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Il re degli alberi di Andrea Zilio. Fantastica IDEA di educazione ecologico/ambientale.

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SAMBRUSON. CULTURA, COSTUME, TRADIZIONI, AMBIENTE. - LETTERATURA A SAMBRUSON (I)

Notizie da una mail per conoscenza.

Caro Luigino, ho visto in progress la presentazione del mio "aureo libretto".
Fu chiamato così da alcuni colleghi.
Per la sua stampa devo ancora ringraziare l'AIMC (Associazione Italiana Maestri Cattolici), e  il M.o Gianni Deppieri che si prodigò molto.
Fu illustrato in sala consiliare a Dolo dall'Ispettore Scolastico dr Pierantonio Bertoli che, come Direttore Didattico di Dolo, a suo tempo, mi aveva autorizzato l'esperimento didattico. Non meravigliarti! Alla presentazione al pubblico fu presente l'On. Sottosegretario Beniamino Brocca, in rappresentanza del Ministero della Pubblica Istruzione.
Fu distribuito gratis ai docenti delle scuole elementari e medie di Dolo, Arino, Sambruson, che lo utilizzarono ampiamente.
Così, per tua conoscenza.
Ciao, Luigino.
Andrea


IL RE DEGLI ALBERI

di

Andrea Zilio

PROEMIO

Per amare qualcuno bisogna conoscerlo.

I bambini, e non solo loro, conoscono il nome, le abitudini e le caratteristiche di molti animali, anche dei più strani ed esotici. Il regno animale poi è presente e protagonista in molti racconti d’avventura e in molte favole per l’infanzia.

Il regno vegetale invece è sconosciuto ai più.

Il bambino che, giocando a nascondino, sta dietro a un salice dice: “Mi sono nascosto dietro a un albero”.

Perché?

Perché non conosce il nome degli alberi del suo cortile.

Da questa constatazione è nata l’idea di ampliare e precisare la nostra conoscenza delle piante evitando il più possibile la noia o la ricerca ridotta a inutile copiatura da enciclopedie.

Durante l’anno scolastico 1979/80, nella classe 5^B a Sambruson di Dolo, abbiamo provato un modo di operare che tenesse conto sia della realtà sia della fantasia. Abbiamo inventato una “favola”, una bella avventura con descrizioni, notizie, ambientazioni esatte stimolando la creatività, la ricerca motivata, affinando il linguaggio usando termini appropriati e precisi. I bambini si sono divertiti imparando, inventando personaggi e situazioni fantastiche, fedeli interpretazioni o trasposizioni tuttavia di fatti reali e concreti. Hanno sviluppato il canovaccio proposto dal maestro. Ognuno ha creato la sua storia.

Questa è la mia.

Molti ragazzi e ragazze, ora genitori, avranno ancora nel cassetto dei ricordi il loro originale libro di educazione ecologica, ricco di mille stimoli, informazioni, illustrazioni, opinioni e buoni propositi da rispettare e trasmettere.

I risultati sono stati sorprendenti, positivi a diversi livelli: migliore espressività e proprietà di linguaggio, curiosità e desiderio autentico di ampliare le proprie conoscenze sul regno vegetale, consapevolezza che un unico destino lega gli esseri viventi del nostro pianeta. Aiutiamoci, vogliamoci bene. Mi è sembrato un modo diverso per instillare nei bambini un amore per la natura intelligente e non di maniera, un riguardo e un interesse duraturi.

L’esperimento mi è stato utile come scopo e come metodo.

Sambruson di Dolo, 30.11.1987


IL RE DEGLI ALBERI

1. LA VALTORASSA

Dal profondo della valle saliva il frastuono delle acque del primo disgelo. Nel chiarore incerto dell’alba pungente s’udì il canto degli urogalli. Le vette ad oriente stavano deponendo il manto nero della notte ed acquistando il consueto aspetto solenne e potente. Nei canaloni tenebrosi pulsavano gonfi ruscelli ove stillavano i ghiacci dell’invernata. Ma fu ad occidente che si manifestò il nuovo giorno. La luce, rasentando le vette e infiltrandosi sicura tra le forcelle, brillò nitida sulle rocce di fronte, sopra il cimitero di guerra.

Le mandrie, che avevano passato la notte all’addiaccio ai margini del bosco, si muovevano pigramente tra i massi e i cespugli di rododendri. Dal basso salivano sfilacciati sbuffi di nebbia che si dissolvevano quasi subito. Voli frenetici di merli, francolini e pettirossi s’intrecciavano nel fitto sottobosco. Un suono argentino di campanella percorse la valle sulle cime degli abeti e si disperse nei buio dei crepacci profondi. Cento sorgenti, come tanti fili d’argento, gorgogliavano tra erbe e irti steli fino all’abbraccio con l’unico filone fragoroso e schiumante. Il torrente, precipitando tra le balze e i levigati macigni o sgusciando tra le gole anguste o schizzando tra gli anfratti e i tronchi caduti o scivolando nei tratti ghiaiosi e piani, modulava suoni, brontolii e schianti che non intimidivano nessuno, nemmeno le grandi trote marmorate che guizzavano a pelo d’acqua.

In alto, da una balza che sporgeva in fuori come una gobba dal dorso della montagna, Rossodisera vigilava scotendo la “testa” ancora bagnata per l’umidità della notte. Tutto tranquillo nella valle! Come ogni mattina a quell’ora, folate d’aria fredda dal nord gli portavano i messaggi dei fratelli e degli amici sparsi ovunque intorno alla balza dalla quale dirigeva la vita delle piante in quell’angolo pacifico e sperduto tra i monti.

La Valtorassa non è segnata nelle carte con questo nome. Lo sa Rossodisera? Non lo sa e non gli importa. La torre di roccia granitica, che sorgeva solitaria a mezzo miglio dalla catena di monti messi quasi a corona della valle, era chiamata la Torraccia, la grande torre. I valligiani la chiamavano nel loro dialetto. Quel sasso enorme, mostruoso, ai piedi di torri snelle e lanciate nell’azzurro cristallino dei cieli montani dopo gli uragani, sembrava, dalla balza sporgente su cui stava Rossodisera, un capo delicatamente reclinato con l’enorme naso corroso e slavato rivolto all’in su.  Né erbe né muschi né fiori riuscivano ad attecchire su quella fortezza levigata dai venti e dai geli. Nessun uccello costruiva il suo nido su quella roccia viva che diventava cocente nelle giornate di luglio e di agosto, neppure il balestruccio, umile e di poche pretese, si riposava lassù, anzi passava al largo con voli sfreccianti e sicuri. Stormi di corvi, di sera, quando risalivano la valle per tornare ai monti, pur volando alti, aggiravano la Valtorassa e proseguivano oltre, sparpagliati, gracchiando. I valligiani delle malghe, intenti a custodire le mandrie all’alpeggio, assicuravano che da lassù, ogni tanto, scendeva l’aquila a catturare gli agnelli sperduti o a far strage nei pollai. Queste cose si tramandavano, ormai, perché nessuno aveva più visto un’aquila da quelle parti da tanti e tanti anni.

“A memoria d’uomo!”

Ma questo non poteva dirlo, Rossodisera. Non poteva dirlo, perché uomo non era e perché le aquile le aveva viste davvero. Quand’era ancor giovane, un’aquila reale s’era persino fermata su un ramo di quercia a cinque abeti da lui. Era pur alto e forte allora, ma si era sentito intimidito alla presenza della regina della valle. La sua cima aveva tentennato senza vento, come per un inchino alla sovrana, che dall’alto spingeva l’acuto sguardo nei più oscuri recessi del bosco.

Eh, sì! Era bello e forte fin da allora. Nella vasta abetaia era il peccio più dritto e slanciato. Questo era merito suo e delle sue radici instancabili, che come una ragnatela invisibile avevano intessuto la balza togliendo spazio e humus ai suoi confratelli. Ma una parte di merito andava pure alla fortuna. Perché nascere in fondo alla valle, tra i macigni scossi dai torrenti o nei crepacci scavati dai ghiacci o nella fitta boscaglia, non era la stessa cosa che nascere in quella terra muscosa, esposta alla luce e all’aria aperta. La sua vita, oltre che ad un abete rosso fu dovuta ad una coppia di scoiattoli che s’erano fermati in quello spiazzo a sgranocchiare delle pigne. Dai semi caduti erano nati i nuovi abeti, esili, sottili, inermi sotto le sferzate dei venti, sepolti dalle nevicate degli inverni interminabili.

I piccoli fratelli avevano deciso di restare uniti, di aiutarsi, di sostenersi a vicenda. Le loro radici, incontrandosi sotto terra, si attorcigliavano, si avvinghiavano sempre più, e ciò dava loro sicurezza e coraggio. Ma ciò che sembrava un gioco, con il passare dei mesi e degli anni, si rivelò una trappola mortale. Le leggi della natura sono precise, severe e implacabili. Crescendo insieme, le piccole antenne di abete rosso cominciarono a sentire sempre più stretto lo spazio della loro vita. La parte esterna dei loro rami e delle loro foglie era verde e lucente, all’interno, invece, nessuna delle piccole piante riusciva a spingere i rami con la stessa armonia e vigore. I morbidi aghi, privi di luce, ammuffivano presto, prendevano un leggero colore marrone e cadevano irreparabilmente al suolo. Le avventurose ricerche sotto i sassi, sotto i tronchi fradici di vecchi faggi tagliati dai guardaboschi, all’inseguimento dell’acqua e dell’humus prezioso, stavano diventando affannose e disperate. Il groviglio di radici superficiali non dava loro possibilità di sopravvivenza. Un numero infinito di piccoli fili teneva in vita un numero altrettanto infinto di erbe, di fiori di bosco, di felci, di edere, di gramigne. Fu allora che, senza averlo appreso da nessuno, le radici dei piccoli abeti capirono che dovevano cercare i sali minerali necessari negli strati più profondi. Come tante mani invisibili, le piccole radici presero a frugare perpendicolarmente. Incontrarono nel loro viaggio grossi macigni che aggirarono lentamente, dividendosi. Con la crescita, la lotta per la ricerca del cibo si faceva più pressante e dura. Gli strati inferiori erano compatti e, spesso, entrate in umide fessure, le febbrili radici si trovavano in tanti vicoli chiusi. Chi poteva entrare in qualche screpolatura della roccia sepolta, a volte, trovava delle ospiti adulte.

“Che fai qui?” brontolò una grossa venatura di quercia ad una delle piccole filiformi radici degli abeti.

“Mi scusi, ma, qui sopra, io sto di casa” cercò di dire la nuova venuta.

“Io, qui sotto, ci sto da prima che tu nascessi! Capito?” E la giovane radice cercò altrove.

Nessuno si accorgeva delle lotte, delle fatiche, dei drammi che si sviluppavano e maturavano sotto terra.

Gli effetti però cominciavano a vedersi sopra il suolo: le piccole cime si differenziavano in altezza. Rossodisera, trovandosi più a valle dei fratelli, aveva indirizzato le sue radici principali in quella direzione. Era riuscito così ad aggirare i grossi massi sepolti sotto lo strato fertile di aghifoglie e a raggiungere una nicchia di buona terra non ancora visitata da alberi d’alto fusto.

“Di qua, di qua!” gridò ai fratelli meno fortunati.

Ma non è facile per una pianta muoversi. Le piccole radici, consapevoli di non poter più tornare indietro in tempo, s’impegnarono in una lotta spasmodica contro la roccia. Le frequenti piogge portavano per fortuna acque ricche di nutrimento, dopo essere state filtrate negli strati umiferi superficiali. Ma ciò non bastava alle vigorose piantine. Attaccarono energicamente le falde di pietra scheggiando, frantumando, sgretolando la crosta millenaria con una penetrazione lenta, sottile, micidiale. Quel prezioso lavorio non sarebbe servito a loro, purtroppo, ma, aggiunto a quello di altre radici, sarebbe stato di giovamento alle piante delle generazioni successive, che avrebbero trovato un ambiente più fertile e accogliente.

Rossodisera vide i suoi fratelli morire uno ad uno, o soffocati dal groviglio d’erbe del sottobosco o rinsecchiti lentamente per mancanza di nutrimento o tagliati dai mandriani per farne recinti. Provò grande dolore per quelle perdite a stillicidio. L’ultimo dei suoi piccoli fratelli cadde, all’improvviso, un mattino d’estate, dopo pochi colpi d’ascia. Denudata dei rami, l’esile antennella sparì, monca e inerte, su una slitta a mano. Lacrime di resina caddero dalle ferite della sua corteccia giovane che cominciava ad aprirsi e ad espandersi sotto il vigore della linfa che scorreva nel suo fusto libero sotto il sole. Ampi spazi erano ora intorno a lui. Trovato un terreno sicuro in cui nutrirsi, poteva spingere le sue radici alla ricerca di sali minerali e di acqua senza l’assillo del bisogno immediato. Le foglie morte, i rami secchi, i resti di animali, decomponendosi, costituivano per tutte le piante del bosco una miniera eterna di cibo.

Rossodisera, col passare del tempo, si faceva sempre più assennato. Era la vita stessa che gli forniva preziosi insegnamenti. Capì che le piante possono anche convivere e che lo stesso terreno può nutrire più radici, perché esse si muovono a livelli diversi e cercano nutrimenti diversi. Capì che non doveva temere le radici del tiglio selvatico e quelle del faggio; anche quelle degli ontani dall’argentea corteccia non lo avrebbero danneggiato. Capì l’importanza dei muschi e dei funghi del bosco che pazientemente tramutavano i corpi secchi e morti in sostanze assorbibili e nutrienti. Queste scoperte e queste conquiste lo resero più sereno e tranquillo. Non più pressato dalla necessità di combattere per sopravvivere, incominciò a guardarsi intorno.

Un vecchio abete della sua stessa famiglia, oberato di anni e di ferite, dalla cima incenerita dai fulmini e con le radici scoperte rattrappite e marcescenti, lo apostrofò, un giorno, con grande tenerezza.

“E’ da qualche tempo che ti osservo, figliolo. Ti sei fatto grande, bello e dritto. Come tutti gli abeti di questa valle.”

Rossodisera sentì un brivido scorrere sotto la sua sottile corteccia, mentre i teneri ramoscelli ondeggiarono più del solito. Non era mai accaduto che un albero antico dall’aspetto regale si rivolgesse così familiarmente ad un piccolo. Il complimento iniziale era stato in parte attenuato dalle ulteriori parole, ma Rossodisera, giovane qual era, apprezzò solo l’elogio. Questo nome non l’aveva ancora, ma l’avrebbe avuto presto.

“Grazie” mormorò, e la sua cima ondeggiò tutta come se stesse per involarsi. Il breve colloquio rappresenterà una tappa importante nella vita del giovane abete. Gli anni trascorrevano lenti e lieti come per ogni giovinezza. Cresceva vigoroso e forte, come il vecchio aveva previsto. Mai più rivolse la parola al suo giovane vicino, ma, quando giunse al termine della sua vita centenaria, il re dei boschi richiamò l’attenzione di tutti i capi degli alberi. In tutte le balze, le conche, i pendii della valle si fece silenzio. Gli uccelli notturni ammutolirono e in quella notte sospesero la caccia. Le acque del torrente, nel fondo della valle, scivolarono nel buio, avvolte da un’ovattata bruma notturna, con tenui gorgoglii. Il cielo stellato e senza luna mandava un chiarore pallido sulle alte cime del bosco, sui prati argentati e sulle vette rossastre dei monti.

Il vecchio gigante, ridotto ormai ad un povero relitto, stava morendo. Il tronco possente, spaccato e contorto, era preda del muschio e di miriadi di funghi. Solo pochi rami erano ancora verdi. Per lui non c’era più speranza.

“Ti ascolto!” disse il capo dei larici all’estremità del bosco, nella conca più alta dove gli abeti cominciavano a convivere con loro.
“Parla, saggio degli alberi!” Il cirmo nodoso intervenne dall’alto delle pietraie dov’era inchiodato.

“Attendiamo le tue parole!” esclamarono l’ippocastano, dalla sua balza di levante, e il sorbo degli uccellatori dalla dolce vallata di mezzo e il nocciòlo dalla fitta boscaglia.

Tutti i capi delle piante risposero al richiamo. Infine il vecchio saggio parlò.

“Fratelli del bosco, vi lascio. Sono giunto al termine della mia vita. Non sento più il calore de sole né mi ristora la rugiada della notte. Le mie radici si stanno consumando e già concimano la terra. E questo, almeno, mi allieta. La mia morte ridarà vita. Renderò ad altri fratelli la forza che, in tanti anni, nostra madre terra e nostro padre sole mi hanno donato, ma prima che ciò avvenga, desidero che sia scelto il re di questa valle. Tacque un momento, poi i suoi deboli rami presero a stormire piano.

“Fu in una notte come questa che io venni scelto. Regnava allora la grande Farnia, regina delle querce e della vallata ed è in una notte simile che desidero venga designato il mio successore. Attendo le vostre proposte. Ma è tradizione che, anche il re che sta per morire proponga un nome. Propongo un albero che credo degno dell’incarico, parlo del peccio che vedo laggiù ai margini della mia radura. L’ho vigilato in silenzio da lunghi anni, l’ho visto snello e forte ogni mattina al levar del sole, gagliardo nella tempesta, laborioso, rosso di sera al tramonto. Avrà lunga vita. E’ fiero senza essere superbo. Parlate, alberi della mia valle, vi ascolto.”

L’aria della notte riprese a circolare lungo i sentieri e tra i rami, le nuvole transitarono impassibili e pur mutevoli sopra la valle e i ruscelli ripresero la loro cantilena. I gufi e le civette aprirono a ripetizione i loro occhi scrutatori, le volpi e le martore uscirono caute dalle tane fiutando intorno, guardinghe.

La scelta era importante e il consiglio degli alberi durò tuta la notte. All’alba venne la decisione. Per primo parlò il forte cirmo delle pietraie, martoriato dalla sete e dalle frane.

“Saggio re, i pini cembri, solitari abitatori delle pietraie, mi hanno proposto a tuo successore.”

“Le querce si sono informate e accettano la tua indicazione, o saggio. Accettiamo colui che tu hai chiamato Rossodisera.”

“Anche gli aceri sono d’accordo, perché la vostra balza domina la valle.”

I pini silvestri, i mughi, i ginepri furono solidali con il tenace pino cembro. I tigli, gli olmi, gli ontani e tutti gli alberi della basa vallata furono per Rossodisera. Il nocciòlo non si pronunciò, disse solo che non si dovevano dimenticare gli arbusti. Il rappresentante dei carpini fece presente di non avere nulla contro l’abete rosso o contro il pino cembro, che tra l’altro non conosceva, tuttavia gli sembrava esagerato il desiderio di dominio delle aghifoglie. La scelta del faggio fu decisiva.

“Il comando spetta alle conifere! Sono in maggioranza, sono la famiglia che più teme il fuoco e, grazie alle loro alte cime, danno garanzia di buona vigilanza nei boschi, a vantaggio di tutti. E poi, per riguardo e riconoscenza al nostro saggio re, noi faggi votiamo per il peccio chiamato Rosso-di-sera.”

Fu così che Rossodisera divenne re degli alberi della Valtorassa.

2.  IL RE DEGLI ALBERI

“Gli alberi muoiono, il bosco no!”

Così esordì, dopo la sua investitura, e subito si conquistò la simpatia e la stima di tutti i suoi fratelli. La sua osservazione era stata acuta e saggia, un programma. Quando inizia la nostra storia, il re degli alberi della Valtorassa era nel pieno della sua forza e magnificenza e regnava da tanti anni che più neanche ricordava. Nella valle si viveva allora in pace. L’armonia tra l’ambiente e gli esseri viventi era perfetta, mai era stata turbata da sconvolgimenti di cui si sentiva dire per altri luoghi. Il linguaggio dei boschi era compreso da tutte le creature della valle e le notizie, è il caso di dirlo, volavano. Ma c’erano mille altri modi per comunicare, oltre il vento: scricchiolii, fruscii, crepitii, luccichii, trilli, gorgheggi, canti, latrati, squittii, fischi, passi, schianti, palpiti e tanti altri suoni, rumori e silenzi si alternavano con infinite variazioni. L’uccellino che chiama il cibo non canta come l’uccellino innamorato o quello spaventato o quello che difende il suo territorio; ognuno canta in modo diverso e con il proprio canto comunica al bosco e alle altre creature le sue intenzioni, le sue sensazioni. Anche una lepre all’erta batte la zampa in modo diverso dalla sorella al pascolo e tutte sanno subito se un pericolo s’avvicina. Il rombo del tuono non è il rombo di una frana e tutti gli animali del bosco li sanno distinguere e interpretare. Anche gli alberi che sanno cercare l’acqua, che sanno spingersi verso la luce sono in grado di trasmettere segni chiari e comprensibili agli altri esseri viventi. Il bosco è la loro casa, la loro famiglia, essi lo accrescono, lo difendono, lo perpetuano in un armonioso equilibrio che garantisce, a loro stessi e alla loro specie, la vita. L’edera che si attorciglia al tronco, il fiore profumato che richiama l’ape per l’impollinazione, i ramoscelli che cercano il sole, il trifoglio che si chiude al calare della sera, il frutto maturo che esplode spargendo intorno i suoi semi compiono tutti movimenti abituali e consueti, ma non casuali, si comportano secondo regole precise, perenni, chiare.

Le piante vivono e certamente, come tutti gli esseri viventi, tra loro comunicano. Chissà cosa si dicono sugli uomini così disordinati, inquieti e volubili!

Anche Rossodisera si era reso conto delle stravaganze e delle contraddizioni degli uomini. Non capiva perché alcuni di loro proteggevano la montagna e il bosco ed altri li distruggevano, perché alcuni vigilavano sui cuccioli degli abitatori dei monti ed altri li uccidevano indiscriminatamente. Di una cosa era certo: gli uomini erano potenti e la loro presenza era da temere. Ma fino allora non si poteva lamentare, i danni che essi avevano arrecato erano stati piuttosto limitati. Se tagliavano degli alberi, poi ne ripiantavano. Erano gli uomini in divisa, le guardie forestali, che si occupavano di vigilare sull’integrità dei boschi, di prevenire gli incendi, di ripopolare le zone disboscate e di recuperare con nuove piantagioni i terreni incolti. Un guaio grosso, tuttavia, alla vallata era accaduto. Certamente gli uomini dovevano essere stati di tutt’altro avviso, considerato l’accanimento con cui avevano portato a termine la loro opera. Era una diga di sbarramento costruita, Rossodisera lo ricordava come ora, contro ogni attesa e contro gli interessi stessi degli abitatori della valle. Da una gola stretta, a destra del torrente principale, scendeva un altro corso d’acqua alimentato da più sorgenti che formavano un piccolo bacino naturale, luogo di ristoro e di abbeveraggio per gli animali dell’alta valle. Un giorno però gli uomini, con un’ardita costruzione in ferro e cemento, sbarrarono la gola impedendo all’acqua di uscire. La conclusione dei lavori dovette essere un avvenimento importante per gli uomini convenuti lassù in un radioso mattino di giugno, perché festeggiarono con canti e musiche e discorsi celebrativi. Poco tempo dopo, come qualcuno aveva profetizzato, qualcosa di diabolico avvenne nel nuovo bacino. L’acqua imprigionata, come impazzita, prese a vorticare, a cercare una via di scampo e, non trovandola, risalì i pendii allagando la valletta inghiottendo la vegetazione e gli animali rifugiatisi nelle tane, convinti di trovare scampo. I fianchi della montagna, aggrediti da un avversario inatteso, cedettero in più punti provocando frane e smottamenti. Fu messa in serio pericolo la resistenza della diga. Poi tutto si assestò e l’acqua precipitò, entro capienti tubazioni, verso le abitazioni dell’uomo. Da quel momento tutto cambiò nell’alta Valtorassa. L’evaporazione continua, l’aria umida e stagnante resero quel territorio fradicio e inospitale. Gli animali scampati emigrarono altrove. Al posto dei larici secolari, colpiti da misteriose malattie che favorivano muschi e licheni a svantaggio delle loro foglie, subentrarono rododendri e pini mughi, mirtilli e cespugli spinosi. Dai semi dei grandi colossi del bosco nascevano piantine che morivano presto o crescevano misere e stentate. Quando il vento di nord-est soffiava rabbioso spazzando la Valtorassa, dei refoli s’intrufolavano nella valletta, correvano imbizzarriti sulle acque immobili del bacino, arrotolavano le nuvole biancastre e le spingevano su per i fianchi opposti della montagna sbriciolandole più in alto nel cielo azzurro. Allora la visione del lago era bella per il guardiano della diga. Egli guardava e pensava, da uomo semplice, per costume di vita più vicino ai selvatici abitatori del bosco che ai suoi simili. Trascorreva i suoi giorni lassù, in solitudine, scambiando qualche parola con i tecnici della centrale elettrica che periodicamente salivano per i normali controlli. Vigilava dal suo rifugio, posto su un costone di roccia, a destra della diga. Conosceva i sentieri e gli alberi, li vedeva crescere e gareggiare tra loro svettanti e snelli. Era quasi invecchiato tra loro. All’ombra di Rossodisera si riposava quando, stanco del suo girovagare, durante le perlustrazioni al bacino e alle condotte, si fermava a prendere fiato. Sotto il maestoso abete sostava a guardare in basso il mare di cime diverse per colore e lucentezza, per altezza e maestosità.

Rossodisera tentava in mille modi di far capire che gradiva quella presenza amica. Il fremito dei suoi rami, lo sfrigolio delle foglioline, il ronzio più intenso della linfa nel tronco possente erano segnali vistosi di saluto e di benvenuto. Ma forse Gisto capiva. Riprendendo il cammino, non dimenticava mai di picchiare con la mano aperta due tre volte sulla corteccia rugosa, come si saluta sulla spalla un amico.

I giorni scorrevano sereni nella Valtorassa, secondo le leggi della natura che regola la vita delle piante e degli animali da tempi immemorabili. Da tempi immemorabili il capriolo malato finiva tra le fauci del lupo affamato, il falchetto ed il gufo piombavano come fulmini sull’allodola ferita e sulla vipera intorpidita, gli scarabei ripulivano il terreno dallo sterco delle mandrie al pascolo, i batteri riconducevano alla madre terra i nuovi nutrimenti dei vegetali disintegrando le carogne abbandonate, la formica rufa salvava interi pendii di bosco dalle fameliche processionarie, i silenziosi lombrichi rendevano fertile il sottosuolo e infiniti altri piccoli esseri sminuzzando la lettiera tenevano sempre giovane e rinnovato il bosco.

Rossodisera aveva compreso che l’equilibrio esistente tra loro era perfetto e giovevole a tutte le specie di viventi nella valle. Per questo motivo aveva raggiunto la convinzione che il bosco non poteva morire, bastava non spezzare alcun anello della catena. Questo nessuno di loro voleva o poteva farlo.

3.  ROSSODISERA RACCONTA

Già il sole era alto, vita e tragedia ripresero a scorrere come sempre nella valle. Un fagiano scavava furiosamente nella montagnola di terriccio ricoperto di aghi di pino alla caccia di uova di formica, mentre poco lontano una serpe inghiottiva lentamente un incauto topino. Puffi, lo scoiattolo, sgranava una pigna tra i rami dell’abete rosso, seminando abbondantemente tra l’erba soffice. Due tortore innamorate tubavano inchinandosi a turno dimenticando il mondo intorno.

“Raccontaci della valle, Rossodisera” chiese lo scoiattolo.

“Sì,sì!” risposero in coro frusciando le giovani antennelle dell’abetaia.

“Raccontaci le tue storie” pregarono i piccoli larici dai margini alti del bosco.

“Lasciatemi in pace!” brontolò il re degli alberi. “E’ ancora presto” aggiunse poi. Non gli riusciva a fare il burbero. Ma tanta fu l’insistenza dei giovani alberi che si decise a parlare.

“Tu, intanto, scendi subito!” ordinò a Puffi, lo scoiattolo, e diede un vigoroso scossone ai suoi rami col primo passaggio di vento.

“Non mi scacciare, ti prego, fammi ascoltare, Rossodisera.”

Nel frattempo, anche le lepri, gli usignoli, le pernici, le marmotte e gli altri scoiattoli del territorio si erano radunati nei pressi del grande peccio, re degli abeti rossi e di tutti gli alberi della valle. Egli si compiaceva di quelle richieste e la sua resistenza era sempre di breve durata.. Dondolò la sua grande testa come chi cerca le parole con cui cominciare.

“Vi racconterò la storia dei pescatori di trote.”

Un ghiro di sentinella alla sua tana mostrò i suoi forti denti in un sorriso ironico, arruffò il vecchio pelo e chiuse gli occhi pigramente. “Sono le solite storie” brontolò. “Ma, almeno per un po’, staremo tranquilli.” Anche lui si apprestò ad ascoltare.

In un mattino di luglio, due pescatori di trote si erano avventurati nelle gole risalendo il torrente. L’acqua gelida, che schiumava tra i massi per ristagnare brevemente nei valloncelli, prima di precipitare sulle rocce più in basso, custodiva gelosamente e al riparo in segreti meandri, le belle trote fario dai cento colori. E, come una comare chiacchierona che passa di casa in casa e sa tutto di tutto di tutti, portava a valle le notizie raccolte nel suo frettoloso andare. Passando sotto il piccolo ponte di tronchi, che ad una strettoia avvicinava le sue sponde, l’onda scorse i due risalire la corrente.

“Oh, povere figlie di torrente!” gemette precipitando, portando sempre più lontano l’inutile invocazione di pericolo. Altri scrosci, dopo il breve salto, emettevano lamentosi segnali e inviti alla prudenza, ma il loro richiamo schizzando sulla levigata pietra granitica finiva lontano, a valle. Il loro era un viaggio senza ritorno. Ma, ecco i vapori del mattino emergere dalle acque al primo contatto col nuovo sole. Lenti, felpati, avvolgendo la sterpaglia ed i sentieri, eccoli risalire la valle sinuosa mettendo in allarme ogni vivente. Gli scoiattoli si rintanarono veloci mostrando occhietti curiosi dalle fessure dei loro nascondigli, le cornacchie sospesero i voli sui prati scoscesi. I piccoli arbusti si misero a vibrare a destra e a manca. “E’ la nostra ginnastica mattutina” disse l’agrifoglio scorbutico e indifferente al vicino terebinto in fiore.

Sempre più densa la nuvolaglia stagnava a fondo valle, quasi premuta laggiù dalla forza crescente del sole. Le trote fario insospettite si rannicchiarono tra le variegate schegge del fondale, insensibili agli allettanti inviti. Le mosche e le cavallette, esche tentatrici, frustavano invano le acque turbinose. Le lenze dei due pescatori sibilarono a lungo in lanci ripetuti, ma invano. La pesca si concluse solo con una salutare camminata. Erano stanchi a loro ritorno, i due pescatori. Stanchi e delusi giunsero verso mezzogiorno al ponticello di tronchi, le canne ripiegate. Poi, tutto ad un tratto, inspiega-bilmente, uno dei due, innescò la lenza, la fece vibrare un’ultima volta nell’aria per tentare un ultimo lancio. L’attacco inatteso e proditorio sarebbe stato fatale per qualche trota sprovveduta. Ma un ramo di robinia proteso nel vuoto catturò, attorcigliò l’esile filo resistendo tenace agli strappi, uscendone vincitore. Il trofeo pende ancora dal ramo proteso nel vuoto. Quel giorno la ruvida robinia si ebbe le lodi ed i ringraziamenti dei viventi delle acque. Le nebbie svanite lontano raccontarono ovunque la storia dei pescatori di trote.

“Ma c’è dell’altro!” precisò Rossodisera, in vena ora di raccontare.

“Racconta, racconta.” Lo scoiattolo era il più curioso di tutti.

Rossodisera riprese a narrare di quando altri uomini erano tornati. Erano in molti con lenze, fucili e musiche. Invasero l’altra sponda ed erano allegri, in festa, in caccia. Era d’agosto. “Da quell’anno, in questa stagione, temiamo terribilmente gli uomini.” Batterono la costa della montagna facendo strage di fagiani e galli cedroni, caprioli e stambecchi e di tutto ciò che si muoveva nel bosco. Anche alcuni di loro caddero tra i cespugli senza vita. Come sono strani gli uomini! Di fronte a noi fecero terra bruciata; sulle nostre pendici, invece la vita continuò a scorrere come prima. Il gufo che viaggia di notte ed è amico della civetta bazzica tra i tetti delle case degli uomini, venne a sapere che il merito era tutto degli strani cartelli disseminati ai margini del bosco: essi vietavano assolutamente di cogliere funghi, di raccogliere fiori, di disturbare gli animali, di pescare nei torrenti, di tagliare gli alberi. Erano gli uomini che lo proibivano a sé stessi.

“Valli a capire!” sospirò scotendo la saettante cima.

Sugli accidentati pendii di fronte, oltre il torrente, era permesso tutto ciò che da noi era vietato. Fu così allora che molti animali emigrarono tra le nostre balze, creando non poco scompiglio e disordine nella nostra vita. Avevano scoperto che qui da noi si poteva vivere in pace, come in un’isola riservata e tranquilla. Valicando i burroni e i crepacci, vennero le capre selvatiche e i camosci, per cercare cibo si spinsero ben oltre i cespugli di rododendro entrando nei boschi. Vennero le martore, gli ermellini e i tassi in numero eccessivo per il nostro territorio. Si scatenò una caccia spietata per sopravvivere, peggiore di quella praticata dall’uomo. Molte specie di animali rischiarono di scomparire, molte tane furono devastate dai predatori, molti nidi andarono distrutti dai nuovi venuti, spinti dalla paura e dalla fame. Il falco e la poiana si stabilirono definitivamente tra i boschi della montagna di ponente. La Valtorassa non fu più quella di un tempo, sembrava addirittura divenuta nemica di sé stessa, divisa com’era tra la riserva ed il territorio libero.

Fece una pausa di riflessione il signore degli alberi, poi riprese a incantare i suoi muti spettatori.

Senza più nemici naturali, i marassi e le vipere crebbero a dismisura e, spinti dalla necessità di cibo, si affacciarono ai margini del bosco, fuori della valle. Ne furono catturati sotto i fienili e nei casolari dei mandriani. Nella stessa valle, due mondi diversi si trovarono di fronte, ostili, ma non per loro scelta.

“Eh!” sospirò il grande peccio, signore dei boschi. “Furono giorni grami!”

Un leggero prurito su un grosso nodo di radice sporgente dal terreno lo distrasse per un momento. Una colonia di formiche, discretamente, sollecitava qualcosa. Con colpetti secchi e decisi sulla corteccia vigorosa, la regina Rufa fece intendere le sue ragioni.

“Oh, certo! Il bosco non si è dimenticato del servizio che avete reso al regno vegetale.”

Il ghiro sogghignò ironico, disinteressato, si ritirò nella sua tana. Anche due lumache seminatrici di polline si erano stancate a sentire vecchie storie che, a loro dire, non le riguardavano minimamente.

“Andiamo via” dissero “tanto, di noi non si ricorda nessuno”.

Ma da lontano giunse la voce riconoscente delle querce e dei pini della montagna di levante. Volevano che tutti i giovani viventi del bosco sapessero del meritevole servizio loro reso dalle formiche.

E così Rossodisera riprese la sua rievocazione.

La caccia spietata aveva spinto gli animali superstiti a cercare rifugio dove regnava ancora, e inspiegabilmente, la pace. Vennero in molti, come abbiamo visto, sulle balze e sulle crode dei monti ad ovest. I problemi creati dalla sovrappopolazione condussero alla quasi estinzione di tanti piccoli esseri viventi. Lumache e rane, roditori e libellule sembrarono scomparsi per sempre. In compenso, sulla sponda opposta, si stabilirono le processionarie, flagello degli alberi, più che le vipere per gli uomini. Le farfalle e i bruchi si sistemarono sui pini e, più giù, sulle querce dei versanti che guardavano a mezzogiorno iniziando la loro opera distruttrice. Le tenere gemme, gli esili ramoscelli, le ruvide cortecce furono ferite a morte. Molte piante si spensero lentamente, inesorabilmente. Intanto le vigorose processionarie proliferarono senza alcun controllo, minacciando l’estinzione totale di intere pinete. Per qualche tempo parve che anche agli uomini il fenomeno procurasse qualche preoccupazione. Vennero in divisa a studiare, a controllare, a scuotere il capo. Per la valle era un flagello, ma il bosco da solo non muore. Il lamento dei fratelli dell’est fu raccolto e si propagò su ogni pendio, in ogni grotta, in ogni cespuglio, fin lassù tra le pietraie dove languono e svettano superbi i cirmi assettati e scheletrici. Dalle praterie, dal fogliame del sottobosco, dalle crepe dei tronchi, dalle fessure delle rocce arenarie, dai soffici muschi a tramontana un esercito valente si mise in marcia verso il torrente, in cerca di un guado. La formica rufa, amica degli alberi, aveva raccolto il messaggio. Milioni di piccoli esseri discesero la montagna con sacrifici e perdite incalcolabili. Ma la marcia frenetica era inarrestabile. Le più fortunate raggiunsero il torrente al ponte di tronchi. Molte ne perirono ancora durante l’attraversamento, raggiunte dal salto bizzarro dell’onda sullo sfasciume di legname incastrato a marcire nelle strettoie già dal precedente inverno; ma altre, lasciandosi cadere dai rami protesi sulle frasche e sui massi emersi, raggiunsero la sponda opposta e ripresero il faticoso cammino.

L’esercito di soccorso arrivò puntuale per tutta la parte superiore della valle, laggiù invece era stata quasi completamente intaccata e distrutta dai bruchi voraci. L’assalto delle formiche fu razionale e impietoso. Alcun foro di corteccia o ramoscello vibrante fu risparmiato da una loro visita, in breve tempo l’opera di salvataggio fu portata a termine.

L’improvviso rinverdire del bosco nella Valtorassa fu notato dagli uomini che, addirittura, scoprirono la causa di quel miglioramento. Lo scoprirono perché, poco tempo dopo, dei cartelli apparvero anche in quei luoghi disabitati con una formica rufa disegnata a tutta pagina in segno di protezione.

“Ma chi non sa leggere e non sa rispettare nemmeno l’uomo è il fuoco” continuò Rossodisera. “Parecchie volte le sue lingue mortali hanno fatto brevi apparizioni in vari punti della valle.” Concluse suscitando nuovi interessi e curiosità.

La giornata avanzata chiamava tutti al lavoro, alla ricerca di nutrimento. Anche il re degli alberi si mise a far pulizie. Scosse gli agli vecchi che caddero come neve ghiacciata sullo strato humifero cosparso di funghi e di ciclamini. Dalla sua saettante cima osservò la vallata, incurante delle insistenti richieste del suo piccolo ospite, lo scoiattolo.

Alcune sue radici uscite dal terreno stavano rientrando con una certa difficoltà a causa di uno strato roccioso incontrato. Allora, Rossodisera ordinò loro di espandersi a ragnatela per imbrigliare meglio il terreno scosceso dando al suo tronco maestoso una più solida e consistente aderenza. Giacché ogni organismo era in perfetta efficienza, si appisolò lasciandosi andare alle bizzarrie del venticello tiepido che saliva dalla pianura immobile nel riverbero assolato.

8.  LA MALGA

La mandria sparsa era al pascolo. Ai margini dell’abetaia, un angolo di valle si apriva in una distesa ondulata di pascoli verdissimi. Tra i cespugli di rododendri e di ginepri, tra i massi maculati di licheni, le acque gorgogliavano in mille rivoli scivolando sulle ghiaie sottili verso l’imbocco della valletta. Superato un declivio di faggi precipitavano schiumando nel torrente nascosto nel fondo valle. Nel terreno umido e soffice spuntavano azzurre le genzianelle e i rossi gigli di monte, meravigliosi e sperduti nel biancore delle camomille e il giallo delle fungaie. Su una breve altura, a mezzogiorno di una collinetta, sorgeva la malga. Dalla stalla aperta e silenziosa usciva un gallo impettito a scuotere le penne dondolandosi sui robusti speroni. Spiava le mosse del mandriano intento a spaccare legna sulla porta di una piccola costruzione in pietra squadrata e nuda. Dalla porticina aperta e dalle fessure del tetto uscivano sbuffi di fumo bianco che l’aria fresca presto involava. L’odore di polenta faceva guaire il pastore tedesco che saltellava intorno al padrone. La porticina screpolata e annerita immetteva in un unico stanzone dal pavimento di terra, scavato e disuguale. L’aria frizzante passava attraverso le pietre sconnesse, prive di calce e dal sottotetto di lamiera arrugginita. L’uomo entrò con una bracciata di legna secca, la posò accanto al focolare, poi indossò una giacca di velluto per ripararsi dall’umidità e dalla brezza. In un angolo, un ragazzino sorvegliava la zangola. Collegata ad un asse, con le pale immerse nel ruscello antistante, girava da sola.

Nell’angolo opposto, una bambina soffiava china sulle ceneri per rinvigorire le braci, accanto a lei sua madre mestava in un paiolo nero appeso alla catena. Con la destra agitava veloce il mestolo voltando e rivoltando una fumante polenta gialla, con l’altra mano teneva il paiolo e gli anelli cigolavano sotto i vigorosi colpi. Il borbottio andò spegnendosi piano piano trasformandosi in lunghe soffiate vaporose. Allora, con abile gesto, scodellò la buona polenta sulla tafferìa e sulle braci depose le salsicce subito scoppiettanti. Poi, in silenzio, sugli scranni bassi si misero a mangiare. Nella penombra della malga s’udiva raschiare le scodelle di terracotta e gorgogliare il ruscello: scivolava su un tronco incavato e portava un rivolo freschissimo nel tugurio fumigante. Il pastore tedesco, avuta la sua parte, stava accovacciato con il muso appoggiato alle zampe anteriori e spiava le mosse sperando ancora. Un muggito lontano lo scosse un istante, poi un passo conosciuto, fermatosi alla porticina annerita, lo fece sbadigliare rumorosamente. Un uomo robusto, abbronzato, con un cappello di panno verde, ricordo di un battaglione di alpini, entrò nell’accogliente stanzone impregnato di odori di fumo, di caglio e di polenta che abbrustoliva.

“Salute!” Quasi gridò togliendosi il cappello.

“Oh, Gisto!” Il mandriano accolse il nuovo venuto alzando le mani in segno di benvenuto. “Ne vuoi?”

L’uomo scosse la testa in un rifiuto cortese e s’accomodò su un ciocco vicino al fuoco. I due ragazzi si mostrarono felici per la visita e si affrettarono a finire il pasto. Anche il padre aveva terminato e, pulitosi il mento con il dorso della mano, bevve da una brocca l’acqua fresca di ruscello. La madre, già affaccendata a ripulire e riporre le povere stoviglie, si rivolse al nuovo venuto con confidenza, come se quegli incontri fossero abituali.

“Ditelo voi, Gisto, che i dinosauri esistono ancora.”

Gisto conosceva tutte le piante del bosco e gli animali che vi abitavano, leggeva e conosceva anche storie strane e lontane, i suoi pareri erano ascoltati lassù tra i pastori e i mandriani. Erano anche queste innocenti curiosità, erano anche queste persone semplici e interessate a tutto ciò che madre natura prometteva, minacciava, offriva, comprese le leggende, che gli facevano amare i suoi monti. Erano persone che avevano lasciato troppo presto la scuola, ma attente osservatrici. Nelle lunghe veglie e nei mattini chiari, durante i trasferimenti, pensavano, parlavano, inventavano, discutevano di cose che altri uomini, pressati da altre vicende, ignoravano o consideravano banali, perché non si ponevano certi interrogativi.

“Che vi salta in mente, Monica?” Gisto si finse sorpreso.

“Gliel’ho detto mille volte che non esistono.” Il mandriano intervenne svogliato, per sola cortesia.

“Beh, i dinosauri no! Ma non è detto che, negli abissi degli oceani, ad esempio, certi mostri creduti scomparsi o sconosciuti…”

Trasse dalla tasca della giacca di velluto un foglio di giornale. Si riparlava del mostro di Loch Ness. La discussione si protrasse ancora un po’ e questa volta, nonostante l’intervento del guardiano della diga, ognuno restò del suo parere.

Parlarono del tempo e delle bestie, poi uscirono. L’aria frizzante che scendeva dalle vette teneva pulito e terso il cielo. Da una rupe si staccò una poiana. Girava in tondo, lentissima, senza muovere le ali. I ragazzi guardavano il guardiano, attendevano un segnale.

“Andiamo?” disse il Gisto. La sua parola era un commiato e la risposta ad un invito atteso. La risposta riguardava i ragazzi che avevano espresso in precedenza il desiderio di vedere due volpacchiotti salvati da morte certa, dopo che la madre era stata fulminata da cacciatori di frodo. Partirono. Non c’era sentiero nella valletta fradicia di acque che sgrondavano in un laghetto al centro di una piccola radura. Era là che il bestiame sostava per l’abbeverata. Intorno, ninfee candide poggiavano sulle acque tremule le grandi foglie lucenti. Costeggiarono il laghetto e giunsero al punto in cui cominciava la salita. Era un sentiero sassoso aperto dalle piogge torrenziali, non c’erano segnali, ma quella era la via.

“Sei stanca, Ginetta?” chiese il fratello vedendo la sorellina arrancare in coda.

La bambina si fermò un istante e, con la piccola mano che la riparava dal sole, alzò lo sguardo verso la gola al termine della quale, molto in alto, s’intravedeva il grigio muraglione della diga. Si volse indietro e vide già in lontananza la macchia scura della malga emergere nitida in quel mare verde. Vide il ponticello di legno che lambiva il ruscello, vide più a destra sul pendio a mezzogiorno le mandrie lente, immobili quasi, udì il suono dei campanacci e il latrato fievole e noto del loro cane. Non aveva mai visto tutte quelle cose da così in alto, da così lontano.

“Com’è bello da quassù!” mormorò a fior di labbra.

Il Gisto li attese ad una biforcazione del sentiero presso un grande masso che recava incisi dei numeri e dei segni blu e rossi.

“Vedete?” Cominciò ad insegnare loro i segreti della montagna. Parlò dei sentieri segnati sulle mappe, del significato dei segnali colorati lasciati sui tronchi, insegnò a distinguere gli alberi dalle forme, dalla corteccia, dalla lucentezza delle foglie e a conoscere gli uccelli delle pinete modulando il loro canto e attendendo una risposta. Presso un rigagnolo d’acqua, dove s’erano fermati a riposare, parlò dei profumi e degli odori del bosco e di come aveva imparato a scoprire le fungaie seguendo le tracce portate dal vento. Portò l’esempio dei bracchi che seguono le tracce della volpe.

“Come successe con la volpe?” chiese il ragazzo. Il richiamo era servito a ricordare la ragione della loro escursione.

Erano intanto usciti dal bosco. Il percorso che portava al rifugio sulla diga era ancora lungo e scosceso.

“Fermiamoci un poco” disse l’uomo ai ragazzi accaldati, ma decisi a proseguire, erano abituati a quei passi lenti e sicuri. Erano arrivati ad una delle tappe obbligate del guardiano della diga. Durante le sue ispezioni o i ritorni dal paese, non dimenticava di riposare sotto il grande abete rosso che sembrava di sentinella tra i boschi della valle. Dalla sua sporgenza, un po’ isolato, si ergeva, quest’albero dalle radici vigorose come vene di un gigante sotto sforzo, maestoso e fiero contro il cielo ora leggermente velato.

Il ragazzo guardò il grande albero, osservò il colore della corteccia, l’inclinazione dei rami, la forma delle pigne, la lucentezza delle foglie.

“E’ un peccio” disse.

“O abete rosso” precisò Gisto.

Con la schiena appoggiata all’enorme tronco, egli captava il pulsare frenetico della vita in un essere che, pur non sapendo esprimersi come noi umani siamo abituati, era in grado di trasmettere i segni della forza ordinata e regolare di un essere capace di muoversi, nutrirsi, proliferare, svilupparsi come qualsiasi altro essere vivente.

“Chissà se gli alberi soffrono, gioiscono, temono, sperano…” Gisto disse queste cose a persone che parlavano di fole e di dinosauri, di leggende e di storie fantastiche e nessuna meraviglia fecero quelle sue parole.

Nella sua semplicità, con il suo fiuto inselvatichito e con l’acutezza di un uomo abituato a vivere in contatto con la natura, dentro la natura, non trascurava di porsi domande inquietanti e meravigliose. Quelle piante, quegli animali, spiegò ai suoi piccoli amici, quelle canne e quei fiori, quelle creature tutte potevano tra loro sentirsi, comunicare? Parlava anche a sé stesso. Lo sperava tanto, lo sperava davvero, fino a crederci.

Tuttavia questi pensieri lo rendevano cupo e triste, perché capiva che non poteva comunicare ad altri i suoi pensieri senza rischiare la derisione. Eppure lui avvertiva che tutte le creature del bosco tra loro si sentivano. Con i bambini era diverso e ne parlò a lungo quel giorno. Sentendolo parlare, a Ginetta vennero alla mente le storie degli gnomi e delle loro casette di funghi, degli animali parlanti e delle piante carnivore che tanto la spaventavano. Il fratello più grande invece era affascinato da quei discorsi strani, originali, da quelle frasi sospese che il Gisto andava lasciando cadere inavvertitamente come perle nelle favole. I ragazzi ne raccoglievano e ne facevano tesoro.

Disse, infatti, il ragazzo, a sorpresa. “Pensa, Gisto, se gli albero si chiedessero le stesse cose di noi.”

L’uomo si volse, guardò stupito il ragazzo e mormorò appena una grande parola. “Pensa!” disse. Lo fissò a lungo ammirato per tanta inattesa acutezza.

“E la storia della volpe?” La bambina aveva altri pensieri, anzi l’unico che l’aveva convinta a quella salita.

“Ve la racconterò strada facendo.” Si rimisero in marcia.

Rossodisera, dalla sua verde balza, sentì i loro passi allontanarsi assieme al brusio delle loro voci e provò grande felicità sentendo come i piccoli uomini s’interrogavano sugli alberi.

5. LA VOLPE

Ogni volta che sentiva passi d’uomo, Rossodisera stava all’erta. Fu in una notte senza luna, con un vento gelido che minacciava tempesta, che gli uomini percorsero la balza e quel versante della montagna di soppiatto. Erano cacciatori di frodo. Il loro passo era innaturale, vigile, circospetto. Attirò subito l’attenzione delle creature dei monti. I vecchi alberi temevano il passo d’uomo come annuncio di sciagure. Parimenti gli animali notturni del bosco, che uscivano in cerca di cibo, restavano immobili, quando sentivano quella presenza estranea che trasformava molti cacciatori in cacciati.

Quella notte Rossodisera fu il primo ad intuire il pericolo ed inviò i suoi messaggi alle alte cime sorelle in tutta la vallata. Fu un risveglio improvviso. Con l’aiuto del vento fattosi più impetuoso, le vaste chiome cominciarono a stormire, a frusciare, a scricchiolare, i rami a scuotersi, a contorcersi, a piegarsi, a frustare l’aria emettendo suoni simili a lamenti.

I gufi, con i grandi occhi sbarrati, captarono anch’essi i messaggi degli alberi e stettero per quella notte a digiuno, alla finestra, nelle loro nicchie tra le rocce. E così pure le civette e l’allocco solitario che usciva tardi di notte dal suo nido nel bosco di querce, non si mossero dai tenebrosi nascondigli. Una miriade di piccoli roditori, dalle più riposte fessure s’interrogavano con i loro occhietti vispi e impauriti.

“Che c’è?” E come risposta avevano uno sguardo altrettanto interrogativo.

I tre uomini si fermarono nello spiazzo sulla balza vicino al grande peccio. Avevano già piazzato diverse tagliole più a valle e ora, andando contro vento, s’apprestavano a sistemare le ultime due più in alto, fuori del sentiero dove i costoni di roccia incominciavano ad emergere dal bosco con i loro infiniti meandri, tane, fessure. Ma non tutti gli animali, per pigrizia o necessità o superbia, raccolsero il messaggio amico. La notte era buia, il cielo sempre più tempestoso, il vento cresceva il suo impeto. Per alcuni di loro era il tempo ideale per la caccia. Le volpi, astute e prudenti, fiutarono ripetutamente l’aria e ritennero che, per loro, i rischi non fossero maggiori di tante altre notti. Qualche tasso assonnato lasciò la tana con indifferente sonnolenza.

Gli scoiattoli ben pasciuti assistevano invece svegli con distaccato interesse. Quegli insoliti e circospetti atteggiamenti degli abitatori dei boschi li lasciavano indifferenti.

Rossodisera non smise per tutta la notte di inviare e di chiedere notizie, anche dopo che i passi furtivi avevano smesso di strisciare sulla ghiaia dei sentieri in pendio e tra il fogliame del sottobosco svanendo a valle da dove, a brevi intervalli, saliva lo scroscio impetuoso delle acque.

L’aria fredda, scendendo da nord, prendeva d’infilata la valle aumentando la sua forza e il suo slancio. La nuvolaglia stagnante, sospesa a mezza costa, si mise in moto, ribollì tutta, s’innalzò furiosa e nera invadendo il cielo col suo manto uniforme e avvolgente. Lampi accecanti, improvvisi, squarciarono l’aria illuminando per brevi istanti le pinete con le saettanti cime inclinate a valle.

Poi cadde la pioggia liberatrice che sgonfiò il mostro notturno in tante benefiche stille.

Rossodisera e i suoi fratelli alberi, ben piantati nel solido terreno, sostennero vittoriosamente l’urto violento degli elementi scatenati. I grossi fusti, avvolti e difesi dal loro flessuoso fogliame, solidi e compatti attutirono l’irruenza dei venti ergendosi a scudo delle tenere betulle, degli odorosi maggiociondoli giallovestiti, degli esili noccioli. La grandine tuttavia fece un’autentica strage di gemme e di ramoscelli, di fiori e di foglie, ma il bosco, in definitiva, non subì alcun danno irreparabile, anzi la pioggia benefica e abbondante portò nuovo vigore al grande reame verde della Valtorassa.

Tuttavia, non per tutti la nottata era passata indenne. Tra gli ippocastani, sotto i contorti e poderosi rami che toccavano terra, nella penombra, tra soffici foglie disseccate e ricci spaccati, una tagliola aveva fatto la sua vittima. La volpe fulva che scendeva a valle ogni notte per quel sentiero invisibile era incappata nella trappola. Guaiva e si lamentava sfinita, girando i suoi occhi di fuoco impotenti e furenti.. La zampa posteriore destra era stata quasi tranciata di netto, mentre la folta coda era chiusa nella morsa infernale. Quando i primi chiarori del giorno scossero gli animali del bosco ci fu subito un’improvvisa, confusa animazione. Poi, per ognuno riprese la consueta vita di ogni giorno. Soprattutto gli uccelli con miriadi di trilli, gorgheggi, pigolii, canti, volteggi rianimarono il sottobosco sbucando dai luoghi più impensati.

Una famiglia di fagiani di monte, pascolando a testa china, giunse tra gli ippocastani e rimase impietrita da terrore vedendo il mortale nemico a pochi passi che li fissava mostrando le zanne bianchissime tra le fauci spalancate in una smorfia di dolore. Emetteva un suono debole, lamentoso, roco, continuo. Essi, d’un balzo, scartarono nella selva schiamazzando e spaventando perfino il falchetto rintanato nel cavo di due rami di abete rosso.

Rossodisera diede il buongiorno a tutti gli abitanti della vallata cercando di infondere in ciascuno il necessario coraggio, dopo la brutta nottata, e la tranquillità per riprendere la vita consueta.. Fu allora che vide la volpe. L’animale ferito, con morsi accaniti e feroci, recideva le sue carni martoriate e perdute, per strisciare infine penosamente, libera, tra gli arbusti e le alte canne piegate.

Non fu proprio questa la storia che i bambini sentirono raccontare, mentre arrancavano sul sentiero che portava al rifugio della diga, ma sentirono di alter storie che i mandriani si raccontavano di sera attorno ai fuochi.

Una sera, un uomo delle malghe, che scendeva a valle con il mulo carico, si vide di fronte, come spuntata all’improvviso dal terreno ghiaioso, la volpe fulva senza una zampa e senza coda. Il mulo spaventato diede uno scarto, mise una zampa in fallo e precipitò dalla scarpata. L’uomo girò la testa, senza fiato per l’inattesa apparizione e per la disgrazia e già la volpe non c’era più. Assicurò che l’aveva sentita sghignazzare nella pineta per un bel po’, mentre scendeva a perdifiato a valle a chiedere aiuto.

Una notte, in un casolare isolato, un vecchio che viveva solo sentì un gran trambusto nel suo pollaio. Accorse subito armato di bastone. Aprì la porta del tugurio e trovò tutte le galline sgozzate. Le contò, una non ne mancava. La fama della vendetta della volpe contro gi uomini si consolidava sempre più

Un boscaiolo, che tornava a casa sul mezzodì, ascia alla cintola, caracollando per schivare i sassi più grossi sul sentiero, si vide sfrecciare sotto il naso, incredibilmente veloce nelle sue condizioni, la volpe fulva. Per la sorpresa, e anche lo spavento, fece un balzo indietro, scivolò di fianco e si ferì con la sua stessa lama.

Tra superstizioni, favole, credenze, miti, gusto di attribuire a magie o a fatti inspiegabili le proprie disavventure, si era andata consolidando nella Valtorassa la leggenda che quando appariva la volpe senza coda sarebbe poi successa una disgrazia.

Questo andava raccontando il Gisto, con il fiato grosso, mentre i due bambini, giunti ormai in vista del rifugio, guardavano in giro, preoccupati. Temevano di scoprire due occhi grandi di fuoco intenti a spiare tra i rovi.

6.  IL VECCHIO CIRMO

Solo le capre salivano fino lassù, tra le pietraie, a brucare verdastri ciuffi d’erba rada e legnosa.  Ove il bosco finiva c’erano ancora alberi sparsi, più in alto, a volte raggruppati, a volte solitari. Erano i cirmi solidi e antichi, forti come i monti che li nutrivano. Erano gli ultimi. Dopo di loro venivano sterpi, erbacce e muschi. Poi c’erano le vette.

Il più vecchio pino cembro della Valtorassa aveva desiderato, un tempo, essere re degli alberi, ma gli era stato preferito il più giovane peccio della verde balza giù a valle. La mancata elezione l’aveva deluso e non perdeva occasione per fare vedere che sarebbe stato anch’egli un gran signore dei boschi.

Quando raccontava ai fratelli alberi ciò che succedeva lassù vicino al cielo non trascurava mai di arricchire le sue storie con particolari curiosi. La sua enfasi burbera rendeva interessante ogni parola. Un giorno che gli alberi si scambiavano pareri sugli uomini, tutti nemici della valle e dei boschi, secondo l’opinione corrente, sbottò in un’affermazione davvero sorprendente.

“Non è vero!”

Un concorde vacillare di cime accolse quell’intervento come un’imperdonabile impertinenza.

“Ascoltate il vecchio cirmo” ordinò severo Rossodisera anticipando tutti.

Allora, il vecchio cirmo, scotendosi tutto come se si piantasse ancor più profondamente dirimpetto ai boschi della valle, cominciò a parlare.

“Non è vero!” ripeté. “Non tutti gli uomini sono malvagi.”

Scese il silenzio, tutte le cime erano rivolte al cielo, a guardare lassù quel vecchio trono di legno, fiero e regale. Migliaia e migliaia di strobili cresciuti sui suoi rami erano rotolati giù a valle e dai loro semi tanti altri piccoli cembri erano cresciuti. La sua corteccia sbrecciata e rugosa portava i segni di mille ferite, sfregi dei venti impietosi, delle pietre precipitate dalle pareti corrose dai geli, dalle frane improvvise provocate dagli acquazzoni furiosi d’agosto, dalle slavine scivolate dai nevai nascosti negli stretti canaloni. Era un combattente, capace di spezzare da solo l’impeto di tante intemperie a vantaggio dei fratelli sottostanti, i quali amavano quell’eroe burbero e altero ormai declinante.

“Ascoltate!” disse. Era un mattino come tanti, di questa stagione. Albeggiava appena e già le prime stelle s’erano ritirate. Da lontano, mi giungevano secchi e nitidi i colpi del picchio già al lavoro ed il richiamo roco del gallo cedrone. La Torassa, il grande sasso, emergeva cupa dalla penombra che svaniva lentamente dinanzi al sole nascente. Ascoltavo, come sempre, il lieto risveglio della valle, quando mi colpì un suono nuovo, una melodia diversa e a noi estranea. Quelle note attrassero sempre più la mia attenzione. Ad un certo punto vidi sbucare dalla pineta lontana due uomini dal passo misurato, leggero. Già diverse volte ne avevo scorti nei prati sottostanti furiosamente impegnati nelle consuete razzie di fiori, di bulbi, di bacche, di funghi. Quei due, invece, proseguirono, presero lo stretto sentiero che porta alle vette, silenziosi, senza nulla toccare, senza nulla profanare. Ogni tanto sostavano, si guardavano intorno ed annuivano, i loro occhi si pascevano guardandoci. Ansimavano sull’erta che opponeva sempre più pareti e macigni da aggirare seguendo la serpentina del sentiero che porta fino alle mie radici per poi proseguire alle mie spalle. La musica gentile e allegra era cessata. Mi sfiorarono, li sentii parlare sottovoce; proseguirono a capo chino, mi sembravano sorridenti. Qualche ora dopo li scorsi in vetta, gesticolavano, indicavano con il braccio teso chissà che cosa. Fu allora che il più giovane portò alla bocca un piccolo strumento, una spinetta, e le liete note, che già conoscevo, scesero da lassù allietando la mia giornata. Mai le cime mi avevano riservato un simile premio. Non colsero un edelweiss, non spezzarono un solo ramoscello, non catturarono neppure un luì. Stettero a lungo ad ammirare dall’alto la nostra valle e le cime, rossastre in quell’ora, sotto un cielo azzurrissimo; l’aria frizzante che saliva dal basso, impregnata di mille odori sprigionati dalla selva recava anche il suono delle acque schiumanti che precipitavano da terrazzi nascosti e valloncelli e il grido del falco che sorvolava ad ali spiegate il verde riposante dei nostri luoghi. Colsero tutta la bellezza della nostra valle e, quando se ne andarono, niente era diminuito di noi. Penso che anche tra gli uomini ci siano nostri amici. Borbottò ancora qualcosa, perché era fatto così, ma quello che aveva detto era stato molto eloquente e piacque a tutti. Più di tutte applaudirono le bianche betulle che vollero manifestare il loro assenso con un improvviso e rumoroso tremolio di foglie.

Rossodisera, nella sua saggezza, si unì all’approvazione generale e lodò l’albero delle pietraie, anzi lo incoraggiò a parlare ancora.

“Cugino.” Lo chiamò con grande simpatia e affetto. “Tu sei nato da molte e molte stagioni, hai visto tante e tante volte la nostra valle sfiorire e poi rifiorire, certamente avrai molte storie da raccontare ai giovani alberi. Parlaci ora del piccolo cimitero nascosto nella valletta di ponente lassù e che pochi di noi conoscono, tu la vedi e sai tutto.

Il re degli alberi conosceva bene tutta la storia, ma sapeva essere magnanimo e generoso e voleva dare al suo antico rivale l’opportunità di essere anch’egli protagonista.

Sembrò corrucciarsi il vecchio cimo, scosse violentemente i propri rami e migliaia di piccoli aghi caddero al suolo. Col suo gesto sembrò volere avvolgersi nel suo verde mantello per nascondersi e non parlare, poi dopo un lungo, pensoso silenzio incominciò a raccontare.

“E’ un mistero, quest’uomo!” sospirò.

Parlò di un tempo in cui gli uomini si davano la caccia come fiere uscite di senno. Il suo racconto era interrotto da frequenti pause e da riflessioni impensabili in un burbero come lui.

“Non potete immaginare quante cose si scorgano da quassù! Ho conosciuto tante primavere, e tanti inverni hanno fatto tremare le mie radici fino nel profondo, la mia linfa è stata più volte sul punto di raggelarsi, ma sempre sono riuscito a sopravvivere. Ho visto il falco catturare la serpe per fame, ho visto la volpe tendere l’agguato al gallo forcello per fame, ho visto il lupo azzannare l’agnello per fame e il camoscio brucare i teneri germogli faticosamente usciti dai crepacci, ho sentito l’ala dell’aquila vibrare, mentre scendeva dai picchi, e l’ermellino fiutare tra le frasche, a caccia, per fame. Ma ho visto, fratelli, qualcuno uccidere, e non era per fame. C’è tra gli uomini chi taglia l’albero e non ha bisogno del suo legno, chi incendia il bosco e non ha bisogno del suo calore, chi spoglia dei fiori i nostri pendii e non adorna le sue vesti o la sua casa, chi cattura le nostre timide capinere, gli inermi scriccioli ed i pettirossi vagabondi, così, per gioco o per noia o per svago. Mai ho visto il lupo tendere l’agguato a suo fratello lupo né l’astuta volpe insidiare la tana della sorella volpe né il vorace nibbio artigliare i suoi simili. L’uomo invece è capace di tutto questo, ahimè! Ci fu un tempo in cui la follia percorse la nostra valle e il male fu ancora di più. Vidi uomini uccidersi per odio e nient’altro. Tra i nostri monti echeggiavano spari, esplosioni e tuoni, di giorno e di notte lampi improvvisi e sibili mortali attraversavano la valle da monte a monte con un crescendo terrificante. Molti caddero sul versante di ponente e molti sui pendii a levante. Perché gli uomini siano capaci di tanto orrore, fratelli miei, non lo so. E’ questo per me un grande mistero. Sono felice di essere albero, di essere pino cembro, mai ho fatto del male a un fratello né mai lo farei, anche se mi colpisse la follia nei giorni interminabili dei grandi geli o l’arsura infuocata in cui senti che stai per impazzire. Chissà, forse non abbiamo alcun merito per essere come siamo! Ma voglio finire questa storia. Vennero poi altri uomini, raccolsero i caduti di qua e di là, li radunarono lassù, tutti insieme, dentro un piccolo recinto di pietra. C’è una valletta a ponente ove regnano il silenzio e là riposano in pace. Nessuno porta fiori su quelle tombe né canta una preghiera, sono i nostri prati adorni che portano fino al piccolo cancello arrugginito la festa dei loro colori, mentre il vento passando tra le nostre cime, accompagna con il suo fischio modulato il loro sonno eterno.”

Così parlò il vecchio cirmo delle pietraie. Il suo racconto fece fremere le giovani antennelle delle abetaie, per la felicità di essere nate tra i vegetali e di vivere in quella valle.

7.  IL BOSCO VIVE

La primavera, la bella stagione degli amori, era passata da un pezzo. Già miriadi di pappi del tarassaco erano scoppiati. L’aria, imbizzarrita dai nuovi vortici tiepidi, girava con nuvoli di acheni piumati destinati a fiorire altrove. Per molti abitatori della valle, il ritorno dei primi tepori segnò la fine di un incubo, per altri invece la fredda invernata era trascorsa in un lungo, interminabile torpore, quasi non s’erano accorti del lento trascorrere del tempo.

Il giovane ghiro, che dimorava tra le querce, aveva sentito, quasi all’improvviso, nel tardo autunno precedente una strana spossatezza invadere il suo corpo. Si era sentito debole, pigro più del solito, appesantito e lento nei movimenti. Si era sistemato, una sera, nella sua tana e più non era uscito, immerso in un sonno quieto che solo raramente l’aveva lasciato. A primavera, si levò dal suo strame, dimagrito e malfermo sulle zampe, ma con una gran voglia di uscire, di nutrirsi abbondantemente, di squittire al mondo la sua gioia di vivere. Sbadigliò ripetutamente, poi si mise a saltare da un ramo all’altro come se nulla fosse accaduto. C’era stato invece l’inverno, molto rigido quell’anno. In alcuni valloncelli la neve aveva raggiunto i tre ed anche i cinque metri. Il corniolo e il ginepro erano stati sepolti dalla coltre bianca. Sparito ogni sentiero, sepolta ogni pista. Nel dormiveglia, al calduccio nel suo incavo nella quercia, lo scoiattolo aveva percepito appena il turbinio delle bufere di neve.

L’inverno non era stato per niente monotono, ogni giornata aveva offerto la sua sciagura ai piccoli animali costretti a cercare un cibo che non si vedeva, che non c’era, ma a volte aveva riservato anche qualche lieta sorpresa con giornate solatie, brevi ma eccezionali per splendore e gradimento. Allora la vallata ammantata di bianco appariva irriconoscibile. Spianata, livellata, imbellettata di mille luccichii e riverberi mostrava il suo inedito aspetto. Il lungo letargo colpiva non solo gli animali, ma anche le piante. Senza foglie, con i rametti pendenti, le giovani betulle, le spinose robinie e le cugine acacie, i salici selvatici si lasciavano andare al vento, insensibili, per naturale anestesia, alle lame del gelo. Un mattino, sulla neve fresca, lo scoiattolo, appena sveglio, vide delle orme strane, a lui sconosciute. Uscì sul ramo più alto, dopo un’abbondante colazione di noccioline, e vide, in fila, tre camosci scesi dalle vette in cerca di cibo.. L’erba era coperta dalla neve, i sempreverdi erano ricoperti da un velo sottile di ghiaccio ed anche i rametti più esili erano tanti cristalli rigidi e taglienti. Vagarono a lungo scortecciando qua e là, poi sparirono. Restarono le orme pietrificate dal gelo immediato a ricordare allo scoiattolo quanto l’inverno era duro per molti abitatori della vallata. Gli uccelli migratori erano andati lontano. Non si udivano più i trilli festosi dell’estate, né si vedevano più i variopinti abitatori dell’aria che riconosceva dal semplice battito d’ali. Ma se l’inverno era stato duro per gli animali non era stato meno difficile per gli alberi e per tutta l’immensa varietà di vegetali del sottobosco. L’edera avvinghiata alle querce si era lasciata strappare qualche fogliolina ferita o malata, ma aveva resistito bene. Il suo colore, dal verde intenso e luccicante dell’estate, era passato ad un rosso verdastro irriconoscibile. Dapprima si vergognò, poi le era bastato sopravvivere aggrappata. Alle sue prime tenere gemme trasmise le sue conoscenze. Narrò gli eventi vissuti.

“ Eh, care mie!” cominciò. “La vasta abetaia sembrava una flotta di bianche vele in viaggio in un mare schiumante. Le cime appesantite si piegavano e molti rami, già feriti dalle burrasche estive, si spezzavano.”

Tuttavia il bruciore del gelo, per molti vegetali, costituì una salutare medicina. Le parti malate si staccarono, le resine balsamiche chiusero prontamente le ferite. Tra le crepe delle cortecce, tra le canne disseccate, sotto le frasche ammuffite, i parassiti nascosti perirono lasciando vuoti i loro bossoli di lanugine. Sottoterra, al calduccio, sotto strati di neve, di muschio e di foglie, di humus le radici esauste riposavano. Poi, senza un preciso segnale, la stretta del gelo si allentò progressivamente. Le giornate si allungarono. Improvvise ventate di pioggia sostituirono le interminabili nevicate; infine, tra ampi squarci d’azzurro, comparve, sempre più frequente, un timido sole nuovo. Di notte le stelle brillavano come diamanti sopra i laghetti gelati, sulle vette aguzze, sui torrioni levigati dalla tramontana. E poi, quasi nel cielo fosse crollata una diga, sparirono le nuvole, il sole spadroneggiò sempre più e la primavera scoppiò in tutto il suo rinnovato vigore in tutta la Valtorassa. Si ripartiva da capo.

I nevai, sporchi e raggrinziti, come enormi bucce disseccate e abbandonate, si ritirarono dai pendii liberando prati, boschi, sentieri e riversando nel torrente a fondovalle ruscelli e rivoli da ogni fenditura. Tumultuando, schiumando le acque fuggivano sempre più lontano sotto una leggera coltre di vapori e di nebbie. La loro meta era assai lontana, il viaggio lungo e misterioso, fino alla casa delle acque, al mare. La forza di quelle onde, prima ancora di uscire dalla valle, aveva reso preziosi servizi all’uomo facendo girare poderose elettrocalamite e portando nelle sue case luce, calore, energia. Altre avventure attendevano le dolci acque dei monti, lungo i fiumi, attraverso le città e le campagne finalmente pianeggianti. Molte di quelle stille erano ritornate con i temporali d’autunno e avevano raccontato, con i loro picchiettii sonori, telegrafici messaggi alle pinete assetate che non avvertirono subito le storie favolose e incredibili trasmesse. C’erano, oltre la valle, città fredde e grigie, in quei luoghi gli alberi sono banditi. Ogni alto fusto è mozzato e forzato a creare minuscoli cespugli di foglie a mezz’asta, vi abbondano muri di confine di pietra e di ferro, non siepi, camini altissimi che fumano come vulcani. Una pesante coltre di fumi velenosi avvolge ogni cosa. L’uomo s’ingegna in ogni modo per eliminarla e per produrne altrettanta in eguale misura. Laggiù l’uomo gira a vuoto anche se si muove in mezzo a stridori assordanti, a scatti rabbiosi, sempre più veloci in un caotico agitarsi verso non si sa che cosa. Ma i guai peggiori sbucano dal sottosuolo. Da canali nascosti sboccano nelle cristalline acque discese dai nostri monti, mefitici fiotti bollenti rossastri o gialli o verde cupo, a volte schiumosi, a volte oleosi simili a liquide superfici gommose, ondulate. In un baleno imbavagliano le onde del fiume, le imbrigliano, le intorbidano, le trasformano rendendole ignote a loro stesse. Dalla melma putrescente emergono spettri di pesci in decomposizione, alghe annerite, l’uomo non vi nuota più perché la leptospirosi lo annienterebbe. Anche gli uccelli sorvolano quelle acque oleose, hanno visto che, se si bagnano, le loro ali impiastricciate non volano più.

Queste notizie erano giunte nella vallata, riportate dalle sbarazzine pioggerelle di marzo o dalle spruzzate violente e passeggere delle acque di ritorno. Ma non erano state prese sul serio, neanche da Rossodisera. Certe cose che sembravano succedere nel bosco degli uomini, come egli chiamava le loro città, le considerava davvero incredibili o meglio inverosimili.

Anche il re degli alberi, con l’arrivo della primavera, si era sentito rinascere. Le giornate, allungandosi, concedevano un maggiore periodo di sole e di luce alla funzione clorofilliana. Immense energie imbrigliate ed intorpidite si rimisero in moto. La linfa vitale riprese a scorrere nelle vene nascoste sprigionando nuovi slanci e voglia di vivere. Le cortecce, impotenti a contenere tanta forza, cominciarono a cedere piano piano nei punti terminali e più molli, poi, ecco il miracolo! Su ogni ramo, su ogni radice o rizoma scoperto, su ogni tronco e arbusto apparvero germogli, polloni, foglie nuove e un verde fresco, pallido, festoso invase ogni angolo del bosco.

Il grande abete rosso, dalla sua verde balza, rinnovò il saluto ai vecchi fratelli e diede il benvenuto alle tenere piantine, prima di dedicarsi pure lui al rinnovare la sua chioma espellendo gli aghi secchi e le scaglie di corteccia ammuffita per lasciare spazio alla nuova peluria che presto si sarebbe trasformata in una lussureggiante, regale chioma rinnovata.

Chi, al tramonto, dalla bassa abetaia, volgeva lo sguardo in alto godeva una vista meravigliosa e imponente. Le vette sembravano incendiarsi nei bagliori che i picchi ghiacciati catturavano e scagliavano con sempre nuovi riflessi sui boschi sottostanti. I raggi, filtrando tra i rami fino a fondovalle o morendo assorbiti da innumerevoli meandri di foglioline e ramoscelli, davano al superbo paesaggio un tocco magico di favola. Le alte cime degli abeti, dei pini e dei larici dalle lunghe braccia muscose sembravano anch’esse, in quel coro di luci, vampe proiettate in cerca di azzurro. Ma, tra tutte le cime verdi, la più bella, la più saettante appariva, alle colonie di salici, di sambuchi, di sorbi e di biancospini insediati lungo le sponde impervie del torrente, l’inquieta e superba chioma di Rossodisera. C’era anzi un momento, quello che precedeva il tramonto, quando il sole sembrava appoggiato sul più alto torrione roccioso di nord-ovest, in cui l’abete rosso, signore degli alberi, appariva incoronato da un’aureola di luci scintillanti. Il suo nome era ben meritato, era augurale. Lieti scorrono i giorni.

La primavera è passata, ma il suo risveglio è stato una piacevole sorpresa, difficile da dimenticare. Aveva ridato splendore ai boschi ed aveva, col suo misterioso richiamo, fatto ritornare nugoli di scriccioli, di cince, di francolini, di fringuelli, di stornelli, di usignoli e i cuculi solitari. Il cuculo volava basso, nascosto tra la ramaglia e gli sterpi adocchiando i nidi incustoditi in cui deporre le sue uova. Nelle ore più calde, quando ogni pigolio taceva, echeggiava il suo verso pigro e cupo. Era il tempo degli amori. Ogni albero si vestiva a festa, ogni ramo si colorava di fiori variopinti, ogni corolla sceglieva un profumo e gli stami, carichi di pollini pungenti, lasciavano andare al vento, alle rugiade e alle piogge leggere i loro veicoli di vita.

Altrove pistilli in attesa raccoglievano i preziosi granelli nel seno dei loro ovari che lentamente, ingrossandosi, avrebbero dato i frutti novelli.

Nei giorni dell’impollinazione il bosco impazziva. Sciami d’api e di farfalle, miriadi di maggiolini, di coccinelle, di bombi e di tanti altri visitatori alati entravano nelle corolle dei fori di prato, di cespuglio, di ciliegio selvatico, di biancospino e di mirtillo, correvano dall’alba al tramonto in cerca di nettari e di pollini, assolvendo, inconsciamente, anche ad altri misteriosi compiti e disegni della natura. La collaborazione tra animali e piante era perfetta e armoniosa, e non cessava neppure di notte, quando chiocciole e lumache strisciando tra fuscelli e foglie trasportavano anch’esse, ad altri fiori in attesa, il polline amico.

Ora l’autunno si avvicina. Il bosco si appresta a restituire agli amici animali i favori ricevuti. Non appena le brezze del mattino resteranno più a lungo del solito, gli abitatori della selva capiranno. Scoiattoli e leprotti, passeri e starne, tassi e ghiri perlustrano i loro territori in ogni anfratto, in ogni cespuglio, in ogni pendio alla ricerca di bacche e di noci, di corbezzoli, di lamponi agrodolci, di semi e ghiande, di noccioline. Molti avrebbero rimpinguato le scorte nelle loro soffici tane invernali, altri ghiotti avrebbero irrobustito le loro membra prima del lungo letargo, altri ancora avrebbero saziato a volontà i loro appetiti prima dei duri digiuni nell’ora dell’emigrazione. Ovunque c’era fervore, animazione, eccitazione. Le ultime covate si avviavano a vivere grandi eventi.

Il bosco in quella tarda estate era una magnificenza. Rossodisera lo sapeva e ne era fiero.

8.  IL FALCHETTO

Molti eventi li puoi prevedere, controllare, guidare. Altri no.

Da alcuni giorni il tempo si era messo al bello. I rondoni garrivano sorvolando ripetutamente la Torassa. Era un buon segnale.

“Dura.”

Gli uomini addetti alla costruzione della nuova strada speravano nel tempo asciutto. Erano settimane che non pioveva e speravano che il bel tempo tenesse ancora.

Da qualche mese, a metà vallata, nel punto più stretto, dove c’era spazio appena per il torrente e due stretti sentieri ai suoi lati, erano iniziate misteriose manovre. Tutte le creature stavano all’erta per scoprire quale altra diabolica trappola si stesse preparando. Per una vasta area, le scarpate erano state abbandonate dagli animali residenti, resi timorosi da sospette e inusitate manovre. Anche gli uccelli che colà avevano nidificato sembravano scomparsi. Si sentirono dapprima richiami isolati e senza risposte, poi neppure quelli.

I più preoccupati erano i castagni e i lecci che sentivano provenire, da oscure profondità, vibrazioni sconosciute e insolite. Uomini erano passati ripetutamente, senza fretta, a misurare, a segnare con picchetti, a misurare pendenze. Non seguivano i soliti sentieri, sembrava ne seguissero altri, immaginari, perché il loro procedere non era casuale, da cercatori di funghi, ma piuttosto calcolato, ragionato. Nessun ostacolo li faceva deviare o desistere dai loro piani, neanche la presenza di massi eccezionali o di querce centenarie.

Il falchetto lodolaio, che da diversi mesi aveva fissato stabile dimora tra i rami ospitali di Rossodisera, tornando dai suoi voli quotidiani, chiacchierava volentieri, specialmente se era ben pasciuto. Era uno spione incorreggibile, niente sfuggiva al suo occhio vigile, quando si levava in volo lasciandosi trasportare dalle correnti d’aria calda nei meriggi assolati. Pure lui aveva osservato infastidito le insolite e insistenti operazioni meccaniche nel punto più stretto della valle. Era proprio indispettito, perché molte sue potenziali prede erano fuggite compromettendo molte certezze di pasto giornaliero. Avrebbe dovuto allargare il suo territorio di caccia entrando in competizione con altri falchi, ma non era regolare, non gli piaceva. La curiosità però l’aveva spinto a compiere ripetuti passaggi sopra quella strettoia a fondo valle. E così, una sera, si pavoneggiò a raccontare ciò che aveva scoperto. L’uditorio era attento. Erano attenti gli animali che erano riusciti a scappare, ma ancor più gli alberi che scappare di fronte a un pericolo proprio non possono.

“Sta succedendo qualcosa laggiù” esordì il falchetto.

Cessò di stormire all’istante ogni foglia della balza, in trepida attesa di conoscere i fatti nuovi da trasmettere poi fin lassù, con dovizia di particolari fino lassù alle crode sfuggenti, regno delle stelle alpine.

“Sono Scrash!”  Rossodisera fu colto da imprecisato timore. Qualche maleficio si stava per abbattere su di loro. Già da tempo ne aveva avuto presentimento. Certe avvisaglie lo avevano già allertato. Aveva notato da tempo gruppi di uomini comportarsi in modi sconosciuti fino allora. Non erano rapinatori di giornata. Sembravano conquistatori. Sostavano troppo a lungo a frugare, a forare, a scalfire la roccia.

“Temo di sì” confermò il falchetto. “Sono Scrash.” Attese che cessasse ogni brusio, poi riprese a raccontare.

“Questa mattina, sul fianco della nostra montagna  ho visto dei lampi a cielo sereno, ho udito fragori di uragano sprigionarsi dal sottosuolo, la roccia aggredita, ridotta in schegge, l’ho vista precipitare alla rinfusa nel torrente. Sta nascendo un «Grande Sentiero» mai visto, si allarga e si allunga sempre più, s’inerpica deciso verso la nostra balza, ci raggiungerà, ci separerà.

“Scrash! Scrasssh!” sibilarono le alte cime con scricchiolii sinistri avvisando ogni vivente che un ignoto, nuovo pericolo si stava avvicinando. Bisognava stare all’erta.

Per tutta la notte, i nodosi rami delle farnie e degli ippocastani, veterani di tante battaglie contro le intemperie, si contorsero emettendo schiocchi funesti ed ognuno ne fu dolorosamente impressionato. C’era il rischio di panico, perché la paura dell’ignoto è peggiore di qualunque altro assalto, soprattutto per chi non può muoversi, scappare, prendere iniziative adeguate a difendersi.

Anche la volpe senza coda, simbolo di malaugurio, fece la sua apparizione dopo tanto tempo. Il suo ghigno sprezzante, confuso e lamentoso, riecheggiò da selva a selva, ma nessuno sapeva da dove lanciasse il suo minaccioso avvertimento.

Il giorno dopo, quando il sole stava per raggiungere il zenit, avvenne un fatto inatteso che fece per fortuna tirare un grande sospiro di sollevo.

“Svash! Svasssh!”

Come una carezza, giunsero a Rossodisera i primi suoni che nel linguaggio degli alberi significavano “bene, “lieta novella”.

Le betulle impazzite, come mille lingue al vento, non smettevano di stormire la meravigliosa notizia che i larici e le abetaie amplificarono a dismisura fino lassù alla balza. Persino il falchetto curioso era stato sorpreso dalla tempestività e dall’imprevedibilità dell’evento. Appollaiato sul suo ramo, con un solo occhio aperto, tese il collo, aprì l’altro occhio e s’informò. “Che c’è?”

Rossodisera allora decise di intervenire e spiegò ciò che sapeva.

Gli uragani e gli scoppi che gli Scrash, scagliavano contro il fianco della montagna erano rimbalzati sui loro autori castigandoli. Una frana di inusitate proporzioni aveva travolto le strane macchine divoratrici di roccia che ora giacevano inerti in fondo al torrente. L’acqua impetuosa trovando l’inatteso ostacolo sulla sua via aveva gonfiato il suo impeto risalendo le sponde scavalcandole e travolgendo il campo degli uomini cattivi scavandosi un inedito percorso.

In poco tempo si era passati dalla paura alla gioia. Come tante altre volte. Rossodisera pronunciò parole di speranza, di incoraggiamento, di fiducia nella forza della vita. Tuttavia lo attanagliava un segreto presentimento che non lo lasciava del tutto in pace. Già altre volte aveva sperimentato la tenacia degli uomini, la loro astuzia, la loro forza.

“Come faranno, piccoli come sono!” S’interrogava l’albero buono, signore della valle, ma non trovava adeguata risposta.

Per tutto quel giorno e i giorni seguenti non fu del solito umore, fu stranamente guardingo e sospettoso, volle captare i messaggi più reconditi, a volte inascoltati dei timidi trifogli che ogni sera chiudevano le braccia poggiandovi sopra il capo oppure i bisbigli dei canneti delle piccole gore dimenticate. Sembrava attendere qualcosa di temuto e di inevitabile. Ed il momento venne. Era un pomeriggio ventoso, i suoi rami frustavano l’aria con rabbia insolita ed un tappeto di soffici aghi cadde ai suoi piedi.

“Scrasssh!” urlò, sibilò sprigionando tutta la sua furiosa ira avvitando l’invitta cima che quasi si spezzò. Tutti capirono che qualcosa di molto grave stava accadendo o era accaduto. Gli uomini cattivi avevano scavato una galleria nel cuore della montagna, come talpe, e il Grande Sentiero, creduto sepolto, più ardito che mai resuscitava dalla polvere sotto le loro radici. Incredulità e stupore paralizzarono la pineta che ospitava Rossodisera, perché anch’egli restò muto.

Passarono settimane, passarono mesi e il Grande Sentiero bianco di polvere, aggirando l’ultimo costone roccioso, raggiunse il lago nella sua gola nebbiosa fermandosi alla base della diga.

In breve tempo nuovi suoni, insospettati rumori, odori sconosciuti si sparsero per i boschi. Questa volta non era la semplice presenza dell’uomo a creare disagio, era soprattutto l’azione frenetica degli infernali aggeggi meccanici che egli portava con sé. Aggeggi e macchinari di ogni tipo e dimensione che provocavano scoppi, piccoli incendi, fragori a volte assordanti a volte stridenti, mai sentiti in quelle balze.

Ad intervalli regolari, già dall’alba, sulla montagna di ponente che ospitava il Grande Sentiero, scoppiava un piccolo inferno, fino allora ignoto. Un formicaio umano, incolonnato, indisciplinato, inscatolato in minuscoli mostri ruggenti, avanzava a scatti. Così appariva a Rossodisera lo sciame di gitanti, che risalivano trionfanti i tornanti. Raggiunti spiazzi e radure pianeggianti si bloccavano di colpo, straripavano dalle loro scatole semoventi contendendosi ogni metro di verde, spandendosi intorno a macchia d’olio, comportandosi come capre selvatiche che non risparmiano niente di ciò che di verde attraversa il loro cammino depositando, pure loro, a casaccio, ogni tipo di scarto e rifiuto. Carpivano bulbi di ciclamino, gigli rossi, amanite e finferli. Alla sera ripartivano, fragorosamente, alla stessa ora, ingolfati e stanchi più di prima, lasciando tracce ovunque del loro nefasto passaggio. Sembravano inebriati e felici, e forse lo erano. Sul bosco, invece, calava una silente tristezza. Si scopriva più povero.

Rossodisera e i suoi fratelli cominciarono a temere sempre più l’alba di ogni settimo giorno. Per la prima volta, durante la sua lunga vita, il re degli alberi fu assalito da un atroce dubbio.

“Anche il bosco può morire?”

Questo terribile interrogativo lo gettò in un grande sconforto, perché conosceva la loro naturale impotenza. Un albero non può reagire, non può fuggire.

9.  L’APPELLO DI ROSSODISERA

I grandi sconvolgimenti provocati dall’uomo non avevano però impedito al sole di sorgere ogni giorno sulla Valtorassa, al vento di spazzare le nubi dal cielo sovrastante le torri granitiche che le facevano corona. Le acque continuavano a scorrere come sempre, gli arbusti a crescere, i vecchi tronchi ad essere divorati dai muschi e dai licheni, dai funghi e dagli invisibili batteri.

Le distanze, immutate da sempre, tuttavia, sembravano essere improvvisamente accresciute. L’incomunicabilità, l’indifferenza, la resa ineluttabile alla fatalità si erano insinuate inavvertitamente, accresciute e diffuse. Tutto sembrava essere come prima, ma non era così. L’uomo aveva toccato il bosco, aveva lasciato l’impronta del suo passaggio. Lo scompiglio e il disordine che egli aveva portato non erano soltanto quelli che stavano davanti agli occhi di tutti, ma erano soprattutto l’impalpabile, lento inesorabile disfacimento di ordini millenari, la violenza a leggi naturali, il disgregamento di una vita associata che da sempre aveva regolato l’esistenza delle piante e degli animali della valle.

Rossodisera avvertiva questo malessere, lo vedeva crescere e dilatarsi. La rassegnazione e la rinuncia a vivere precedono sempre la fine. Bisognava fare qualcosa. Il momento era delicato e difficile. Già la bella stagione declinava, si avvicinava a grandi passi l’autunno dai mille colori. Sotto il suo occhio vigile, i boschi cambiavano volto da un giorno all’altro. Il verde, ora tenero ora lucente, che per tutta l’estate aveva dominato ogni pendio, andava perdendo forza e prevalenza.

L’enorme mare di foglie andava assumendo un nuovo aspetto, più sbiadito eppure bello nella sua novità e varietà.

Mentre i larici iniziavano lentamente a spogliarsi del loro mantello offrendo spazi vuoti e grigi agli sguardi attenti di Rossodisera, più in basso gli ippocastani trasformavano le loro maestose corone in infuocate, rossastre macchie che esaltavano ancor più la loro imponenza. E più in basso ancora i pallidi, fradici pioppi ingiallivano con pudore come le betulle, quasi inavvertitamente, lasciando cadere sciami di foglie a non finire, tanto che non si capiva con quale magico prestigio ne tirassero continuamente fuori dai loro rami, offrendo ad ogni tramonto una tonalità diversa dei pendii ad oriente.

I sorbi e i tassi, ormai quasi denudati, mostravano la bellezza delle loro rosse bacche, originali arabeschi contro un cielo fresco e azzurrissimo. I platani accartocciavano con tenui crepitii le loro foglie di un marrone delicato, prima che i rami, come tante abili mani, le deponessero con tocco sicuro in un angolo. Il rovo, la vite selvatica e la sanguinella assumevano invece via via colorazioni e sfumature di rosa, di lilla, di viola dando al sottobosco un inimitabile sfondo; era questo il grande affresco che madre natura andava disegnando di giorno in giorno in quell’autunno, memorabile.

A rendere vivo, magnifico il bosco contribuivano stormi di migratori che si riunivano a pigolare piano, a cinciallegrare in attesa dei via. Erano giorni di richiami continui ed incessanti, erano giorni di insolito fervore, erano giorni di trepidazione per le giovani curiose covate che, del lungo viaggio, intuivano solo il fascino misterioso, non già lo smarrimento durante gli uragani, l’abbandono delle forze, il disorientamento nelle terre nuove. Ogni anno era così, sembrava la ripetizione di riti conosciuti. Tuttavia, qualcosa di nuovo c’era. La disgregazione nel bosco era in atto, le disarmonie, una volta innescate, procedevano inesorabili.

Lo sfruttamento implacabile e irrazionale della natura stava procurando all’uomo momentanee sensazioni di benessere e felicità. Era nato così in lui il convincimento che così dovesse essere sempre, perciò non mutò minimante il suo atteggiamento aggressivo nei confronti del bosco.

Rossodisera decise di parlare ai fratelli di ogni verde sembianza della vallata, volle informarli dei suoi timori e dei suoi tremori. L’avvenimento era insolito e servì a scuotere dall’apatia, dal torpore, tutti i viventi del regno vegetale.

Così parlò il re degli alberi.

“O fiori gentili che state per nascere lungo i sentieri della valle, o teneri germogli che uscite appena da turgide gemme cariche di vigore, o tenaci arboscelli avvinti ai tronchi solidi e solenni slanciati al cielo, o validi amici dalle grandi chiome, o cari fratelli dei boschi, come vi amo! Scende il buio nella nostra cara e verde dimora! Sento il freddo della lontananza insinuarsi tra noi, sento crescere il dolore della separazione. O pinete lucenti della valle, devastate e rade, più non vi sento mormorare alla sera e voi larici di monte, desolati come capri depredati dal loro vello, più non mi parlate, abbandonate al vento, muti, i vostri rami inermi. O faggi gagliardi, forza e bellezza delle conche ombrose, perché lasciate intristire anzitempo il vostro fogliame? Perché le vostre radici marciscono anzitempo attorno ai recinti di pietra dell’uomo? Sveglia, fratelli, non subite la sventura! Chiamo anche voi, castagni centenari, saggi montanari, e voi querce invincibili, sveglia! Orsù, possiamo ancora salvarci, facciamo quadrato, facciamo groviglio, imbrigliamo l’uomo che ci violenta, restiamo compatti e solidali tra noi. Proviamo a volerlo tutti, insieme. Guardatevi attorno, fratelli! Mirate com’è grande e giovane e bella la nostra vallata. Perché devono morire schiacciati dai cingoli gli sgargianti ciclamini e i rossi gigli, orgoglio delle balze, e le spianate biancheggianti di margherite? Perché i giovani lecci ridotti a miseri cunei devono sorreggere i cigli scoscesi del Grande Sentiero? Perché dobbiamo collaborare a farci del male? Facciamo qualcosa, inventiamo qualcosa, ribelliamoci. Morire si deve, ma non da inerti. Se potessi uscire dalle mie viscere aggredirei le macchine che mi assalgono, ma così siamo fatti, tuttavia facciamo di tutto per far sapere che non siamo d’accordo. E’ troppo importante la vita per ignorarla, per lasciarla gestire a chi non sa che farsene di noi. Svegliatevi radici nei profondi anfratti, scuotetevi, attenne svettanti, aiutiamoci a sperare, almeno a sperare, tutto può ancora accadere. O cari fratelli alberi…”

Al di là della speranza, oltre i buoni propositi, neppure Rossodisera sapeva andare. Che poteva mai fare contro la potenza dell’uomo? Era anch’egli commosso. Ora la stanchezza lo stava lasciando, già la nuova speranza che aveva cercato di suscitare negli altri cresceva in lui. Vedeva le cose con occhio nuovo. L’antica sicurezza, lentamente tornava a risorgere nelle sue movenze, nelle sue parole, nel suo aspetto tornato sicuro e altero. Davvero non è facile vivere, a volte, ma è ancor più difficile morire.

Tacevano i boschi intorno. Echeggiavano intanto gli accenti accorati sugli alberi impettiti, immobili nell’assenza di vento, sulle pietraie da cirmo a cirmo, sulle sponde dei ruscelli e del torrente inquieto.

Voci sommesse, mormorii confusi, fruscii crescenti ed infine un frastuono immenso percorse la valle da monte a monte. Il grande cuore verde riprendeva a battere forte e all’unisono, ritornava la voglia di vivere. Mai stormire era stato più gradito, più concorde in quei luoghi selvosi. Già un numero sterminato di radici s’era messo in moto, nonostante l’avanzata stagione, già il duro fondo stradale cominciava a tremare, a ondularsi sotto le loro pulsioni, già rampicanti furiosi cominciavano a insinuare nelle crepe delle case dell’uomo le loro membra disgregatrici, già la vasta marea di rami aveva ripreso la sua ordinata e sapiente pulizia di foglie inutili e di capsule rinsecchite con gli ultimi semi da lasciare andare al suolo, ai venti, agli uragani.

A primavera, al risveglio, anellini, artropodi e batteri avrebbero fatto trovare pronto il fertile humus necessario alla continuazione della loro vita.

Le grandi macchie vuote sui fianchi dei monti lacerati, tra poche stagioni, sarebbero ritornate verdi e rigogliose. Semini di camomille, di malve e di acetoselle si sarebbero posati sui terreni scoperti e vogliosi, noci, pigne e castagne sarebbero rotolate a valle incappando nel primo ostacolo gemmandovi, lunghe radici sotterranee sarebbero filtrate provvedendo a ricomporre il bosco nella felice unione che ben conosceva, ricreando la simbiosi che permette a erbe, piante e animali di condurre la loro vita consueta e naturale.

Lo spavento era stato grande anche per gli animali. La sconfitta dei vegetali, la distruzione dei boschi sarebbero state fatali anche per loro. Avevano seguito, attenti e tremanti, il dramma degli alberi, avevano ascoltato angosciati e increduli il drammatico appello di Rossodisera ed ora, di riflesso, contribuivano ad accrescere il frastuono festoso fatto di mille suoni, scricchiolii e versi. S’udivano nuovamente zigare festante il coniglio selvatico, squittire il falco e la civetta, abbaiare la volpe, bramire il cervo, fischiare l’assiolo, zirlare il tordo, stridere al faina. Sui pendii ombreggiati intanto fiorivano i colchici ad annunciare il declino della bella stagione.

Anche lo scoiattolo Puffi era felice. Saliva e scendeva come un fulmine dai rami di Rossodisera, saltellando e facendo evoluzioni da capogiro. Il suo letargo invernale sarebbe stato tranquillo e sicuro nella sua tana aerea. Presto avrebbe raggiunto nel mondo dei sogni i tassi, i ghiri, le talpe, le serpi, le chiocciole, i ricci e tanti altri animali del bosco che già da qualche tempo avevano iniziato il lungo sonno; si sarebbero risvegliati soltanto quando l’aria ritornata mite sarebbe stata percorsa da nuovi profumi di lavanda e di resine piccanti.

10.  LA DANZA DEGLI ALBERI.

L’inverno, quell’anno, era stato bizzarro fin dall’inizio. Con molto anticipo era caduta la neve. Le tormente duravano giorni e giorni lasciando brevi spazi ad un sole pigro e debole, non sembrava più lui, cedeva subito alle nebbie sempre più spesse, aggressive.  Ma bastava anche quel poco calore per preparare altre lunghe giornate di bufera, nevischio e pioggia ghiacciata. La vallata, sommersa dal grande manto bianco, assopita, viveva normalmente il suo ciclo vitale. Non temeva più di tanto la neve e i geli, anzi era questa una buona stagione per la maggior parte delle piante d’alto fusto. Cadevano le parti secche, morivano i parassiti, riposavano le esauste radici, rallentava il suo lavorio la linfa preziosa. Inoltre i sentieri sepolti facevano diminuire di molto i pericoli che l’uomo, costretto lontano, portava sempre con sé.

L’unico segno di presenza umana si trovava lassù, sul muraglione della diga. Di sera, un tenue lume rischiarava la casa del guardiano. Caduto in gran parte il fogliame, negli intervalli della tormenta, Rossodisera poteva intravedere la finestra illuminata. Quel chiarore era un segnale amico, qualcuno vigilava sulla valle e la proteggeva.

Paradossalmente in questa stagione di grande turbolenza climatica, la vita trascorreva serenamente in tutta la Valtorassa. I messaggi che gli alberi si inviavano si facevano sempre più rari. Ogni pianta si chiudeva in sé e badava un attimo a sé stessa: c’era chi si appisolava incurante dei turbini, chi si lasciava cullare dal vento, chi giocava con i rami del vicino picchiettandoli ad ogni folata, chi, indispettito, reggeva l’urto in atteggiamento di sfida, chi sepolto dalla neve sognava tramonti infuocati, cicaleccio di passeri, ronzio d’api, profumo di resine, di latici, di pollini.

Negli sterminati cunicoli dei formicai, al calduccio, colonie di formiche riposavano meritatamente accanto ai loro granai. Così pure i ghiri sepolti nello spesso fogliame delle loro tane. I giorni trascorrevano lenti, sereni, sicuri. Per i grossi animali però l’invernata era tutta un’altra cosa. La ricerca del cibo era una lotta affannosa e spasmodica. Il cervo scendeva sempre più a valle, seguito dal camoscio, a strappare un po’ di corteccia, esili rametti, ciuffi d’erba secca sull’orlo dei precipizi. Un branco di cinque lupi passò correndo, smottando nelle scarpate, affondando e riemergendo dalla neve fresca. Fumavano dalle narici dilatate, dalla bocca spalancata, dal pelo irsuto impastato di terra e sudore. Passarono dritti, sicuri, davanti a Rossodisera, sapevano dove andare. Le volpi invece cacciavano solitarie. Avevano anch’esse cambiato pelo, come pure gli ermellini. Eh, sì! La vita era dura per costoro.

L’unico segno diverso, ribelle, nel paesaggio era il sasso gigantesco e nero, ripido e inattaccabile al centro della valle, la Torassa. Sulle sue pareti levigate, neanche la neve attecchiva. Dalla sommità imbiancata partiva a volte, il latrato lugubre e minaccioso della volpe zoppa senza coda. Almeno così si voleva credere. Ai simboli del malaugurio si attribuiscono facilmente anche le cose improbabili.

Una sera, a lume spento, il Gisto guardava dalla finestra a doppio vetro il lago legato. Un freddo polare stringeva sempre più nella sua morsa la valletta. Niente si muoveva, niente respirava, niente sembrava vivere in quel luogo spettrale. Le vette imbiancate si riflettevano sullo specchio del lago con immagini vive e contorni nitidissimi. Il cielo stellato così lontano, eppure così vicino, sembrava racchiuso in quella magica cornice.

Quante cose egli vedeva, quante ne avrebbe voluto vedere. Mentre nel camino il fuoco andava spegnendosi, un piacevole torpore lo prese accanto alla finestra e si addormentò. Ritornò a sognare uno spettacolo che sempre lo turbava e lo affascinava.

Dal sentiero che portava al lago vide salire la nota processione. Una lunga fila di alberi procedeva lentamente, con fatica, ma decisa. Contrariamente ad ogni logica, nonostante la stagione, i loro rami e le loro chiome erano verdeggianti. Una grande quantità di radici si spostava tra i massi e le crepe del suolo con disinvoltura e sicurezza. Una rovere gigantesca apriva il corteo. Sbuffi di vapore, che subito si condensavano, salivano dal mare di foglie, il bosco era un gigante in movimento che avanzava dondolando, tentennando. Il guardiano aguzzò la vista e alla sua fervida immaginazione apparvero alberi ben noti che si comportavano come persone. Il Gisto guardava le radici articolate, ramificate, spinte in avanti come tante gambe di esperti scalatori, come tanti piedi che tastavano il terreno, prima di poggiare tutto il peso del corpo e spingere successivamente in avanti un altro dei robusti arti. La superficie del lago andava riempiendosi di alberi. Erano alberi di tutte le famiglie, dalle forme più bizzarre e impensabili diveltisi dal suolo. Tutto quanto andava sognando gli sembrava naturale. A questo punto del sogno altre volte si era svegliato agitatissimo, ora invece, concentrò tutta la sua attenzione e la sua volontà su quei fantasmi e poté ammirare tutta la scenografia fantastica che si dispiegava sul lago gelato.

La cerimonia di presentazione al bosco dei giovani alberi, in età di fruttificare, cominciò in modo solenne e semplice ad un tempo. Nessuno mai è riuscito a penetrare nella natura dei vegetali, ma qualcosa di simile doveva pur succedere, secondo Gisto, così voleva, così credeva e allora tradusse l’evento con immagini e sentimenti umani eccellenti.

Attorno alle rive avevano trovato posto, per ogni specie, gli alberi più anziani; avanti a loro stavano gli alberi più dritti e forti, più avanti ancora, esili e timidi, stavano i giovani alberelli che, alla prossima primavera, sarebbero stati pronti a dare a ricevere il polline miracoloso della vita. Su tutti, nascosto nell’ombra, vigilava Rossodisera. Il guardiano non riusciva a scorgerlo, a materializzarlo, ma sapeva che da qualche luogo nascosto stava osservando compiaciuto.

Per prima al centro del lago fu invitata una giovanissima betulla. Tremava tutta per l’emozione, si dondolava sull’esile fusto facendo occhieggiare le mille foglioline in tutte le direzioni. La leggera brezza che scompaginava le sue fronde civettuole portava un fruscio delicato, appena percettibile. Il suoi rametti vibravano agili e snelli, come piccole braccia, seguendo una melodia di violini che, invisibile filo magico, penetrando tra le chiome univa e attraeva tutta quella grande famiglia vegetale. Leggera, flessuosa, sicura, bella nel suo pallore, la giovane betulla continuò a muoversi, a danzare sulla superficie ghiacciata del lago, al termine si inchinò leggermente, allargò i suoi ramoscelli e restò immobile, in attesa. Giunse all’unisono un fragoroso stormire di fronde dai maggiorenti del bosco. Da quel momento era entrata a far parte delle grandi piante pronte ad abbellire e a far crescere il bosco.

Toccò poi ad un’antennella di abete bianco. Alta, dritta, solida pur nella sua sottigliezza, raccolta nei suoi rametti folti verdissimi, mosse i primi passi facendo avanzare le lunghe febbrili radici. La brezza che scivolava dai monti penetrava nella giovane, densa chioma e ne usciva con un suono nuovo, diverso. Il giovane abete bianco danzava sotto le stelle in ampi cerchi, si fermava all’improvviso facendo tentennare la sua lucente cima in tanti perfetti inchini. Fruscii di approvazione salivano, ancora una volta, dagli spettatori che giudicavano positivamente la presentazione della giovane rappresentante delle aghifoglie. Anche l’antennella completò la sua danza, con piroette e giravolte, in un crescendo vorticoso che s’arrestò all’improvviso, di colpo, mentre gli squilli si affievolivano in toni sempre più flebili, leggeri. Anche l’abete fu accolto tra gli adulti.

Nel suo sogno il guardiano continuava a veder quello che aveva pensato, desiderato intensamente più volte ad occhi aperti.

Venne poi il turno di un piccolo arbusto di nocciòlo, esile anch’esso, ma pieno di energia, di voglia di vivere che traspariva dalla corteccia odorosa. Compì anch’esso le sue evoluzioni, in poco spazio, al centro del lago, mimando movenze di danzatrici con le nacchere.

Molti altri alberelli si susseguirono con ritmi sempre più vorticosi. Le ultime immagini del sogno cominciarono a diventare sempre più nebulose, affrettate, vide gli alberi tutti toccarsi, salutarsi e riprendere ciascuno il suo pendio. Poi tutto si dissolse lasciandogli una dolorosa sensazione di vuoto. Si svegliò di soprassalto, madido di sudore, angosciato, la testa gli martellava. Guardò fuori. Il lago era là freddo, immobile, deserto, racchiuso nella sua morsa di gelo. Non sapeva come, forse non succedeva proprio così, ma lui ne era certo, gli alberi tra loro comunicavano, si parlavano in un linguaggio che solo gli dei e i sognatori possono conoscere o azzardare.

11. LA FRANA

La temperatura aumentò sensibilmente ai primi di gennaio. Dopo due giorni di sole e di cielo limpidissimo, cominciò a serpeggiare da sud un’aria insolitamente tiepida. Nebbie basse, dense, mai viste in quella stagione, stagnavano continuamente non solo attorno ai laghetti, ai valloncelli, sui torrenti, sugli stretti pendii, ma anche a corona sulle alte cime. La Torraccia avvolta dalla nuvolaglia era sparita alla vista. La terra rattrappita si scioglieva liquefatta dai ghiacci che s’arrendevano. Alti schiocchi annunciavano un precoce disgelo e la caduta di valanghe. Era successo ancora. D’inverno, qualche sciroccata aveva provocato slavine e smottamenti, ma non si ricordava mai un disgelo così inatteso. I torrenti, ingrossati oltre misura, rombavano. Lassù, al lago, lo strato di ghiaccio divenne sottile, continuamente rotto da cadute di terra e massi e subito ricomposto. L’acqua sgelando usciva e rientrava da fenditure, da crepe, da cunicoli erodendo, spaccando, indebolendo i fianchi della montagna, che reggeva a stento torrioni granitici, sgretolando gli ultimi appoggi sull’orlo dei precipizi dove sparuti cirmi erano stati a lungo vincitori.

Gisto guardava impotente e preoccupato la devastazione che la natura compiva, questa volta da sola. Il livello del lago salì paurosamente oltre il segnale di guardia. Furono aperte alcune porte e molta acqua defluì a valle schiumando rabbiosamente. I fianchi della montagna che accerchiavano il lago, già indeboliti dagli sbalzi repentini di temperatura, dalle offese del gelo, erano sottoposti ad attacchi proditori, insoliti e pericolosi.

Poi ritornò il freddo polare, per una settimana almeno. I venti freddi del nord sgombrarono la vallata da ogni nube. Il tempo si rimise al bello. Un freddo asciutto, secco ricompose in superficie ogni ferita inferta al suolo, e tutto ritornò normale.

Fu di pomeriggio che il tempo si guastò. Tornò il cielo grigio, cupo. Il sole impallidì lentamente e scomparve anzitempo inghiottito da nuvole cariche di pioggia. Provenivano da sud-est. Scavalcata la muraglia di cime, si adagiarono nella Valtorassa impadronendosene. Scrosci di pioggia batterono per giorni e giorni sui fianchi indeboliti dei monti, sui nevai disfacendoli, sui prati disboscati che, sollevati da correnti sotterranee, scivolarono a valle trascinando con loro tutto ciò che incontravano lungo il loro cammino. La terra tremò, instabile anche in luoghi impensabili fino allora.

“Dio mio, Dio mio, Dio mio!” Gisto ripeteva le stesse implorazioni, impietrito. Aveva capito tutto, sapeva cosa stava per succedere, mentre girava lo sguardo smarrito sui luoghi a lui così cari e sacri.

Le forze terribili della natura seguono il loro corso da sempre. Qualche volta l’uomo riesce a domarle, ad imprigionarle, a guidarle, qualche volta ad approfittarne, qualche volta addirittura a favorire la loro forza distruttrice. Era il caso della Valtorassa. Molti interventi dell’uomo avevano sconvolto le caratteristiche geologiche del suolo, la vita, la stabilità, l’armonia, l’equilibrio biologico della valle. Ora la Valtorassa, priva di difese, era in balia degli elementi, infidi e implacabili che la stavano assalendo. E’ probabile che, in quei frangenti, anche se non avesse mai conosciuto l’uomo, difficilmente avrebbe potuto resistere alla furia degli eventi incalzanti. Certo, però, l’intervento degli uomini aveva favorito, aggravato, accelerato l’epilogo tragico.

La balza, che sporgeva a mezzacosta sulla montagna di ponente, e su cui svettava sovrano Rossodisera, era inzuppata d’acqua. Mai il re, nella sua vita quasi centenaria, aveva visto eventi simili. La terra solidale con il suo vasto tronco, si scioglieva ai suoi piedi scoprendo le sue forti radici. Di giorno in giorno si scopriva sempre più impotente e instabile. Le sue radici pur aggrappate a rocce in abissali profondità si sentivano divellere, scuotere, vibrare trasmettendo a tutta la pianta tremori e insicurezze mai pensate.

La pioggia fitta, gelata, incessante, non incontrando l’ostacolo ammortizzatore del fogliame, picchiava, scalfiva, smantellava il terreno senza pietà riducendo tutto in poltiglia, in fanghiglia senza coesione, senza resistenza, senza forza. Il torrente, a fondo valle, mugghiava come un toro infuriato che ha spezzato la catena. Le sue onde avevano scavalcato e travolto un ponte di pietra, e, uscendo dall’alveo, avevano corroso, disperso i sentieri, risalito nei punti più stretti i pendii indeboliti, trascinando cespugli e tronchi via via rotolati, scortecciati, levigati. Barriere improvvisate frenavano a tratti l’ondata micidiale che si scagliava senza freni contro ogni ostacolo travolgendolo. Dall’alto Rossodisera vedeva il mostro serpeggiare laggiù, vedeva l’antico amico divenire di ora in ora sempre più ostile a tutto e a tutti.

L’acqua non cessava di cadere. Da ogni punto della vallata giungevano frammentarie notizie di disastri, di sconvolgimenti, di imminenti nuovi pericoli. Tuttavia, ciò che la Valtorassa aveva sofferto non era neppure paragonabile a ciò che l’attendeva.

Una notte, verso la fine di gennaio, dopo giorni e giorni di bufere con pioggia battente e grandine, il cielo si riposò. La nuvolaglia nera si aprì e un pallido bagliore lunare illuminò per poco la Valtorassa e le altre valli vicine. Ombre irriconoscibili, spettrali si proiettarono sul terreno dando degli alberi immagini, proiezioni e contorni sconcertanti. Nessuno seppe poi ricordare come e in che modo successe. Tuttavia molti si chiesero: perché? Ma che importava ormai? Quella notte una montagna intera scivolò sul suo basamento roccioso e precipitò nel lago colmandolo.

L’acqua, che aveva corroso i suoi fianchi con processo lento e inesorabile, si trovò compressa dal suo solido avversario. Scattò all’in su con rapidità e forza inesplorata, tremenda e colpì la diga. L’urto immenso per estensione e potenza, nonostante tutto non demolì l’alta muraglia di ferro e cemento. Allora l’onda sbrecciò, valicò, straripò, come una frusta scossa da un titano, s’incanalò sibilando per le pendici artigliando subito il fondo valle. La terra tremò, i monti vibrarono, boschi interi furono spazzati via, rupi risucchiate, malghe cancellate per sempre. L’onda gigantesca raggiunse con violenza impressionante la montagna di levante, ne risalì i fianchi trascinando con sé nel riflusso le migliori abetaie. Perduto lo slancio, le furie scatenate si afflosciarono e abbandonarono alla corrente tutto ciò che l’urto aveva distrutto. In quell’ora, il buio e il silenzio furono sovrani.

Dalla sua balza sconquassata e insicura ormai, Rossodisera aveva visto tutto. L’inferno l’aveva sfiorato ed era scomparso. La finestra illuminata s’era spenta. Nel disastro era scomparso anche il guardiano. Di tutte le costruzioni di superficie lassù, attorno al rifugio, nulla era rimasto. Di lui non si seppe, non si trovò più nulla.

Manco a dirlo, dopo tanta sciagura, il tempo si rasserenò. Un sole splendente dilagò di nuovo sopra i monti e le valli, sopra i boschi sconvolti e i torrenti deviati.

Forse in quelle ore il latrato lugubre della volpe senza coda sarà echeggiato in qualche antro, forse no, forse era scomparsa nel disastro. Nessuno si pose il problema, non interessava più. Lo stupore tra gli alberi fu indicibile, nessuno ebbe la forza di chiedere o di implorare qualcosa, di temere o sperare. Era successo tutto, nulla più poteva ancora succedere. I loro respiri erano tutti rivolti verso Rossodisera.

Rossodisera, impietrito e immobile, guardava i suoi boschi piegati, decimati, cancellati. Il vento giungeva muto e forestiero tra i suoi rami indolenziti e partiva com’era venuto, silenzioso, estraneo. Impotenza e rassegnazione si respiravano ovunque.

Fu allora che dalle pietraie giunse la scossa attesa, necessaria. Si levò un vento dolente, commovente e fiero ad un tempo, si levò la voce del vecchio cirmo. Era sopravvissuto ad un altro inverno, il suo cuore provato da mille tempeste, da centenarie vicende stentava a reggere tanta sciagura. Si scosse come un gigante che si erge in piedi per un’ultima battaglia, mandò un grido di dolore, di rabbia contro l’uomo che toglieva loro la vita.

“Vvvuuuh” Vvvooh!” Nel linguaggio degli alberi questo era un ordine. “Alzatevi!” Subito i silenzi divennero sospiri, i sospiri si fecero alito, si fecero vento e gli alberi ripresero a parlarsi.

12. ADDIO VERDE DIMORA!

Dopo la catastrofe, fatto l’inventario dei morti e dei danni, ossia messa legalmente una pietra sopra il passato, si guardava all’avvenire della valle con ottica nuova, futuristica. Tornarono in massa le gru, le ruspe, gli escavatori, le macchine rombanti. Il Grande Sentiero, cancellato in più punti, fu ricostruito fino alla diga a vantaggio dei turisti curiosi di ammirare il disastro. Fu fortificato con sostegni di cemento armato, con reti metalliche di protezione; furono lanciati viadotti a colmare i dislivelli, edificati alberghi. Parallelamente alla zona della frana, scendendo a fianco del percorso del serpente d’acqua fu costruita una moderna sciovia, dopo che fu completato lo spianamento del pianoro con le sue querce centenarie. Per l’abbattimento degli ippocastani non ci furono particolari problemi. Erano malati! Così si scrisse. Ma ancora, per lo strano gioco delle regole che gli uomini s’impongono per avere la soddisfazione di infrangerle, fu stabilito, con l’apposizione di sbarre, con l’affissione di cartelli e segnaletica adeguata. Fu stabilito un limite d’altezza delle costruzioni in cemento. In mezzo ad una sfilza pignola, premurosa di divieti innocui era permesso tutto.

Accadde che un incendio, si sviluppasse chissà come! nella zona dei cantieri. I lavori che fervevano alacremente furono subito bloccati per spegnere il pericoloso focolaio. Fatalmente, in breve tempo, il vento spinse il fuoco vero l’alto, verso la fitta boscaglia ricca di bassa e intricata vegetazione. La sterpaglia, i rami secchi, le resine, il vento, una delle periodiche siccità alimentarono un rogo gigantesco. Ben presto gran parte della montagna d’occidente fu in fiamme. Gli stessi uomini, dapprima passivi, si preoccuparono. L’evento stava sfuggendo loro di mano. Finalmente intervennero mezzi idonei da terra e dal cielo. Rossodisera vide l’incendio sotto di sé. Sentì il fumo acre salire, serpeggiare e sorpassarlo, respirò l’odore di legno verde ferito bruciare vivo con scoppi che per lui erano urla. Pecci antichi, arditi cercatori di spazi, solidi tronchi di faggio, agganciati da decine e decine di anni alla roccia e al sasso, ardevano come candele votive, lentamente. In pochi minuti stava sfumando la fatica di un secolo, s’incenerivano alberi costruiti con pazienza, con armonia e bellezza di forme. Di tanta magnificenza restava una sequela interminabile di tizzoni fumiganti, dita accusatrici contro chiunque passava.

Il crepitio mortale avanzava rasoterra. La morsa di fuoco accerchiò il re degli alberi e l’attaccò. Molte creature dei boschi lo abbandonarono in extremis e si salvarono, altre più lente e minute morirono con lui. Le robuste corde di edera che su di lui avevano trovato sostegno e vita, furono il tramite della sua morte. Il fuoco salì dal basso, a scatti, a balzi feroci, crudeli, agganciando ogni volta un ramo più alto fino all’aitante chioma. La torcia vivente era spaventosa a vedersi. Gli stessi uomini guardavano impotenti, impreparati, paralizzati dalla grandiosità di quell’orrido evento. Il gigante buono era ammutolito, eretto, dignitoso. Sentì le forze venire meno. Le radici al sicuro si contorcevano nella comune sofferenza con il tronco, ma anche nell’impossibile tentativo di ritrarsi, di sciogliere quel patto che era stato sempre per la vita ed ora per la morte. La linfa ribolliva, gonfiava le sue vene e fuoriusciva in un inutile tentativo di fuga. S’udì uno schianto impressionante, una faglia enorme s’era aperta la via da cima a fondo, il tronco aperto mostrò le sue viscere e il fuoco crudele l’assalì facile, lo divorò.

Rossodisera morì in un giorno quieto, per un evento così eccezionale, incredibile, senza riuscire a pronunciare una parola, un addio, un messaggio ai fratelli. Scomparve come la più umile delle canne ai suoi piedi, come il più derelitto dei brughi destinati da sempre al fuoco, alla pari dei fratelli più piccoli e deboli. Chi lo vide da lontano ammutolì.

La grande balza che dominava la valle era ora sgombra, gli alberi spazzati via, gli spuntoni di roccia saltati in aria, si poteva costruire un nuovo villaggio per l’uomo. Su quella terra minata dalle acque e dal ghiaccio, rosa dalle frane, privata delle radici che la solidificavano, l’uomo rischiava ancora di più, sfidava la natura in una lotta perdente in ogni caso.

In pochi anni il verde casto che incornicia i primi dislivelli, il verde cupo, forestale che colpisce il visitatore che s’addentra nelle vallate, il verde niveo che schizza in cielo appena spezzato dalle vette, ogni verde fu corrotto, reso frammentario, irriconoscibile.

L’uomo, con un impegno veramente patriottico, abbelliva a suo modo, addolciva salvando il salvabile, diceva, trasformando la selva della vallata, in un bosco di ostelli bianchi, con balconi di legno verdi e molti gerani rossi esposti in ogni angolo, foro, protuberanza.

Gli alberi si allontanavano sempre più tra loro. Grandi spazi grattati e dirupati, anneriti da misteriosi incendi, piccoli e micidiali allargavano le maglie desertiche, spingendoli ai margini sempre più remoti. C’erano momenti di pausa, di quiete, poi riprendevano veloci e rabbiose le rampanti conquiste dell’uomo, con le sue nuove piste, le nuove cave, le nuove spianate edificabili.

L’incomunicabilità tra gli alberi prese a diffondersi di pari passo. Si cominciò a badare soltanto a sé stessi e a morire da soli. Gli uomini seguivano la stessa strada, ma non lo sapevano.

Ora le aquile sorvolano al Valtorassa, i migratori passano oltre. Ci sono altre valli più in là, ci sono altri spazi impervi, troveranno ospitalità sia pure a qualche duro prezzo, il suolo che cercheranno è già di qualcuno. Faranno come gli uomini: il più forte lo prenderà. Prima qui non succedeva.

Ci fu un tempo in cui era bello nidificare nei faggeti puliti o nei querceti ricchi di strame e fungaie; ci fu un tempo in cui i caprioli si davano appuntamento in quei vasti pascoli e alle fonti tra i crepacci, a primavera, per gareggiare e far primeggiare il più forte. Ci fu un tempo in cui animali e piante, capricciosi, giudicavano brutta la Torassa solo per trovare un difetto alla loro valle altrimenti troppo splendida.

L’enorme spuntone di roccia troneggiava ancora in mezzo alla vallata, granitico, impervio, cupo e informe, unico elemento originale, naturale in tanto sfascio. Paradossalmente, nella sua bruttezza era diventato l’unico luogo sicuro della valle, lassù le cornacchie cominciarono ad affollarsi e i balestrucci scacciati dagli abitanti delle nuove villette bianchissime cominciarono a gironzolare in cerca di un appiglio pacifico.

L’aria frizzante e odorosa di resine, di umori a volte dolciastri a volte aspri dei fiori di prato s’era fatta mefitica, mischiata com’era a odori di oli bruciati nelle case e nei motori, a odori di vernici e di catrami fumiganti, sconosciuti.

Le ventate irruenti e sfrenate, impreparate anch’esse, scorrevano via senza ricevere alcun suono e senza recare alcun messaggio. Le acque lucenti e candide gorgogliavano ancora nelle gore e nei vortici ad ogni salto di roccia. Passato il villaggio ingiallivano e le fario galleggiavano con il ventre in su. Le robinie e i maggiociondoli impolverati non distinguevano più i loro fiori profumati.

Sulle cime è arrivata la teleferica, chiunque arriva in vetta ad ammirare un panorama che non c’è più, che non si è conquistato.

Le poche boscaglie rimaste, reduci da tanti tragici eventi, si guardavano da lontano senza capire, impotenti.

Poi, una sera, uscito da chissà quale antro, s’udì il latrato lacerante della volpe senza coda. La sua sagoma inconfondibile si stagliò contro il cielo sull’orlo a picco della Torassa. Il suo ghigno agghiacciante echeggiò ancora da monte a monte ed ogni creatura che l’udì si rizzò ad ascoltare. Per chi era nuovo dei luoghi fu un latrato come un altro nella notte, per chi vi era nato, furono brividi quelli che echeggiarono nella valle. Quando si fece silenzio, perché anche i respiri erano trattenuti, la volpe del malaugurio precipitò nello strapiombo. Nessuno udì il tonfo del corpo caduto. Si attese a lungo, qualcuno attende ancora, la leggenda continua.

In quel gran silenzio si levò allora, dopo tanto tempo una voce tra gli alberi. Era una voce altera, straordinariamente imperiosa, sicura e nota.

“E’ giunta l’ora, bisogna andare.”

Esordì così il vecchio cirmo delle pietraie, divenuto ormai il capo naturale di tutte le piante superstiti, era il più anziano e il più esperto, unico rimasto degli antichi saggi. Una delirante rassegnazione si stava diffondendo tra gli alberi privati dei loro rumorosi convegni di fronde ad ogni tramonto, quando la brezza schizzava sulle rocce e precipitava a frullare le loro foglie in attesa di curiosità, di notizie, di farsi belle. In quella soffocante apatia, il suo messaggio giunse persino atteso, gradito. Non ci furono commenti, solo la soddisfazione di sentire che qualcuno raccoglieva la responsabilità di parlare per tutti.

Tutti sentirono, ma nessuno capì.

Ogni specie vivente capisce il linguaggio dei suoi simili, quello degli altri si può solo immaginarlo. Immagino che anche tra gli alberi ci siano segnali e simboli e suoni con più significati. Nessuno di loro tuttavia interpretò il messaggio del vecchio cirmo diversamente da ciò che significava. “E’ ora di andare, coraggio, andiamocene in pace!” Questo capirono. Rassegnati chinarono le cime in forma di assenso, anche se non ce n’era bisogno, la loro distruzione non era scelta, era subita. Ma il pensiero del cirmo, che era riuscito incredibilmente a crescere e a invecchiare tra le pietraie, era ben altro.

Con la tramontana che intanto s’era levata giunse repentino il comando, l’ordine di partire, di abbandonare la madre che li aveva allevati. Non era la terra, l’ingrata, bensì coloro che l’avevano manomessa espellendo i suoi naturali abitanti. Non c’è vittoria per l’uomo sulla natura, la sua distruzione un giorno lo coinvolgerà.

“Fratelli alberi, fuori!” L’urlo scosse, sconvolse ogni tronco vivente. Fece scattare una molla incredibile, ignota, possente e violenta, dolorosa. Oh, magnifico vecchio cirmo!

Nessuno fiatava, parlava da re. L’ultimo sovrano dei boschi della Valtorassa annunciò un evento mai sentito a memoria d’albero. “Uscite dalla terra, andiamo!” Egli diede l’esempio, concentrò tutte le residue energie sulle radici e ordinò loro di alzarsi in piedi. Con uno sforzo sovrannaturale, contro ogni logica, fino allora conosciuta, si mosse sulle instabili pietraie, traballante sulle mobili radici, saettanti e incredule. Incominciò un viaggio senza ritorno verso il fondo della valle. Gli alberi videro e con sforzo inaudito imitarono il nuovo re. Compressero il suolo, richiamarono le radici ordinando loro imperiosamente di uscire, sottraendosi così alla trappola mortale della disordinata civiltà avanzante.

Era intanto scesa la nebbia, densa e avvolgente. Coprì ogni cosa, attutì ogni rumore, tolse agli sguardi ogni immagine. Tramestii sommessi, sussurri indistinti si susseguirono per tutta la notte. Un popolo in marcia stava abbandonando la valle, espulso dalla propria casa, emigrava lungo nuovi e ignoti sentieri. Stravolti per il coraggio avuto, per l’unicità e incredibilità dell’evento gli ultimi alberi della Valtorassa escono in punta di piedi dalla nostra storia affievolendo le nostre speranze di un mondo quieto e sgombro da violenza contro gli inermi.

Il maestoso pino cembro apriva il corteo silenzioso di alberi in fuga, gli tremava il cuore per quello che era riuscito a far fare ai suoi fratelli. Ebbe un fremito per essere arrivato troppo tardi. Pensò a Rossodisera, perito in un attimo perché non si era potuto muovere, pensò ai ghiacci che l’avevano strangolato, strattonato, scheggiato senza potersi ribellare. Adesso basta! Anche gli alberi si alzano in piedi, gridano il proprio sdegno e se ne vanno. Chi ha toccato a tradimento, irrispettosamente la natura perirà, non si può vivere senza l’ordine dei vegetali. Non aveva alcun rimorso, alcun rimpianto il vecchio cirmo, solo il bisogno impellente di sottrarre gli ultimi alberi rimasti e inviarli altrove, a cercare luoghi dove gli alberi sono ancora amati. Si fermò a un bivio, toccò i rami a tutti, come in un’ultima benedizione e li inviò in luoghi nuovi da scoprire accanto ad altri fratelli più fortunati.

Il suo scheletro, enorme, maestoso fu trovato lungo il torrente, adagiato sul fianco della montagna, all’imbocco della valle. Le sue radici esposte al sole sembravano artigli.

Della scomparsa degli alberi si diedero spiegazioni diverse, stravaganti, sciocche, di opportunità. Andava bene così! Che altro c’era da dire?

Lassù in alto, il piccolo cimitero di guerra emerse in tutta la sua nudità, come un necrologio a sigillare eventi tragici accaduti sotto gli occhi indifferenti di tutti e presto dimenticati.

Ci sono lodi, apprezzamenti che spesso vengono enunciati con solerte leggerezza e sollecitudine, e molta ipocrisia, non costano niente, anzi procurano credito e udienza. In difesa della natura questo avviene in maniera stucchevole, strabocchevole, per i consensi e le simpatie che l’argomento suscita. Il passo successivo, per alcuni, tuttavia è quello dell’appropriazione in esclusiva del diritto di difesa della natura escludendo arbitrariamente altri.

Da costoro la natura ha molto da temere, perché viene usata, deturpata una volta di più non da nemici, ma da carezzevoli, generici innamorati. Da costoro mi allontano.

13.  LA SPERANZA

In una domenica di aprile, lungo i resti del Grande Sentiero, salivano due piccole ombre. Il falchetto curioso, che aveva trovato rifugio di là dei monti, ogni tanto tornava a roteare sopra quella che un tempo era stata una splendida valle. Ad ali aperte girava intorno alla Torassa. Uscì all’aperto e vide i due bambini impegnati nella salita verso le rovine della diga. Si tenevano per mano. Non guardavano intorno, non c’era nulla da ammirare. Del mondo conosciuto non restavano che detriti. Ciascuno stringeva in pugno un mazzo di piccole rose rosse, di siepe, trovate chissà dove. Giunti finalmente al lago, le deposero sul pavimento squarciato del rifugio del loro amico Gisto.

Gisto era stato trasformato in una riga di piombo, come tanti altri nomi scolpiti in un marmo a futura memoria. Il marmo invocava pure una prece. Non una riga a spiegare perché si fosse giunti a tanto.

Gisto non era un maestro, era un boscaiolo. Non aveva mai preteso di insegnare, bastavano i suoi semplici, sinceri comportamenti ad accendere una fiamma che non si sarebbe mai spenta nei suoi piccoli amici, saliti con lui, un giorno, a conoscere il bosco, la storia della volpe, a vedere il lago.

“Ti ricordi, Ginetta?”

“Oh, sì, mi ricordo! Mi ricordo.”

Non ridevano, non piangevano. Non dissero altro. Il loro piccolo cuore si stringeva sempre più.

Dopo i giorni del disastro, era la prima volta che qualcuno saliva fin lassù a piedi, senza ragioni di studio. La visione che appariva ai loro occhi era ben diversa da quella ben nota. Desolazione e silenzio intorno. Immobilità.  Ma ecco che, chissà perché, in un angolo, sulla riva del lago sepolto, apparve ai loro occhi increduli una visione mitica, fantastica, insperata.

“Ginetta, vedi anche tu?”

“Sì.”

Una decina di alberelli, smarriti, sperduti, sorpresi anch’essi, stavano addossati ai grandi massi. Si guardavano attorno e s’interrogavano. Erano soli al mondo e non capivano, non lo volevano.

Muovevano appena le esili cime, sembravano fiutare l’aria e gli eventi, o forse cercavano la via o la ragione che aveva spinto i grandi ad andarsene, a scomparire.

Ginetta e suo fratello capirono tutto. Si avvicinarono, con le mani portarono terra nuova sulle radichette scoperte, acqua fresca con le palme unite.

“Coraggio!”

Gli alberelli compresero, si diedero coraggio, non erano più soli. Degli amici c’erano ancora a questo mondo. A modo loro gioirono molto.

Che fossero distratti? Che fossero ribelli? Erano giovani, forse erano entrambe le cose. Fatto sta che, nella fatidica notte, non avevano seguito l’invito di Vecchio Cirmo. Loro erano rimasti.

La scoperta riempì di gioia pure i due fratelli che già vedevano con gli occhi ingenui e impazienti della loro fertile fantasia, i pendii ripopolarsi, riprodursi, rinverdire di nuovi boschi. Già vedevano la Valtorassa risplendere come una volta.

“Vedrai che il bosco ritornerà a vivere.”

“Lo spero tanto” disse Ginetta.

Rimasero a lungo a contemplare uno spettacolo che solo loro riuscivano a vedere, ad immaginare. Portati dal vento nuovo di primavera, parve loro di sentire la risata amica di Gisto, lo stormire festoso di Rossodisera, il burbero Vecchio Cirmo intento a raccomandare qualcosa, insieme allo scroscio delle acque che rintronavano laggiù, in fondo alla valle.

“Secondo te, Ginetta, esiste un paradiso anche per gli alberi?”

“Credo di sì, tutti i buoni hanno un paradiso.”

“Sono contento.” Sorrise il bambino.

“Perché sorridi?”

“Non lo so, mi è venuto da solo.”


 

a cura di Luigi Zampieri


 

 

Ultimo aggiornamento (Giovedì 12 Gennaio 2017 09:33)

 

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