive di cittadini e scolaresche, presenti il sindaco, consiglieri regionali (ricordo Renato Morandina). Castigat ridendo mores, il motto fu interpretato alla perfezione. Le manifestazioni durarono molti anni poi, per cause naturali di età persero slancio, mordente. Il sacrificio di persone nuove disposte a lavorare gratuitamente si dileguò e i costi, che non sempre furono sostenuti da enti pubblici, banche, ditte, compirono il resto. E’ molto tempo che non ci vediamo, ci facciamo gli auguri ogni tanto per raccontarci i nostri acciacchi. Furono anni meravigliosi che lentamente sfumano, si dimenticano e nessuno ci fa più caso. E’ un peccato, ma fa parte degli eventi che se non vengono alimentati spariscono da soli. L’errore del gruppo folkloristico Lanterna fu quello di tenere fisso il gruppo dirigente, senza  provvedere alla propria graduale sostituzione. Non bisogna mai credersi indispensabili, è l’errore degli uomini che non pensano che la dirigenza, anche in famiglia! è una staffetta. L’incarico, il testimone, si passa, solo così la propria squadra può continuare a vincere. Gli insegnanti del plesso scolastico di Sambruson hanno applicato questo principio da subito, i dirigenti sono cambiati, ma hanno applicato questo sistema, senza gelosie, e la Festa della Primavera ha superato le quaranta edizioni. Una festa simile, qualche anno dopo è cominciata a Dolo, era la festa “Scuola al Parco”. Era organizzata dalle scuole Giotto, Canaletto e De Amicis in collaborazione tra insegnanti, genitori, podisti dolesi ora con Danilo Baldan, ditte sponsor, comune, provincia e l’onnipresente Avis. La camminata  iniziava dalla scuola Giotto, passava per il ponte dei Mulini, via Zinelli Destro, ponte del Vaso, via Vego Scocco, via Brenta Bassa, villa Angeli di Sambruson. Era una scuola artigianale provinciale provvista di un bel parco, dove si faceva festa, si sorteggiava materiale scolastico, si lanciavano i palloncini offerti dai donatori di sangue, si conoscevano gli alberi diversi tra loro con applicato un cartellino con il nome comune e latino. Ora solo la festa di Sambruson  sopravvive. A Dolo è successo il fenomeno opposto, troppi cambiamenti di insegnanti, genitori troppo impegnati, salta un anno, poi due, poi sempre. Nessuno si alza e si fa avanti, mancano il tempo, la voglia, il respiro e quando manca il respiro la fine è una sola.

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All’Ufficio postale, sperduto tra la gente in attesa, con il biglietto di turno numero ventiquattro, attendo il drin rannicchiato su una sedia. Si sta bene dentro, fuori fa freddo. Devo spedire una lettera a Gianni Picella di Bari. Dopo la sua visita a Dolo, anni fa, per il Proemio Samaritano, ci sentiamo spesso, è di poche parole, così mi ha mandato una mail: ti sia vicino. Non capivo, pensavo a un errore di battuta, poi ho capito, ho pensato ad altre sue brevi telefonate di condoglianze per mio figlio Alberto. Quando ci furono i primi segnali del suo glioma al cervello  mi invitò, con la prof.ssa Chiara Amati che l’aveva segnalato all’Avis, a San Giovanni Rotondo a pregare sulla tomba di Padre Pio, ora San Pio, a chiedere la grazia (anno 2006). Ero restio, non volevo andare, la strada è lunga, sono un mediocre autista, non credo ai miracoli. Non è possibile che il santo conceda la grazia a piacimento, secondo i casi, a chi prega di più, a chi elemosina di più. Lo dissi a un padre confessore, ero andato a confessare questo mio peccato di diffidenza, che un credente non dovrebbe avere. Espressi il mio dispiacere per questa contraddizione. Stia sereno, stia contento, mi disse, il miracolo l’ha già avuto, è la sincerità con cui mi ha parlato, sono stati i seicentocinquanta chilometri percorsi da Venezia fino a qui che parlano della sua fede. Non capivo.  Il miracolo è quello di raggiungere l’equilibrio interiore di fronte alle avversità, di pregare e mettersi davanti a Dio con l’invocazione: sia fatta la tua volontà, mi affido alla tua misericordia. So che per molti non è sufficiente. Questa convinzione Alberto la raggiunse subito, il male diminuì la sua aggressività, condusse la sua vita normale per dodici anni creando la sua bella famiglia. A noi bastò. Poi come tutte le cose terrene finiscono, come tutte le parabole alla fine cadono, non lo dobbiamo dimenticare! si concluse la storia di nostro figlio.  L’epilessia lo travolse, perse il senno, per quattro volte cadde quella mattina del ventiquattro settembre, chissà come arrivò a Ballò camminò lungo la ferrovia e l’impatto col treno fu inevitabile. La sua vita continua, ce l’aveva annunciato nei suoi pensieri scelti, segreti. Immerso nella folla, mi si siede vicino un personaggio strano per l’abbigliamento e l’approccio, è il professor Gildo Novello Scapineto di via  Ettore Tito a Sambruson. Sembra un mendicante, perché va via così è un mistero: capelli lunghi, parola curiosa insistente, gira con una bicicletta scalcinata che nessun ladro ruberebbe, è sempre solo. Insegnava in un istituto delle scuole superiori a Mestre, è in pensione. Sa tutto di noi, mi abbraccia e mi racconta il suo miracolo. Mi dice proprio così. Mi racconta del tornado a Cazzago, Dolo, Sambruson, Mira dell’otto luglio duemilaquindici. Una tromba d’aria apparsa all’improvviso da nord-ovest investì la Riviera portando devastazione incredibile, tutto in pochi minuti, case abbattute, tetti scoperchiati, alberi divelti e scagliati, persone e auto sbattute contro i muri. Gildo dormiva nella sua camera,  all’improvviso sente un boato, apre gli occhi, vede il cielo, il tetto non c’è più, il letto a fianco di suo fratello non c’è più, l’armadio non c’è più, due radiatori incrociati lo costringono al pavimento e lo salvano da una grossa trave. Raccolto a pezzi, rotture multiple al torace e alla colonna vertebrale, agli arti. E’ una persona spiritosa, fece in tempo a dirsi: è così che si muore? Lo vidi molto tempo dopo arrancare per Dolo  con due stampelle, storto, con il suo sorriso da presa in giro, lento, un passo dopo l’altro. Ciao, Gildo, come stai? La domanda cretina è obbligatoria! Non vedi? e passa oltre. Mi richiama: stai sicuro che ce la farò! Oggi l’ho visto avvicinarsi allo sportello della posta a riscuotere la pensione. Prima di uscire gli tocco la spalla e lo saluto, si gira. Guardami e ricordati! mi dice. Vorrei prelevare! dice all’impiegata. Ho visto un miracolato. Da giovane è stato seminarista, ma da quando é uscito anzitempo dal seminario è cambiato molto.

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Non sempre incontri persone normali, brava gente, onesta e cordiale. La barca della tua vita, nel navigare dei suoi giorni ti fa abbordare altri naviganti con la loro rotta corretta, non provocano scontri o incidenti, altri rari nantes in gurgite vasto, naufraghi nella società o con rotta senza bussola, vivono come i corsari di Salgari arraffando, depredando, minacciando, spesso ottenendo, alla fine fallendo. Uno di questi appartenenti alla filibusta dei nostri giorni, residente ad Oriago, nato a Ceglie Messapica, impresario edile, fu il geometra S.G. Pur ammalato gravemente, fino alla fine ha continuato a far del male a chi gli fu vicino. Al suo funerale non c’erano gli amministratori con cui aveva intrallazzato, né gli artigiani e i commercianti che aveva imbrogliato, né i dipendenti che non aveva pagato, né i presidenti delle cooperative ai quali aveva negato gli acconti, né i  fratelli e le sorelle che aveva imbrogliato. C’era solo il vecchio padre e la figlia che l’aveva misconosciuto. Ma davvero? Sì, era un genio al negativo. Nei rari momenti in cui non tramava aveva dichiarato pubblicamente che capiva subito chi lo temeva e chi gli resisteva. Chi lo temeva era suo, continuamente intimidito e minacciato di denunce, di avvocati, di carabinieri a casa, di botte, di gambe e di braccia da rompere, di orecchie da staccare e da mettere in bocca, di pugni mostrati davanti al naso. C’è stata gente spaventata ricoverata in neuro. Con chi era inattaccabile, perché non aveva affari con lui, era cordiale, gli mostrava il suo cane. E’ buono sai? diceva a chi non era interessato per niente, lo faceva per mostrare una inesistente bonomia. A Sambruson è stato solo di passaggio, aveva parenti, andava dal barbiere, viveva in uno dei condomini che aveva costruito a Dolo. E’ l’unico condominio d’Italia senza assicurazione, ognuno ha provveduto farsene una personale, ma non é la stessa cosa, ha litigato con l’amministratore perché gli chiedeva di pagare le sue quote (?), rifiutava qualunque manutenzione, le fogne venivano pulite solo se lui ne aveva bisogno, quindi parziali, ma dovevano essere pagate da tutti. Le grondaie e il tetto, da lui costruiti, rovinati dopo venticinque anni, facevano entrare acqua negli appartamenti, riparati con delibera, lui non ha pagato la sua quota, ha litigato con tutti, anche con una famiglia rumena ignara appena arrivata. E’ possibile tutto ciò? Sì, anche di più: in una cooperativa edile di Camponogara, vicino al supermercato Alì, ha messo  nei guai gli acquirenti che hanno dovuto adire le vie legali per ottenere i propri diritti di acquirenti. Fu abbandonato da tutti, non da un signore della associazione artigiani che, disinteressatamente, gli è stato vicino fino all’ultimo. La sua impresa era stata dichiarata fallita dal tribunale di Venezia. Il groviglio dei suoi malanni è tuttora inestricabile e crea tra i vari condomini motivi di incomprensioni, di abbandono, di disagio, di liti. La famiglia rumena, libera da minacce, tenta di sostituirlo come può con liti, anche se il geometra SG resta inarrivabile. Sono le normali vicissitudini dei condomini nei nostri paesi che, se non litigano tra loro, litigano con il confinante, altrimenti con gli altri abitanti della piazzetta per la raccolta delle foglie,  dei rifiuti, per i troppi rumori.

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La Riviera del Brenta è il salotto che unisce Venezia a Padova per le sue ville, i suoi parchi famosi, la sua storia, ma anche in declino per l‘inevitabile mancanza di ristrutturazioni e di manutenzioni. Le ville appartengono quasi tutte a Enti pubblici che le usano per eventi eccezionali o di privati che le utilizzano a scopo turistico. Le ville mantengono il nomi dei nobili e dei pregadi della Serenissima che venivano in campagna a villeggiare. Carlo Goldoni scrisse una commedia sulle smanie per la villeggiatura, che merita di essere riletta. Però il locale più importante dei nostri giorni è il ”Cinema Italia” in via Comunetto a Dolo, di fronte alla Biblioteca in Villa Concina. Nel Comune di Dolo, ma anche dai comuni confinanti non c’è cittadino che, negli ultimi sessanta anni, non ci sia stato almeno una volta, qualunque sia l’età. E’ una sala ampia, contiene più di cinquecento persone sedute, è stata recentemente messa in ordine dal parroco monsignor Giuseppe Torresan, prima del suo ritiro e da don Alessandro Minarello. La vicinanza con la biblioteca comunale favorisce gli incontri cultuali, le rappresentazioni cinematografiche, il teatro, la musica, le mostre, le conferenze, i convegni, la partecipazione delle scolaresche di ogni ordine e grado a spettacoli gestiti dagli stessi insegnanti, incontri informativi del Comune. In mancanza di altri luoghi spaziosi per incontri, il cinema Italia funge da Sala Convegni, tutti conoscono la sua posizione in via Comunetto. Le scuole vanno a teatro, i cittadini partecipano ai numerosi incontri del sindaco Alberto Polo per l’informativa e la consegna del budget per la raccolta differenziata dei rifiuti domestici. Fa parte della storia e della quotidianità della nostra comunità. Alla funzionalità provvedono diverse persone per le pulizie,  ma le più attive sono Mario Dainese e Silvano Fragola. Ad ogni incontro sono pronti a ricevere, a indicare, a richiamare, a porgere documenti.  Aprono e chiudono, sono i primi e gli ultimi. Su Canale Tre della tv regionale il dottor Pietro Bartolo, medico di Lampedusa è stato  l’ospite d’onore alla 18^ edizione del Proemio Nazionale Samaritano al Cinema Italia, ha illustrato la sua missione a favore dei disperati che approdano all’isola. Nel clima dell’attuale repulsione è difficile compiere gesti di normale umanità, senza essere eroi, compiere tanti piccoli gesti di solidarietà in modo anonimo, volontario e gratuito, come i donatori di sangue che danno e se ne vanno senza voltarsi indietro. Il disumano spesso si annida in noi, nel politico, nella stampa di propaganda, nell’intellettuale che titillano la voglia di fare da soli, di rifiutare chi fastidiosamente ti apre una mano davanti e ti chiese qualcosa, di espellere chi non é d’accordo, chi applica l’insegnamento di Luca evangelista “Va’ e fa anche tu lo stesso”. Conosco molte  persone indisponibili ad arruolarsi al seguito dei nuovi segugi che cercano piste facili, consensi apparenti con atteggiamenti aggressivi, ma ridendo sguaiatamente. Conosco molti donatori di sangue che danno e se ne vanno senza attendersi dei premi. Il Samaritano è un Proemio non un premio, cioè è un annuncio, una introduzione, un messaggio, un invito a continuare la lettura, l’azione: immaginate il proemio di un libro. Al cinema Italia erano presenti studenti del liceo scientifico Galileo Galilei, dell’istituto tecnico commerciale statale Maria Lazzari, dell’istituto professionale per i servizi alberghieri e di ristorazione Cesare Musatti. Hanno diciotto anni, molti saranno invogliati a diventare donatori. Una studentessa ha chiesto pubblicamente al medico che era andato a spiegare il valore della donazione nella sua classe, se poteva iniziare a donare sangue, visto che ha l’età, ma fuma spinelli. No! Non si può, la donazione è un atto di fiducia, non un tradimento, non si può donare se trasmetti sangue a rischio, se consumi droga, se vivi una sessualità a rischio, se hai malattie infettive. Si consiglia di non esagerare nelle donazioni, bastano due-tre all’anno, sempre se sei in buona salute. La donazione è una garanzia per la tua salute, perché i donatori di sangue vengono controllati, informati, seguiti dai centri trasfusionali degli ospedali, perché il loro sangue deve essere sano all’origine. Al compimento dei sessantacinque anni cessano le donazioni, perché il fisico comincia ad avere bisogno di aiuti sanitari di ritorno. Posso scrivere queste righe, perché un controllo sanitario di routine, alla mia ultima donazione, ha rivelato, all’esame istologico, un adenocarcinoma bilaterale alla prostata che quattro mesi prima non esisteva. Solo una fortunata diagnosi precoce e un intervento chirurgico immediato hanno potuto eliminare. Grazie a un comportamento sano solidale ho ricevuto più di quanto avevo donato.

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Il ginkgo biloba è l’ultimo a spogliarsi nel giardino di fronte, anche se l’ultima foglia cade prima di Natale e il giorno dopo, se guardi attentamente i rami, vedi già dei turgori ai nodi, già annunciano gemme non lontane, anche se prima di marzo non vedrai niente. Si sente sempre vivo e ci avverte. Lo osservo con la stessa intensità dello scrittore feltrino Matteo Melchiorre che guardava incantato e parlava all’antico olmo che sorgeva maestoso sui margini del paese di Tomo. Mi piace perché si chiedeva che legame può mai esservi tra gli uomini e gli alberi e come e quando i secondi influenzano il percorso dei primi? Son vecchio ormai, molte domande non mi interessano più, ma questa ha rispolverato antiche passioni e interrogativi che mi ponevo anch’io camminando tra gli stessi boschi nella val di Lamon di fronte al Tomatico. E quindi mi spinge a ricercare risposte. Ho già detto che le creature viventi, tutte le creature viventi,  hanno il loro modo di sentire e di comunicare, basta osservare, ascoltare, pensare. La posizione delle foglie cambiano, seguono il sole, i trifogli si chiudono alla sera, intristiscono se manca l’acqua, appassiscono, non sono inerti. Il legame che ci unisce agli alberi risale agli albori, a quando, tra i rami di un melo, un serpente offerse il frutto proibito ad Eva. La storia dell’umanità è ricca di similitudini e di discorsi attorno agli alberi; il fico e il melograno, l’olivo e la vigna entrano nelle parabole, ci trasmettono significati di abbondanza, di amore. Il salice piangente protesse la Sacra Famiglia dall’inseguimento dei soldati di Erode. Un ramo verde scorto nell’oceano annunciò a Cristoforo Colombo che la terra era vicina. Ma anche il Corano esprime paragoni, parla dell’albero che dona bontà e sicurezza, dei suoi rami rivolti verso l’alto, rivolti a Dio. L’albero è la penna che scrive le lodi di Dio possente e sapiente. L’albero nei libri sacri non ha una versione botanica, ma ispirata. Ed è questa visione che cerco di trasferire come posso in queste mie storie, nel ginkgo che guardo dalla finestra di casa. La sua vetta è sottile dritta come una penna, il suo areale è vasto e intonso, ha rametti oscillanti e robusti, regno di nidi di  tortore e di merli. Quest’anno ha ospitato un nido di tortore che sentivi tubare di primo mattino, un nido di merli che fischiavano a sera tardi. Nelle notti estive, quando lasciavi aperta la casa per fare entrare la frescura troneggiava l’usignolo, signore del canto. Ho imparato da sagge scritture, mi dice che c’è pace intorno, se c’è  silenzio, se cogli l’alito della natura che ride. Lo vedo oscillare d’estate sotto i tuoni e il vento, vedo le sue foglie fremere al plenilunio, sento la sua linfa quando l’ascolto, osservo l’edera che s’inerpica da tramontana. A gennaio andrà in letargo, non si accorgerà della neve e del gelo, le sue turgide gemme aspetteranno ancora, ma saranno pronte. Ai suoi piedi, a pochi passi, tra le siepi di bosso e i calicantus torneranno i pettirossi, e il timido scricciolo non lo vedrai, ma sentirai il suo canto allegro, chiassoso, armonioso, mi piace, é la natura che canta. Sono lampi che passano, impugnali, se li perdi insieme non torneranno.

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C’era la luce notturna, i rumori si attutivano, saranno state le dieci, quando la porta della camerata si apre, entrano veloci due infermieri, in un lampo sistemano il letto, con la manovella alzano il cuscino, stendono un telo per la riservatezza. Angelo arrivò nel reparto di neurologia di Mirano che neanche se ne accorse. Smaniava, si chiedeva, si interrogava rumoroso, a voce molto alta: ma dove sono, ma cosa mi fate, voglio mia moglie. Non riuscivano a tenerlo, perché Angelo è robusto, ex giocatore di rugby, operaio tutto fare, viene da Camponogara. Arrivano una signora e due signori, scarmigliati, svegliati di soprassalto. Vengono subito invitati ad uscire, viene sedato, flebo, pressione, temperatura, battiti cardiaci, poi tutto si calma. La signora rientra, si siede accanto e veglia tutta la notte. Gli sussurra, lo accarezza, gli chiede qualcosa, ma Angelo ora russa. Nel letto a fianco sono sistemato con le sponde alzate per non cadere, sono arrivato la notte prima per una emorragia cerebrale. L’occhio destro è intorpidito, così pure due dita della mano destra, la gamba e il piede destro. Il materasso è di pietra, mi copre la esile coperta, ho freddo. Non posso alzarmi, suono il campanello. Un’infermiera viene, dice solo: che c’è? le spiego. E’ dura la notte per gli ammalati in ospedale. Sei impotente, hai bisogno del pappagallo, chiami. Arriva la solita infermiera: che c’è? Le spiego. Perché non l’hai chiesto prima? Vorrei dirle che prima non mi occorreva, ma è inutile, dovrò chiamare altre due tre volte stanotte, lo so, è il lasix, il diuretico. Vorrei dormire ma non riesco, l’inclinazione del letto mi impedisce di appoggiare la testa come a casa, mi innervosisco. Torna un’altra infermiera, quella del turno di notte, mi dà dieci gocce di  Minias. Finalmente dormo tre ore. Alle cinque mi sveglio, mi sveglio ma ho bisogno, mi riporta il pappagallo, lo sistemo male, allago il letto. Ahimè! Sto zitto, ma è un tormento. Che tristezza avere la consapevolezza della propria impotenza. Finalmente arrivano le inservienti per rifare i letti. Mi vergogno, mi spiego. Non si preoccupi, mi dicono, e continuano a parlare tra loro. Una si chiama Anna. Sono qui per questo, mi dice, mi scoprono, mi lavano. Sarei pronto a dormire, ma arriva la colazione, poi le iniezioni, poi le medicine, poi i medici, poi la risonanza magnetica, esco in sedia a rotelle. Arriva Alberto, mi sento resuscitare, mi aiuta ad alzarmi dal letto, mi incoraggia, mi accompagna piano piano in bagno, mi sorride. Parla con Angelo, anche nei giorni successivi,  fraternizzano, sono coetanei, scherzano, lo aiuta a scendere dal letto. Visite fuori! Resto solo. Ma ecco, più tardi scoppiano le confidenze tra compagni di camerata. Come stai? E tu? Avrà cinquanta anni. Il malato urgente della notte è ora irriconoscibile, gli è passato, così sembra. A volte sta chino sul mio letto, vuole aiutarmi. Diventiamo amici. Mi parla subito di sua moglie, una donna incantevole, ha dieci anni più di lui, ma guai a chi gliela tocca. Dice proprio così. E’ veloce nelle sue affermazioni, decisioni. Sono curioso. Alle tre del pomeriggio arrivano le visite, Silvana mi pulisce,  mi cambia, mi parla. Arriva la compagna di Angelo, una signora ben pettinata, ben vestita, elegante, autoritaria, meno giovane di lui. E’ la stessa della notte? Certo! Innamoratissimi, una coppia affiatata, incredibile. Non sarà uno scherzo da neurologia? No no, è vero! Quando, dopo una settimana, posso muovermi attaccato al braccio di qualcuno o alla spalliera dei corridoi, sento sempre un fiato alle mie spalle, mi giro, è Angelo. Non avere paura, mi dice, sono qua io. Mi fai da angelo davvero! da angelo custode, gli dico. Sorride forte. Viene dimesso prima di me. Otto mesi dopo, sono a casa, sento suonare, guardo, apro, c’è una moto di grossa cilindrata, scende un signore robusto, casco, sorriso smagliante. Non lo riconosco subito. Mi abbraccia. Resto interdetto. Non ti ricordi me? sono Angelo. Lo abbraccio anch’io. Dov’è tuo figlio? mi chiede, vorrei salutarlo. Chino la testa, non mi vengono le parole, balbetto, gli dico che non c’è più. Lancia un urlo, si volta gridando nooo! Prende la moto e sparisce. In ospedale, ad Angelo era bastato poco per conoscere e per amare un uomo vero. Non ci siamo più rivisti. Ma so che tornerà.

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Nello studio medici S. Rocco in via C. Colombo c’è una quindicina di pazienti in attesa, dieci guardano cellulare e smartphone, chiamano, rispondono, giocano, nonostante un preciso divieto che appare sullo schermo delle chiamate. C’è anche il divieto di parlare a voce alta, ma nessuno ascolta, qualcuno va in bagno. Entra un informatore e chiede di parlare un minuto con la dottoressa Giovanna Reato, ma resta in ambulatorio venti minuti. L’infermiera al banco di ricevimento è impegnata con le vaccinazioni antinfluenzali. Si alza una voce per lamentarsi che una visita di mezz’ora è troppo. C’è qualcuno che apprezza che il medico faccia una visita così accurata. La signora Cagnin guarda sopra gli occhiali, veramente non so a cosa le servono, guarda lontano senza dubbio, ogni tanto socchiude gli occhi, pensa o forse si esibisce, perché di chi le sta attorno non interessa nessuno. Così non se ne accorge che qualcuno si interessa di lei c’è, io per esempio. Sta composta, gambe accavallate, ogni tanto porta il fazzolettino al naso, sente anche lei la stagione, è qui per la vaccinazione. L’anno scorso sono stata miracolata, dice la sua vicina, perché mi sono vaccinata in tempo. La signora Cagnin  non le dà retta, non la conosce, non le interessa. Le risponde la signora seduta a fianco dall’altra parte. E’ intrappolata in mezzo, s’intreccia un dialogo inutile, che non interessa a nessuna delle due, ma serve per non sentirsi a disagio in un posto in cui tutti hanno qualcosa che non va e aspetta un parere. C’è la privacy, per carità, i pazienti non entrano per nome ma per numero, anche se ci si conosce tutti. Nel cicaleccio, nel mormorio che serpeggia se punti una persona ti accorgi che senti solo lei. Così vieni a sapere tutte le sue malattie, tutti i ricoveri, suoi e della famiglia, senti le terapie e i consigli e i nomi di patologie che solo guardando a casa in internet scopri cosa sono. Ti viene voglia di alzarti e andartene, per quel giorno hai scoperto abbastanza. Solo che senza ricetta non vai da nessuna parte, devi aspettare il tuo turno. La maestra Gaspari di Sambruson si siede di fronte, ciao, ciao! Anche la signora Cagnin ha trovato un’interlocutrice all’altezza con cui parlare. La signora Cagnin giudica i gradi non dalla cultura, ma dal portafoglio e suo marito ce l’ha. Come sta tuo marito? Parlano degli assenti. Sì sì, anche il mio. Le vicine ascoltano, aguzzano, ma non afferrano. E tua figlia? Beh è al terzo mese. Bene bene. Dove sei stata questa estate? In Grecia, vedessi che mare, e tu? Sono stata con Giovanni a Maiorca, ma non mi è piaciuta. Per il clima? No no per la gente, tutti italiani, capirai, mi sembrava di essere a Mestre. Dice Mestre, perché ha incontrato soprattutto mestrini, che sono diversi da veneziani. E inizia una conversazione extra sanitaria, si dilunga sottovoce sui difetti di conoscenti di piazza Ferretto. Persone che nessuno conosce, ma che dette sottovoce sembrano importanti. Le due signore a fianco sono ammutolite, una entra in ambulatorio, l’altra cambia posto. Il suo posto è occupato precipitosamente da Gastone, agricoltore di Sambruson, sorride quando ha voglia di scherzare, si rabbuia  quando è arrabbiato, cioè spesso. Ma quando scherza, lo fa di gran voglia, dimenandosi e gesticolando e prendendosi piccole libertà, convinto che tutti siano d’accordo, lo permettano. Ehilà, dice alla maestra Gaspari, già insegnante di sua figlia Giuditta. Si ricorda i colloqui scolastici, le ramanzine,  i rimproveri, i consigli di quando andava ai colloqui. Non era brava Giuditta, era piuttosto distratta, di poca voglia, faceva il meno possibile, non perché non volesse, ma perché proprio era scarsa. La maestra nei colloqui diceva invece: è intelligente, manca solo di impegno. Ce la farà, ce la farà,  è tutta suo padre, vedo che me la cavo senza conoscere l’inglese e le tabelline, mi arrangio con le dita e il mais lo vendo al mulino degli Scapineto a Sambruson, parlando in dialetto. La maestra Gaspari sente abbassarsi il suo livello sociale a livello di un lavoratore della terra, vorrebbe cambiare posto, ma l’altro la blocca. Maestra, vorrei chiederle un favore, ma ci vediamo dopo. E’ il suo turno dal dottor Gallo.  Esce la signora Cagnin, la chiama: aspettami, esco con te. E’ infastidita! E la visita? Ti spiego. Escono gesticolando. Doveva solo ordinare una confezione di cardioaspirina, ma in farmacia gliela forniscono anche senza ricetta. In ambulatorio è come dal barbiere, si parla di tutto, si tranciano sentenze, si conoscono tanti difetti dei clienti appena usciti. Ma non si può star lontano, a volte hai bisogno. Di una sfumatura? No no, del pettegolezzo.

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Non puoi alzare la testa per guardare se pioverà, e lo puoi fare direttamente, senza guardare il meteo, che vedi la tenda al terzo piano che si muove, che si chiude. Vuol dire che la signora Maria Elena era alla finestra, stava spiando, osservando, congetturando. Perché? Così! Non ha niente da fare. Non legge i giornali, non guarda televideo, non ha parenti, non ha amicizie, mangia cioccolatini in continuazione. Sia d’inverno che d’estate, chiude la sua porta d’ingresso a doppia mandata alle cinque della sera e mette l’allarme. La signora Giuseppina, anch’essa sola, ha novanta anni, porta a fianco, si meraviglia, non teme niente, tranne i temporali. Maria Elena è  molto robusta, è grassa, diciamo gonfia, per qualche disturbo fisico evidente, ma che nasconde bene. La gente della piazzetta ormai lo sa e qualcuno finge di partire poi ritorna, muove la mano per salutare e non c’è nessuno, chiama forte, lei si sporge e non c’è nessuno. Ha un bel da fare, perché ci sono quarantaquattro famiglie. E’ sola al mondo, molto ricca, di una avarizia straordinaria. Viene da Jesolo, si è sposata a Dolo, non ha figli. Se c’è una persona che concorre nello spiare la gente che passa è Mario Caporale, ma non arriverà mai al suo livello, anche perché abita al secondo piano. Il marito quando esce in bicicletta, prima di salire in sella, alza la testa e la saluta con una mano, sa che lei lo vede, anche se nessuno la vede. Se due persone si fermano a salutarsi o a parlare vicino alla cassetta della posta e al citofono, senti il clic della cornetta che si alza, lei ti sta ascoltando. E’ curiosa di segreti, spia con un cannocchiale dentro le stanze degli altri, si nutre di pettegolezzi che non le servono, ma la appagano, la vedi poco, parla ancora meno: buongiorno, signori! e basta. Mai sentito che dica buona sera, perché di sera è già in ritirata. Suo marito deve essere marito di secondo letto, perché era sposato, ora separato o divorziato, non lo so, non gliel’ho mai chiesto. Ha una figlia che lo fa disperare, anche se deve avere circa quaranta anni, quindi adulta, non bambina. La signorina è dipendente USLL a Padova, ma sono mesi che non va a lavorare, stress!  potrebbe arrivare il licenziamento in tronco. Suo padre che un buon uomo, nella misura in cui sua moglie glielo permette, teme che un giorno si presenti alla porta di casa e non se ne esca più. Con due donne simili in casa sarebbe impossibile  vivere. Speriamo bene, dice. Spera cosa? La signora Maria Elena ti saluta con un sorriso stereotipato, con due occhietti da Paperone che ti scrutano, che ti valutano, che ti pesano. Guarda i centesimi nei pagamenti e li pretende. Diceva suo padre, l’ha raccontato lei stessa! Chi non varda el scheo non vale un scheo. Questa è la sua massima di vita. Suo padre arricchitosi durante il regime, le ha lasciato un patrimonio di fabbricati, di cui si sussurra, ma di cui nessuno sa niente. Potrebbe anche non essere vero. Ha un solo timore che un giorno possa, in qualche modo, ereditare la figlia del marito che più volte l’ha sputtanata dal citofono, ma nessuno la apre. Le contraddizioni della vita! Chi i figli li ha è come non li avesse, chi li ha perduti è come li avesse ancora, sempre. Se queste piccole memorie le conoscesse José Saramago ne farebbe un poema, io mi limito a raccontarle come le so, come le vedo, semplicemente. Quest’ultima parola è scritta nel risvolto del libro che ho già citato e  la colgo. Messa in quel posto, in quel momento, mi sembra di una chiarezza espressiva potente. E’ il “la” del corista, apre la danza. La “balena bianca” non potrà mai avere questi tremori, questi gusti, questi patemi. E’ insignificante, semplicemente. In privato, come tra adepti, è chiamata Moby Dick, perché la sua faccia enorme, i suoi capelli di un baio chiaro, i suoi occhi accigliati, le sue tristi passioni le meritano il nome e il simbolo. Negli ultimi anni, una decina di agenzie immobiliari hanno portato clienti a visitare e per acquistare il suo grande appartamento, sufficiente per sei persone, ma tutte se ne sono andate perché le famiglie o sono giovani o sono troppo anziane, non si possono indebitare oltre il bisogno. Crede che il valore di un immobile aumenti sempre e non scenda mai, è sempre lo scheo che la inguaia, a volte ci guadagni perdendolo. Ora la signora Maria Elena sembra l’abbia capito, è disposta a rimetterci per guadagnare in libertà, cercando una casa piccola, comoda, in un ambiente nuovo al piano terra. Ma gli acquirenti stanno fermi, aspettano, sono come le iene nella savana, attendono che la gazzella cada da sola. Così resta prigioniera al terzo piano e guarda il mondo con il cannocchiale.

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Il primo bacio a una donna lo puoi dare se anche lei è d’accordo. Un bacio tra ragazzini è lieve, se convinto, accettato, perché profuma di sorprese future che neanche sai quali possano essere. Ma sai che ci saranno. A scuola le scritte sui banchi intagliati si sprecavano, le parole sulle porte e sui muri dei bagni erano scritte con decisione, con indirizzi chiari, a volte corretti o marcati. Un bacio è diverso, dipende dall’età, dall’amicizia, dal coraggio. Il problema mi si è posto la prima volta a dieci anni, vacanze estive, frotte di ragazzi e ragazze della contrada che si trovavano sbandati senza studi, senza custodie, senza lavoretti da svolgere. Lungo la ferrovia che passava per Sambruson, e che tuttora passa ma non so per chi, visto che le fabbriche di Marghera non ci sono più, visto che i turisti preferiscono altre linee per andare a Mestre o a Venezia, forse serve agli studenti delle scuole superiori che partono molto presto dalle campagne per frequentare gli istituti di lingue straniere. Una volta in queste terre c’era solo il dialetto, poi si cominciò a parlare in lingua italiana, adesso occorre parlare inglese, francese, tedesco, spagnolo se vuoi capire il significato delle parole nuove che si sentono in tv o che trovi sui settimanali. Poi ci sono le vacanze o le visite di studio, diciamo pure gite scolastiche! A Berlino, a Parigi, a Barcellona a Londra dove vai per sentire gli accenti e le inflessioni nella madre lingua. Quando eravamo bambini, finite le elementari, se si può dire, soldi non ce n’erano, così di vacanze non se ne discuteva nemmeno.  La fiammella che ti faceva  guardare l’altro sesso diventando rosso si accedeva già tra i banchi di quinta. E soprattutto alle scuole medie. Quando insegnavo in quinta a Sambruson, tra ventisette ragazzi c’era il più precoce, c’era la ragazza che primeggiava a cui piaceva essere guardata, corteggiata. Fingevo di non vedere, perché l’avevo fatto anch’io e perché non ne valeva la pena disturbare due ragazzi che si piacciono, senza far niente. Una volta sola mi intromisi perché un biglietto lanciato dal quarto banco, invece di cadere sul secondo, rimbalzò sul primo, ci fu un piccolo trambusto. Chiesi cosa stesse succedendo e Lolita mi portò un foglietto piegato e ripiegato con la scritta ti volio bene. Me lo porse, perché quel simpaticone di Paolo Massaro non gli piaceva e perché bigliettini ne mandava a tutte. Lo presi in mano: di chi è? le chiesi. Paolo alzò la mano subito. Vieni qui. Con la penna rossa gli misi la g dove mancava. Stai attento un’altra volta. E ripresi la spiegazione degli aggettivi qualificativi. Lungo la ferrovia, dicevo, andavamo di corsa sul troso dove, a volte i grandi passavano in bicicletta per accorciare tra Calcroci e Porto Menai, ma anche gareggiando a braccia alzate camminando sulle rotaie. C’era sempre uno di guardia che gridava: attenti, vaca mora! La vaca mora era il treno nero che portava le merci, la littorina portava le persone. Allora tutti giù dalla riva. In una di queste precipitose discese dalla ferrovia mi trovai abbracciato a Ofelia, una ragazzina rotondetta, capelli al vento, arrossata, ansante venuta dai nonni Albertini da Rosara di Codevgo. L’avevo già adocchiata tra le altre, mi piaceva, e non so neppure cosa volesse dire. Penso che lei provasse la stessa simpatia, perché non era per caso che ci trovavamo spesso a correre vicini, a toccarci, a spingerci. Eravamo stesi sull’erba, convinti di nasconderci dal macchinista, gli altri erano già risaliti, noi d’istinto ci guardammo fissi, ci demmo un bacio spontaneo sulle labbra. Ti piace? mi chiese. Sì! dissi. Anche a me! Alla fine stanchi, sfiniti, a piccoli gruppi rientrammo nelle nostre case. Erano i primi anni del dopo guerra, la mamma di Ofelia si  ammalò e rientrarono a Rosara. Sentii parlare sottovoce della sua malattia. Brutto segno! Non chiesi nulla per non svelare il mio innocente segreto, su cui avevo già cominciato a fantasticare. Da nonno Gino Albertini, Ofelia cominciò a diradare le visite, poi non la vidi più. Provai a intrufolarmi tra i discorsi dei miei genitori e seppi che la mamma era gravemente ammalata, che la famiglia si era trasferita nel ferrarese. Di Ofelia non seppi più nulla, mi rimase a lungo il ricordo del suo innocente bacio e del mio primo turbamento. Questa raccolta di pensieri non è altro che il mio caleidoscopio, mostra ciò che ho visto, ma se lo raccontassi domani molto cambierebbe e molto di ignorato apparirebbe, perché pur essendo tutto vero, cambia la passione, lo stato di salute, il livello di rammarico per le molte cose che potevano essere e non sono state.

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Elio del pane percorreva la mia stessa stradina tra i campi, io per andare a scuola, lui per vendere il pane, non aveva bilancia e contava i pezzi, raccoglieva il costo, ma per alcuni era autorizzato a riscuotere a fine mese. Aveva una grossa cesta attaccata al manubrio, correva sempre forte perché non poteva perdere tempo in chiacchiere. Aveva altre strade, altri clienti  da accontentare. Partiva dal forno Segato al Ponte, percorreva via Galilei che si chiamava ancora via Calcroci, anche se di questa strada era un vicolo lungo più di un chilometro. Portava una matita copiativa sull’orecchio destro, la sua scrittura non si poteva cancellare, scriveva solo  il numero di ciope sul libretto dei debiti, se lo capovolgeva scrivevi l’incasso giornaliero, poi si aggiornò e cominciò a scrivere il nome del cliente in ordine alfabetico della rubrica. Fu una conquista per lui, ma in  realtà era un modo per affrettare il suo lavoro e dimostrare che il forno al Ponte era più efficiente di quello in piazza Brusaura. I fornai si alzano alle quattro del mattino per fare la levata del pane, fare le forme, infornare, cuocere e rovesciare nella grande madia in bottega. Il forno al Ponte era il più frequentato perché aveva una vasta area da fornire, si serviva di garzoni in bottega e nella distribuzione nel paese. Prima ancora di entrare nell’aia gridava a gran voce: pane pane. Le massaie uscivano, aprivano il grembiale, dicevano quanto e rientravano. Di pane buono ne facevano anche loro nel loro forno nella cucina economica a legna, ma non aveva lo stesso profumo anche se, per non illudere i ragazzini dicevano che il pane fatto in casa era il migliore. Inventarono anche un proverbio e così di un’usanza si fece una storia. Si capì che le famiglie contadine cominciavano a migliorare la loro condizione di sudditanza osservando quanto pane comperavano. Elio forniva anche una parte della via Casin Rosso di Sambruson, passava dagli Albertini e dai Meneghin, Arzarini di soprannome, perché avevano casa a mezza costa dell’arzare, dell’Argine sinistro, serviva tutta la via e ritornava a ricaricare la cesta al forno e s’avviava per via Marinelle e via Brentoni. Per creanza e per conquistare la simpatia della gente dava del lei a tutti anche ai ragazzini delle corti contadine. Andava tutto bene, poi, di punto in bianco, cambiò mestiere, ma veniva lo stesso in via Casin Rosso, di sera, si fermava dagli Albertini: aveva cominciato a discorrere con Carmen la figlia di Arturo. Si sposeranno qualche anno dopo. Incontrai Elio, anni dopo, in ospedale a Dolo, ma ora si chiamava Egidio. Mancando la ricchezza dai campi, le famiglie li abbondavano nella ricerca di altri lavori. Faceva l’infermiere! Siringhe, garze, cerotti, fiale erano il suo nuovo pane quotidiano. Seguiva i medici nello giro di visita, dava del tu a tutti gli ammalati e a chi non conosceva. Il camice e il termometro in mano gli avevano dato potere,  così poteva permettersi la maleducazione portata con fierezza, con disinvoltura, come titolo di lavoro conquistato con fatica. Allora non era considerata sconveniente la confidenza con il malato (che poi tutta confidenza non era), succedeva sempre con chi stava in basso, con chi era sottoposto, capitava a scuola, in caserma, in ospedale. Il giorno dell’Immacolata, uscito dal duomo con Silvana, attaccato al suo braccio, perché sono sempre più traballane, mi sono fermato a porgere la mano alle persone care che mi si sono avvicinate. Era tanto tempo che non ci incontravamo, sposta tutti, sposta Silvana, mi abbraccia, solo me abbraccia, parla e non capisco cosa mi voglia dire. Viene don Giuseppe Cassandro, cappellano dell’ospedale di Dolo, si lancia a parlare con lui. Resto con la mano alzata, mi saluto da solo. Don Cassandro mi ignora, nonostante ci conoscessimo bene. Per mia fortuna ogni tanto mi telefona, e parlo con lui a lungo e a cuore aperto, don Francesco Santinon. E’ stato parroco a Sambruson, attivo e generoso, sempre disponibile, nonostante la sua nota infermità. Ora è parroco a Valdobbiadene, terra del prosecco, un po’ lontano dal centro della diocesi di Padova. Spero sia lui a celebrare le mie esequie, quando sarà.

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Mi sarebbe piaciuto viaggiare di più, ma avevo sempre qualcosa da fare. Da ragazzo mi sarebbe piaciuto visitare il Congo, risalire il fiume e sostare sotto le capanne degli indigeni, imparare a pescare su  barche a fondo piatto, conoscere gli elefanti del Serengeti e i bufali durante la loro transumanza di ottobre attraverso il fiume Mara, dove li aspettano i coccodrilli. Mi sarebbe piaciuto osservare da vicino le nevi del Kilimangiaro. Mi sarebbe piaciuto ripercorrere il viaggio dagli Appennini alle Ande di Marco per essergli a fianco da Genova a Buenos Aires e a Cordova, da Cordova a Tucuman per salvare sua madre morente. Durante il viaggio incontra genti ospitali e gente  che lo umilia, che lo rifiuta.  Avrei chiesto: perché? Tante volte mi chiedo perché! Mi sogno di questi viaggi e mi perdo in essi, trepido con i personaggi e sono felice quando lo sono.  Di recente sono stato in viaggio a Macondo alla ricerca del colonnello Aureliano Buendìa per sentire se ci sono novità. Tutti abbiamo bisogno di novità, il passato l’hai passato e guardi in avanti, senza nulla dimenticare. Nella stravagante storia di Gabriel Garcìa Marquez penetro con facilità perché il mistero mi piace e non mi spaventa. Mi piace da subito suo padre che paga dei centavos per mettere le mani sul ghiaccio mai conosciuto e ne paga perché i figli possano fare altrettanto. I sogni non durano molto, sono frettolosi, ma sono sufficienti per metterti l’appetito di continuarli come se fossero veri. Mi è capitato di riprendere un sogno interrotto da un volgare bisogno, da un balcone che sbatte, da un motore che s’avvia. Può passare anche molto tempo, ma so che se voglio, se ci penso riprendo il viaggio interrotto. Nella silenziosa baraonda in cui vivono i sottoposti può succedere di tutto e sembrare vero. Vedi chiaramente il tuo percorso, senti le voci, ma i volti sono sfumati, sfuggono, si allontanano, non tornano. Nel dormiveglia ho pensato più volte a Macondo e del padre di Aureliano Buendìa, la sua gente in un lungo viaggio per vedere cosa c’era di là della boscaglia e della palude, ma non incontrarono mai il mare. Il mio viaggio inizia in modo puerile, a cavallo di una bicicletta senza fanali e senza freni che va verso ovest, chissà perché verso ovest. All’inizio conosco i luoghi, poi mi perdo, la luce è fioca ma ho fiducia, perché mi sento in compagnia, ma non so di chi. Posso dimenticare, buttare tutto. No! Non lo faccio, tutto ha un significato. Cercalo, trovalo, rifletti! Puoi sbagliare? Certo, ma non desistere, tutto ha un senso e, se non lo trovi, giustificalo! Nelle mie scorribande notturne attraverso il Serengeti, Tucuman, Macondo ho cercato una luce lontana, più avanti che mi affascinava, mi attraeva, che mi offriva nuova conoscenza, un nuovo aggancio che neanche sognavo, che appariva improvviso, indispensabile, afferrabile. Il cerchio si chiude sempre, allora ricomincia da capo con un  altro punto al centro. Sono vissuto per molti anni in un paese come Macondo, senza nome, senza storia, con gente affogata nelle zolle degli altri per cercare sotto terra il pane da mangiare. Pur essendo vicino al mare ho visto il mare a undici anni. La zia Amelia, santa donna, mi portò a Venezia a salutare una sua amica suora. Era una scusa, non la conoscevo, non mi interessava. Da S. Marco andammo alla Salute in barca, perché il vaporetto era troppo caro e aveva orari scomodi.  Mia zia mi diede una palanca per pagare il barcaiolo. Eravamo con altri, arrivati alla Salute, presi il soldo, lo porsi al rematore, mi cadde in acqua, lo vidi dondolare nell’acqua limpida e affondare nel fango. Presi uno scappellotto dall’uomo. Questo è quanto ricordo della visita in laguna e a Venezia. Tornai a Sambruson che allora era ancora senza nome. Per caso m’imbattei negli scavi di via Carrezzioi, andando a scuola in bicicletta al Palazzo dei Leoni. Stavano recuperando reperti archeologici di epoca romana, palafitte, ceramiche, scheletri umani. Fu così che venni a conoscenza di Quinto Fabio Volsio, il più antico abitatore di Sambruson, vissuto al tempo dell’imperatore Adriano, la sua lapide fa da poggiolo a nord di un balcone dell’hotel Cà Zane Martin al Ponte. Chi fu? Cosa faceva in queste terre, in questo paese senza nome fin da allora? Per avere una lapide scritta doveva essere importante, ma noi non lo sappiamo. Anche le nostre genti vivevano, sono vissute per secoli a Sambruson e non ne sapevano il nome perché non c‘era, eppure loro c’erano. Di qui sono passati Unni e Vandali, Goti e Longobardi, zingari, stranieri, alchimisti e fattucchieri con storte, alambicchi e denti d’oro e altri compagni di viaggio che, toh! arrivano e spariscono. Quando spariscono i tuoi interessi per le cose, per le genti, per i sentimenti, vuol dire che invecchi e scompari. Bisogna essere innamorati sempre perché non invecchi mai, invecchi solo se non ti innamori più, non ti interessi più di nessuno, di niente. La felicità non è vivere in cima alla montagna, ma la scalata, la fatica. Questo mi ha detto Gabriel Garcìa Marquez. Questo cerco di fare, e mi è molto faticoso, ma solo così la mia festa continua.

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Nel sestiere San Polo a Venezia andammo a visitare la Scuola Grande di San Rocco dove Jacopo Robusti, o Jacopo Comin, dipingeva le sue  magnifiche tele. Temuto anche da Tiziano Vecellio, dovette ingegnarsi a scoprire i segreti del mestiere usando i colori che trovava nella bottega di suo padre tintore di panni di seta. I soprannomi  non sono una novità nel Veneto, fu così che il giovane Jacopo fu chiamato “Tintoretto”. Il mio interesse si riaccese anni dopo quando andai ad abitare in via Tintoretto a Dolo e quando raccontai la storia dei ragazzi miei compagni delle Marigate nel romanzo “Addio alle fionde”. Erano tutti ragazzi della mia età, poi arrivò Elisabetta,  coetanea, veneziana del sestiere San Polo, emigrata a Sambruson presso i parenti della madre. Negli ultimi mesi di guerra in campagna c’era da mangiare, mentre in città era più dura, si doveva ricorrere al mercato nero. Nelle nostre ore libere dai compiti e dall’aiuto nel lavori dei campi, passavamo i nostri giorni nei giochi di contrada. Ogni contrada aveva la sua banda, i cosiddetti “Tacchini”,  in senso spregiativo avevano per capo Lavoro. I loro antagonisti avevano un drappo giallo ai fianchi come bandiera, come simbolo, erano più spavaldi dei Tacchini e avevano un capo formidabile che si faceva temere solo con la sua presenza: Scannabisse. I ragazzi della banda delle Sciarpe Gialle non erano molto numerosi, ma erano meglio organizzati con capi e sottocapi, ogni gruppo aveva dei compiti precisi, si trovavano anche di sera e accendevano dei falò nel loro campo di raduno e stabilivano cosa fare il giorno dopo. I Tacchini erano molto numerosi, più giovani degli altri e molto disorganizzati. Le loro iniziative di gioco non erano pensate, studiate, erano improvvisate, agivano in massa coprendosi e giustificandosi a vicenda. Settebello mi chiamavano, ed era questo il mio terzo nome e avevo la sciarpa gialla. Elisabetta si trovò arruolata con i Tacchini semplicemente perché i suoi parenti abitavano sulla riva sinistra del fiume, si aggregò ai suoi senza riti di propiziazione o esami di ammissione. Combatteva con loro, impugnava la fionda con maestria, con spade di legno corte, con la punta avvolta da una stoffa, facevano scherma senza sapere con chi e perché, bastava esserci, chi perdeva rinviava la rivincita al giorno dopo. Non si lamentava mai e accettava qualunque sfida, perché sapeva che solo così partecipava, era presente, non era scartata. Nei frequenti contatti con le Sciarpe Gialle per la conquista del territorio, era in prima linea, arrossata e spiritata si batteva a graffi e spinte tanto da essere temuta. In uno scontro diretto tra noi due mi strappò la sciarpa, tirammo ognuno dalla sua parte, alla fine restammo con metà ciascuno. Risultai sconfitto da una donna e lei vincitrice: aveva strappato una nostra bandiera. Questa vicenda ha altri risvolti interessanti che non voglio raccontare, non è il momento. Terminò l’anno scolastico, passammo vacanze d’incanto, poi il meraviglioso Valentino, Scannabisse, morì nel Brenta per salvare una bambina che stava per annegare. Le bande furono sciolte, furono proibite, molti di noi, di ambedue le rive, ci incontrammo sul ponte, lasciammo cadere le fionde nella corrente del quieto fiume. Demmo addio alle fionde e all’età dei giochi, incominciava l’età del lavoro.

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Il giorno di S. Lucia si smentisce raramente, i proverbi lo garantiscono, è il giorno più freddo che ci sia. Nel boschetto di via degli Orti ci sono tre aceri e un rododendro, un alloro, un ulivo, ci sono anche tre abeti rossi tozzi e accorciati che nessuno osserva. C’è silenzio intorno, la bora fischia nei camini e sparpaglia i fumi lenti, filtra tra i reticolati, gela le ultime erbe rimaste dritte nel prato. Cadrà la prima neve stanotte e niente sarà più come prima in questo angolo di mondo che molti guardano e non vedono. Il silenzio è un annuncio, gli uomini scaldano i radiatori, una ragazza incappucciata rientra frettolosa con la spesa, le case chiudono le serrande, il bosco si prepara a dar voce alle creature che s’intendono senza parlare, che non sono in un angolo,  là stanno a casa loro, l’estraneo sono io. Osservano tutto il giorno, si intendono con un linguaggio tutto loro chiedendosi tante cose su di noi. Passavo di qua verso sera e ti ho sentito mormorare, alloro, ad altezza d’uomo, ti ho visto crescere, eri in un vaso di coccio quando ti hanno messo a dimora sul vertice di due aiuole. Non sei superbo, come la tradizione vorrebbe far credere. Vedi, le tradizioni se sono raccontate con tuoi ricordi hanno un senso, se le tradizioni sono inventate allora conviene rifletterci un po’. Nel vaso eri diviso in tre rami, qualcuno ti osservò girandoti attorno prima di potare i due rametti più deboli. Hai cominciato a crescere, a farti bello e lucente quando i raggi del sole cadono perpendicolari alle tue foglie. Sì, è vero, non mi posso lamentare, rispose. Essere ignorati, per noi alberi, non è una tragedia, se ci lasciate crescere secondo la nostra natura non ci sono storture o guai, certo chi è più alto fa ombra e toglie l’aria a chi è più piccolo, come ovunque, come da voi uomini, immagino. Ma per chi è nato per vivere nel sottobosco, non c’è posto migliore. Questo gelo che avanza, non mi preoccupa, non mi toglierà certo il respiro né distruggerà la mia linfa, la mia scorza sarà la mia difesa, spero solo che la roncola del giardiniere, nella stagione che voi chiamate morta, stia lontana e non mi riduca a suo piacimento, che non è mai il mio. Vedi, amico alloro, dice l’oleandro, per mia natura mi esprimo in tanti ramoscelli dritti, le mie foglie non sono caduche, come le tue del resto, la mia specie ha un abito confezionato da altra mano che ama l’assemblaggio dei colori e dei contorni dei paesaggi. Sentiamoci ogni tanto che fa bene a tutti scoprire che non si è soli, perché a tutti fa male la solitudine. Questo non è il nostro primo inverno, interviene un acero, anch’io so come passare le notti buie e tempestose o come sopportare i temporali e le nevicate. Parlo di sopportazione per farmi intendere da voi umani che avete altra misura per le parole, per noi piante non esiste sopportazione in questo senso, per noi sentire lo scroscio di un temporale, sentire gocciolare i rami all’apparire dell’arcobaleno è un ristoro. Hai ragione, disse il più alto degli abeti, noi tre fratelli ci siamo trovati qui per caso. Le nostre voci, il nostro stormire si diffonde ininterrottamente e le nostre storie sono note ovunque nel nostro mondo. Io  mi chiamo Alta Cima, vengo dalla Val di Fiemme, i miei fratelli sono Media Cima e Piccola Cima. Il più piccolo proviene da Saonara dove piantano alberelli per l’albero di Natale. Il secondo invece arriva dall’Austria, continua a raccontare il più alto, doveva finire in una segheria, poi ci hanno preferito metterci  vicini ed è un gran piacere. Qui sono il più alto, sono uno dei pochi superstiti, rimasto sbilenco dopo la furia del tornado, non sarò più un violino d’orchestra, ma neanche come molti fratelli finiti in fastelli anzi tempo. Sono stato regalato al vostro Comune che mi ha alloggiato in questo modesto boschetto. Ci raccontiamo le nostre storie, i nostri malanni, i nostri paesaggi, non ci lamentiamo perché così è la vita di chi vive un po’ di qua, un po’ di là fin che arriva la motosega. E’ tutto stabilito, tutto segnato, però intanto godiamoci questa nottata da montagna. L’ulivo, balbuziente per l’aria di bora a lui sconosciuta, disse la sua, con rispetto perché si sentiva estraneo al clima di tramontana. Vengo dalle terre d’Otranto, vengo dalla lontana Puglia, ho percorso centinaia di chilometri sbattuto sopra un camion con altri fratelli, con poca terra ai piedi, che noi chiamiamo radici, sono finito nel giardino di un ricco signore qui vicino, che niente conosceva degli ulivi. Mi esposero per bellezza su un piedistallo di terriccio e di sassi convinti che quello fosse il mio humus. Cominciai a deperire e prima di morire mi buttarono come una fascina. Mi sentii morire, ma un ragazzo  mi colse e mi piantò di soppiatto in mezzo a voi. Non è cambiata la mia condizione di vita, non basta la buona intenzione per sopravvivere. Conoscete, fratelli miei, qualche saggio che faccia le cose giuste, che io lo possa ispirare e mi possa riportare nelle terre d’Otranto? Fu a questo punto che decisi di intervenire con calma per farmi intendere, perché non è facile parlare un’altra lingua, anche se la puoi intendere. Non disperare, caro Ulivo, ti tratto da persona, da pari a pari, perché mi prendo a cuore la tua storia e ti dico che conosco un signore che vive a Bari in via Mediterraneo, si chiama Gianni Picella, conosce tutto degli ulivi, le loro necessità, i loro frutti, come difenderli da chi li vuole espiantare e trasferirli al freddo nord per agghindare un giardino che non ne ha bisogno. E’ una persona meravigliosa, fa del bene a tutti, vuoi che non ne faccia a te ulivo suo amico? Un momento! Non ti distrarre troppo! Chi è che parla? Sono il capo acero che hai di fronte, non ti occupare di noi, stiamo bene dove siamo e come siamo. Per aiutare qualcuno bisogna conoscerlo bene per non disturbare la sua quiete. E’ vero anche questo, starò attento! dissi. La nostra offerta se è estranea, se non è necessaria, disturba. Oggi mi fai ricordare mia sorella Letizia, di quando si chiamava Lucia ed era in questo mondo, dove sei ora sorella? Avevi i piedi freddi e li scaldavi con la borsa d’acqua calda. Nel giorno del tuo onomastico c’è qualcuno che pensa a te?

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Era un ragazzo benvoluto da tutti, perché stava sempre con i più giovani e li aiutava, si amalgamava con loro, metteva pace se c’erano litigi, con facilità, con poche parole sorridendo. Aveva una frase tipica che ripeteva spesso: noi giovani! Così dicendo ci faceva scudo, si assumeva la responsabilità di chi era perdente e si presentava come suo difensore, era una persona che si assumeva la responsabilità anche per te. Quando c’erano ragazzi più grandi, più spavaldi diceva subito il suo motto: noi giovani! In questo modo dichiarava la capacità di rappresentarli, di renderli più tranquilli, perché lui era tranquillo. Si chiamava Candido Semenzato, Rossi in paese, aveva un vocione da anziano che ti bloccava un attimo, era sufficiente per smorzare l’irruenza o la timidezza. Tutti volevano bene a Candido. Quando nacque la squadra di calcio, lui non fu ne portiere ne ala sinistra, perché non era agile e perché non gli interessava il calcio. Gli interessavano i ragazzi più giovani da aiutare, da consigliare ovunque entrando con il suo motto: noi giovani. Tutti capivano che non sarebbe mai stato un concorrente per la maglia, ma sarebbe andato bene come accompagnatore. E così fu. Aveva un accento mestrino, mentre a Sambruson si parla con accento padovano, anche le diocesi sono diverse: noi dipendiamo da Padova, la confinante Mira da Venezia. Accompagnava la squadra nelle trasferte, aiutava l’allenatore, collaborava nei trasporti, firmava i moduli, era presente agli allenamenti. Se qualcuno lo vuole conoscere osservi le foto ricordo della Ambrosiana calcio, è presente con un altro anziano collaboratore: Alfio Organo. Basta guardare “sambruson storia” Ambrosiana soci fondatori, nel sito di Luigi Zampieri. Quando crescemmo cambiarono molte cose, si mise in retroguardia, non volle mai assumere incarichi per i quali non si sentiva adatto. In politica fu in nostra compagnia, ma senza cariche, al massimo fu delegato aspiranti di azione cattolica, aiutando sempre i più giovani con una buona parola, un buon esempio. Andò a lavorare alla Mira Lanza come operaio e poi come caposquadra, allora cominciò a cambiare linguaggio. In fabbrica era tutta un’altra vita, c’era fatica, c’erano turni da rispettare, rischi da temere, sindacati da ubbidire. Continuò a pronunciare il “noi giovani” ma con più enfasi, con un tono più aggressivo e partecipato. E i giovani non erano più i ragazzi di paese, del calcio, di contrada, ma erano i compagni di lavoro. A dire compagni di lavoro nei nostri anni giovanili significava esprimere una collocazione politica di sinistra. Molti gli furono accanto, aiutò qualcuno a trovare lavoro in  fabbrica con l’appoggio socialista, altri si allontanarono. Chi non ha lavorato in fabbrica non può capire il dispiacere dell’isolamento se non accettavi supinamente di far parte attiva dei gruppi dominanti, se ci pensavi due volte a scioperare. Me lo raccontò anni dopo mio fratello Eugenio che, dopo la Mira Lanza, andò a lavorare alle Leghe Leggere a Marghera. L’isolamento in fabbrica significava non partecipare alle riunioni, essere escluso dai turni di ferie agevolate, non fare ore straordinarie, significava sentirti cadere un tubo pesante alle spalle e non capire perché, fin che ti arrendevi alla massa e una spranga alle spalle non cadeva più. Candido cambiò umore, era più taciturno e se parlava era solo per raccontare le lotte degli operai schiacciati dai padroni e dai capi reparto.  Divenne sindacalista e non parlò più di “noi giovani”. Mi dispiacque perché non sembrava più lui. Solo tardi compresi, i nostri comportamenti si erano divaricati: un conto era lavorare in fabbrica, un conto era andare  a studiare e lasciare alla sera, sul tuo tavolo, i libri aperti invece delle maschere e delle chiavi a stella. Poi accadde un fatto, che ricordo ancora molto bene, in cui feci una figuraccia. Sua nipote Clara annunciava il fidanzamento con un nostro compagno di scuola, Costantino Saccarola. Andammo a casa sua, giunsi come al solito in anticipo e solo allora mi accorsi che tutti portavano qualcosa, chi un dolce, chi una bottiglia di vino, chi della frutta, chi un pacchetto; mi sentii arrossire, mi misi ai margini e stavo per andare ad acquistare una guantiera di paste, quando Candido mi fermò. Va bene così, mi disse, sarà per la prossima volta. I casi della vita, si sa, sono crudeli, perché spesso ti separano da persone che non vorresti mai, ma che non puoi evitare. Candido cessò di frequentare Sambruson, cominciò a frequentare la chiesa di Mira dove poi si sposò. Quando cessarono i suoi giorni, il funerale fu celebrato a Mira, molti di Sambruson andammo alla cerimonia funebre. Poi su Candido calò il silenzio. Ritengo importante metterlo nelle mie piccole memorie di quando stavo a Sambruson, semplicemente. I ricordi sono come i ghiaccioli appesi ai rami, d’inverno, sono come stalattiti: si sciolgono, cadono e svaniscono.

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Quando stavo a Sambruson, mia mamma Giustina mi svegliava alle cinque per andare a scuola a Padova. Dormivo accanto a mio fratello Eugenio, che aveva sei anni di meno, lasciavo il calduccio, uscivo fuori dalla coperta e entravo in un clima ambiente rigido, non c’era riscaldamento nelle case contadine. L’acqua a volte era ghiacciata nel catino. Ripassavo un attimo le declinazioni dal libro di grammatica latina al lume a petrolio, operazione assai rischiosa, ma dovevo. Mi capitò una volta di avvantaggiarmi nel ripasso, deposi la coperta che mi copriva le spalle ed entrai di nuovo sotto le lenzuola, solo un poco, mi dissi. Presi sonno e mi svegliai tre ore dopo, in pieno giorno, pioveva forte da un cielo impenetrabile. Mia madre mi portò una scodella di latte caldo, mi tastò la fronte, mi consigliò di stare sotto le coperte, perché avevo la febbre. Mi tastai la fronte, era calda, ero tutto rosso in viso, deglutivo male. Devi stare a letto due tre giorni fin che ti passa, mi disse mia madre. Avevo una brutta influenza, tosse e catarro, restai a letto tre giorni, al quarto, bianco come un straccio, e con una bella giustificazione “problemi di salute”, ritornai a inforcare a bicicletta per andare a scuola. Arrivai all’istituto Duca d’Aosta con la mia cartella a tracolla, al cancello c’erano poche persone. Che strano! Passai avanti, nell’atrio incontrai il bidello, lo salutai e feci per procedere su per le scale, passando davanti alla presidenza dove, impettito, il preside Ettore D’Avanzo controfirmava le nostre giustificazioni. Eravamo in tre quattro sorpresi e meravigliati, ma per la gioia. Il bidello ci bloccò, ci disse che non si poteva entrare, le lezioni erano state sospese per quel giorno: era morto il filosofo Benedetto Croce. E chi era questo benedetto uomo che ci faceva fare un giorno di vacanza in più? Lo sapemmo il giorno dopo dalla professoressa di italiano Pavanello. Iniziò lei il discorso, era il novembre 1952, poi ascoltammo una lezione dal professore di latino Dal Santo, poi una relazione del professore di italiano La Via, infine del professore di filosofia De Mauro. Non dico che ci facemmo una cultura improvvisata, ci insegnarono che c’erano grandi uomini anche viventi e non solo nell’antica Grecia, da ammirare e studiare, ma soprattutto ci trasmisero la curiosità sul pensiero del filosofo abruzzese, di uno scrittore, di un politico sconosciuto, almeno per noi cresciuti senza libri, senza televisione, senza radio, che meritava di essere capito. Il professor Dal Santo, fervente antifascista elogiò il personaggio, amico di Einaudi (altro sconosciuto!) con il quale aveva fondato il Partito Liberale Italiano. Fece solo degli appunti al suo pensiero di personaggio colto, ma non credente. Conoscemmo ed apprezzammo Luigi Einaudi, presidente della Repubblica italiana prima ancora di conoscere Croce. E’ certo che di nessuno dei due mi sono  dimenticato. Ecco come eventi casuali possono diventare fondamentali nella nostra formazione scolastica e nello sviluppo dei nostri interessi culturali. La filosofia dello spirito non può essere altro che pensiero storico, la scienza è sottomessa alla filosofia, affermava. Le “provocazioni” dei miei antichi professori hanno lasciato impronte indelebili. La via della conoscenza deve essere continua, sempre aperta e percorribile.

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Che fare? Mi è capitato molte volte di pormi questa domanda, sempre in momenti importanti, inquietanti, di esitazione, di scelte veloci. Se capiti a un bivio, se la tua strada si biforca e scegli un sentiero piuttosto che un altro, a volte è una scelta definitiva. E magari non è quella giusta. Non parlo di piccole questioni quotidiane personali, parlo di scelte di vita di persone importanti alle quali ho cercato di sostituirmi per capire cosa avrei fatto. Il primo “che fare?” che mi ha colpito è di Lenin, il diffusore del marxismo, secondo è Ignazio Silone nel suo romanzo sui cafoni di Fontamara, il terzo Giovanni Battista, il profeta che annuncia il Dio potente che salva, che annuncia la venuta del Salvatore con grida nel deserto. Ricordo gli anni della mezzadria, del bracciantato e dell’affittanza per le genti di Sambruson, ricordo perché ho visto dopo la liberazione nazionale e perché i vecchi mi hanno raccontato del disprezzo per i lavoratori della terra, trattati con dileggio, spesso con disprezzo. Ho visto famiglie soffrire, temere gli sfratti a S. Martino, inchinarsi sempre a chi sapeva parlare in lingua italiana, a loro era lecito solo tacere e ubbidire. Non c’era nessuno a difendere i contadini. Nel 1917 Vladimir Ilic Ulianov dopo lunghi studi sui testi di Karl Marx, approfondì le sue tesi di riscatto degli operai e dei contadini e estese la sua dottrina che doveva portare alla rivoluzione d’Ottobre. La guerra mondiale, voluta dagli imperialisti in Russia si trasformerà in rivoluzione. Il popolo accetta di morire per sé e non più per i Romanov, Lenin considera lo zarismo sconfitto, defunto per la Russia e per la storia. Per raggiungere questi obbiettivi sacrifica anche la libertà in attesa di una liberazione totale, per tutti. Non si fida dei suoi collaboratori soprattutto di Stalin che considera pericoloso. Lenin morirà a 54 anni lasciando incompiuta la sua opera che degenererà nella dittatura sovietica di Stalin. Il popolo russo dal riscatto cadrà nella dittatura del proletariato in attesa del sol dell’avvenire. Non mi sono mai soffermato soltanto sui personaggi o sui fatti, ho sempre cercato di penetrare, di capire cosa rimane di loro, quali insegnamenti trarre. Di Lenin, da ragazzo ho pensato tutto il male possibile, ma studiando, leggendo, approfondendo ho tratto la conclusione che se fossi stato a San Pietroburgo, quando il popolo diede l’assalto al Palazzo d’inverno, la Versailles della Russia, sarei stato tra il popolo che a mani nude dava l’assalto, al potere degli Zar combattendo per la sua liberazione. Troppo crudele differenza c’era tra la nobiltà, i proprietari terrieri, la Chiesa russa, la decadente dinastia Romanov, in preda ai vari Rasputin e le condizioni di vita dei contadini venduti dai padroni insieme alle terre. Molta impressione mi ha fatto leggere su questi eventi Lev Nicolaevic Tolstoj e Boris Leonidovic Pasternak. Arrabbiatevi, sollevatevi! Questo fu il grido dei rari nuovi pensatori al tempo del comunismo russo. Un ulteriore grido di sollevazione, di riscatto non riuscito invece fu quello lanciato da Ignazio Silone  nel tentativo di difendere la gente della valle abruzzese del Fucino. Fontamara è un paese immaginario, ma la storia è autentica, straordinaria, affronta tematiche politiche e religiose sulle condizioni universali dell’uomo. Silone difende i cafoni, persone rozze, incivili, facilmente beffate dai “galantuomini”, dai possidenti della classe media, tutelati dal regime fascista e dalla Chiesa. Quando il dolore non sarà più una vergogna, il nome cafone sarà un segno di rispetto, un titolo d’onore, solo allora saremo considerati cristiani anche noi, non solo carne abituata a soffrire, ingannati a causa del nostro analfabetismo. L’autore fa dire al suo protagonista parole tremende: a Fontanara, prima c’è Dio, poi il principe Torlonia padrone della terra, poi i suoi guardiani, poi i loro cani, poi nulla, poi nulla, poi nulla, poi i cafoni, cioè nessuno. Di fronte a questo abisso, allora, che fare? Nel vangelo secondo Luca, Giovanni Battista, alle folle che lo interrogavano e gli chiedevano: che cosa dobbiamo fare? Rispondeva: chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha e chi ha del cibo faccia lo stesso; e ai soldati che chiedevano: e noi che cosa dobbiamo fare? Rispondeva: non fate violenza a nessuno, accontentatevi della vostra paga. “Che fare?” E’ la domanda eterna che si pone qualunque uomo e alla quale non tutti danno la stessa risposta. Allora gli uomini si rivolgono ai maestri per sapere cosa fare.  Le risposte sono contrastanti: ribellione o perdono? Le risposte che ho trovato in questi tre esempi sono davvero contrastanti e opposte. Che cosa dobbiamo fare? Ognuno guardi dentro al suo cuore tumultuoso, ma in silenzio, e troverà la risposta. Questo ho sempre pensato. Ma ora una risposta io non sono in grado di darla in queste povere note nate dal dolore e dalla confusione. Anch’io  mi sono chiesto: cosa fare, cosa pensare, perché? Mi ha risposto Papa Francesco in una sua citazione di spiritualità inviatami da mio figlio: “Continua a chiedere perché. Non so risponderti e non può farlo  nessun vescovo e nemmeno il Papa, ma Dio ti consolerà”. Finiscono qui le piccole memorie, ma la mia festa continua, attendo il giorno in cui ci incontreremo e capirò ciò che ora non so.

21.12.2018

 


 

 

2/2/2019

Caro Luigi

ho visto l’articolo su Nada Levorato, che ho ben conosciuto, partecipava agli incontri con Antonino Segatti, se non mi sbaglio è stata anche consigliere comunale a Dolo con Riccardo Meneghelli sindaco negli anni ’60. Sapeva conquistare la stima della gente senza essere invadente. Mi piace l’inserto. Mi piace perché mi suggerisce l’invio di alcune lettere personali e delicate che tenevo sepolte in me. Sono rivolte a suor Teresa Angelica (Luciana Bareato), a Chiara Amati di Bari che veniva con noi a pregare a S. Giovanni Rotondo, a don Gian Pietro Donà, amico d’infanzia. Le ragioni di queste scelte le capirai leggendo. Sono lettere anch’esse intrise di ricordi comuni, di sofferenze, di timori, di timide speranze  di gente di Sambruson. Le aggiungerei, se credi, a “La mia festa continua”.

Ciao, Andrea

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Dolo, 5 aprile 2009

M.R. Suor Teresa Angelica, buongiorno.

Sono Andrea Zilio,  cioè Fausto.

Sono il fratello di Luciana Zilio. Siamo stati vicini di casa, di giochi sulla stessa stradina interrata: 2 km a piedi per andare all’asilo e alle scuole elementari.

Sono passati sessanta anni. Tanto è che non ci vediamo. Se ben ricordo. Ho 72 anni, due figli sposati e quattro nipotini. Sono insegnante elementare in  pensione.

Ho tra le mani la lettera che lei (non riesco a darti del tu!) ha spedito a mia sorella Luciana in data 22.03.2009.

Le dico subito: mia sorella Luciana sta male.

Molto male. Dal maggio scorso ha avuto bisogno nuovamente di chemioterapie, conseguenti a un intervento chirurgico di carattere oncologico di tanti anni fa, che lei aveva quasi dimenticato.

Le terapie sono state fatte. Quel pericolo sembra superato, ora. Ma il fatto ha sconvolto impietosamente la sua mente. O forse è indipendente … chissà!

Il fatto è che si trova in una crisi depressiva terribile, da cui non riesce a riemergere.

Oggi, domenica delle Palme l’ho chiamata. Mi ha detto: vieni!

Sono corso in via Marinelle, a casa sua. Mi ha abbracciato e mi ha consegnato la Sua lettera, la teneva stretta. Mi ha detto: leggila, scrivi tu per me! Occhi assenti, lontani.

Poi è tornata nella sua stanzetta al buio. Il tutto si è svolto in un paio di minuti.

Mia sorella sta vivendo (o forse non è neppure la parola esatta), sta soffrendo una situazione di vita di indicibile sofferenza psichica. Non riesce a riemergere dal tunnel in cui è precipitata.

Quando mi ha consegnato la lettera mi ha sorriso (e non faceva così da mesi) e mi ha detto: mi raccomando. Conoscendola, so che mi ha voluto dire di parlare a Lei nel modo giusto. Il che è assai difficile. Perché per dire bisogna pur dire. So che ha di Lei un gioioso, inestimabile ricordo.

Berto Agnoletto sa tutto. Quando ci  vediamo lo informo, perché anche lui chiede. In quella stradina eravamo tutti come parenti.

Purtroppo non ci sono più i miei fratelli Ennio e Letizia, la cugina Giovanna.

Se vorrà comunicare con mia sorella, può scrivere a me? Sarò il portavoce e il traduttore fedele. Mia sorella stenta a badare a sé stessa.

Mi ha detto anche: prega per me. A chi? Facciamolo  tutti e due. La prego, carissima amica d’infanzia, suor Teresa Angelica.

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Dolo, 30 maggio 2009

A M.R. Suor Teresa Angelica, a Luciana Bareato, alla piccola cara amica d’infanzia delle mie sorelle e anche mia.

E’ vero nella nostra infanzia ci siamo appena sfiorati! Poche volte ci siamo salutati. Eravamo in tanti in quella stradina. Nella nostra corte, quando arrivavano tutti i cugini Zilio eravamo da soli una ventina di ragazzi e di ragazze.

Ricordo ancora molto bene tua nonna Maria, tua mamma Giuditta, tuo fratello Ottorino. Era vivace, ma andavamo d’accordo nei nostri giochi.

Giorni lontani, ma belli! Corse tra i campi, giochi fino tardi la sera, qualche birbonata. Altro non c’era e  bisognava pur crescere.

Penso che la fatica più grande, in quegli anni, l’abbiano fatta le donne di casa contadina, le nostre mamme… i figli, la casa, gli animali, l’aiuto nei campi, prime ad alzarsi al mattino, niente riposo al pomeriggio, letto tardi la sera.

Io ricordo che mia mamma Tina aveva sempre e comunque un sorriso, accoglieva tutti e dava una mano, forse la ricordi anche tu. La penso oggi che ti scrivo: avrebbe compiuto 94 anni. Invece è morta nel 1996.

Perché mai ti scrivo questi particolari? E’ per darti notizie dei nostri luoghi comuni che forse ti fa piacere riconoscere o rievocare.

Ed ora ti parlo di Luciana, mia sorella.

Non ci sono miglioramenti. E’ raggrinzita, chiusa in sé, occhi profondi che vagolano, che cercano e non trovano. E’ ormai un anno che è precipitata in  questo stato di sofferenza.

Ho atteso a scriverti sperando sempre di poterti dare qualche buona notizia. Ma non è così. Ha letto… anzi Silvano suo marito le ha letto la tua lettera. Ha sorriso, ha detto molte volte grazie grazie grazie.

Mi ha detto: scrivi tu! Dille che si ricordi di me… Intendeva nella preghiera, parla poco. Gliel’ho chiesto io e mi ha fatto cenno di sì!

 

Spero tu gradisca un mio libro sulla civiltà contadina “La contrada dei sicomori”. Vuole essere una rivalutazione della Riviera del Brenta della bassa, dimenticata, della gente umile che ha lavorato per riscattarsi dalla fatica e dal fango. Spesso riuscendoci. Nella copertina vedi Letizia, Giovanna, Luciana e io nel 1945. Siamo sotto il portico di casa nostra. La foto la scattò Bepi Bertin (Albertini) appena tornato dalla prigionia in Russia.

Grazie di cuore per la tua attenzione.

 

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Dolo, 1 ottobre 2009

Carissima Chiara Amati,

comincio dalla tua ultima lettera: la segnalazione al Samaritano dell’Avis. L’ho consegnata ieri mattina a Francesco Bosello in sede (Avis Rivera del Brenta, via A. Manzoni  4 - 30031 Dolo -  tel. 041 5100754). E’ sempre la persona più esperta e qualificata dell’Avis, è stato anche dirigente nazionale. Ora però, anche per ragioni di salute, ha lasciato un po’ e presidente è Giuseppe Polo.

Grazie per la tua sensibilità e per la tua collaborazione, in un momento per te di particolare sofferenza.

Attendevamo di scriverti, perché la lettera che ci hai inviato con i pensieri di tua sorella ci ha lasciato addolorati e senza parole da dirti, tanto si capiva e si leggeva la tua angoscia.

Abbiamo letto pensieri e parole di grande fede, di grande bellezza spirituale, temprati nella sofferenza e capaci di trasmettere agli altri messaggi di saggezza, di santità autentici, perché non improvvisati, ma maturati e raccolti in anni di confidente abbandono, oserei dire confessione, ai suoi diari personali. Quindi veri e riservati.

Grazie per averci scelti come partecipi di parole così sofferte, meditate e nobilissime per profondità e candore.

Ho visto che hai cambiato indirizzo e numero telefonico. Speriamo sia per buone ragioni.

Ho cercato di chiamarti ieri sera, ma non mi è riuscito.

Ci sentiremo più avanti.

Noi ora stiamo bene. Anche Alberto.

Silvana ed io stiamo pensando seriamente di ritornare l’anno prossimo, prima dell’estate, a San Giovanni Rotondo. Speriamo sia così, speriamo di vederci.

In questo momento stiamo guardando le foto che ci hai scattato nel bosco a San Marco in Lamis. Che bella giornata!

Preferisco terminare con ricordi lieti sperando di confortarti un po’.

 

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Dolo, 20 aprile 2010

A  Suor Teresa Angelica

Via Navarrino, 14  30126 Lido di Venezia

A M.R. Suor Teresa Angelica, a Luciana Bareato, cara amica d’infanzia delle mie sorelle Luciana e Letizia, della cugina Giovanna.

Ho ricevuto la tua lettera pasquale. Non solo di auguri, ma di ricchezza di riflessioni, di fede che la ricorrenza propone. La tua ordinata calligrafia mi fa pensare a quanti pensieri cordiali e belli hai cercato per noi. Per mia sorella Luciana e per me. Grazie.

Ricambiamo di cuore. Ti parlo al plurale. Anche per mia sorella. Sono andato a trovarla, dopo due mesi. Anch’io ho avuto problemi di salute. Ma ora sto meglio. Succede!

Mia sorella non è migliorata. Situazione piatta. Ormai cronicizzata. Magrissima. Confusa. La sua attenzione per le persone è di pochi attimi, poi si rintana in una nicchia di confusione mentale da cui non uscirà più. Questa è la sentenza dei medici. Ogni consulenza, ogni visita specialistica è dolorosamente categorica: negativa, irreversibile. Suo marito Silvano, paziente e bravo, la assiste con cura, con affetto ammirevole. Così pure le figlie Raffaella e Anna. L’unica sua luce è il figlio Giuseppe che lavora mezza giornata in una azienda municipalizzata. E’ bravo, si arrangia abbastanza! Lei sa quando rientra dal lavoro e va in strada ad aprirgli il cancello. Non ce ne sarebbe bisogno. Ma la lasciano fare: è l’unico barlume che sopravvive. Il ragazzo, l’uomo! ultraquarantenne, si è fatto ancora più muto. Non è una situazione facile da descrivere, né da sopportare. Ma lo fanno con ammirevole dedizione, amore, grazie agli insegnamenti che le rispettive famiglie hanno trasmesso, seminato con i loro comportamenti di vita cristiana e solidale.

Ho parlato a Luciana di te e della tua lettera. Gliel’ho letta. Mi ha sorriso appena. Sono sicuro che ha capito. Sono lampi. Poi china la testa, si guarda le mani,  si alza, si siede, rassetta la vestaglia, chiede di andare a letto, da cui si rialza quasi subito. Quando mi vede, mi abbraccia, mi sorride ed è già finito. Le ho parlato di te, delle tue preghiere. Sono sicuro che di te ha capito, ha bloccato un’immagine, un ricordo gradito, perché ha mosso le labbra in un atteggiamento di gradimento, poi tutto è precipitato in uno sguardo mesto, incomunicabile.

 

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Dolo, 8 gennaio 2011

A  Suor Teresa Angelica

Monastero Figlie del Cuore di Gesù

Via Navarrino, 14   30126 Lido di Venezia

 

A M.R. Suor Teresa Angelica, cara Luciana, sono stato a visitare mia sorella Luciana in via  Marinelle a Sambruson. L’ho trovata come sempre distesa sul divano. Assente. Lontana. Ha brevi barlumi di attenzione, di consapevolezza. Mi ha salutato muovendo un angolo della bocca. Nessuno a casa sua parla più di possibili guarigioni. Hanno esplorato tutte le possibilità della medicina. Nessuna speranza. Tutti le stanno accanto con disponibilità, con serenità, con grande senso di maturità.  Nessuno si irrita, nessuno perde la pazienza.

Il suo viso è liscio, bello, ma inespressivo. Perché non ha più sorrisi, non ha più preoccupazioni, non ha più pensieri a increspare la fronte con le rughe.

Oggi ha compiuto 71 anni. Gliel’ho ricordato. Ha accennato a un sì con il capo. Ma non so se ha afferrato.

Ha una famiglia ammirevole. Suo marito Silvano è sempre premuroso e paziente. Così pure le figlie sposate Raffaella e Anna, e il figlio Giuseppe mite e silenzioso.

Aiutandosi si incoraggiano e guardano avanti con grande forza d’animo.

E’ in  questi casi dolorosi che emerge il senso di unità della famiglia appreso a piccole stille da genitori con appena l’istruzione elementare, ma profeti di fede.

Non riesco ad esprimermi con le tue parole di grande umanità e spiritualità, sarei stonato. Non è consuetudine. Però mi sento in sintonia con i tuoi sentimenti e le tue preghiere. Ti ringraziamo. Ti salutiamo.

Fausto.

 

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Lettera a don Gian Pietro Donà

nel 50° della sua ordinazione sacerdotale

Anno 2012

Carissimo don Gian Pietro,

la ricorrenza è meravigliosa per te, per la famiglia Donà, per il nostro paese, per la nostra diocesi. Non sono in grado di intervenire su un avvenimento così importante usando parole che non mi sono consuete. Cadrei nella retorica. L’amicizia che ci lega fin dall’infanzia, mi incoraggia a scriverti una lettera fraterna che ci riporta ai giorni lontani, a quando, ragazzini, eravamo soliti giocare spensierati per i tuoi campi, a cogliere frutti, a cercare nidi, a costruire palchi di canne per il teatro domenicale: eravamo contemporaneamente operai, spettatori, attori con i tuoi fratelli e altri ragazzi di contrada. Eravamo alla vigilia di scelte decisive. Già pensavo che mi sarebbe piaciuto insegnare, diventare maestro. Tu già pensavi al sacerdozio. Non me ne ero accorto.

Non voglio farti un discorso celebrativo. Conoscendoti, so che non lo gradiresti. Desidero raccontare e descrivere l’ambiente familiare e semplice in cui è fiorita la tua vocazione, in cui possono crescere le vocazioni.

Ti metto una mano sulla spalla, ti voglio parlare sottovoce, con delicatezza, con commozione. Ti voglio parlare scrivendoti queste righe ricche di ricordi della nostra, per tanti versi, comune infanzia.

E’ questo il mio regalo. Ricordarti che non mi sono mai dimenticato di te, anche se la vita, per ovvie ragioni, ci ha poi portati in luoghi, in situazioni, in impegni diversi, a volte lontani. Cinquanta anni sono lunghi! Eravamo una schiera di ragazzi, nati alla fede sotto la guida forte e autorevole di don Luigi Rimano che ci ha amministrato i primi sacramenti, siamo cresciuti sotto la guida colta e umanissima di don Carlo Segala, parroci il cui ricordo è sempre vivo a Sambruson e che ancora sorridono ai devoti nella cappella in cui riposano.

Siamo qui in tanti di quei ragazzi, ora nonni. Sono qui con la mia famiglia a salutarti, ad abbracciarti affettuosamente, a ringraziarti per la ininterrotta amicizia, per il tuo apostolato, per la tua presenza pastorale tra noi ambrosiani. Ora vivo fuori, ma sono sempre affezionato al mio paese natìo.

Caro don Giampietro, il 31 maggio 1965, hai celebrato il nostro matrimonio. Silvana ed io abbiamo costruito la nostra famiglia con la tua benedizione. Più volte incontrandoci ce lo ricordiamo reciprocamente e sorridiamo. Eravamo entrambi agli inizi di un nuovo percorso.

Ti ricordi? Sono venuto spesso a trovarti a Thiene, in seminario, con zia Amelia. L’ambiente mi è sempre sembrato un po’ buio, troppo silenzioso. Ma tu eri sempre sereno, sorridente, deciso. Passavamo qualche ora insieme, e già ti vedevo con più riguardo.

Mi piaceva quando tornavi per le vacanze. Ero spesso a casa tua, qualche volta ho mangiato e dormito da voi. Ricordo quando partivamo a piedi per Oriago. Ti accompagnavo a trovare tua nonna. Passavamo a fianco del duomo di Gambarare e poi, in  mezzo ai “trosi”, arrivavamo alla piccola osteria Pieretti. Ci attendevano biscotti in abbondanza. Ben graditi, anche se tua mamma Onidia ci forniva la colazione per il viaggio non breve. Ti ricordo queste cose, perché sembrano ancora anche a me piccoli gioielli da non dimenticare. Erano le prime uscite, per ragazzi come noi, in libertà, al di fuori degli ampi, ma severi cortili delle case contadine. Erano occasioni che rinsaldavano amicizie, costruivano basi per rapporti duraturi.

Ricordi quando lo zio Luigi Zilio invitava, una volta all’anno, i seminaristi del paese per un pranzo a casa sua? Invitava anche me. Stavo volentieri con voi, ma non in seminario. Aspiravo a una classe di scuola elementare. Il buon Dio mi ha accontentato. Venivi tu, il futuro don Piero Baldan, il futuro fra Benito Cagnin e altri di cui ho perso le tracce. Passavamo ore spensierate nella cordialità e nella consapevolezza del progetto di vita a cui aspiravamo. Ricordi?

Caro amico sacerdote, abbiamo consumato molte fiammelle del nostro lucernario, molti giorni della nostra riserva, con le gioie e le pene di tutti. Ma grazie a Dio abbiamo raggiunto traguardi di cui essere lieti. Ho intrecciato le nostre storie, perché così è stato nei nostri giorni verdi e belli. Che il Signore ci illumini e ci assista ancora.

Fausto Zilio

 

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Dolo, 4 gennaio 2015

A  Suor Teresa Angelica

Monastero Figlie del Cuore di Gesù,  Via Navarrino, 14

30126 Lido di Venezia

Cara Suor Teresa Angelica, cara Luciana so che preghi per me. Ti ringrazio di cuore. Mi ricorderò di te nelle mie devozioni.

Berto Agnoletto mi ha detto che vi siete scambiati gli auguri natalizi e che hai avuto un pensiero di riguardo nei miei confronti. Ho apprezzato le tue parole.

Un anno fa, a capodanno, è morta mia sorella Luciana, qualche settimana dopo è morto mio fratello Graziano, come sai. Di cinque fratelli e sorelle sono rimasto io solo, il più anziano. Chissà perché. Non sono potuto andare al loro funerale, perché a letto, convalescente dopo un grande intervento cardiochirurgico. Ora mi sto rimettendo abbastanza bene, anche se con i limiti e i controlli sanitari continui previsti.

Ho parlato con Silvano Marchiori, abbiamo parlato di te e dell’amicizia, fin dall’infanzia, con la nostra Luciana. Mi incarica di salutarti caramente.

Ringrazio il Signore dei giorni che mi dà con spiragli di serenità in famiglia e nell’affetto di tante persone amiche.

Se credi, se vuoi, rivolgi una preghiera particolare alla Madonna per mio figlio Alberto. Anche lui sta lottando con un male. Un giorno ti spiegherò.

Grazie ancora.

Ciao suora.

Fausto, vecchio amico di stradina di campagna.


 

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Caro Luigi, ti mando questa lettera di Alberto, tenuta tra i ricordi di Silvana. Vorrei vederla pubblicata in seguito alle altre lettere. Se ti è possibile.
Ieri nel cimitero di Sandon, dopo messa, gliel’ho mostrata, ha continuato a sorridere. Almeno così ho visto e capito.
Grazie, ciao, Andrea.

 

Caro Andrea
È commovente la vostra immutata tensione spirituale per e con vostro figlio Alberto. Altrettanto mirabile e anche invidiabile l’ammirazione e devozione per voi genitori, che traspare nella lettera di Alberto. Credo sia una cosa rara e deve esservi di grande consolazione.
Un caro saluto, Luigi.

Aggiungo con piacere la seguente testimonianza di Andrea sul N. 50 di Famiglia Cristiana del 13 Dicembre 2020 - Anno XC.  Grazie.

 


articolo a cura di Luigi Zampieri


 

 

Ultimo aggiornamento (Lunedì 28 Dicembre 2020 13:15)

 

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