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La via della Brenta Nova

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IL PERIODO STORICO RECENTE - LA CIVILTA' CONTADINA

La via della Brenta Nova

Caro Luigi,

ti allego il testo base della mia conferenza di stamattina sulla CIVILTA’ CONTADINA lungo l’alveo della BRENTA NOVA. Mancano molte spiegazioni improvvisate, ma il succo è salvo.
E’ stata  una manifestazione molto ben riuscita , grazie soprattutto alla mostra di documenti riguardanti  “LA VIA DELLA BRENTA”.
Pubblica pure, se credi.
Cordialmente
Andrea

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Caro Andrea
Ecco pubblicato il tuo intervento alla mostra “La Via della Brenta” sul tema “La Civiltà Contadina” nell’area della Brenta Nova che proprio a Sambruson ha inizio. A te e alla Associazione “Isola Bassa” i miei ringraziamenti per avermi consentito questo articolo.
Complimenti! Il tuo è un volo sopra un’altra vita, quella di noi fanciulli e ragazzi, dei nostri genitori e nonni, un ritorno. E’ anche una lucida sintesi su argomenti già trattati in svariati articoli di questo sito, una relazione, come tu stesso dici, che racconta, verifica, collega. Per stimolare alla lettura di questo articolo, voglio elencare parole e frasi che ricorrono nel tuo intervento e ritornano nella nostra memoria con nostalgia.
Munega, madrigate, cardellini e rondini, filò,  l’aia, el pajon de scartossi, i casoni, 'e bestie, pavimenti in terra battuta, freschin, mezzadri e braccianti, uccisione del maiale, il quartese, la trebbia, el bocia de botega, strassaro, seàro, grinton e bacò, sissoeta parona, rogazioni, giustaossi, sfratti, sgalmare, vaca mora, tante altre.
Parole scomparse ormai, dimenticate, sconosciute ai nostri figli. Le facciamo vivere ancora un po’.

Con affetto Luigi

 


 

LA CIVILTA’ CONTADINA

Andrea Zilio 
e
Ass. “Isola Bassa” - Dolo, 21.05.2017

( Show Room Falegnameria Brusegan )


Ringrazio la Associazione “Isola Bassa” di Dolo per avermi invitato a parlare della Riviera della Brenta, dell’altra Riviera, della Brenta Nova, del fiume che, per 350 anni, ha avuto il suo alveo a pochi passi dal luogo in cui ci troviamo.

L’argomento  mi ha subito appassionato, perché mi fa parlare di luoghi in cui sono nato, delle terre e delle campagne e cesure agricole che per secoli hanno dato pane alle famiglie contadine. Sono luoghi che conosco, perché qui è cresciuta e si è ingrandita la nostra famiglia, le nostre famiglie.

I discendenti risiedono in tutti i paesi delle “marigate”, da Bojon a Mira.

Quando insegnavo nelle scuole elementari, soprattutto da supplente, avevamo l’obbligo di presentare, alla direzione didattica, il nostro “Piano annuale” di lavoro, un programma, un progetto, il più possibile aderente all’ambiente, alle famiglie, alle professioni dei genitori, alle patologie, alle difficoltà economiche, ai componenti, al numero dei figli. Dovevamo conoscere i ragazzi, che ci venivano affidati, per regolare il nostro approccio didattico a quelle precise persone.

Negli anni ‘950 nelle scuole c’era il pennone per l’alza-bandiera e l’ammaina-bandiera …  davanti al tricolore, alunni e maestri, cantavamo l’inno nazionale. C’era un clima familiare, di fiducia.

E’ stato in questi  anni che ho cominciato ad accumulare conoscenza, appunti, ricordi, relazioni, interviste dei nonni a scuola, visite nelle campagne, alle stalle, ai granai, ai raccolti, alle cantine, alle abitudini, alle tradizioni di famiglie.

Queste conoscenze ci permettevano di svolgere una attività didattica impegnativa, stimolante, indimenticabile. Dopo anni ho potuto raccogliere i miei pensieri, le mie esperienze in alcune pubblicazioni.

“I giorni della merla”, vent’anni fa, è stato letto, discusso, illustrato nelle scuole elementari e medie di 70 classi nei paesi al di là e al di qua dell’antico alveo della Brenta Nova.

All’inizio ho citato le ”marigate”. So che molti ormai hanno dimenticato l’etimologia di questo nome, per mancanza di riferimenti, di occasioni per citarle, per la variante d’uso del suolo. Sono le rive del fiume controllate, per disposizione dei Savi delle Acque, da guardiani, da un maestro di riva, il “madrivo”, termine che col tempo si trasformò in Marigo, nome tuttora diffuso nel nostro territorio.

E’ un termine popolare ben radicato nel territorio e tuttora citato nelle conversazioni di coloro, ormai vecchi, che furono miei compagni di giochi sull’argine destro della Brenta Nova, l’indimenticabile montagnola di Picin, dove novelli ragazzi della via Paal, giocavamo, ci affrontavamo con le fionde, con rami di sanguinella usate come spade o per lancio di pallottole di fango contro immaginari bersagli. Erano gli ultimi giochi, poi, addio alle fionde, ci aspettava la zappa.

Questa è la cornice entro cui svilupperò il mio intervento che non è solo storico, ma è soprattutto etologico. Non racconto la storia di qualcuno, ma di tutti, anche se ho scelto famiglie, figure, reali o simboliche, ambienti che mi hanno aiutato, ispirato a rappresentare e a spiegare il mio tema. E’ una relazione che racconta, verifica, collega i progressivi cambianti di lavoro, di pensiero, di comportamenti di persone, e bestie, della campagna. E’ impossibile parlare delle famiglie patriarcali dei campi senza parlare delle loro bestie. Non le chiamavano animali, perché il primo termine era consueto, addirittura affettuoso.

La civiltà contadina non è esistita solo nei nostri luoghi, ma in vastissime aree del Veneto e d’Italia. Basta pensare all’Albero degli zoccoli, di Ermanno Olmi, prodigioso film sulla vita, le fatiche e gli sfratti nel Bergamasco o in Toscana. Parlerò anche di Barbiana più avanti.

La civiltà contadina che ho conosciuto è scomparsa. Le genti, la flora e la fauna ci sono sempre, ma non sono più quelle.

La vita quotidiana delle famiglie che abitavano nelle strade lunghissime e fangose che scendevano dall’argine sinistro, era tipica di chi è isolato, lontano dai centri abitati, ha contatti sociali limitati e abitudinari. I rapporti, gli scambi, gli aiuti reciproci erano limitati alle famiglie vicine,  spesso di parenti. Molti matrimoni erano tra ragazze e ragazzi della stessa contrada. D’inverno era molto difficoltoso spostarsi. I ragazzi, di massima, frequentavano appena la classe terza. Le calzature erano con suola di legno, inchiodate sotto, per evitare un facile consumo. Portavano le calze.

Mentre gli uomini, con il gelo, vedevano ridotte le loro attività in campagna, alle donne rimanevano i consueti lavori casalinghi: i figli, la cucina, il pollaio, il maiale, i conigli, rammendare, il bucato.

Con i figli d’estate era più facile, perché scappavano per i campi a frutti o giocavano con i compagni in contrada o nella piazza. Scoprivano nidi di una fauna avicola che non c’è quasi più: rondini, passeri, allodole, quaglie, cutrettole, cardellini.

Ora invece ci sono le aggressive gazze, le cornacchie, i corvi distruttori. Tutte le famiglie avevano un pozzo artesiano nell’aia per le bestie, tutte le contrade avevano una fontana d’acqua potabile per le persone. Anche la flora è cambiata non ci sono più vigneti, medicai,campi di barbabietole. Gli alberi sui fossi pescosi di confine sono stati sradicati, l’acqua è irriconoscibile.

Il bagno si faceva in mastelli di acqua calda, nelle stalle, dove alla sera, poi, c’era il filò. Il bucato si faceva versando nei mastelli l’acqua bollente con la cenere ricavata dai fornelli di raccolta sotto il focolare che divorava quintali di legna: fungeva da detersivo. Il riscaldamento dei letti, spesso del pajon di cartocci di mais, avveniva con pietre rese bollenti sul fuoco e avvolte in fasce o con contenitori di terracotta o tramite la munega con le sue tavolette incrociate, in modo da creare uno spazio vuoto interno su cui mettere le braci. Qualche volta accadeva che, dormendo, fossero rovesciate creando guai.

I contadini non pativano la fame, ma erano rassegnati, non c’era alcuna possibilità di vedere la luce in fondo a un tunnel storico, granitico, negativo. Durante il regime, per far nascere più figli, fu promesso un premio alle famiglie numerose. Così fu, ma la miseria si diffuse ancora di più. Furono costruiti i casoni con tetti di canne e foglie palustri. Il pavimento di terra battuta si vangava a Pasqua per ricreare i livelli.

A Prozzolo c’è ancora la via dei Casoni, tra Sambruson e Calcroci c’è ancora via Casino Rosso.  Altri casoni ne ho visti in via Stradona e in via Baccanelle; mi sono stati riferiti quelli di Lova.

L’energia elettrica arrivò nelle nostre campagne dopo il 1953. Le prima radio, in sostituzione delle rare radiole a galena con le cuffie, furono una grande conquista sociale. Le notizie più seguite erano i giornali radio, i segnali orario dell’Istituto Galileo Ferraris di Torino, i comunicati commerciali, le previsioni del tempo,i film, gli auguri da Radio Capodistria zona iugoslava. L’illuminazione elettrica sostituì quelle a carburo e a petrolio. Per le previsioni del tempo i contadini si erano sempre regolati dal sole, dall’aria, dal volo delle rondini che segnavano l’alta pressione e la bassa pressione. Le mosche, le zanzare e gli insetti erano un vero tormento per tutti, a causa delle stalle e delle concimaie nell’aia, a pochi passi dalle cucine. I contadini erano definiti “sporchi”, ma quello era il loro lavoro, quelle erano le condizioni di vita cui erano costretti. La scarsa considerazione pubblica li faceva precipitare ancor più nel disagio e nella convinzione che mai si sarebbero sollevati, riscattati.

 

I poteri politici li tenevano soggetti, silenziosi, inerti, per evitare ribellioni, rivendicazioni.

I poteri di categoria li lusingavano con provvedimenti legislativi che poco o mai li gratificavano.

I parroci consigliavano di pregare, di pazientare, di sperare, a non lamentarsi sempre.

Vigeva pregnante il richiamo manzoniano … mota quiaetare, quiaeta non movere ..

Per necessità di tempo, cercherò di citare, di raccontare solo in parte eventi, personaggi, speranze deluse delle genti che ci hanno preceduto, delle loro fatiche per estrarre qualcuno dei figli dal male atavico della famiglia: la sottomissione.

Molte cose sono note, a volte ci sono anche sfumature diverse. Parlo di conoscenze, di ricerche, di esperienze dirette, dei pensieri e delle convinzioni che ho maturato.

Il mio sguardo va oltre la storia. Non riferirò su ville, su monumenti, sugli affreschi, sui pregadi in villeggiatura. Parlerò delle inquietudini e dei cambiamenti delle persone nate, cresciute qui e delle vicende popolari dei nostri paesi.

I tempi che ho preso in considerazione vanno dalla fine della seconda guerra mondiale alla fine del ‘900.

Ho scelto una linea inconsueta per riferire. Parlerò dei tempi della solidarietà, della solitudine, del riscatto.

I lavoratori delle nostre terre erano piccoli proprietari terrieri, fittavoli, mezzadri, salariati, braccianti.

La vita dei braccianti era disperata, andavano a offrire le loro braccia, ma il lavoro nei campi è stagionale, non sempre lo trovavano. I salariati vivevano nella casa padronale o in casupole messe a disposizione dei servi. Avevano sicurezza del lavoro, anzi troppo, perché erano in servizio  ininterrotto, di corvè si diceva nel medioevo, addetti a lavori massacranti, come accudire il bestiame, in tutti i giorni dell’anno, a qualunque ora del giorno e della notte.

I mezzadri facevano a metà dei raccolti con il padrone, che metteva la terra, una cascina per attrezzi, cucina, camera, tettoia. Loro mettevano il lavoro. Se grandinava, la tempesta era tutta dei lavoratori.

I fittavoli se la passavano un po’ meglio. Pagavano un affitto.

Avevano in uso la terra, scandivano i tempi a loro piacimento e secondo le stagioni, godevano della lentezza dei lavori, del crescere dei figli e degli eventi familiari gradevoli. Quando  il mondo  esteriore si affretterà, la vita avrà ritmi più veloci, e loro non saranno pronti.

In prevalenza nei nostri paesi c’erano famiglie patriarcali, con numerosi figli che conducevano in affitto una decina di ettari di campagna. Appena finita la guerra,  le braccia occorrevano tutte, non c’erano trattori. C’erano le bestie, ma non tutti avevano sei paia di buoi per arare. Si doveva chiedere l’aiuto della contrada.

Ed ecco la solidarietà. Le famiglie si aiutavano, aggregandosi e svolgendo insieme lavori pesanti, impossibili da rinviare.

 

Lo scambio di aiuto avveniva:

-          in occasione della trebbiatura ….Spargevano il grano sul capo dei figli, era una benedizione

-          in occasione della vendemmia,

-          quando si uccideva il maiale  

-          quando le mucche partorivano      … descrizione … l’aceto, soffio dello  spirito

Questa era una solidarietà interessata.

 

Ma c’era anche la solidarietà samaritana, il donare senza ricevere …

Nella corte di campagna passavano:

- i mendicanti,

- le persone disadattate … Albero degli zoccoli

- il parroco per il quartese (quarantesima parte dei frutti dei campi),  l’organista, il postino, il  messo … nessuno andava via a mani vuote

Per poca farina venivano

- i pescatori delle barene a vendere vongole, acquadelle, granchi … costa poco, parona

- le sedonere dal Friuli  a vendere cucchiai di legno                …..

- i pastori dal bellunese … sugli argini della ferrovia e dell’antico alveo …  spagnare ..

- spazzacamino con un ragazzino nuovo ogni anno

- cariolantte … letame  … pulizia delle strade non asfaltate

- arrotino e ombrellaio

- straccivendolo …. strassaro

Poi c’erano i questuanti vicini, nulla tenenti:

La “frasca”… bettola improvvisata … grinton, bacò, merlot, raboso …

Latte  … la cooperativa…  raccoglieva l’eccedenza, fungeva d banca

Uova

Patate, zucche, meloni …

Una scodella di farina …..

Tapare …. Tronchi per la cucina

Carnevale: … sissoeta, parona…

Le onoranze…  portare l’oca al paron  .. diventata proverbiale

 

Per interessare i ragazzi, a scuola spiegavo queste uanzee questi gesti di vita preparando lezioni cariche di attesa, di pathos, perché  la storia restasse impressa, perché ricordassero il succo, il messaggio.

Ecco un contributo di solidarietà gratuita.

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LA STORIA di RENZO DEL PESCE – signora Ornella

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Quando una donna era incinta, le altre si sacrificavano ancor di più. Era un turno. Su tutti vegliava il patriarca che teneva unita la famiglia ormai numerosa, perché arrivavano numerosi nipoti. In casa non ci stavano più. Le ragazze si sposavano, andavano in altre famiglie contadine. Le camere erano angoli di granai strappati al grano, le cucine erano angoli di stalla strappati alle bestie, le porte erano comunicanti.

La direzione della casa era dei vecchi, rispettati e temuti. Nel primo dopoguerra, le donne non mangiavano a tavola con gli uomini, ma in cucina sedute su scranni o sedute su un gradino della scala, con i figlioli.

Le donne non potevano parlare di affari, dell’educazione dei figli, di comperare un abito, di mangiare qualcosa di diverso. A volte, parlare di civiltà contadina, mi crea anche disagio. Il termine sembra un ossimoro, un accostamento di termini contrastanti.

I contadini, negli anni quaranta-cinquanta, dovevano difendersi dagli imbrogli  che tutti si sentivano in grado di praticare.

Quando vendevano una bestia, una mucca, un vitello, c’era una scena molto forte. Veniva, il mediatore con il mercatino,  uno che acquistava per rivendere. Il contadino aveva bisogno dei soldi per vivere, per pagare sementi, manodopera, vivere. Gli affaristi lo sapevano. Discutevano del prezzo a peso o a occhio e poi il mediatore afferrava la destra dei due. Ognuno doveva picchiare tre volte la mano  dell’altro perché l’affare fosse concluso. Se succedeva, nessuno al mondo avrebbe spezzato quel patto. Ma dopo la seconda battuta qualcuno si tirava indietro, era l’estremo tentativo di rascare, si diceva, di rischiare, di racimolare qualche lira in più. Finalmente l’affare veniva concluso. Tutti e tre  i protagonisti erano esausti. Ognuno diceva all’altro: bravo! hai fato un affare. Ma in ogni affare c’è sempre uno che ci guadagna e uno che ci rimette.

La bestia veniva caricata sul carrettone per essere portata via, ma la sposa usciva, la accarezzava tra le corna, commossa ricordando quanto bene quella bestia aveva fatto, e continuava a fare, per  quella famiglia. Se la bestia era venduta a peso, allora il mercatino le faceva percorrere anche due chilometri a piedi, perché per strada si purgasse, depositasse tutta l’acqua che il contadino alla sera le aveva fatto bene con della crusca invitante. Astuzie e miserie della povera gente.

C’erano altri gesti importanti tra fede e buonafede. Certo, ogni cosa va giudicata nel tempo e nei luoghi in cui i fatti sono avvenuti. C’era una religiosità confusa, ma radicata. Il contadino, non avendo altri a cui rivolgersi, si rivolgeva al Cielo, sperando nel suo aiuto. Quando si avvicinava la tempesta che atterrava molte famigliole, abbandonavano gli attrezzi nell’aia messi in croce.

Bruciavano l’ulivo benedetto il giorno delle Palme, come fosse incenso, piantavano le crocette, benedette al termine delle Rogazioni, ai quattro punti cardinali, chiedevano il suono del campanone per rompere le nuvole. Non erano un credo, erano invocazioni  devote e dirette all’ultima divina speranza. In quelle circostanze non c’era nessun altro a cui rivolgersi.

Non conoscevano la lingua, ma pregavano in latino e traducevano ad orecchio.

Etinora catinora morti nostri ame  … nunc et in hora mortis nostrae amen

A fulgure et tempestate…. Libera nos, domine  … abbastanza chiaro

Ut fructus terrae conservare dignerisanche il prete lo dice… bisogna conservare i gnari!!!

Andavamo a nidi ugualmente! Era bellissimo!             Con le fionde …

Momenti importanti per a vita di contrada erano i filò. Incontri serali a turno presso la stalla del vicino, era l’unico luogo caldo della casa. In quelle lunghe sere invernali si pregava, si giocava a carte, gli uomini a bassa voce raccontavano fatti licenziosi e i ragazzi drizzavano le orecchie. Il filò era anche scuola, grezza fin che si vuole, ma altro non c’era. I fortunati frequentavano fino alla seconda-terza elementare. I ragazzi di campagna conoscevano tutto dei misteri della vita, bastava osservare le bestie di casa, del cortile, non avevano cultura di base, ma avevano maturità di vita.

Erano occasioni di filastrocche, di bravate, di prese in giro … c’era il burlone o cantastorie:

I difetti delle donne  … fortemente antifemminista …

Lo stampo dei salami  … scherzo per i ragazzi … che poi avevano in premio, un salamino

Il furto delle galline. … solfato di rame

Superstizioni, dicerie, termini particolari  (solo citazioni)

SCHEI … da Osterreichischen Scheidmünzen… erano i centesimi della lira austriaca

Sequeris miracula…

Giustaossi … slogature… massaggi con chiara d’uovo

Grani di granoturco o riso nel pozzo contro il malocchio

 

I ragazzi a 12-13 anni andavano, per una mancia, a fare i principianti o i bocia, termine diminutivo, spregiativo, presso la bottega del barbier, sartor, forner, meccanico di bici, murer, lustrin, seàro (sellaio), remesser, fabbro, casoin, maniscalco, scarpareto (sgalmare e zoccoli)…

La gente dei campi era spesso impaurita, aveva un alto senso del dovere, soprattutto quello di pagare l’affitto e i debiti a S. Martino, nel giorno in cui si concludeva l’anno agrario.

Gli sfratti, raccontati con tremore …. all’inizio secolo ‘900 … la catena del focolare … Battistì nell’Albero degli zoccoli

Alcune famiglie patriarcali, in quel giorno, essendo, con i nuovi nati, troppo  cresciute in spazi ormai angusti, si dividevano.

Quel giorno era storico per loro, cessava la solidarietà diretta e volontaria, iniziava la solitudine. Prima c’era chi era specializzato negli affari, chi nella scelta delle sementi, chi nell’allevamento. La famiglia patriarcale era una società in miniatura. Dopo, ogni  figlio, diventato padre di famiglia, doveva pensare a tutto da solo.

C’era la spartizione di tutto. Venivano tre probi-viri, persone anziane conosciute, esperte, sagge, facevano la stima di tutto, dal bestiame alle stanze, ai campi calcolando quelli argillosi e quelli sabbiosi, spartivano i crediti e i debiti. Poi facevano le parti. Per primo sceglieva il più giovane. Una famiglia, discretamente benestante, si trovava spartita in tante famiglie povere, guardinghe, sospettose, temevano che l’altro fosse andato meglio.

Fu un momento bello e traumatico.

Ho rappresentato le conseguenze di questo evento, la divisione dei beni e degli affetti, descrivendo un attore molto importante nei miei libri: Mòcari, il cane di casa. Non è una metafora. E’ un fatto vero.  Era il guardiano della notte, il protagonista nella caccia, il giocattolo dei figlioli: ora non lo vuole più nessuno. Ma lui non lo sa.

Ascoltiamo …

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LA STORIA di MOCARI: ce ne parla la signora Ornella.

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Era andato a cozzare contro uno dei primi camion che transitavano sulla provinciale, argine sinistro, come fosse un pagliaio. I cambiamenti improvvisi, ignoti, sconvolgono la vita di tutti prima di essere un vero nuovo inizio.

Dopo queste riflessioni, a scuola, parlavamo del cosiddetto progresso, che non per tutti ha lo stesso significato.

Da questo momento tutto si diversifica nelle nuove famiglie, che non saranno più patriarcali. La terra avuta in  parte è minore e quindi occorre minore manodopera esterna. Assurge il ruolo delle spose che aguzzano gli occhi fuori della porta di casa, vedono, osservano, aspirano, chiedono, finalmente. Molte di loro hanno maturato coraggio, esperienza,  anche perché sono andate servette a Venezia e a Roma, hanno faticato nelle “risare” negli anni trenta (c’erano risaie in fondo a via Ca’ Diedo e via Baccanelle). Mandano le figlie a imparare a ricamare dalle suore o presso l’unica sartoria del paese Era una corsa forsennata a farsi raccomandare. Sì! incominciano le raccomandazioni! I ragazzi? alcuni andranno a lavorare alle prime manovie calzaturiere in Riviera, altri faranno i “lustrini” di mobili,  altri ancora prenderanno una forgia e un’incudine e faranno chiodi, aggiusteranno attrezzi, salderanno, faranno gli stagnari.

Pochi altri escono dalla contrada: vanno alle scuole medie, altri ai forni a Marghera.

La ferrovia Adria-Piove di Sacco-Mestre, insediata nell’antico alveo della Brenta, negli anni Trenta, da Campolongo Maggiore a Campongara, sarà il mezzo di trasporto quotidiano di centinaia di operai, figli cadetti dei contadini, che andranno a lavorare nelle nuove fabbriche della Mira Lanza e di Porto Marghera. La Brenta Nova e la ferrovia, grazie al polo industriale, crearono due paesi nuovi: Calcroci e S.Maria Assunta. I figli dei campi, lavorando come forsennati, di domenica, aiutandosi ancora a vicenda, non con pietre,  ma con forati di cemento fatti da loro, si costruiranno affannosamente, senza piani regolatori, le prime case della loro vita, vicino alla fermata della “vaca mora”.

I primogeniti, più esperti di agricoltura vedranno le stazioni, ma per caricare barbabietole dirette allo zuccherificio di Pontelongo.

Lo stesso treno porterà i primi studenti, dalle barene di Lova, da Bojon, da Canpagna Lupia fino alla fermata di Mira Buse: andranno alla scuola media al Palazzo dei Leoni.

C’è una rivoluzione sociale. I diseredati, i dimenticati che ancora non sanno parlare, difendersi, proporre, li ho visti prendere due percorsi diversi e innovativi.

-          C’è chi, pur imparando, pur aumentando la conoscenza, mantiene ancora la riservatezza, il timore verso qualunque autorità, confuso con la creanza; c’è una nuova scala di valori che tentano di salire, senza fretta, senza il necessario coraggio, perdendo occasioni e traguardi meritati. Raggiungono la tranquillità economica, ma non la sentono conquistata, temono si tratti di provvisorietà e quindi vivono in disparte, in un letargo continuo, senza slanci, senza rischi, senza la volontà necessaria per emergere definitivamente. Questo simbolo l’ho chiamato: la storia di Alvise.

-          C’è chi a Marghera rompe ogni sigillo di paura, si lancia nel sindacato, rischia ogni giorno ai forni, si fa cattivo. Perché? Vuole giustizia! E’ stanco di vedere gli ultimi restare sempre ultimi. Celio diventa un convinto comunista. Si prodiga per tutti, si sacrifica per tutti per far capire che quel che pretende non è solo per sé, è per tutti. Di lui si diceva: ha scosso il peraro, perché tutti potessero raccogliere da terra qualcosa di chi ne aveva in sovrappiù. Scopre una ricchezza immensa, la PAROLA, il coraggio di parlare. Aveva un linguaggio grezzo, ma intelligente, con idee vive, aggressive. Intuisce che è la mancanza di conoscenza a creare la prima differenza sociale. Questa debolezza culturale non reggerà quando vedrà crollare i suoi riferimenti ideologici.

Gli resterà una grande sicurezza: suo padre e le “radici”.

Sarà la terza generazione, saranno i pronipoti dei patriarchi, che raggiungeranno il traguardo sociale meritato, guadagnato, necessario alle nuove comunità.

Saranno questi ragazzi che guideranno le pubbliche amministrazioni, lavoreranno nelle  banche, dirigeranno reparti ospedalieri, parleranno nel foro, saranno esperti nell’architettura, nell’arte, nel commercio, nelle università.

Desidero presentarvi dal mio libro “La contrada dei sicomori” la figura finale di questi due personaggi simbolici contrapposti, figli della stessa terra, usciti allo sbaraglio, impreparati al mondo esterno che non conoscevano. Rappresentano, a mio avviso, squarci eloquenti di un passaggio epocale per la civiltà contadina.

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La storia di ALVISE legge la signora Ornella

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La storia di CELIO  legge la signora Ornella

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Questo è il mio punto di vista. Come per tutti i punti di vista ce ne possono essere altri. Lo spero, sarebbe il modo migliore per mettere a fuoco, a confronto le visioni storiche, l’etologia delle nostre genti.

Di solito, a conclusione della descrizione dei fatti, esprimo la mia opinione, il mio pensiero e traggo delle conclusioni.

Ve le sottopongo.

La sofferenza delle nostre famiglie contadine nel secolo scorso non fu dovuta soltanto alle ristrettezze economiche, fu dovuta anche alla loro impossibilità di esistere come cittadini completamente liberi, alla loro incapacità di esprimersi, perché non avevano le parole adatte.

Dietro alla parola, c’è il pensiero, c’è la cultura, c’è l’esperienza, c’è la capacità di confrontarsi, si intravvede la vittoria.

E’ tornata di attualità in questi giorni la pedagogia, la scuola, la figura di don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana, angolo sperduto sulle colline, tra i boschi del Mugello, sopra Firenze. Paese che non era neppure paese, venti case sperdute di poveri contadini, dimenticati da tutti: società, chiesa, sindacato, politica.

Conobbe  i ragazzi smarriti e muti di Barbiana. Non sapevano cosa dire, cosa fare, dove andare, non sapevano perché si sentivano soli al mondo.

Scrisse e applicò la sua dottrina…

Voleva dotare i tacitati … della parola,

si riferiva ai ragazzi , alle persone costrette a tacere,

voleva fornire loro l’arma di difesa e di emancipazione: la parola.

A conferma dei miei  pensieri, preparandomi a questa conferenza, ho letto su “La Stampa”, delle riflessioni appropriate che condivido, che faccio mie.

“Conoscere la lingua e le sue regole, il suono e il ritmo è la base della struttura di una persona.”

Il priore sapeva che lo studio trasforma la vita, ti aiuta a comprendere le parole, il loro significato e l’uso, e quindi a comprendere il mondo, quello che era successo e quello che stava succedendo. C’è un cammino che conduce dal lavoro e dal talento al prestigio, e dal sapere alla libertà.

Ho cercato riferimenti importanti, spaziando su esperienze simili, in diversi luoghi e diversi  tempi, per dire che nessuna superficialità è accettabile parlando della civiltà contadina.

I patriarchi delle famiglie delle nostre contrade, nati negli anni di fine ‘800, non ebbero mai un momento di pace. La loro vita vigorosa, si realizzò tra due guerre terribili che portò altri dolori e sofferenze. Dicevano sempre che quello era il loro destino, che non valeva tentare, provare di alzare la testa. Ebbero numerosi figli che tennero uniti per il lavoro, per condurre piccole cesure di pochi ettari. Sudore e pane non mancavano mai.

Non ebbero il rispetto, la riconoscenza, l’udienza che meritavano.

Ora i loro pronipoti , come anticipato, hanno altri traguardi, altre professioni, la terra non interessa più. E’ il momento del riscatto. Hanno la consapevolezza che ognuno può essere artefice del proprio destino.

Vedo la storia di una persona, di una famiglia, di una comunità come una catena formata da tanti anelli, da tanti eventi. Se ne saltiamo uno, se ne dimentichiamo uno, molte cose possono apparire estranee, incomplete, incomprensibili. Non facciamolo.

Cari amici, ritengo encomiabile la vostra iniziativa di allestire una Mostra sulla Riviera della Brenta, ma lo è anche per aver rivolto lo sguardo alla Brenta Nova, spesso dimenticata.

In questa occasione voglio citare anche altre iniziative simili che si svolgono, o si svolgevano fino a qualche anno fa, nei paesi vicini, lungo l’alveo della Brenta Nova.

Ricordo le feste della “Famiglia” di Lughetto di Campagna Lupia e di Fossò con escursioni nelle campagne, genitori e figli.

Ricordo la pluridecennale Festa della Primavera a Sambruson che rappresenta un messaggio forte di collaborazione, di empatia tra genitori, ragazzi, maestre, con soste nelle aie delle famiglie contadine. Sono tutti eventi che caratterizzano le comunità che risiedono al di là e al qua delle rive dell’antico alveo della Brenta Nova.

Ma soprattutto ricordo il “Palio delle Contrade” di Prozzolo. Per molti anni, a maggio, ha festeggiato lungo le vie e nella piazza del paese, in costume, le tradizioni contadine, comuni a tutti i paesi toccati dalla Brenta Nova,  con attrezzi, bestie, prodotti dei campi, filastrocche, storie, filò, giochi popolari, canti, gare, teatro, ricette per ricordare la loro gioventù e per consegnare alle nuove famiglie non solo le memorie dei loro vecchi, ma soprattutto la fiaccola dell’entusiasmo e della bellezza di una comunità che sa  stare insieme in armonia e solidarietà.

Cari amici, oggi stiamo ammirando ed apprezzando la mostra intitolata “La via della Brenta”, che certamente vi è costata fatica nella ricerca e nella esposizione, merita l’attenzione e il plauso della cittadinanza e delle scuole.

Iniziative simili sono difficili da pensare e da organizzare. Spero abbiate le soddisfazioni che meritate.

Auguri di buon lavoro, e arrivederci.

 


a cura di L. Zampieri

 


Ultimo aggiornamento (Sabato 29 Febbraio 2020 16:34)

 

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