GLORIA o VANAGLORIA? Collana di poesie inedite di A.Zilio
SAMBRUSON. CULTURA, COSTUME, TRADIZIONI, AMBIENTE. - LETTERATURA A SAMBRUSON (II) |
Andrea Zilio
GLORIA o VANAGLORIA?
Caro Luigi,
questa collana di poesie non ha alcun scopo aggiuntivo, si stratta di personaggi, di avvenimenti universalmente noti. Ho voluto esprimere mie visioni culturali, sociali, etiche attraverso immagini folgoranti di grandi personalità.
La scelta non è casuale. Le voci diverse compongono una unica corale: la finestra attraverso cui vedo luoghi, tempi, persone e cose. Il ritmo procede in prima e in terza persona. La punteggiatura è personale. Nel discorso diretto, come ormai faccio, non ci sono “virgolette”, sarebbero di freno, è chiaro ugualmente.
Per necessità espressiva e di metrica ho dovuto e voluto concentrare al massimo i miei pensieri e le mie idee, per cui la scrittura potrebbe aver bisogno di lettura paziente.
Spero che il lettore e la lettrice siano stimolati ad approfondire per proprio conto le storie solamente accennate. Meritano. Le poesie sono 17 (15+2).
ALESSANDRO MANZONI
Mi assalgono molti lieti ricordi
dei giorni antichi, quando, ragazzini,
ad imparare a memoria non sordi
eravam, ma di gusti sopraffini.
Inni e odi erano studiati e letti
con amore ed entusiasmo perfetti.
Illustre Alessandro, ora, al mio dire
aggiungo che riesco ancor a gioire,
come un dei posteri, a farti capire
l’ardua sentenza che volevi udire.
Fu vera gloria? Chiedevi a noi tutti
chinati sui libri a leggere versi,
concetti di grande respiro, flutti
impetuosi erano per noi immersi
a navigare spediti al tuo fianco,
di pensieri eccelsi nessun mai stanco.
Mi chiami in causa e, con grande rispetto,
provo a dirti con modestia, di getto,
tutto ciò che penso, pur imperfetto,
di color che il mondo preser di petto.
Cos’è la gloria? Fama e onore vasti
per gesta d’eco universal, che renda
memoria giusta, e non siano nefasti,
e chi sta in altra sponda non offenda,
ma se fama è di parte allor per gloria
o disonor distorta sarà storia.
Conosco il grande còrso. Ha messo le ali
per salir, pur tiranno, tra immortali?
Posteri dovremmo esser imparziali
ma sappiam che raramente si è tali.
Troppo lontan per servil encomìo,
son pur indenne da inutil oltraggio,
parlerò secondo il buon senso mio
per conoscenza, ma pur con coraggio.
Spesso il non dire equivale a mentire,
cercherò dal garbuglio di sortire
arrischiando coraggioso un pensiero,
senza uscir per azzardo dal sentiero
che retto e obiettivo conduce al vero,
riflession sarà unico mio cero.
Non occorre agitarsi tanto in vita,
se invece del bene dell’umanità
cerchi solo cosa che a te è servita,
non s’accordano eroismo ed impunità.
Perché di te sempre resti memoria
devi viver bene e finire in gloria.
Al Bonaparte non successe questo,
finì sconfitto, derelitto e mesto,
perciò dell’antica mia opinion resto:
glorificarlo dopo è senza sesto.
16.11.2016
MARCO TULLIO CICERONE
Fino a quando abuserai, Catilina,
della nostra pazienza? Tua orazione
superba, d’impostazion sibillina,
il torpor del Senato, o Cicerone,
profondamente scosse, da ragione
istruito, conducesti a perdizione
precoce ambizioso giovin romano.
Eppur pazzo non era, con sua mano
oltre la Repubblica a nuovo e sano
ordine volgea con appoggio urbano.
Fosti gran venditore di parole,
politico, colto e saggio oratore,
sapesti irretire, come favole,
premendo forte su patria e su onore.
L’urbe patrizia, timorosa e incerta
accolse il verbo di persona esperta.
A tua domanda chi seppe obiettare?
Nessun, perche sapevi dove stare,
che dire e nella confusion che fare.
Gli Optimates per te osaron votare.
Cicerone, di mal non dico niente
vedo come mi guardi, eretto il busto,
corrugata la fronte, sguardo assente
sottili ed eloquenti labbra, esausto
tuo rimbrotto con l’indice che accusa.
La mia bocca ad adular non adusa,
loda la tua fermezza, tua furbizia,
l’amore per filosofia e giustizia,
no al destino che crea nell’uom l’inerzia,
credevi al libro, all’orto, all’amicizia.
L’ipse dixit, amasti, Aristotéle,
la cultura, l’arte e la lingua greca
ch’ampio soffio diedero alle tue vele
oratorie, lo diciam con Seneca.
Fin d’ora ti affido il mio consenso:
dir che tua vita ha vera gloria ha senso.
Sbagliasti i tempi a nuovi gravi eventi,
tue Filippiche ottenebraron menti
del tuo protettor ed Antonio, genti
nuove al potere agiron da dementi.
Sicario iniquo a Formia ti raggiunse,
pericolosa era ora la tua onestà,
porgesti il capo a chi te lo disgiunse,
la mano ch’accusava per libertà
fu tagliata, misera fine, vero
eroe dei tempi suoi cadde intero.
A la res publica dedicò onore,
offrì tutta sua vita con ardore,
strappò i patrizi dal loro torpore,
ma per l’impero mancavan solo ore.
GIUSEPPE GARIBALDI
C’è una lastra al capanno ferrarese,
l’ho toccata, passasti con Anita,
ultima tragedia, poi lei s’arrese,
ma prima lottò generosa e ardita.
Cercherò di non parlar di battaglie,
anni duri, tra scontri e rappresaglie,
furono i vostri; le vie, piazze e scuole
ogni paese nome portar vuole,
parlare e stampare di te si suole,
così dir minor cose non mi duole.
Fu modesta a Nizza la tua partenza,
navigator del mare amante fosti,
da Genova a Marsiglia tua presenza
si diffuse nei più lontani posti.
Da Odessa a Riogrande lasciasti traccia,
murator fosti durante la caccia.
Fuggiasco, da nave vedesti a riva
chi ti sarebbe stata acqua sorgiva
per dissetar ventura sempre viva,
il tuo amore, Eroe, Anita gradiva.
Menin dei Mille da Camponogara,
detto, da qui partì in camicia rossa,
sulle balze sicule lottò in gara
con i prodi condotti alla riscossa.
Generoso, leale, dovunque e sempre,
dei giovani formasti miglior tempre.
Premi, guadagni o stati mai preteso,
per Italia una e libera hai conteso,
tu repubblicano un re hai atteso
a Teano e immeritato regno hai reso.
Vita intensa fu, autentica bellezza
e gloria rende ogni latitudine,
per valor dell’armi e per cuor grandezza,
meriti rispetto e beatitudine,
con un altro Giuseppe, stessi fini,
patriota e carbonaro era Mazzini.
Ai tuoi piè potevi volere il mondo,
l’avrebber dato se insistevi a fondo
ma amor di patria e l’onore secondo
mai furon a l’uom di virtù fecondo.
Tuttavia unico postumo rimbrotto
or ti rivolgo, convinto e sereno.
Stanco a Caprera, esule andasti di botto,
lo Stato diede la pensione almeno,
una capanna gli ultimi tuoi giorni
accolse, muta, di silenzi adorni.
Deluso, affranto e sfinito in attesa
d’ultimo respiro, nessuna resa
a Dio giurasti, mai nessuna chiesa,
nessun prete a cancellar un’offesa.
NERONE (Lucio Domizio Enobarbo)
Morto giovane, tristo e malvissuto,
non furono geniali i suoi strapazzi,
d’orge, filtri e di congiure fu acuto,
di delitti infami e trivial sollazzi.
Malvagia de la sua gens fu la fama
e crudele, ch’al mondo nessun l’ama.
La mente che sua storia guarda, balba
resta nel veder vita tanto scialba,
per viltà eterna, che si tolse all’alba
dell’incipiente vincitore Galba.
Di quanto so fo come d’uve il torchio,
spremo tutto per tener quanto basta
per dire il succo, il resto è a rimorchio,
infatti cercare fuori non guasta.
Agrippina, qual serpe velenosa, in casa
fece spazio, d’odio e amore pervasa,
spianò la corsia che permise al figlio
rabbiosa salita al poter senza impiglio,
ma non bastò, di lei con truce cipiglio
spezzerà alfin il tragico groviglio.
Allevato all’amor da liberta Atte,
come sposa ebbe l’infelice Ottavia
che Tigellin spostò con malefatte,
e a Poppea l’astuta aprì facile via
per l’impero, ma eran troppo decise
sue parole, con un calcio l’uccise.
Come David volle Betsabea, bella
d’Uria la sposa, e lo scalzò di sella,
così fece con Messalina, quella
corrotta, che vide il marito in cella.
Petronio voluttuoso e raffinato
fu nel palazzo arbitro del buon gusto,
per questo, dalle insidie riparato,
meditava di meritar un busto
a fianco d’un principe depravato
che d’ogni dignità s’era privato.
Indusse i senatori ed i patrizi
a coltivare identici suoi vizi
a lottar in arena da novizi,
della sua fine c’eran già gli indizi.
Ahimè! Amava la poesia ed il bel canto,
nei suoi giochi giovenali recitò,
quando Roma bruciava apparve affranto,
poi le sue rime al foro depositò.
Si ribellaron quindi i legionari,
adusi ad ogni pietà essere avari.
Nuovo imperator a regnare s’accinse,
fragili ostacoli superò e vinse,
ei, tremante, il ferro su di sé spinse,
pianse, ché un artista alla fin non vinse.
DAVID
Stava solitario a vegliare il gregge
e il profeta venne a cercarlo. Ungilo:
Dio disse. E’lui! Parole come schegge,
che più non si cancellano: prendilo,
dopo Saulo, sarà lui il prediletto.
Giovane era, fulvo, di bell’aspetto,
a corte con l’arpa il re consolava,
combatteva i filistei, l’osannava
il popolo, ma l’odio spesso grava
su chi invece un premio lo meritava.
Il re sconfitto di spada s’infisse
e ad Ebron fu incoronato sovrano
d’Israele, Samuele lo benedisse:
il regno di David andrà lontano.
Poeta fu, saggio, musico e guerriero,
non la tenda volle, ma un tempio vero,
però non lui, eterna sua discendenza
all’Arca darà degna residenza.
Infatti il figlio suo per eccellenza,
farà il tempio con onore e potenza.
Di guerre con i popoli vicini
non ne perdesti una, sacra scrittura
dice di lotte e interventi divini,
per tutti un dì vittoria e un dì iattura.
Molte mogli avesti, solo Betsabea
con il figlio suo Salomone si bea.
Non sono Geremia, di te lamento
non sollevo, sarebbe strano evento
se, ma forse dico parole al vento,
fosti vissuto in Nuovo Testamento.
Molti pensieri ti dettero i figli,
perché il regno volevano usurpare.
Assalonne ai rami lasciò i grovigli,
per tuoi soldati cessò di campare.
Molto dolor provocò l’accaduto,
ma sapevi che sarebbe avvenuto.
Vecchio ormai, il regno cominciò a tremare:
Adonia da solo volle tentare
d’imporsi per potere comandare;
fu Salomone a farsi incoronare.
Per giudicare un uomo conoscere
bene bisogna i luoghi ed i tempi suoi
con quali regole indotto a vivere,
perché cambiar gli ordinamenti non puoi.
Ti onorano artisti di tutto il mondo
sei stato d’ispirazione fecondo.
Di tua storia ho scelto non più di tanto,
il men conosciuto, ma è sempre un vanto.
E’ Miserere mei il salmo che canto,
come posso mormorare d’un santo?
GALILEO GALILEI
Primo a dubitare di Aristotele,
ne parlasti al Sagredo padovano
quando apristi agili curiose vele
nel navigar celeste contromano.
A Venezia, serena e tollerante,
ti parlò Paolo Sarpi dialogante.
Lungo la Brenta nostra eri di casa,
l’universo è un libro aperto ch’intasa,
dicevi, l’intelligenza, s’è evasa
la matematica che tutto basa.
Esperto di astrologia e meccanica
t’avviasti a studiare l’affascinante
mondo delle stelle, ché geometrica
è la lingua che studia lì davante
il cielo, fatta di triangoli e cerchi
altrimenti in labirinto ti sprechi.
La perfezione del tuo cannocchiale
ti confermò che eliocentrico vale
e non la terra al centro universale,
ciò a te parve subito normale.
Ci fu chi confuse Bibbia e teologia
con astronomia, s’oppose deciso
il cardinale, ma Giosuè non fe’ magia:
su Gabaon fermò il sole? fu impreciso!
Per abbatter quel mitico miraggio
mettesti, e non bastò, grande coraggio.
Ti attaccò furente un domenicano
per aver difeso il copernicano
celeste sistema, tornasti sano
or ora, lo volle il Papa romano.
Occorre provare ciò che si afferma,
questo ordine d’intelletto e pratica
fu bussola che guidò mente ferma,
mai cessò la tua ricerca e fatica.
Poi spinto a praticar maggior prudenza
di Bruno evitasti orribil sentenza.
Senza chiasso continuasti il tuo studio,
con timor lottasti contro ripudio
delle tue scoperte, con vivo gaudio
vedesti diffusion del tuo preludio.
Tue son fama e gloria, sono spartiacque
tue teorie, tra classico e moderno.
A Pisa, ove Arno finisce le sue acque,
sorse un genio il cui nome sarà eterno.
Ovunque c’è una via oppur un liceo
con nome tuo dalle Alpi a Lilibeo.
Cadon gravi perpendicolarmente,
come su nave, ferma o semovente,
perché moto conserva esattamente,
essendo nell’aria immersi ugualmente.
GRAZIA DELEDDA
La vita passa e noi la lasciamo
passare come l’acqua del fiume,
solo quando manca ci accorgiamo
che manca. Voglio ascoltar il tuo acume.
Amai la mia terra e la mia gente,
ebbi il succo del saper da chi niente
sa; da vecchi, contorti come ulivi,
appresi che il modo in cui pensi e vivi
deve aver attimi contemplativi,
parlo di maestri di scuole schivi.
Mi è caro il volo d’un gabbiano
colpito, tra le canne non coglie il vento
che soffia forte, là spera invano.
Mi ricorda Efisio, ai Pintor attento,
a lor vita procellosa conforto,
alla famiglia volle dare un porto.
Di Barbagia cultura e tradizione
trabocca la tua penna, devozione
e amore riservi ai luoghi icone
senza tempo dove l’uom trova sprone.
Solenni fulgori di terra sarda,
vita severa, tragica, paziente
dei pastori la tua passion non tarda
a narrare con cuore vero, ardente.
L’opere tue sorser lente, pazienti,
poi esplosero, attrasser colte menti.
Ci fu anche chi ti guardò con sospetto,
d’altri insigni autor povera al cospetto,
ho d’entrambe version rispetto,
tuttavia altra donna Nobel aspetto!
Piccol fiato sarebbe il mio dire
sull’arte, passione e letteratura;
voglio parlar di chi riuscì a salire
in gloria, pur da piccola statura,
sia di persona che natal ambiente,
sfidando su donne pensier corrente.
Fece di sé stessa abile marketing,
con chi conta intrecciando sempre feeling,
a interessate critiche fe’ dribbling,
novelle, epistole furon suo jogging.
La storia d’Elias lessi da ragazzo,
ebbi come guida Armellin maestro,
lessi tutto il possibil come razzo,
i libri non mi furon mai capestro.
Or che solitario vivo in pensione
usar bene parole è mia passione.
Nella chiesa della solitudine
nero è il marmo: come d’abitudine,
tormenti e tragedie restano il fine
del tuo raccontare anche oltre il confine.
ATTILA
Dal nulla vennero e spariron nel nulla,
da alba al tramonto vissero a cavallo,
sterminate praterie, terra brulla
percorsero feroci senza stallo,
furono questi gli spietati Unni.
D’Attila, flagel di Dio, fur alunni,
ei condusse sotto ferreo comando
ogni popolo a inevitabil sbando.
Non passaron lor vita i campi arando,
in alcun luogo andaron navigando.
Molto sei decantato, ma diverso
è del canto il suono di chi Danubio
lo vede da un posto oppure all’inverso,
ma ovunque di sangue il suolo fu rubio.
Non ti mosse desiderio di fama,
ma sol di conquistar e passar brama.
Da sponda a sponda i due romani imperi
sentirono tremare i lor poteri.
S’arrese ogni opposizion ai voleri
d’un tiranno senza onori e criteri.
T’imponesti invadendo, minacciando,
in Europa crudeli fur tuoi impatti,
dal Caspio al Baltico terror seminando,
sul Po con Leone scendesti a patti.
Tuttavia furon sciamani e indovini,
che di Alarico evitaron i ruini
consigliando al tiranno di ritrarsi.
Non ci fu benedizione o catarsi,
continuò ad infierire e ad armarsi
anche se strani mali erano apparsi.
Tra i potenti non fu il solo a far danni,
ci furono Stalin, Hitler e Mussolini
a procurar, in stessi luoghi, inganni,
guerre, distruzioni, crudi assassini,
per tutti lor nessuna assoluzione,
tengan la conquistata perdizione.
Talor succede, da tanto mal viene,
non cercato e non voluto, del bene,
infatti così sorse tra barene
Venezia, con gioie e minori pene.
Come l’acqua violenta spegne il fuoco,
ma decreta sua morte, perché esala
il suo vigor, così crudele gioco
tocca al superbo quando livor cala.
Gente intemperante per sua natura,
come te, serve sol a chi pittura.
A te non riconosco gloria alcuna,
lasciasti questo mondo con nessuna
opera solenne, pallida luna
ti resta, sei come ago senza cruna.
GIROLAMO SAVONAROLA
Le società che pèrdono del bene
le capacità, che sol ai violenti
guardano, solo idoli e cose oscene,
superbie, si scopriran decadenti.
Niente le può salvare dal lor male,
solo un nuovo diluvio universale.
Su carità perduta e amor che al cielo
tende, irruppe una lingua senza velo,
ché parlava solo come Vangelo,
così con il Papa scese gran gelo.
Insorse Signoria del Magnifico,
predicava a favor dei disperati?
tra le fazion scatenò un brutto intrico,
non difendeva ricchi e fortunati.
Parole di fuoco, severa penitenza
per peccatori senza continenza.
Il frate usò termini virulenti,
poiché erano i tempi dei prepotenti,
col suo parlar chiaro fuori dai denti
non poteva che finir tra i dementi.
Un cavallo esperto galoppa e vince
se il cavalier in sella lo convince,
ma se scudier per primo non t’avvince,
allor non reggon città né province.
Lorenzo fu detto ago della bilancia,
perché aveva banca che tutto aggancia.
Baratti e simonie erano merce unica,
li maledì, ma ebbe la scomunica
grande dramma per chi abita tunica,
ogni giorno prega e si comunica.
Bruciò nel gran falò delle vanità:
dipinti, lussi, vesti, arte, gioielli,
un delitto fu contro l’umanità,
ma denunciò i fiorentini bordelli.
Gli s’applicò legge del contrappasso,
perché ebbe stessa fine il frate, ahi, lasso!
Uscì dall’arengario del palazzo,
vestito in bianca tunica da pazzo
l’attendeva il patibol col suo lazzo
e, ingiuria! la pira con fasci a mazzo.
Dove sarà ora il carnefice Borgia?
Poiché ci furon già allor pentimenti,
dovrebbe occupare dantesca bolgia.
Del frate ricordiam gli ammonimenti,
dal fumo uscì man con gesto divino
per l’ingrato popolo fiorentino.
Morì rivoluzionario perdente,
come Lutero si dichiarò assente,
eppur non mancherà tanto alla gente
di vederlo su altar benedicente.
ULISSE
Nobil re d’Itaca, espugnasti Troia
con un grande caval di legno, in seno
nascondeva guerrier pronti alla gioia
di vittoria per l’inganno al veleno.
Valoroso e audace, astuto e impudente,
di menzogna a noi parvi astro nascente.
Ci insegnasti che furbizia ci paga,
vale in ogni tempo ed in ogni plaga
poiché nessun pensa, nessun indaga
di tue gesta Omero scrisse la saga.
Sotto femminee vesti era Pelide,
tra i doni scelse l’elmo e si rivelò
Lo portasti a combatter, mai più vide
giovinezza, a vita un dardo lo celò. .
L’incauto ciclope Nessuno ferì
e mai seppe quale inganno lo colpì.
Violasti unico di sirene il canto,
di questo i compagni menaron vanto,
da maga Circe fosti astuto alquanto,
Proci colpisti sotto vecchio manto.
Tuo comportamento fu del giaguaro,
ratto, con astuta sorpresa fa il salto
per colpire ingenuo erbivoro ignaro,
tale fu tuo ritorno con gran smalto.
Qual foglie d’autunno appena augel tocca,
così versi per me scendon in bocca,
per redarguir personaggio famoso
che Poseidon travolse in procelloso
mare, per punire l’uomo curioso,
che sfidò dei e destino da focoso.
Ragazzo, parteggiavo per vincenti,
al cine per settimo cavalleria,
a Ilio voi Greci foste convincenti,
m’immedesimai in vostra spavalderia.
Ora son più colto perché canuto,
distinguo l’astuto dall’evoluto.
Eroe più di te, Odisseo, fu Ettorre,
che a difesa suo petto seppe esporre,
anche quando attorno alle mura corre,
inutil mano Apollo poté porre.
Senti mia ammirazion e mio disagio
a parlar di te con gran supponenza.
Dante suggerisce d’andar adagio
e di ammirar tuo ardor di conoscenza,
che uomini sprona a non campar da bruti,
ma ad agir per scopi scelti, voluti,
a non essere troppo inerti e muti
a non imbucare facili imbuti,
ma viver da intelligenti ed acuti
nell’affrontare lidi sconosciuti.
CRISTOFORO COLOMBO
Propizia la notte, aliseo costante
andavan caracca e due caravelle
a ponente per buscar il levante.
Vegliava, sotto il luccicar di stelle,
l’ammiraglio, navigator esperto,
s’inoltrava in ignoto mar aperto.
Castiglia accolse, dopo lunga attesa,
di coronare di Colombo impresa.
Nessun legno avea pria quell’onda offesa,
gonfia è la vela a nuove terre tesa.
C’è un seme occulto a germogliar proteso
in ogni persona attenta ch’ignorar
nulla vuol, purché di volontà acceso
abbia il lume dell’imparar per cercar.
Studiò carte di Toscanelli e Polo,
per le Indie non c’era una rotta solo.
Molti studiaron, ma nessun decise,
il sogno del genovese precise,
chiare e profonde le radici mise
fin che col dominio regal coincise.
Vinse, trovò la terra nuova, indiani
chiamò abitanti abbronzati e nudi,
non lo erano, dei conquistator piani
conosceranno, saran tristi e crudi.
Civiltà portaste, ma era sol nostra,
dem pesi, che chiunque rifiuta o prostra.
Cavalli e fucili ridusser a impotenza
popoli con altra storia e credenza,
fu piantata nostra avida semenza
che tolse salute, libertà e scienza.
A Machu Pichu segni del disdoro,
degli Aztechi fu distrutto l’impero,
in Alabama schiavi a prezzo d’oro
deportati dal continente nero.
Di questi crimini non saprai niente,
tuo scopo scientifico era vincente.
Quante invenzioni e scoperte umanità
conobbe, l’uso saggezza o malvagità
promosse, scindo responsabilità,
agisti con rettitudine e onestà.
Mi premeva dire queste parole,
causa tu non fosti, ma precursore
d’eventi stolti che l’ingordo vuole,
colpa grave è del vile successore.
Ti parlo a scatti, caustico, arrabbiato
perché tu, mite, fosti incarcerato.
Guardi e chiedi: la mia fu gloria vera?
Ammiro tua ricerca, fu sincera,
fu scoperta non preda di bandiera,
di scienza doveva esser primavera.
ÖTZI
Nella grotta sottovento stentava
l’homo, l’acciarino fiamma non dava
sull’ erba bagnata, fuor nevicava,
nell’antro lontano madre allattava.
Terribile sguardo per l’impotenza,
della natura ascoltò la violenza.
Faretra e frecce acuminate, l’ascia
di rame pronte, nel cuor forte ambascia
opprimeva Otzi, un dolor che t’accascia
perché altra scelta fame non ti lascia.
Si coprì di pelli di lungo pelo,
vibrò arco di tasso come suo istinto,
per cibo affrontava un vento di gelo,
l’investì cruento, ma l’avrebbe vinto.
Il Similaun qual orsa inferocita
non permetteva ad alcun un’uscita.
Ululava natura i suoi tormenti,
su l’aspre crode a tutti gli attendenti
annunciava dolorosi portenti:
ghiaccio, fame, morte lenta di stenti.
Piccola donna, giovine avvizzita,
occhi ardenti fissi e disperazione
l’inchiodavan, infante senza vita
in braccio senza alcuna relazione.
Entrò un vecchio, abbracciò la derelitta,
estrasse fieno secco dalla slitta
sfregò la pietra e uscì stentata fiamma,
accarezzò la figlia or non più mamma
le offrì le parole che il cuore infiamma.
Uscì a caccia, forte, senza alcun dramma.
Da necessità spinti, altri animali
si muovevan guardinghi nella notte
a catturare intirizziti o tali
con i tranelli, appostamenti e lotte.
Due cacciatori strisciavan gli anfratti
da antico famelico appetito attratti.
Su alta rupe ritto stava stambecco,
lo vide, s’apposto, lo fece secco.
Ma altro cacciatore senza aprir becco
scagliò sue frecce ed Otzi finì stecco.
O mio antenato, ti ho dedicato
queste rime, per onorare tue ossa
e a memoria di chi ci ha risparmiato
vivendo prima tal tremenda scossa.
Voglio che chi legge faccia a te inchino,
perché la vostra storia ha del divino .
La storia dei popoli è lungo filo,
ma per comprendere il vasto profilo
scoprir occorre dell’uom primo asilo
continuando poi con onesto stilo.
LEV TOLSTOJ
Sto in silenzio e ascolto, non so che dire,
nel caleidoscopio di tua esistenza,
vario e universale fu tuo sentire,
ma mi colpisce il tumulo d’assenza.
Solo terra ed erba a burron vicino,
nascosto tra gli alberi il tuo cuscino.
Amante della quiete di campagna,
di fratellanza, e fede che si lagna,
dalla irritata chiesa in pompa magna
fosti messo dietro a nera lavagna.
E’ sempre successo a scomunicato,
dopo anni e forse secoli si scopre
ch’aveva ragion il pregiudicato,
e si lucida ciò che polver copre.
Per quanto famosa persona tu sia
dirò leggere cose con cortesia.
Parlo non su vasta letteratura,
né d’immensa gloriosa caratura
dell’opre su scuola e su terra dura,
d’uomo pacifico per sua natura.
Vita abbondante di sfide e rinunce,
triste per esser ricco tra perdenti
dato hai voce a lor flebili denunce
hai sofferto i tuoi familiar eventi.
Di pensare e descrivere mai stanco,
stupisci ancor per lo strano tuo ammanco.
Un vulcano di fuoco immenso esplose,
da Jasnaja Poljana fuggì, erose
gli stanchi dubbi e notti fastidiose,
per dove? perché? son domande oziose!
Fuori da terrena gloria, esistenza
ultima volevi lontan dai lacci,
mite, senza altri assilli, non presenza
di Sofia, ma crudele è età di impacci.
Vecchio, raminga meta nella steppa
cercavi, la trovasti, vita è zeppa,
senza cercar, di sorprese avvilenti.
Per strade fangose e cupe, accoglienti
isbe non c’erano, sol febbri ardenti
fino a piccola stazion per morienti.
Per me, o grande, è un mistero vedere
uom che lotta e spera in futura gloria,
la raggiunge, non smette di sapere,
eppur conclude confuso sua storia.
Cercavi in fuga libertà sommessa
ma fu spiral piegata su se stessa.
Poi rifletto e penso alla tua coerenza,
alti discorsi di qualche eccellenza
hai rifiutato, d’amici presenza
hai permesso per l’estrema accoglienza.
02.12.2016
JACK LONDON
Cercando nei miei ricordi lontani,
t’ho ritrovato, Buck. Quando ti lessi
m’innamorai di storie di voi cani,
provai a raccontare, oh! se tu sapessi.
Nacque un pasticcio melenso, inutile:
devi saper ciò che dici o è futile!
Scattò però una molla, la tua storia
la conobbi e la raccontai a memoria,
provai a pulir di parole ogni scoria
e a scrivere cominciai di chi è in gloria.
Da losco figuro a lottare avviato,
tra nevi e ghiacci per la corsa all’oro,
ad una infernal slitta condannato,
conoscesti frusta e silenzio sonoro.
Spirito d’avventura, grande rischio
ti portaron a obbedir primo fischio.
Subito m’apparve la tua esistenza,
non semplice racconto, ma potenza
di mente eccelsa per andar oltre essenza,
capace di svelar, tra le righe, scienza.
Prolifico fu l’autor che ti pensò,
in sua breve vita intensa e creativa,
convinto, nessun pericolo scansò,
di solidarietà ebbe un’idea viva,
in modo appassionato la trasmise
con parole chiare, forti, decise.
Di natura ebbe concetto severo
perché severa è natura, leggero
di uomini indaffarati è il pensiero
se agiscon come se non fosse vero.
Tradito da compagni di ventura,
perduto Thornton, grande amico,
rispose senza esitazione o paura
di foresta a forte richiamo antico.
Quella è la sua casa, quello il suo ambiente,
a questo mondo non visse per niente.
Radicato era primitivo istinto,
d’original sua natura convinto,
lasciò il mondo che l’aveva respinto,
da foresta il suo cuore aveva attinto.
La natura chiama, non ci fa sconti,
ascoltiamo tutti i suoi avvertimenti,
a grandi ammonimenti esser pronti,
o avrem gravi disordini altrimenti;
alle caverne tornerem, agli albori,
e a nipoti lascerem sol dolori.
Non è fuorviante pensar a caverne
se non ci lasciam altre vie alterne,
il richiamo della foresta ci concerne
se roviniam le riserve moderne.
SORELLE BRONTË
Avevate regole da statuto
m’han per questo colpito la famiglia
e l’ambiente chiuso che vi ha cresciuto,
tutto santo, d’un bel che non strabiglia.
Sorelle Brontë, timide insegnanti,
ma per necessità pur governanti,
amaste molto selvagge brughiere
da renderle protagoniste vere,
con figure molto dure ed austere
che in lettere raggiunsero alte sfere.
Fanciulla, fu ecclesiastico collegio
a rattrappire la tua triste infanzia,
fu quello il marchio che, qual sortilegio,
t’ispirò in Jane Eyre maggior sostanzia.
Charlotte, carissima, conoscesti
cos’è amore e subito lo perdesti.
M’affascinano coraggio e volontà
per vincer corrente neghittosità
d’ambiente sordo a femminil novità.
in tua vita poca fu felicità.
Vostra fantasia scoppiò con scatola
di soldatini mossi a piacimento
ognun aveva sua gradevol fola
storie inventando di gran godimento.
Emily, fur in primis scandalose
l’avvincenti tue Cime Tempestose.
Si concluse tuo destino trentenne,
sufficiente per memoria perenne.
Heathcliff e Catherine, non indenne
amore, vagan ora senza antenne.
Scrivi di personaggi somiglianti,
attraverso lor parli di tuoi sogni
di gioie e serenità vacanti,
spinta a servir per familiar bisogni.
Agnes Grey, semplicemente sposare
vuol nuovo parroco; basterà osare.
La tua storia è più leggera, sottile,
diversa è la trama, grezzo lo stile.
Non mi stupisce la dura vicenda
d’una educatrice, a fare ammenda
pur il discepol seriamente apprenda
e a te speranza di lavor s’accenda.
Molte sono riflessioni e luci accese
da vostre storie diverse e pur unite
da uguale patire, rude e palese
è il tratto di eroine preferite.
Forte tempra, bravura e coraggio
aveste, e a voi rendo sincero omaggio;
fortuna e cultura, dite ai lettori,
non sono mai disgiunte dai dolori,
sia tenace la volontà e a colori
mondo sarà sia dentro che fuori.
CONTADINO DELLA MIA TERRA
Amo questo paese, che crescere
mi ha visto in una casa contadina.
Venti ragazzi in contrada a correre,
d’inverno calze grosse e mantellina.
Amo i lavoratori della terra,
ora son morti tutti, non in guerra.
Mani callose, contorte, da attrezzi
piagate, usavan duri e onesti mezzi
per estrarre il pane, con schiene a pezzi,
dalle zolle, pesare giusto avvezzi.
Costruite uno dei tanti monumenti
per onorare, in piazza Brusaura,
nostri padri, gloriosi combattenti
contro mezzadria, grandine e calura.
Lottavan fianco a fianco tra vicini
a far maturar spighe, mais e vini.
Non c’era alternativa, lavorare
a testa china, occhi al suolo e sperare
una stagion clemente per pagare
concimi, affitti, sementi, e il mangiare.
Ho visto vecchi, salici piegati,
pur forti querce, spesso disprezzati,
deboli, indifesi, al padron chinati,
scusarsi senza essere obbligati.
Figlioli, va onorato il contadino
subito a fatica fin da bambino,
l’aratro suo libro divenne presto,
non la cartella portava, ma il cesto,
studiar avrebbe voluto, ma onesto
non era lasciar padre solo e mesto.
Il peggior evento, era la tempesta,
ogni spiga distruggeva, ogni canna,
spogliata, vigna chinava la testa:
allor al contadin sguardo s’appanna.
L’uomo non piange mai, gli trema il mento,
la madre toglie l’incenso ormai spento.
I bambini comprendono la tragedia,
piangono sommessi, addio prima media!
A sera, seduto sghembo su sedia,
in stalla, il dolor non manca ne tedia.
La mia terra va oltre mio paese,
penso ai campi a confine, all’Italia
povera, ha sudato senza pretese
ma sognando sempre destin ch’ammalia.
Figlioli, ora tocca a voi continuare,
sacrificio dei padri migliorare.
Fronte alta, mani pulite tenete
sempre, nuove grandi mete scegliete,
padri contadini onorar dovete,
sacrifici e vittorie esempi avete.
AMICI CARI
Dico subito che fu vera gloria
l’amicizia con gli antichi compagni,
colonne insieme al Santo a promemoria
imbrattammo con firme e formule,
non bell’esempio per futuri educatori,
da campi usciti, non eravam signori.
Fu per quattr’anni, come un fermo posta,
studiar chini sui banchi al duca d’Aosta,
a santa Sofia correndo senza sosta
per posto in tram a chi primo s’accosta.
C’è una foto, sotto il busto di Dante,
in una rimpatriata decennale,
ci siam ritrovati, sguardo raggiante,
con La Via e sua solita paternale,
amato professore d’italiano,
che agli esami ci condusse per mano
con il suo perfetto parlar piano,
era esperto studioso manzoniano.
Rude insegnante e padre fu Bastiano,
ci spiegò: essere colto? sì! di più umano.
Con Paride, Francesco e Beniamino
passavamo sulla lastra la mano
aiuto chiedendo per il latino
partendo dal dialetto parea strano.
Il primo divenne bravo architetto,
quasi Giotto disegnator perfetto.
Il secondo fu tra i friulani monti
segretario d’Ente, era bravo in conti.
Il terzo al governo andò, avea pronti
decreti delegati senza sconti.
Non ci furono ragazze tra i banchi,
a guardarle da finestre in palestra
eravam solo illusi e poco franchi,
poi ognuna divenne brava maestra.
Ma i sorrisi e gli impegni eran diversi
carichi personali ci han dispersi.
Lunga storia di concorsi, supplenze
a sperar dei titolari le assenze,
alle elementari forti presenze,
ed esempi lasciam come sentenze.
Ci sentiamo, vediamo ancora, cari
ricordi sorridendo rievochiamo,
tante voci, pensieri a noi son chiari,
guardiamo indietro, lenti poi svoltiamo.
Anche dei piccoli sinceri eventi
son salda roccia per animi ardenti.
Che vite, passioni siano importanti
non dipende da episodi eclatanti,
da quantità o da clamori esaltanti,
ma da cuori forti gioiosi o affranti.
Indice:
ALESSANDRO MANZONI
MARCO TULLIO CICERONE
GIUSEPPE GARIBALDI
NERONE
DAVID
GALILEO GALILEI
GRAZIA DELEDDA
ATTILA
GIROLAMO SAVONAROLA
ULISSE
COLOMBO
OTZI
LEV TOLSTOJ
JACK LONDON
SORELLE BRONTE
CONTADINO DELLA MIA TERRA
AMICI CARI
08.12.2016
a cura di Luigi Zampieri
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Ultimo aggiornamento (Lunedì 09 Gennaio 2017 11:38)