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BUTTA VIA QUEL LIBRO! di Renzo Dittadi

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SAMBRUSON. CULTURA, COSTUME, TRADIZIONI, AMBIENTE. - LETTERATURA A SAMBRUSON (II)

 

BUTTA VIA QUEL LIBRO!

 

La pubblicazione di questo  libro nel sito internet SAMBRUSONLASTORIA, autore il compaesano

Renzo Dittadi

ha inizio con una lettera che inserisco volentieri come premessa all’articolo stesso.

Egr. sig. Zampieri
Mi chiamo Renzo Dittadi, lei non mi conosce, ma forse il mio cognome le dice qualcosa. Sì sono nativo di Sambruson, anche se manco da quel paese da oltre cinquant’anni. Da allora abito a Mestre. 
Recentemente ho scritto un libro (142 pagine) che parla, nella prima parte, della mia infanzia passata proprio a Sambruson. Sono stato un alunno del maestro Di Rosa, con il quale ancora oggi ho un stretto legame: ci sentiamo per telefono quasi una volta alla settimana. 
Lei sa quanto difficile, se non impossibile, sia farsi pubblicare un libro da una casa editrice di questi tempi, se non si è un personaggio già noto, per cui ho stampato a mie spese un numero limitato di copie. Comunque il mio libretto sta avendo il suo piccolo successo: è già presente nella biblioteca civica di Mestre e ne vengono letti alcuni brani, mi dicono, nelle scuole medie di Mogliano Veneto.
Il racconto di quel periodo a Sambruson non è sempre idilliaco ma, come scrivo nel libro, i ricordi di un tempo lontano dipendono dalle esperienze vissute e più tardi dalla formazione culturale di ogni uomo. Tuttavia le persone intelligenti sanno confrontarsi serenamente e sanno accettare una visione del mondo anche se non coincide con la propria
Le allego la risposta di Paolo Mieli che mi ha inviato, dopo avergli sottoposto la bozza del mio libro durante il   festival della politica di Mestre nello scorso  mese di settembre. Credo sia la recensione che meglio sintetizza il contenuto del libro e coglie in pieno l’obiettivo che mi ero prefissato.

Come amministratore del bel sito  "Storia, cultura e informazione di Sambruson", le posso inviare, se desidera, un copia del libro (mi piacerebbe molto che i miei ex compagni delle elementari lo leggessero). Tuttavia da alcuni giorni il libro, in piccola parte riveduto e corretto, è presente nelle principali librerie on-line.
Grazie e cordiali saluti.
Renzo Dittadi

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Caro Renzo Dittadi

se permetti ci diamo del “tu”, abbiamo infatti molte cose da condividere. Non è vero che non ti conosco. Quando, da ragazzo, passavo con l’amico Ilario, a casa tua, il marmocchio di sette, otto anni che vedevo, eri tu. Data l’età non potevo essere tuo amico, ma amico di famiglia certamente si, perché lo sono stato dei tuoi fratelli più grandi. Con Ilario si faceva  parte dello stesso gruppo di adolescenti, con Tony Renier, Roberto Roson (altra famiglia di amici trasferita a Mestre), Tony Zotti, Renzo Marigo e altri. Eravamo amici di bar, di corse in bicletta (monte Venda e Teolo), di nuotate nel Brentone, in via Brentoni, dove io abitavo.

Con Guido, qualche anno dopo, si andava al cinema a Dolo, assieme a Mario Menegazzo, Giancarlo Fattoretto e Luigino Roson. Pierino ha lavorato come allievo sarto presso la bottega mio zio Ettore Gaspari a Dolo. Poi so che si è arruolato in marina. Guido lo ritrovavo puntualmente nelle lettere polemiche che spesso scriveva al Gazzettino. Il tempo e la vita ci hanno poi diviso, ma il vostro ricordo è sempre rimasto.

Tuo padre, operaio, andava a lavorare a Marghera con mio padre, in bicicletta.

Ricordo l’ansia dei nostri genitori per far “studiare” i loro figli.

Il tuo maestro, Orazio Di Rosa è stato amico della mia famiglia e di quella di mia moglie e abbiamo mantenuto negli anni un profondo anche se a volte discontinuo rapporto. Siamo stati anche suoi ospiti a Noto in Sicilia. Purtroppo col passare degli anni i contatti diventano fatalmente sempre più labili.

Mandami pure il file del tuo libro del quale ho letto la prefazione. Naturalmente sono in sintonia con i tuoi ricordi.

Conosco e ricordo tutto e bene, delle cose che scrivi; tuo zio Piero, la nonna, Romano, mi sono perfettamente familiari.

Ho letto la lettera di Paolo Mieli. A differenza del suo parere, per il sito Sambrusonlastoria, il collocamento storico/geografico del tuo libro è perfetto esprimendo proprio la vita della comunità di Sambruson.

Penso  non ci siano problemi per una pubblicazione nel sito, se non di carattere pratico, dato il volume consistente dello scritto.

Ricambio i cordiali saluti. A risentirci.

Luigi Zampieri.

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Mi hai colto di sorpresa. Il cognome Zampieri mi era ovviamente noto, ma pensavo fossi più giovane (peccato per te!).

Sì il marmocchio che ora ha 65 anni ero io. Ne è passata di acqua sotto il ponte...del Vaso.

A proposito del tempo trascorso, eravamo in 7, da aprile siamo in 6. Guido non c'è più. 
Ti invio volentieri il mio libro e vorrei da te qualche sincero commento.
A risentirci. Ciao.
Renzo

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Caro Renzo

Sapevo di Guido. Avrei voluto incontrarlo qualche altra volta. Mi rimane di lui un ricordo di intelligenza pronta e critica, di vivacità e senso dell’amicizia. Colgo l’occasione per ricordarlo assieme ai tanti amici che ci leggono.

Parliamo del tuo libro. Non credo di essere la persona adatta a dare pareri di carattere strettamente letterario su qualsiasi libro, tantomeno sul tuo che pubblico volentieri in questo articolo.

Posso darti qualche impressione sui contenuti.

Il libro è strettamente autobiografico nel contesto della tua infanzia e giovinezza, nel clima politico e sociale del dopo guerra e del seguente boom economico e nei luoghi Sambruson/Mestre/Marghera.

E’ gradevole la sempre presente vena di ironia e umorismo e la vivacità delle descrizioni.

Complimenti per la tua ottima memoria dei fatti e delle cose e per la cultura personale sicura eredità e retaggio della scuola dei nostri tempi contrapposta spesso da te a  quella attuale, concetto che bene esprimi nella conclusione del libro stesso.

Credo che tu abbia la capacità e la possibilità di scrivere ancora altre cose, anche di carattere non così autobiografico.

Ribadisco la mia sintonia con le tue puntuali descrizioni di luoghi e sensazioni della nostra vita di ragazzi di campagna nel dopoguerra.

L’acqua dal pozzo dei vicini di casa.

Il moschetto per proteggere i cibi dagli insetti.

I salami che pendevano in cucina.

L’uomo delle strasse ossi ferro vecio.

Il famigerato DDT e le carte da mosche.

Andare a prendere il latte e l’acqua alla fontana.

Gli inni imparati alle elementari dai nostri maestri (Va Pensiero, Inno di Mammeli, I lombardi alla prima crociata).

Le poesie a memoria, interi canti di Divina Commedia, Iliade, Odissea, Eneide, Promessi Sposi.

Tante altre.

Mi complimento con te anche per l’ottima conoscenza degli ambienti e delle fabbriche  di Marghera, ben conosciuti anche da me per avervi gravitato per ben quarant’anni. (come i nostri padri, ma obiettivamente, mi sembra, in condizioni diverse).

Nel libro è anche evidente il tuo forte interesse e curiosità per la politica che si trasforma a volte in posizioni anche ideologiche che tu esprimi con coraggio e convinzione.

Ti ringrazio per aver voluto rientrare, con il tuo libro, nella vita di Sambruson. Benvenuto.

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Mi permetto di far seguire la lettera di Paolo Mieli.

Gentile dottor Dittadi,

abbiamo letto con attenzione  la sua proposta editoriale, un’autobiografia dal ritmo scorrevole che ha il pregio di evocare con immediatezza il clima politico e sociale del dopoguerra, del boom economico e gli anni della contestazione. La sua costellazione familiare e la piccola comunità di Sambruson esprimono la temperie politica di quegli anni all’interno del basso Veneto: il suo papà operaio comunista e la nonna religiosissima, il pregiudizio contro i “rossi” e la pervasività della Democrazia cristiana durante la transizione tra il mondo contadino tradizionale e quello industriale. È rappresentativo lo sviluppo di Mestre che lei racconta, con la sua vertiginosa crescita demografica e le speculazioni edilizie.

Inoltre, il parallelo che lei traccia tra le realtà economiche, sociali e culturali della sua giovinezza e i nostri tempi è proficuo anche per il lettore che non ha dimestichezza con la storia di quel trentennio. Il libro non manca di leggerezza e talvolta di senso dell’umorismo, tuttavia  temiamo che, a causa di  una collocazione in un quadro di riferimento storico/geografico limitato, questo libro non rientri tra le caratteristiche del nostro catalogo, pensiamo invece che  un editore medio radicato sul territorio veneto possa valorizzarlo in modo soddisfacente.

 

Voglia gradire i nostri più cordiali saluti.

Redazione Saggistica Rizzoli

Paolo Mieli

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Caro Renzo

mi permetto di aggiungere a completamento della presentazione del tuo libro, una lettera di Andrea Zilio che sicuramente conoscerai e che troverai molto presente in Sambrusonlastoria. Ha voluto riconoscerti e salutarti in questo modo.

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Caro Renzo “Begon”, caro Renzo Dittadi, ti saluto cordialmente.

Mi hai riportato con le tue pagine agli anni lontani della nostra infanzia e della nostra prima giovinezza. Molte delle storie che descrivi sono uguali a quasi tutti i ragazzi della nostra età. Tu sei più giovane, un po’. Ero amico, amicissimo di tuo fratello Guido. Ma non come valeva l’amicizia tra Guido e Mario Menegazzo. Tutti compagni della nostra spensierata, povera infanzia all’asilo, ai giochi sul piazzale della chiesa, alle elementari … poi tutti ci siamo sparpagliati. Non sapevo di Guido. Ho provato dolore composto. Anch’io sono fuori paese e Sambruson lo conosco ormai solo per i ricordi. Ricordo, come te, con  nostalgia infantile, la severissima” Suorada” e la mite suor Servidea. Anni di guerra, 1944/45. Venivo a piedi dai “tratturi” di quella che ora si chiama via G.Galilei. Della piccola suora, “serva di Dio”, ricordo, dopo settanta anni (sono del ’37)  un suo racconto che finiva con queste semplici,  potenti parole: “Bambini, ricordatevi, sempre fronte alta e mani pulite”. Sono un romanzo per potenza,  per attualità, per chiarezza, per semplicità, per bisogno.

Ero molto amico, ti dicevo, di tuo fratello Guido, poi di Pierino. Di te mi ricordo poco, pochissimo. Di Guido ricordo che alla domenica, vicino alla botteguccia in legno, dove vostro zio Piero, vendeva mentine, ciuci, pastine… improvvisava battute fulminanti che ci facevano ridere a crepapelle, mentre guardavamo vogliosi le vetrinette. Al massimo comperavamo “straccanasse”  Lui rideva un po’ meno, facendo ballare di soddisfazione il labbro inferiore del mento. Non so se lo facesse apposta o per farci godere ancora un po’. Ricordo una sua storiella. Erano anni in cui, 1945, era attuale parlare di Etiopia, di Eritrea, di Somalia. E tuo fratello Guido ci spiegò, ironico, com’era il suo stile naturale, che dalla Sicilia, il duce, con una canna da pesca, fregava i “fighi” al Negus… Originale il pensiero, lo spirito,  la mediocre astuzia del regime cadente. La sua satira era proverbiale,  intelligente. Ti racconto questo perché mi sono riconosciuto in tante storie che hai narrato. Cambiando i dovuti termini e singoli  episodi, il valore dei tempi è comune a moltissimi di noi nati prima o durante la guerra. Quei giorni lontani, per me, e vedo, anche per te, sono carichi di commozione. Nonostante le difficoltà, le sofferenze, le delusioni,il freddo patito, la mancanza di tante cose necessarie alle famiglie, alla fine, sono quelle che più ricordi, perché coinvolgono molti dei propri cari, perché sono state le “pietre d’angolo” che hanno formato il nostro carattere, la nostra voglia di emergere dal fango, la forza di trasmettere ad altri conoscenze, esperienze, storie. Che sono “Storia” di un paese e dei suoi antichi giovani,antichi! abitanti: Sambruson. Scrivo a te, tramite il sito dell’amico Luigi Zampieri, che saluto, sempre disponile, attento, sensibile.

Ciao. Sono Andrea Zilio, ma per i ragazzi di Sambruson sono sempre Fausto.

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Caro Luigi

non ti nascondo che ho provato una certa emozione nel vedere il mio nome "campeggiare" sul tuo sito.

Grazie delle belle parole, tue e di Zilio che se non ricordo male era il "maestro".

Era da tempo che volevo scrivere quel libro, ma non trovavo mai la forza di cominciare. E' stato sicuramente il libro del maestro Di Rosa a darmi lo spunto, ma soprattutto mia moglie, che riteneva un peccato che i tanti ricordi che venivano rinnovati ogni volta che ci trovavamo noi fratelli, andassero definitivamente perduti. Non puoi immaginare quindi il piacere che ho provato nel condividere con voi quei ricordi che ci riportano ad un tempo che sembra oggi tanto lontano.

Il caricamento del libro ha sicuramente richiesto tempo, pazienza e indubbiamente capacità. Hai fatto un ottimo lavoro. Non ho alcuna segnalazione da farti.

I miei fratelli più grandi si ricordano tutti di te e ti salutano.

Anche se tanti anni sono trascorsi ed ognuno di noi ha percorso strade diverse, non si può non sentirsi parte della stessa piccola comunità che ci ha visto bambini ed è strano che proprio Internet, simbolo di un mondo sempre più allargato ci abbia fornito questa opportunità.

Mi sono permesso di inviare questa mail al maestro Di Rosa per renderlo partecipe.

Ciao e grazie ancora.

Renzo.

 

Grazie a te da Sambruson e ricambia i saluti ai tuoi fratelli.

 


 

Renzo Dittadi

BUTTA VIA QUEL LIBRO!

Giugno 2015


Ringrazio mio figlio Antonio

per il suo prezioso aiuto.

 


 

La vita è come una stoffa ricamata della quale ciascuno nella propria
metà dell'esistenza può osservare il diritto, nella seconda invece il
rovescio: quest'ultimo non è così bello, ma più istruttivo, perché ci fa
vedere l'intreccio dei fili.

A. Schopenhauer


BUTTA VIA QUEL LIBRO!

Introduzione

E’ arrivata una busta grande per te, deve essere un libro» mi dice mia moglie una sera di luglio, al ritorno dall’ufficio. Sarà la solita pubblicità, penso, mentre la mia attenzione è già rivolta alle solite buste vicino al telefono: la bolletta della luce, l’estratto conto della banca e l’avviso di scadenza dell’assicurazione auto. Vado in camera a prepararmi per la cena, immerso nelle riflessioni che faccio ogni volta che ricevo posta di quel tipo. Quelle maledette buste a finestra... non si possono gettare così come sono nel contenitore della carta, bisogna strappare prima la parte trasparente che è plastificata. Possibile che non si possa inventare qualcosa di più funzionale? «Allora, cosa contiene quella busta?» Chiede mia moglie dalla cucina. «Non so, non l’ho ancora vista». «L’ho posata sulla cassapanca dell’ingresso» mi dice con un tono che significa “tu non trovi mai niente”. «Ah, eccola!» Strano, penso, l’indirizzo incollato sopra ha un formato diverso da quello normalmente usato per la pubblicità. La strappo da un lato e ne faccio uscire il contenuto. È proprio un libro. E appena spunta fuori il nome dell’autore rimango con la bocca aperta senza dire una parola: Orazio Di Rosa. «Allora mi vuoi dire che cos’è?» Chiede ancora mia moglie vedendomi immobile con la busta in mano. «Non è possibile, non ci puoi credere, è un libro del mio vecchio maestro delle elementari! S’intitola “Fermata a Sambruson”».

Sambruson(1) è il paese dove sono nato e dove sono rimasto fino all’età di undici anni. È una minuscola frazione del comune di Dolo, situata lungo la Riviera del Brenta, ma staccata dal tragitto classico che il Burchiello percorre tra Venezia e Padova per far ammirare ai turisti le splendide ville venete. È tagliata fuori anche dalle grandi vie di comunicazione. Allora, come oggi, questo paese è rimasto una piccola isola sperduta nel grande mare piatto della campagna del basso Veneto.

Con il maestro ci siamo visti l’ultima volta una sera di giugno del ‘90. I miei ex compagni avevano organizzato proprio a Sambruson una festa in occasione dei trent’anni dalla licenza elementare. Uno di questi mi rintracciò a Mestre, dove abitavo, e mi informò che sarebbe stato presente anche il maestro Di Rosa, che aveva lasciato Sambruson nel ’62 ed era diventato in seguito, dopo aver conseguito la laurea in Pedagogia, un dirigente scolastico nella provincia di Pordenone. Nessuna cosa al mondo avrebbe impedito la mia partecipazione a quella festa. Prima di andare a cena in un ristorante del posto, il parroco volle celebrare una Messa, come è consuetudine in quel paese in occasione di qualsiasi evento.

Eravamo in trentaquattro, mancava solo uno di noi, morto in un incidente stradale molti anni prima. C’eravamo lasciati bambini e ora ci ritrovavamo uomini. Ognuno cercava nei tratti del volto di ricordare il nome del compagno, un’operazione non sempre facile, visto il tempo trascorso. Il maestro lesse una lettera preparata per l’occasione e ci fu da entrambe le parti un attimo di commozione.

Qualche tempo dopo ricevetti una sua telefonata: m’informava che aveva ottenuto, su sua richiesta, alle soglie della pensione, il trasferimento a Noto, in provincia di Siracusa, suo paese di origine.

«Poiché le probabilità di incontrarci ancora sono scarse, ci tenevo tanto a salutarti» mi disse. Anch’io lo salutai e lo ringraziai di tutto ma, appena messa giù la cornetta, mi sembrò di non avergli detto nulla. Allora decisi di scrivergli, manifestando tutta la mia stima e gratitudine per la generosità e l’impegno dimostrati durante la sua attività di insegnante a Sambruson. Lui mi rispose con una bella lettera che conservo ancora, il cui contenuto non voglio rivelare perché appartiene alla sfera del privato. Voglio solo dire che in essa traspare tutta la sua nobiltà d’animo.

«Non vieni a letto? Sono le undici!» Dice mia moglie vedendomi seduto sulla poltrona assorto e con la televisione spenta. «Non ancora, voglio leggere solo alcune pagine del libro e poi ti raggiungo».

Lo leggo tutto d’un fiato invece quel libro. Inizia con il racconto del suo lungo e faticoso viaggio in treno dalla Sicilia nel ’55, per prendere il posto di maestro a Sambruson, dopo la vincita di un concorso. Continua poi con le sue impressioni all’arrivo in quel paese, così diverso dal suo per usi e tradizioni, dove la gente si esprimeva in un dialetto totalmente incomprensibile a lui. E poi le mille difficoltà superate solo grazie ad un grande entusiasmo giovanile. Ricorda con un pizzico di malinconia quei luoghi mai dimenticati, le persone che gli vollero bene, i suoi colleghi e i suoi alunni. Ho pensato subito: quale altro maestro di oggi potrebbe, tra cinquant’anni, commuovere un suo vecchio allievo, come ha fatto lui ora con me? Quale altro insegnante oggi affronterebbe un viaggio come il suo, per approdare in un minuscolo paese tanto lontano, senza viverlo come una condanna o una maledizione?

Quante cose sono cambiate da allora! Osservo oggi i bambini di otto, nove anni che adoperano con dimestichezza il tablet o lo smartphone, e penso a noi con i nostri quaderni a righe e a quadri con la copertina nera, i pennini a forma di cuore o quelli più costosi da quindici lire a forma di campanile, il sussidiario e il libro di lettura.

Guardo l’ora: è quasi l’una. In soggiorno non c’è un rumore, a parte il ronzio del condizionatore d’aria. Sfoglio avanti e indietro quelle pagine mentre i ricordi di quel tempo, che ogni tanto mi affiorano alla mente, cominciano a farsi via via sempre più vivi e presenti, in una sequenza temporale però disordinata: ricordi che vengono e vanno continuamente come se non trovassero sufficiente spazio nella stanza, tanti sono. Una bella frase dice “noi siamo quello che ricordiamo”. La nostra memoria è una sorta di macchina che collega il nostro passato al presente e fa rivivere nel presente gli eventi passati.

Ognuno di noi incorpora e ricorda più o meno coscientemente i segnali che l’ambiente circostante gli trasmette fin dalla nascita, secondo alcuni ricercatori anche prima. A mio avviso i ricordi dell’infanzia e della prima giovinezza sono quelli più vivi, perché “attecchiscono” in un terreno ancora vergine. La nostra vita è composta da milioni di attimi, ma non tutto viene ricordato. Solo un complesso di eventi è inspiegabilmente accettato e questi contribuiscono a fornirci la nostra identità sociale. È come se ognuno di noi, per quello che ricorda e per come lo ricorda, possedesse una lente che gli permette di vedere le cose del mondo diversamente da un altro.

Penso a mia moglie che ogni tanto m’incita a scrivere qualcosa sulla mia vita. «Hai tante cose da raccontare, perché non le metti per iscritto?»

«A chi vuoi che importi la storia della mia vita? Sarebbe interessante poterla raccontare intrecciandola ai tanti eventi che hanno connotato l’ultima metà del '900, questo sì. Se ne avessi le capacità... »

Ma proprio quel libro che ho tra le mani, scritto con tanta semplicità e spontaneità, senza ricercatezze letterarie, ma con parole che vengono direttamente dal cuore, mi fa ripensare. Così mi convinco, e alle soglie dei miei sessantacinque anni, decido di provarci. Sì, voglio provare anch’io. In fondo non è giusto che i ricordi se ne vadano per sempre con tutti noi.

Molti giovani di oggi accusano la mia generazione di essere la responsabile dell’enorme debito pubblico, del disastro economico e della conseguente crisi occupazionale. Queste accuse generiche e superficiali meriterebbero un’analisi più approfondita delle responsabilità individuali e collettive, ma sta di fatto che rappresentano, se pur in parte, la verità.

Ma quando mi sento dire che io sono stato un privilegiato, allora penso che queste pagine potrebbero far capire che non è esattamente così!

NOTE

[1] Il nome deriva da Sant'Ambrogio, La tradizione fa risalire alla fine

del IV secolo d.C. l'edificazione di una chiesa in onore del Vescovo di

Milano, dopo che il santo era passato per la zona. Sul campanile della

chiesa parrocchiale svetta una sua statua in atto di benedire il paese ed

è girevole, tanto da indicare la direzione del vento.

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Sambruson

Sono nato in un freddo dicembre del ’49. Ero il sesto figlio, ma il settimo parto: prima di me erano morte pochi giorni una dall’altra due gemelline nate premature. Mia madre, poveretta, era stanca di avere figli. La levatrice chiamata a casa perché allora non si andava in ospedale per partorire, le chiese se avesse pensato a un nome per me.

«Metta il nome che vuole» rispose lei.

«Lo chiameremo Renzo».

«Va bene, chiamiamolo pure Renzo» fu la risposta disinteressata di mia madre. Renzo per lo stato civile, ma Lorenzo per la Chiesa, poiché era sconveniente chiamare un bambino con un nome che non fosse quello di un santo. In paese più tardi mi dissero, con un sorriso di scherno, che mi era andata bene, poiché la signora Emma, la levatrice, aveva messo nome Adelchi a un suo presunto nipote. Ovviamente, allora a Sambruson solo a pochi quel nome evocava qualcosa. La mia nascita non portò la visita dei pastori, ma solo quella di mio nonno paterno che, senza degnarmi di uno sguardo, andò a verificare se nella madia c’era sufficiente farina. Era un po’ burbero anche se generoso. O almeno dicono fosse così, perché entrambi i miei nonni morirono nel '50 e pertanto io non ho di loro nessun ricordo.

Con mia sorella più piccola eravamo in sette fratelli: cinque maschi e due femmine. Erano allora gli anni duri del dopoguerra nel profondo nord, e il Veneto era sicuramente la regione settentrionale più povera. Soltanto pochi anni prima ai miei fratelli più grandi la maestra faceva appoggiare le mani sul banco per controllare se avessero la pellagra, conseguenza di una dieta povera di vitamine. In certe famiglie infatti si mangiava solo polenta: polenta a colazione, a pranzo e a cena.

Sono nato dunque nel periodo difficile della ricostruzione e della pacificazione nazionale, anche se non erano ancora sopiti del tutto i rancori tra fascisti e antifascisti del luogo.

I miei primi ricordi risalgono agli anni dell’asilo. A Sambruson l’asilo, gestito esclusivamente da suore, si trovava a metà strada tra la chiesa e il cimitero e i bambini assistevano quasi quotidianamente al corteo funebre che accompagnava il morto al camposanto, dopo la cerimonia, sotto i rintocchi gravi della campana grande. È ancora stampata nella mia mente l'immagine di uno di quei funerali, con la bara adagiata sull’ultimo carro funebre trainato da cavalli neri. Quando moriva un bambino e succedeva spesso, perché la mortalità infantile era ancora alta, anche i bimbi dell’asilo accompagnavano in processione “l’angioletto che era stato chiamato in cielo”. I piccoli si abituavano quindi presto all’ineluttabilità della morte, diversamente da quelli di adesso che la vedono virtualmente solo in TV.

Le suore del mio asilo me le ricordo tutte per nome: Suor Maurina, una morettina che in seguito si fece missionaria, Suor Floriana, dai lineamenti dolci, che ci accompagnava nelle canzoncine con il pianoforte, la povera suor Servidea (si chiamava proprio così?) addetta ai servizi più umili, suor Pulcheria, la superiora, che nutriva un particolare affetto nei miei confronti, tanto da conservare per me qualche fetta di panettone portato da suo fratello, un imbianchino della provincia di Verona. Ma il ricordo più vivo è quello della temibile suor Ada. Era talmente autorevole che quel suo nome ci sembrava troppo breve, per cui la chiamavamo tutti suor Suorada! Era la più anziana, molto alta e dritta, con una peluria sotto il naso da sembrare baffi. Aveva una voce roca, cavernosa. Aspirava di nascosto dietro la lavagna del tabacco da naso. Dopo pranzo ci faceva mettere le mani sul banco e ci faceva appoggiare la testa sopra di queste, perché potessimo dormire. Ci copriva quindi il capo con un foglio di giornale; non ne so il motivo, forse per attenuare la luce. Se il foglio si muoveva troppo, ci si doveva aspettare una leggera bacchettata sulla testa e quell’urlo soffocato: Cioooò bronsa cuerta!1. Così dovevamo star fermi in attesa di quel sonno che a volte non arrivava. Ma la punizione più terribile in seguito ad una marachella era quella di andare a raccogliere con secchio e paletta gli escrementi delle vacche, che a volte si trovavano copiosi lungo la strada e che servivano da concime per le aiuole dell’asilo a cui lei teneva tanto.

Tutto sommato però erano delle buone donne. Non so se tutte avessero avuto il dono della vocazione o se fossero state mandate in convento, come tante figlie di quelle terre, poiché la vita da suora rappresentava una buona alternativa rispetto a quella che altrimenti sarebbe spettata loro. Svolgevano il loro compito con dedizione ed erano senza dubbio di valido aiuto per le famiglie di allora, specialmente quelle più povere e numerose.

Dall’asilo alle elementari, tutto ruotava attorno a Chiesa, scuola e famiglia. Non esistevano eventi, feste o lutti che non coinvolgessero continuamente questo trinomio. E nel Veneto soprattutto la Chiesa aveva un ruolo determinante nell’aggregazione sociale, insieme alla scuola. Queste due istituzioni si prendevano cura quasi del tutto dell’educazione dei figli; compito che la famiglia spesso non era in grado di assolvere.

Bisogna tenere presente inoltre che in nessun’altra parte d’Italia, come nel Veneto, la Chiesa cattolica ha esercitato forme di supplenza sicuramente pervasive in modo ingigantito. C’era infatti uno stretto connubio tra Chiesa e mondo contadino; il lavoro dei campi era naturalmente condizionato dal mutare delle stagioni e dagli eventi atmosferici che accompagnavano queste, e il mutare delle stagioni era associato alle festività religiose.

NOTE

1 Sant’Antonio gran fredura, san Lorenzo gran caldura.

2 Se piove ala Sensa per quaranta giorni no semo sensa.

3 A Nadae un piè de gae, a Pasqueta un’oreta.

4 Se piove sull’ulivo no piove sui vovi. 5

Questi erano alcuni proverbi tramandati di padre in figlio, ai quali si ricorreva per pronosticare il clima durante tutto il ciclo del lavoro nei campi, dall’aratura alla semina e al raccolto. I contadini per ingraziarsi la Chiesa portavano sull’altare i prodotti della terra, soprattutto sacchetti di frumento, e consegnavano le uova fresche al prete, che passava in bicicletta casolare per casolare assieme a due chierichetti. Erano le cosiddette decime. Un'usanza questa che si perde nella notte dei tempi; in passato infatti i contadini erano tenuti a consegnare la decima parte del raccolto alla Chiesa per il suo sostentamento e i sacerdoti ricambiavano con preghiere perché la terra fosse fertile, desse i suoi frutti in abbondanza e per allontanare il cattivo tempo che poteva compromettere tutto il lavoro di un’intera stagione. Io stesso ricordo ancora il prete con l’aspersorio alzato verso il cielo nero di nubi mentre recitava con tono solenne: A fulgure et tempestate libera nos Dominex. D'altronde i contadini veneti erano generalmente poveri. Se non lavoravano a mezzadria possedevano piccoli appezzamenti di terreno, poche mucche nelle stalle e qualche animale da cortile; troppo poco per sfamare famiglie spesso numerose. Erano inoltre poco inclini per natura ad aggregarsi in cooperative, come avveniva nella vicina Romagna.

Pertanto il buon esito del raccolto, più che alla razionalizzazione dei sistemi di coltivazione, era affidato alla clemenza divina.

Questo stretto e antico legame nel Veneto tra società contadina e Chiesa cominciò a sgretolarsi proprio in quegli anni, quando i primi contadini abbandonarono i campi per recarsi a lavorare nelle fabbriche di Porto Marghera e si trovarono per la prima volta di fronte ad una realtà completamente diversa.

Nell’estate del ’55, all’età di sei anni, poiché ero considerato un bambino linfatico, cioè magrolino e un po’ anemico, i miei mi mandarono un mese al mare, nella colonia “Filippo Turati” di Sottomarina di Chioggia, che assieme all’altra, “Anna Kuliscioff”, faceva parte del CISS: Centro Italiano di Solidarietà Sociale, di stampo socialista. A pensarci oggi, probabilmente si trattava di una piccola macchia rossa in una regione bianca, dove tutte le attività che avevano come scopo la solidarietà erano affidate esclusivamente a organizzazioni religiose. Ricordo che la sera, prima di andare a letto, nel cortile di sabbia le assistenti (tutte signorine, niente suore ovviamente) ci facevano cantare due canzoni: “Marcellino pane e vino” e “L’Inno dei Lavoratori”.

Il ricorso alla colonia fu del tutto inutile. Non mangiavo nulla: infilavo dentro il costumino tutto quello che ci poteva stare del pranzo e della cena e poi andavo a gettarlo nel bagno. I miei dovettero riportarmi a casa anzitempo, perché ero diventato più magro di prima.

E vengo ai ricordi che più ci accomunano con il maestro: le elementari. E chi si dimentica quegli anni e la mia vecchia scuola? Oggi non esiste più quell’edificio, è stato demolito negli anni ’70.

La sua costruzione risaliva addirittura all’800 sotto il dominio austriaco. Le sue aule erano stanzoni difficili da riscaldare, con quella vecchia stufa a legna; ma noi eravamo abituati al freddo e all’umidità, sempre con i calzoni corti, anche nei rigidi inverni e quasi sempre con le buganse6 alle mani o ai piedi. Di legno era la cattedra e di legno massiccio erano quei banchi per due, con il calamaio in centro, che la signorina Cesira e la Gigetta, le due bidelle, riempivano d’inchiostro con il pentolino di latta. I servizi igienici erano approssimativi, ricordo ancora il forte odore di disinfettante che proveniva da quei bagni alla turca.

I primi due anni con il maestro De Lorenzo Poz. Uomo tutto di un pezzo, cadorino di origini, bravissimo nel lavorare con le mani; poi gli ultimi tre anni con il maestro Di Rosa, quelli che si ricordano meglio, perché si è diventati più grandi. Era strano quel maestro, con i capelli così neri e con la carnagione abbronzata.

Aveva dei caratteri somatici molto diversi dai nostri e un’inflessione strana. Erano diverse anche le sue idee sulla scuola, moderne per quel tempo. Per esempio accanto all’Inno nazionale trovava spazio anche il Nabucco. Era inoltre insofferente ai rigidi schemi organizzativi, aborriva l’iniqua sistemazione dei banchi nell’aula che prevedeva l’insensata collocazione in primi e ultimi.

Nella presentazione di un suo libro, Di Rosa viene definito una persona con un innato senso civico. Definizione condivisibile. Si prodigava già allora in attività extrascolastiche. Una di queste era l’educazione al risparmio. Con una minima somma si poteva aprire presso una banca di Dolo un libretto che veniva via via “rimpinguato”, il mio per la verità poco. Un’altra sua iniziativa riguardava la raccolta di fondi a favore di associazioni umanitarie, per non perdere di vista il dovere della solidarietà. Questi fondi erano raccolti attraverso spettacolini allestiti nella sala parrocchiale dove gli alunni si esibivano in recite, scenette e poesie.

Di sera era impegnato nelle così dette “Lezioni di lettura”, un programma previsto dal Ministero della Pubblica Istruzione per contrastare l’analfabetismo di ritorno. Consisteva nel leggere e commentare dei brani presi da alcuni testi, anche classici. Operai e contadini si ritrovavano quindi sui banchi di scuola, per recuperare quelle nozioni di lettura e scrittura, imparate nel loro breve periodo scolastico ormai lontano e che si erano perse a causa del mancato esercizio.

Oggi anche i più piccoli sono continuamente bombardati da informazioni provenienti dai molteplici mezzi di comunicazione; allora l’unica fonte d’informazione era il maestro. Ricordo che una volta ci diede come compito da svolgere quello di scrivere agli alunni che frequentavano una scuola di un paese scelto a caso sulla carta geografica d’Italia appesa al muro, raccontando chi fossimo noi e quali fossero i nostri usi e le nostre tradizioni. Anche in questo intento dimostrava il suo desiderio di ampliare le nostre conoscenze al di fuori del paese e di accorciare le distanze di quello Stivale. Io scelsi Vieste, non so perché, forse m’incuriosiva quel paese posto su quella strana escrescenza geografica. Per me, che a undici anni non avevo ancora visto Venezia, era come inviare un messaggio nell’iperspazio: c'erano altri mondi al di fuori di Sambruson e che aspetto avevano? Erano come il nostro o totalmente diversi?

A proposito delle associazioni umanitarie mi torna in mente un divertente aneddoto. A differenza di quella del maestro, c’era una fondazione che chiedeva un obolo alle famiglie. Se non ricordo male era la Società Dante Alighieri, società fu fondata fondata nel 1889 grazie ad un gruppo di intellettuali guidati da Giosuè Carducci, con lo scopo di tutelare e diffondere la lingua e la cultura italiana nel mondo. L’obolo richiesto da questa fondazione, sicuramente benemerita, entrava in conflitto però con le economie delle famiglie o perlomeno con la mia. Un giorno,

tornando a casa, consapevole delle difficoltà che avrei creato, dissi a voce bassa: «Mamma, domani dovrei portare a scuola venticinque lire per Dante».

Ciò fece mandare su tutte le furie nonna Alba.

«Dante, ancora co sto Dante, che saran sento ani chel xe morto!»

Mia madre però, facendo e rifacendo i conti, riuscì a trovare quelle venticinque lire e il mattino seguente me le mise in tasca.

Nonna Alba era la nonna materna. Non viveva con noi, ma veniva spesso ad aiutare la figlia nelle faccende domestiche e Dio sa se ce n’era bisogno. Era una vispa vecchietta che non andava tanto per il sottile. Ricordo che una volta arrivò a casa, non so da dove, una sgangherata chitarra. Ovviamente tutti noi volevamo strimpellare e ne nacque, come succedeva spesso, un parapiglia.

La nonna allora s’arrabbiò, stese la chitarra per terra e vi ci saltò sopra più volte. La nostra carriera di chitarristi finì quel giorno.

Quando uno di noi contraeva una delle malattie tipiche dell’infanzia, la terapia d’urto era svuotare l’intestino, con l’unica medicina considerata la panacea di tutti i mali: il famigerato olio di ricino, rifiutato da me e dai miei fratelli con tutti gli espedienti possibili. La nonna allora saliva in camera, tenendo nella mano sinistra la boccetta di quel liquido nauseabondo e nella destra una robusta ciabatta delle sue. Si parava davanti al letto e alzando prima la mano sinistra e poi la destra, con tono minaccioso, proferiva queste parole: «O questo, o questa». Ahimè! Vinceva sempre la mano sinistra.

Negli anni dell’Università, quando mi vedeva studiare per ore senza sosta, forse mossa da compassione, la sentivo quasi gridare dalla stanza accanto: «Basta. Butta via quel libro! Che mi sò deventà vecia sensa tanto studiare!»

Questa frase della nonna, che dà il titolo al mio libro, contiene in sé una grande verità: si può leggere e studiare tutta una vita senza capire nulla e si può invecchiare con saggezza, imparando dalle esperienze quotidiane vissute sulla propria pelle, senza aver letto mai una riga.

Quasi tutte le nostre madri non lavoravano, ad eccezione delle contadine, che svolgevano il lavoro nei campi. Lavorare allora era quasi disdicevole per le donne che non fossero le figlie delle poche famiglie benestanti che avevano studiato. Era l’uomo che doveva provvedere al mantenimento della famiglia mentre il ruolo della donna era quello di casalinga e basta. Alle ragazze al massimo era concesso di imparare il mestiere della sarta: “ago e filo, ago e

filo” raccomandavano le anziane.

La maggior parte degli uomini lavorava nei campi; gli altri, come mio padre, nelle fabbriche di Porto Marghera o nei calzaturifici disseminati lungo la Riviera del Brenta.

Erano gli anni in cui le donne, salvo quelle più abbienti, andavano a fare la spesa con il “libretto”, una specie di quaderno nel quale il negoziante annotava l'ammontare della spesa quotidiana. Il pagamento, con qualche difficoltà, avveniva poi con la consegna della busta paga per i salariati e con la vendemmia e il raccolto per i contadini. Ricordo molto bene quest’usanza, perché dopo i sette anni, durante le vacanze estive, lavoravo come garzone nel negozio di alimentari che si trovava in fondo alla via dove abitavo. Ho cominciato a capire allora, nell’età dei giochi, la fatica di vivere. Spesso venivano madri di famiglie più numerose e più povere della mia. Compravano un pugnetto di zucchero, che io avevo imparato a incartare nella carta blu, da zucchero appunto, e un altro pugnetto di farina incartata con quella gialla e ancora cinque o dieci lire di conserva di pomodoro, che io prendevo dal barattolo di latta e spalmavo sulla carta oleata. La merce così acquistata era riposta nel grembiule sollevato che faceva le veci di una sporta. Per acquistare l’olio invece le donne portavano da casa una bottiglia spesso unta. L’olio si trovava all’interno di un bidone, posto ad altezza d’uomo, al cui fondo era collegata un’ampolla di vetro graduata. Aprendo un rudimentale rubinetto questa, per il principio dei vasi comunicanti, si riempiva fino alla quantità richiesta. Il contenuto dell’ampolla, un quarto o al massimo mezzo litro, veniva quindi travasato nella bottiglia. Olio rigorosamente di semi vari, perché non esisteva quello di oliva; così come la miscela Leone, un miscuglio di orzo, ceci e ghiande, era il surrogato del caffè. Una misera spesa per famiglie di sette o otto persone. Sulla qualità dei prodotti non si poteva discutere, perché quando si va a credito, non si può pretendere nulla. Con fatica, come dicevo, e un po’ alla volta, alla fine si pagava, perché chi non onorava i debiti era additato al pubblico disprezzo. Mi ricordo che una vicina di casa chiese a mia madre di poter pagare con il nostro libretto, perché il negoziante non le faceva più credito. Aveva il marito muratore che d’inverno era disoccupato e due bambini piccoli. Per scaldare la cucina aveva bruciato il manico della scopa.

«Dai Cecio, fammi i conti del libretto». Mi diceva ogni tanto mia madre, che mi chiamava con quel nomignolo tutte le volte che aveva bisogno di un aiuto.

Fu forse da allora che imparai a fare le somme più velocemente che con una calcolatrice! «Sono novemilacinquecento lire mamma». «Madonna mia! Quanti soldi ho speso questo mese, chissà cosa dirà tuo padre. Sei sicuro?»

«Ripeto il conto».

Io che ero sempre molto attento a non commettere errori nei compiti di aritmetica, avrei tanto voluto che quella somma fosse sbagliata per eccesso. «No mamma, sono proprio quelli».

Ero un bambino allora, e come tutti i bambini talvolta combinavo qualche malanno, come quando con la sessola, un grosso cucchiaio di legno, svuotai il sacco di zucchero nel cassone contenente la farina e viceversa, provocando il giorno seguente le proteste delle donne che avevano acquistato quella mistura e la conseguente furia del padrone. O quando verso le otto di sera, ormai stanco, salivo sopra a una sedia e spostavo in avanti le lancette del grosso orologio senza vetro posto di fronte al bancone, sperando che il padrone non se ne accorgesse, e cercando ingenuamente di anticipare in quel modo la chiusura. La furbizia ovviamente durò poco e furono guai. Il mio “stipendio” era di settanta lire la settimana: erano giusti per il biglietto del cinema.

Quando però il bigliettaio, amico di mio padre, mi faceva entrare di nascosto senza pagare, quei soldi li davo a mia madre. C’era bisogno anche di quelli in famiglia.

Lavoravo tutta la settimana, fino al sabato sera. La domenica mattina si andava a Messa e al pomeriggio al cinema parrocchiale, solo però se si era stati presenti al catechismo, che dovevamo conoscere a memoria:

«Chi ci ha creato?»

«Ci ha creato Dio!» Rispondevamo noi in coro.

«E chi è Dio?»

Sempre in coro: «Dio è l'Essere Perfettissimo, Creatore e Signore del cielo e della terra».

Qualche domenica sera mi era concesso di vedere in televisione all’osteria dello zio Romano “Un due tre”, con Tognazzi e Vianello.

Si disponevano le sedie su più file davanti al grande televisore a valvole. La contropartita era quella di consumare una bibita o un caffè. Qualcuno faceva il furbo, ma non sfuggiva all’occhio vigile dello zio, mentre io, come nipote, ero dispensato. E alla fine del programma di corsa verso casa. Dopo la piazza, all’altezza delle scuole mi fermavo per prendere fiato. Poi, dopo la curva, la strada si faceva buia, illuminata solo verso la fine da una debole lampada che il vento faceva dondolare. Riprendevo quindi la corsa con il cuore in gola. Là, in una casa isolata, abitava un massone; prima di morire l’avevano visto lottare con il demonio, ed era stato sepolto in cimitero dentro ad un sacco legato con una corda la cui estremità usciva da terra. Più avanti, in quell’altra casupola, abitavano assieme tre vecchiette che la gente diceva essere sicuramente streghe. Più avanti ancora c’era la casa di Cicci, un povero disgraziato deforme di cui tutti avevano una grande paura; e lui, poveretto, non poteva che svolgere quel ruolo: incutere paura. Arrivavo pallido e trafelato fino a varcare finalmente il sicuro uscio di casa.

Come già detto, nei pomeriggi festivi l’unica fonte di svago era il cinema parrocchiale. Il nostro cinema non era molto dissimile da quello raffigurato nel film capolavoro di Tornatore “Nuovo cinema Paradiso”. La sala, utilizzata anche per recite e spettacolini, era adibita a cinema solo la domenica pomeriggio. La platea era formata da alcune file di seggiole di legno vicino allo schermo e più indietro da altrettante file di poltroncine rivestite di un velluto color rosso porpora, alquanto sdrucito, riservate per convenzione agli adulti, mentre sopra il proiettore era sistemata una piccola galleria.

I film erano accuratamente scelti dalla parrocchia e ricordo molto bene i fischi e i boati quando la pellicola saltava perché logora, o quando era tagliata una scena considerata scabrosa.

Spesso si trattava di western e quando arrivava el toso,cioè l’eroe che faceva piazza pulita degli indiani, era accolto da un fragoroso battere di piedi sul pavimento di legno. Il film veniva proiettato due e se ricordo bene anche tre volte fino a sera. Specialmente d’inverno, poiché la sala era riscaldata, mentre fuori faceva freddo e spesso c'era la nebbia, nebbia comunque non paragonabile alla

quantità di fumo che si accumulava là dentro, terminata la prima proiezione, noi bambini rimanevamo ancora lì. Ma poiché non c’era più gusto a rivedere il film per una seconda volta, ci si industriava diversamente. Ci si nascondeva o si correva tra le poltrone sparando all’impazzata con le dita, morendo e resuscitando, a imitazione delle scene viste poco prima. Passando per il fascio di proiezione era d’obbligo ovviamente far le corna o qualche altro gesto simile. Poi di nascosto si saliva in galleria e,come nel film di Tornatore, si sputava o si lanciava la buccia di qualcosa al di sotto. Sempre rincorsi e minacciati dalla maschera, uno stradino, come allora era ancora chiamato l’addetto alla manutenzione delle strade, che di domenica arrotondava il salario con quel compito ingrato. Nei barbosi film d’amore, sempre rigorosamente castigati, ricordo le copiose lacrime versate da una mia prozia sorda che comprendeva qualcosa dal movimento delle labbra dei protagonisti. Il lunedì la Maria, una povera vecchia famosa per le sue alzate di gomito, spazzava fuori dal cinema di tutto: scorze di bagigi(7)  in quantità enorme, semi di zucca salati, gusci di noci e

noccioline, bucce di caldarroste o stecchini dei ghiaccioli, a seconda delle stagioni, limoni spremuti, dopo che erano stati infilzati dal bastoncino di liquirizia, pezzi di straccaganasce8, carte di caramelle di tutti i tipi. Il tutto finiva poi bruciato nella stufa dell’attigua osteria dello zio Romano: un primo, rudimentale esempio di riciclaggio dei rifiuti.

L’ho già menzionata due volte. Devo per forza parlare dell’osteria. Nell’unica piazza del paese c’erano quest’osteria e un negozietto, gestiti appunto dallo zio Romano, dalla nonna paterna, Maria, e dall’altro fratello di mio padre, lo zio Piero. Quei locali facevano parte di un caseggiato vetusto ed erano collegati da uno stretto corridoio interno, dal quale partiva una ripida scala di legno che portava alle camere da letto che si trovavano al piano superiore. Data la posizione strategica – a lato della piazza, vicino al cinema, alla chiesa, all’asilo e al cimitero – quel caseggiato era diventato una specie di centro di ritrovo e di spese per tutto il paese.

L’osteria, gestita esclusivamente dallo zio Romano con la moglie, era frequentata da soli uomini. Durante il giorno, e in particolare la domenica, c’era un gran via vai, ma di sera, soprattutto d’inverno, il locale si riempiva di avventori. Era uno stanzone sufficientemente ampio, con il bancone, i tavoli e le sedie di legno. In fondo a sinistra c’era la saletta riservata alla televisione, al centro una grande stufa a legna di metallo dove in realtà si bruciava di tutto. Da quella specie d’inceneritore usciva ogni tanto una nuvola di fumo che si faceva spazio tra quello già denso delle “Alfa” e delle “Nazionali” senza filtro dei numerosi fumatori.

Come in tutte le osterie del Veneto, parte del bancone era riservata ai cicchetti. I cicchetti erano e sono tuttora degli stuzzichini che diventano un pretesto per bere la classica ombreta di rosso: una seppiolina in umido, una polpetta fritta, un po’ di baccalà, mezzo polipetto bollito e così via; il sabato e la domenica si poteva

mangiare anche la trippa. Di sera gli uomini giocavano a carte, con la caraffa di vino al centro del tavolo, battendo con forza sopra questo a ogni scalata di briscola e discutendo animatamente a fine partita. Altri, in piedi davanti al bancone, parlavano ad alta voce del più e del meno, mentre gli spettatori della TV chiedevano un po’ di silenzio imprecando. Ne nasceva un fragoroso vociare che stordiva per un momento chi, dall’esterno, apriva la porta d’ingresso per varcare la soglia. L’osteria non aveva orari e non ricordo un giorno di chiusura.

Apriva al mattino presto per permettere agli operai di bersi una prugnetta (il liquore di prugne) che serviva per scaldarsi lo stomaco prima di affrontare d’inverno la strada per Porto Marghera. A tarda sera lo zio aspettava con pazienza l’uscita dell’ultimo avventore un po’ alticcio. In fondo a sinistra c’era la

stanza da pranzo della sua famiglia. Questa era separata dal locale da una tenda di stoffa e lo zio scattava in piedi sospendendo il pranzo o la cena per servire qualsiasi cliente si presentasse.

Il negozio attiguo, da tutti chiamato bottega, era uno di quei negozietti di campagna dove si vende di tutto. Si potevano trovare frutta e verdura, giornali e riviste, il materiale per la scuola come quaderni, gomme, canotti e pennini, tutti i prodotti tipici delle stagioni e delle festività, caldarroste e patate americane bollite d’inverno, fette di anguria in estate, statuine di gesso per il Presepe  a Natale, calze per la Befana, mascherine e coriandoli per Carnevale, uova colorate per Pasqua. Non mancavano pasticcini per la domenica, confetti, caramelle e biscotti; questi ultimi, peraltro, non venivano venduti a confezione, ma a peso. I vari tipi di biscotti erano contenuti in altrettanti barattoli e se, come

capitava spesso, nel maneggiarli qualcuno si frantumava, tutti i pezzetti si raccoglievano in un barattolo a parte, erano declassati come “rotti” e venduti a un prezzo ridotto.

Pur dotato di un retrobottega, sembrava impossibile che quel piccolo locale potesse contenere tanta roba. Si vendeva persino sottobanco qualche scatola di analgesico per il mal di denti e il mal di testa e l’immancabile olio di ricino.

Lì a servire c’erano mia nonna ultrasettantenne e lo zio Piero, sulla cinquantina, diventato cieco in età giovanile, probabilmente a seguito di una forma grave di degenerazione della retina. Essendo due commessi non proprio efficienti, lo zio Romano saltellava continuamente dall’osteria alla bottega, passando per lo stretto corridoio, dando una mano o due alla bisogna. A volergli bene, lo

zio Romano non si potrebbe definire proprio una persona munifica: in realtà la sua avarizia era proverbiale in paese. Non era un cattivo uomo, ma la generosità non era il suo punto forte e non vedeva nemmeno di buon grado quella di sua madre e di suo fratello.

La nonna e lo zio Piero, due anime buone. Ricordo ancora quando uscivano dalla bottega per andare a pranzo. Lei sempre vestita di nero, un po’ pesante e affaticata sulle gambe, accompagnava quel suo figlio sfortunato come una giovane mamma prende stretto per mano il suo pargolo ai primi passi, con la paura che inciampi; e lui, uomo alto e corpulento, le appoggiava la mano sulla spalla delicatamente per non gravarla col suo peso, e si lasciava guidare da lei che era la sua luce. Avanzavano così lentamente un po’ dondolando; sembravano personaggi usciti da un film di Fellini.

Quando mia madre si recava a trovare la nonna in piazza, non molte volte per la verità, tanto era impegnata nelle mille faccende domestiche, questa le allungava sempre qualcosa: qualche banconota strappata, che poi noi provvedevamo a incollare, qualche frutto o un sacchetto di “rotti”.

Era sempre preoccupata per mio padre, perché come mangiapreti, prima o poi si sarebbe messo nei guai. E poi quella famiglia così numerosa da tirare su! Lo aspettava il lunedì mattina presto, quando passava per la piazza per recarsi al casello 12(9)  in bicicletta. Gli andava incontro, gli porgeva qualcosa dell’osteria che era rimasto dalla sera prima, e gli faceva la solita predica: «Tieni questa roba per te, mangiala tu, non portarla a casa, perché anche tu hai bisogno di mangiare. Se ti fermi, cosa succede? Per amor di Dio!» Raccomandazione inutile: una volta scomparso dalla sua vista, lui faceva un giro alternativo e tornava indietro, depositava a casa quanto ricevuto e ripartiva.

Era legatissimo a sua madre. Una volta la mamma passò per la piazza e non entrò in bottega per salutare sua suocera, sempre di corsa com’era. La nonna lo disse a mio padre, senza nessuna cattiveria: «Hanno visto passare di qua la Maria e non si è fermata, avrà avuto tanto da fare poveretta». Mia madre per l’anagrafe era Giovanna, ma tutti la chiamavano Maria forse perché quel nome

era ancora più semplice. Mio padre interpretò quel suo comportamento come una mancanza di riguardo nei confronti di sua madre. Questo lo mandò su tutte le furie e a seguito della discussione che ne nacque, sferrò addirittura un pugno contro un mobile danneggiandolo. Al disappunto dimostrato da mia madre per quel gesto si calmò e quasi scusandosi le disse: «Ti auguro che un giorno i tuoi figli vogliano bene alla loro madre come io ho voluto bene alla mia».

Era una donna molto religiosa, la nonna, non si perdeva neanche una funzione: la Messa prima e quella del vespro, i Fioretti di maggio, le Novene, i giorni dell’Avvento, le Litanie, i primi venerdì del mese. A proposito di questi ultimi, allora si diceva che il fedele che avesse partecipato alle funzioni di nove primi venerdì del mese, senza discontinuità, avrebbe avuto garantito il Paradiso. Senza discontinuità, ripeto, altrimenti bisognava ricominciare da capo e senza trucco, perché lassù sapevano contare bene! Come tutte le altre donne, con il velo nero in testa e il rosario in mano, si recava nella vicina chiesa e recitava

le preghiere, rigorosamente in latino (erano gli anni immediatamente prima della riforma della Messa del Concilio Vaticano II). Ciò che usciva da quelle bocche mi fa ancor oggi sorridere: l’invocazione Domine ad adiuvandum me festina veniva sostituita dal più comprensibile Domine salva ea me testina, il fructus ventris dell'Ave Maria si trasformava nel più comune fruttisvenduli, Requiem aeternam veniva scandito Requie meterna.

Lo zio Piero lo conoscevano tutti in Paese e lui conosceva tutti.

Quando qualcuno entrava in bottega, sapeva di non esser visto, quindi salutava per primo. Lui lo riconosceva dalla voce e ricambiava il saluto. Ne nasceva di solito una piccola conversazione sugli argomenti più disparati. Se si trattava di

cronaca, lo zio integrava con le notizie ascoltate alla radio che teneva in uno scaffale del negozio. Non si era mai rassegnato a quella sua notte perenne, anche se non si commiserava mai.

«Poveretto! E pensare che ci lamentiamo noi...» diceva tutte le volte che accadeva una disgrazia a qualcuno in paese. In bottega la sua attività era per forza limitata, ma aveva acquisito nel tempo una straordinaria sensibilità con le mani: riusciva a contare le monete, scegliere la frutta a seconda del suo grado di maturazione. Era quasi sempre capace di azzeccare il peso sulla bilancia e, quando ciò non accadeva, il cliente lo aiutava con la massima discrezione;

nessuno mai lo avrebbe ingannato. Quella bottega era tutta la sua vita.

Verso i dieci, undici anni talvolta anch’io lo accompagnavo a spasso per la Piazza come faceva in “Nuovo cinema Paradiso” Salvatore con Alfredo, diventato cieco. Amo molto il film anche per i ricordi che evoca in me.

«Vedi, qui devono aver messo un cartello e là in fondo stanno buttando giù quel vecchio muro. Lo vedi?» Mi diceva.

«No... no, zio, dove?»

«Come non lo vedi?» Rispondeva quasi incredulo.

«Sì, sì, adesso lo vedo, adesso lo vedo, è esattamente là dove dicevi tu».

Spesso mentivo, ma non avevo il coraggio di dirgli che io, che avevo la vista, non vedevo nulla di ciò che vedeva lui che non ce l’aveva.

Poi mi stringeva la spalla e il braccio e mi diceva: «Senti qua, sei magro, sei sempre più magro!» Quando rientravamo in bottega, mi metteva tra le mani una banana e un’altra e un'altra ancora.

«Mangia, che sei magro» ripeteva.

«Basta zio, basta, grazie» rispondevo io mentre assaporavo con gusto quella bontà. Ne avrei mangiate dieci di banane, tanto mi piaceva quel frutto.

«Non insistere Piero, se non vuole, non insistere». Gli diceva suo fratello Romano, comparso all’improvviso, quasi richiamato da quella conversazione ed evidentemente preoccupato per quella dilapidazione.

«Non insistere, se non ha fame!»

«Sì Piero, se non ha più fame...» Ripeteva la nonna con garbo, con l’intento di accontentare entrambi i figli.

Devo molto allo zio Piero. Molto. Più grande, quando mi trasferii a Mestre e la nonna ormai non c'era più, io andavo spesso a trovarlo. Aspettava che suo fratello si allontanasse per servire in osteria, ruotava la testa e gli occhi come se volesse vedere. In realtà cercava di percepire con l’udito qualsiasi rumore sospetto.

Avrebbe potuto semplicemente chiedermi se lo zio Romano era presente o no, ma questo gli sembrava uno sgarbo nei confronti di suo fratello, che non gradiva. Poi quando era sicuro che fossimo rimasti soli, tirava fuori dai calzini qualche banconota. «Ciapa, ciapa» mi diceva.

Io mi ritraevo e quasi respingendolo con un gesto della mano rispondevo sempre: «No zio, no, grazie», anche se per la verità aspettavo quel momento.

«Ciapa, ciapa» incalzava lui, quasi con veemenza, temendo il ritorno di suo fratello che avrebbe compromesso tutto. Sono stati tanto utili allora quei soldi, per comprarmi qualche libro o per pagarmi parte della retta della scuola che frequentavo. Adesso che ci ripenso mi riecheggia ancora nella mente quel ciapa, ciapa.

Sullo zio Romano spenderò ancora qualche parola. Della sua tirchieria ho già detto. Con noi nipoti mai un gesto di generosità; al massimo poteva capitare che ci rifilasse qualcosa dalla bottega che nessun cliente avrebbe mai accettato: una pasta spiaccicata o un frutto che stava per marcire. Aveva una visione del mondo basata sul do ut des. Prestava soldi ai contadini che poi lo avrebbero

ripagato con il raccolto e la vendemmia. Mai per usura per carità!

In cambio riceveva spesso del buon pollame, della verdura di stagione e anche qualche buon pezzo di manzo appena macellato.

Erano famosi i bolliti della sua cucina.

Possedeva una vecchia giardinetta sulla quale caricava di tutto.

Un giorno caricò anche me, perché aveva bisogno di una mano per scaricare le angurie che avrebbe comprato al mercato. Tolse tutti i sedili, tranne il suo ovviamente, e caricò la macchina di cocomeri fino all’inverosimile. Così, come il barone di Münchausen, a cavallo di una grossa anguria, anziché di una bomba, feci il mio primo giro in automobile.

Una vita per me incomprensibile: ha lavorato freneticamente e instancabilmente fino alla fine e non ricordo un solo giorno dichiusura della sua bottega. In questo modo è riuscito ad accumulare denaro guadagnato certamente con fatica. Ma quando mai se l’è goduto? Ha avuto solo un grande merito ai miei occhi: ha sempre voluto molto bene a quel suo fratello. L’ha tenuto con sé anche dopo la morte della nonna. Non gli ha mai fatto pesare quel suo handicap. Anzi, lo coinvolgeva in tutto, sentendo il suo parere sul tipo e sulla quantità di merci da acquistare o da eliminare.

Anche se poi magari agiva di testa propria, gli chiedeva sempre consigli e suggerimenti, facendolo sentire utile se non indispensabile. Per questo, solo per questo gli va perdonato tutto.

Io abitavo in un caseggiato di sette, otto famiglie che si trovava a metà della via Villa, non lontano dalla piazza. Era una delle poche strade asfaltate, prima dell’aperta campagna. Non c’erano famiglie di contadini in quel piccolo agglomerato, tranne una confinante proprio con casa mia. Per la maggior parte erano operai e piccoli artigiani. Lì abitavano il sarto, la guardia, il postino. Perfino un impiegato dell’anagrafe del comune di Dolo, che si distingueva dai vicini per le sue mani dalle dita affusolate con unghie lunghe, ben curate. Tutto il caseggiato era di proprietà di un’anziana zitella della periferia di Padova (veniva chiamata la paronsina, la padroncina), che in un giorno prestabilito del mese, anche se infuriavano le intemperie, percorreva diversi chilometri con una bicicletta, dotata di grossi paramani di pelo, per ritirare la pigione.

Ovviamente non spendeva una lira per la manutenzione dello stabile, che ne avrebbe avuto sicuramente bisogno.

Arrivava in bicicletta anche il pane. Omèro ne portava a chili dentro quella cesta di vimini legata al manubrio. Ogni tanto gli cascava dentro un po’ di cenere dalla sua cicca, ma non toglieva nulla al profumo di quei montasù che si spandeva per l’aria. Io uscivo in strada con una borsa e gli facevo la quotidiana raccomandazione: “Omèro dame tanto pan che semo tanti putei!”10.

La mia abitazione era la prima di quel caseggiato. Il cancelletto di legno d’ingresso dava in un piccolo cortile, alla sinistra del quale c’era la porta d’entrata, che portava direttamente in cucina. Questa era una stanza orientata a nord, d’inverno molto fredda, la sola riscaldata della casa. La cucina economica a legna o a carbone era la tipica e unica fonte di calore per quelle famiglie. Oltre a riscaldare, serviva per cucinare, per avere un po’ di acqua calda e per asciugare piccoli panni che mia madre stendeva sotto la cappa.

Rimossi con un ferro i cerchi di ghisa, veniva incastrata la cagliera, il paiolo per la polenta, sempre rigorosamente bianca, per il  biancoperla del mais coltivato nel basso Veneto e nel Polesine. Metteva sempre allegria tutte le volte che mia madre la rovesciava sul tagliere, dopo averla girata e rigirata per più di un’ora. Mentre era ancora fumante, faceva una croce in centro con la paletta di legno. L’inconsapevole motivo era forse quello di farla sbollentare rapidamente per evitare la formazione di piccoli “crateri” sulla sua superficie.

«Perché fai quel segno?» Le chiese una volta mio padre.

«Non so. È un’usanza delle nostre parti, dicono che altrimenti il diavolo se la porta via».

«Ma questo “benedetto” diavolo non ha nient’altro da portarsi via?» Rispose lui con un sorriso sarcastico, scuotendo la testa.

La polenta si tagliava a fette, sempre con il filo da cucire. Quelle rimaste dalla sera si facevano abbrustolire sulla piastra della cucina economica per la colazione del mattino dopo. Su quella piastra per la verità si metteva un po’ di tutto: castagne da arrostire, bucce di arance per profumare l’ambiente e le immancabili squisite croste di formaggio.

La cucina era sicuramente la stanza più abitata della casa.

Specialmente d’inverno, al caldo, lì si faceva di tutto. Oltre a cucinare e a mangiare, mia madre stirava con il ferro a brace, lavava i panni nella tinozza e nella stessa tinozza ci si lavava. Nella cucina si studiava e si facevano i compiti, non so come, con quella confusione. Con il freddo ricordo che il vapore si condensava al contatto con le pareti e formava delle lunghe lacrime che scendevano fino al pavimento di pietra.

L’arredamento era alquanto spartano. C’erano un tavolo con le sedie, una mensola posta in alto, dove era collocata una vecchia radio di legno coperta, quando era spenta, da una tendina colorata.

Alla sera a cena eravamo in nove, tutti stretti attorno a quel tavolo, affamati e nel contempo desiderosi di intervenire nella conversazione, spesso quindi molto animata. Ma non era facile in quella situazione. Era necessario per poter dire la propria, aspettare il momento giusto per infilarsi rapidamente nelle poche pause prese per respirare o per inghiottire un boccone. Forse per questo motivo tutti noi abbiamo l’abitudine di parlare molto velocemente, tanto da mangiarci qualche parola.

Su quella stessa tavola mia madre stendeva l’impasto per preparare gli gnocchi di patate. Quando, soddisfatta, aveva finito e gli gnocchi, imbiancati di farina, erano tutti perfettamente allineati su lunghe file come soldatini, bastava che si girasse un momento perché ne sparisse qualcuno prima di finire in pentola. A poco a poco era come se quel piccolo esercito avesse ricevuto l’ordine di

rompere le righe.

A un lato della cucina economica si trovava un ripiano di pietra, dove era appoggiato un secchio che conteneva l’acqua potabile. In quelle case allora non c’era l’acqua corrente. Questa si raccoglieva con i secchi da una fontana pubblica. Nessuno più di un bambino di sei anni sa quanto pesi trascinare un secchio di ferro pieno d’acqua per un centinaio di metri. Noi ci consideravamo dei privilegiati, perché a volte avevamo il permesso di attingere l’acqua dal grosso pozzo della vicina. C’era qualcosa di arcano e di misterioso in quel pozzo: tutte le volte che tiravo su il secchio pieno, mi chiedevo come mai questo pesasse molto di più quando emergeva dall’acqua. Inutile chiedere spiegazioni, nessuno da quelle parti conosceva Archimede e la sua spinta.

Quando mio padre si decise a far costruire un pozzo artesiano in cortile, dal quale l’acqua usciva per mezzo di una pompa a mano, fu come quando Mosè fece scaturire l’acqua dalla roccia del deserto. L’acqua era fresca e limpida. Ci lavavamo tutti a quella fonte, anche d'inverno, dopo aver rotto il ghiaccio con un grosso cacciavite. Mia madre finalmente attingeva l’acqua a volontà per itanti usi domestici. Fu un vero lusso.

Al piano terra, oltre alla cucina, c’erano altre tre ampie stanze. La più fredda e umida aveva il pavimento in terra battuta. Lì, vicino a una specie di lavatoio di pietra usato per pulire le posate, si trovava il moscheto. Allora non esisteva il frigorifero e c’era l’abitudine di riporre i cibi deperibili, come burro e formaggio, dentro ad un mobile di legno, che doveva trovarsi in una stanza sufficientemente fredda. Le ante di questo mobile erano costituite da grate che permettevano il passaggio dell’aria per rinfrescarne l’interno. Ma i fori delle grate erano molto piccoli in modo da non far passare insetti e in particolare le mosche. Moscheto appunto! Comunicante con questa stanza c’era la vecchia bottega di mio padre. Alla fine della guerra, assieme ad un amico aveva messo in piedi una falegnameria, lavoro che gli era congeniale. Iniziarono così a costruire piccoli mobili per rivenderli: armadi, comò, cassettoni, letti. In paese c’era molto bisogno di quelle suppellettili, specialmente in quel periodo di ricostruzione, ma mancavano i soldi. La gente acquistava con la promessa di pagare in qualche modo, ma mio padre riusciva a incassare sempre meno e non era certo il tipo di persona che esercitasse pressioni sul cliente moroso, sapendolo magari più povero di lui. Preoccupato anche da una famiglia che si faceva di anno in anno più numerosa, decise di abbandonare tutto e di prendere di malavoglia la strada per Porto Marghera. Quella stanza era rimasta però la falegnameria. Là c’erano ancora la sega, la pialla, le assi di legno, i trucioli, la segatura e persino alcuni fogli di colla di pesce che emanavano quel caratteristico forte odore.

Un sottoscala collegava poi la cucina ad un locale che noi chiamavamo “tinello”. Questo nome dato a una stanza disadorna mi fa ancora oggi sorridere: c’erano solamente un tavolo di legno malconcio e qualche sedia. Al posto della finestra, una specie di pertugio con inferriate dava sul retro del caseggiato. Era utilizzata anche come ricovero della bicicletta, quando mio padre rientrava dal lavoro alla sera bagnato fradicio di pioggia.

Mi ricordo che un giorno ero là dentro a studiare. Stavo ripassando “Il Cinque Maggio” per impararlo a memoria, come richiesto dal maestro; compito per me facile perché dotato di ottima memoria, tanto che quell’ode imparata allora la ricordo ancor oggi perfettamente. Ripetevo quindi a voce alta le sue memorabili strofe ...E ripensò le mobili/ tende, e i percossi valli,/ e il lampo de' manipoli,/ e l'onda dei cavalli,/ e il concitato imperio..., quando una voce proveniente dall’esterno mi precedette: ... e il celere ubbidir. Incredibile! Chi mai poteva conoscere così bene quei versi nel caseggiato? Era un bel ragazzo alto e moro che non avevo mai visto, un sardo che si era fidanzato con la Leda, la figlia maggiore della vicina. A vedere il mio stupore passò la sua mano attraverso l’inferriata per stringere la mia.

Non avevamo una libreria e non ricordo bene dove fossero impilati i tanti libri che mio fratello più vecchio comprava. Amava molto leggere. Erano i famosi volumetti della BUR, l’edizione economica con la copertina grigia. Io spesso andavo a curiosare, leggevo i titoli e li sfogliavo: “Il dottor Zivago”, “La Cittadella”, “Guerra e Pace”, “Delitto e castigo”.

Nel sottoscala c’era una cassapanca che conteneva quasi tutto il nostro “guardaroba”. Mia madre la rovistava in continuazione alla ricerca di qualche ricambio di biancheria per qualcuno di noi, come facesse con le varie taglie resta un mistero.

Al piano superiore si trovavano le stanze da letto. Le camere prima erano due poi, non so come, mio padre riuscì a ricavare una terza stanza. Una camera riservata dunque alle due figlie, un’altra matrimoniale e la terza, comunicante con questa, destinata a noi maschi.

Come ho detto l’unica stanza riscaldata era la cucina e d’inverno la mamma metteva le borse d’acqua calda sotto le coltri di piuma per scaldare il letto. Ma ricordo che erano assolutamente insufficienti con quel gelo e coricarsi era sempre un dramma. Io avevo imparato un trucco: appena sotto le coperte chiudevo gli occhi e, mentre dicevo le preghiere della sera, muovevo con tutte le mie forze gambe e braccia per un minuto circa. L’attrito così generato, sviluppava quel poco di calore necessario per attenuare il disagio. Di notte ascoltavo l’andirivieni dei topolini di campagna che avevano trovato rifugio sul sottotetto e ogni tanto il verso lugubre della civetta che sperava di cenare con uno di questi. Nella mia camera c’erano dunque cinque letti e in mezzo un orinale per i bisogni della notte.

Una sera dopo i sei anni, prima di coricarmi, mia madre mi disse: «Stanotte ho preparato un letto più basso accanto al tuo, – in realtà una semplice rete metallica, – perché Pierino sta tornando a casa. Se scendi a far pipì, stai attento a non calpestarlo». Pierino era mio fratello Piero, il secondogenito. Come si vede i nomi erano più o meno sempre gli stessi: Piero, Maria, Mario, Antonio; non c’era quella ricercatezza nella scelta che oggi talvolta rende ridicola l’associazione di un nome di qualche attore americano con un cognome tipicamente veneto. Sin da bambino Piero, poiché si dimostrava po’ svogliato e indolente, era motivo di preoccupazione per mio padre: si alzava tardi al mattino e si rannicchiava in una sedia davanti alla cucina economica in attesa che i vestiti, messi nel forno, si scaldassero. Si divertiva poi a ricavare dei burattini da alcuni pezzi di legno e li vestiva con stracci colorati che lui stesso provvedeva a cucire, un gioco considerato a quel tempo poco virile. In realtà lui era dotato di una spiccata fantasia e creatività, non comprese dai più in quell’ambiente. Recitava come un attore consumato negli spettacolini allestiti dalle suore, tanto che una di queste raccomandò a mia madre di farlo studiare in qualche scuola d’arte drammatica. Una cosa assolutamente impensabile in quella realtà e incompatibile con gli schemi mentali di mio padre, preoccupato com’era di farne un “vero” uomo che fosse in grado di affrontare la vita non facile che si presentava davanti a lui così come a tutti noi.

Un giorno un conoscente gli diede un consiglio che lui ascoltò.

Così accompagnò suo figlio in treno fino a Roma, – sì addirittura fino a Roma, – e lo imbarcò su una nave. Destinazione: scuole della Marina Militare della Maddalena11. Aveva quindici anni! “Un’isola con sole capre e vento”, scriveva a casa (allora il turismo di massa non aveva ancora invaso quei luoghi). Quando

trasmettevano per radio una canzonetta che canticchiava anche lui, a mia madre scendeva una lacrima.

«Piangi per Pierino?» Le chiedevo. E lei, mentre si soffiava il naso, annuiva con il capo. Come accadde per il figliol prodigo, Piero fu sempre il suo preferito, come se lei volesse farsi perdonare quel torto.

Quando aveva qualche giorno di licenza tornava a casa, dove tutti lo attendevamo con impazienza. Lo vedevamo spuntare là in fondo dopo la curva.

«Arriva Pierino, arriva Pierino! Ciao Pierino!» Tutti nella via uscivano a vedere quel marinaretto, vestito di bianco d’estate e blu scuro d’inverno e lo salutavano.

Portava sempre con sé qualche novità che comprava nei vari porti durante le navigazioni. Un giorno ci mostrò un apparecchio mai visto prima: un registratore a bobina, un “Geloso”12 con i pulsanti colorati.

Si congedò a ventun anni.

I miei fratelli non me ne vogliano se racconto solo questo episodio su uno di loro. Se dovessi raccontare tutti quelli che hanno caratterizzato la nostra vita in quegli anni, altro che “I fratelli Karamazov!” Si potrebbe spendere un capitolo intero solo per parlare dei litigi. A nostro modo ci volevamo e ci vogliamo tuttora bene ma, essendo in tanti e con caratteri diversi, i litigi erano all’ordine del giorno: tra i miei fratelli più grandi e tra mio padre e loro. Ed io avevo una gran paura di quelle baruffe.

Mi svegliavo spesso al sentire, oltre il muro nell’altra camera, i miei genitori discutere per qualche guaio combinato da uno dei miei fratelli. Quando poi mio padre affrontava con tono minaccioso uno di loro, io mi mettevo in mezzo e lo imploravo quasi piangendo: «No papà, no!» E se vedevo che la situazione sfuggiva al mio inutile controllo, correvo verso il capitello della Madonna. Quel capitello era a una cinquantina di metri circa da casa mia. Io mi sedevo angosciato ai piedi della statua, mentre immaginavo chissà quali tragedie, finché qualcuno, mandato da mia madre, veniva a riprendermi (tutti sapevano dove mi ero rifugiato); segno tangibile che la bufera era passata.

Una paura ancora più grande dei litigi era quella che mi aveva trasmesso mia madre fin da piccolo per i temporali. Già al risveglio, al mattino, scrutavo il cielo alla ricerca di una nuvoletta che fosse foriera di chissà quale catastrofico tornado. D’estate, quando le nuvole diventavano minacciose, la mamma faceva le sue previsioni meteo, non sempre azzeccate.

«No, no, niente paura, il Garda riceve». Si riferiva al transito delle nuvole verso ovest, verso il lago di Garda, appunto; oppure si portava le mani sulle guance e diceva preoccupata: «Madonna mia, che brutto, il Garda butta su». Nella mia mente di bambino non riuscivo a capire perché questo Garda si divertisse a farmi tribolare tanto. Poi, ai primi tuoni, ci chiudevamo in casa al buio a recitare le preghiere, in attesa che il temporale passasse; ma a ogni lampo e a ogni tuono l’intensità delle preghiere aumentava. In seguito mici vollero degli anni per superare quell’assurda fobia.

Ero un bambino molto sensibile e molto spaventato, e tutte quelle paure hanno sicuramente influenzato poi la mia vita.

Poiché non esisteva in pratica una rete idrica, né quella del gas e non esisteva neppure un sistema di allacciamento a qualche rete fognaria, il bagno non c’era. In paese pochi fortunati avevano allora il bagno in casa. Questo, o più propriamente il cesso, era all’esterno. Il nostro era un piccolo “gabbiotto” con le pareti in muratura. All’interno c’erano due pietre per appoggiarvi i piedi e in mezzo un buco come una turca rudimentale. Su una parete, in un gancio di ferro, erano uncinati alcuni fogli di giornale. Il nostro era anche di... lusso, perché quello dei vicini di casa aveva le pareti di canne di mais legate tra loro. Talvolta capitava che per accendere il fuoco, in mancanza d’altro, togliessero una canna, e questo non garantì nel tempo una perfetta privacy agli utenti.

La famiglia accanto, composta da cinque persone, invece il bagno non ce l’aveva proprio, né dentro né fuori. Provenivano da Barletta ed erano sfollati nell’immediato dopo guerra. Facevano tutto in un bidone, che al mattino presto veniva svuotato nel fosso di fronte. Fortunatamente erano persone dotate di un forte senso dell’igiene, tanto che la maggiore delle tre figlie, che era un po’ la Cenerentola di famiglia, passava ore e ore al giorno a pulire e a disinfettare con la varechina.

Non si avvertiva un particolare disagio a vivere in tali condizioni.

Si vive nel disagio quando si percepisce una sorta di disuguaglianza. In paese invece tutte quelle famiglie vivevano più o meno allo stesso modo e, tranne alcune posizioni di privilegio, socialmente accettate, come il sindaco, il medico e sì, anche il maestro, non esisteva una realtà diversa con cui confrontarsi. Le condizioni di vita delle famiglie di contadini, sparse nella campagna erano sicuramente peggiori, non erano molto dissimili da quelle amabilmente raccontate da Ermanno Olmi nel suo film “L’albero degli zoccoli”, anche se questo è ambientato nel bergamasco di fine Ottocento. Ricordo ancora i salami che pendevano dal soffitto delle camere da letto ad asciugare, le pannocchie di granoturco in cucina. Spesso i contadini, nelle serate d’inverno, si scaldavano nella stalla e andavano poi a dormire nelle loro fredde camere alle quali talvolta si accedeva dall’esterno. E il bagno? Sotto le stelle.

Sempre nel mio cortile, accanto al cesso, si trovava il così detto letamaio. Era una piccola discarica a cielo aperto, sopra la quale spesso razzolava qualche gallina. Là si versavano i rifiuti domestici.

Sembra impossibile che oggi il problema dello smaltimento dei rifiuti assilli tanto le amministrazioni delle città. Allora i soli rifiuti erano gli scarti di cucina. Non c’era altro da smaltire. A ripensarci bene, per la verità, c’era qualcuno che si occupava della “raccolta differenziata”: strassi,ossi,fero vecio13, gridava dalla strada un ometto che passava ogni tanto con la bicicletta. E te li pagava pure, diversamente da come avviene oggi.

Ovviamente ogni tanto bisognava ricoprire il letamaio con uno strato di terra per limitare l’odore e l’affollamento degli insetti. Il contadino che abitava di fianco, provvedeva periodicamente a svuotare tutto il suo contenuto e quello del cesso vicino. Ne ricavava dell’ottimo concime. Là vicino infatti cresceva un albero di gocce d’oro che d’estate dava frutti dolcissimi: è incredibile l’opera di trasformazione della natura! In un ambiente simile, d’estate le mosche volavano a nugoli. Anche la mucca del contadino, che ci forniva il latte appena munto al mattino, dava il suo contributo. Ricordo perfettamente le carte moschicide di color giallognolo che penzolavano dal soffitto della cucina, punterellate dal nero di quegli insetti rimasti appiccicati.

Ricorrevamo spesso anche allo spruzzatore del famigerato DDT.

Abbiamo inalato tanto DDT da renderci immuni da qualsiasi gas letale.

Non so se grazie ad una buona stella o a quella sorta di selezione naturale per cui solo il più forte sopravvive in certe condizioni, sta di fatto che noi raramente eravamo a letto ammalati. Le tipiche malattie di stagione, poche per la verità, venivano curate con il digiuno o la purga. Nelle nostre abitazioni non si trovava quasi nessuna delle tante medicine che oggi riempiono i cassetti delle piccole farmacie domestiche. C’era qualche cachet (si chiamava proprio così) per il mal di testa o il mal di denti, la cui data di scadenza peraltro era sconosciuta. Molto raramente si ricorreva all’unico antibiotico disponibile che era la penicillina. Le manifestazioni più frequenti erano invece le tante croste che si formavano sulle varie parti del corpo di quasi tutti i bambini, dovute probabilmente a carenze vitaminiche.

Superato il letamaio, il cortile si allargava fino a formare un piccolo appezzamento di terra che finiva a ridosso di un muretto di cinta. Quell’appezzamento talvolta era coltivato a orto. Mi ricordo quando nelle sere limpide d’estate noi fratelli facevamo la catena con i secchi dalla fontana per innaffiare. Mio padre però non amava lavorare la terra, e in particolare l’orto.

«Ci sono già tanti contadini a Sambruson, – diceva, – se ci mettiamo anche noi a coltivare fagioli e piselli, quando è l’ora del raccolto, questi al mercato non valgono una lira».

Nel mio caseggiato, così come nelle altre case vicine, gli spazi erano aperti, non c’erano barriere o steccati insuperabili. Nelle interminabili serate passate a giocare a nascondino, passavamo così, senza tanti problemi dal cortile di una casa a quello di un’altra. La mia porta d’ingresso d’estate era sempre aperta, tanto che un nostro dirimpettaio entrava senza dire niente, cercava nella cappa la scatola di fiammiferi, ne prendeva uno per accendersi una “Nazionale”, scambiava qualche parola se vedeva mia madre, e poi usciva. La porta era metaforicamente sempre aperta anche ai tanti poveri, molto più di noi, che venivano a mendicare. Ricordo un’anziana, che proveniva – dicevano – addirittura da Chioggia e veniva a elemosinare del pane. Di soldi certo non ce n’erano. Mia madre metteva sempre da parte per lei dei pezzi avanzati e la donna li infilava dentro ad un sacco che si caricava poi in spalla.

Una volta uno di questi disgraziati arrivò all'ora di pranzo e mia madre lo invitò a mangiare un piatto di minestra. Lui accettò più che volentieri, si sedette a tavola con noi e la divorò tutta d’un fiato.

Terminate le elementari m’iscrissi a Dolo al primo anno d’Avviamento Agrario, che assieme alle medie era l'unica scuola di quel comune. Voglio ricordare che solo l’anno successivo, con la legge del ’62, sarebbe stata abolita la scuola di Avviamento al lavoro e creata la scuola media unificata, che avrebbe permesso l’accesso a tutte le scuole superiori.

L’iscrizione alle medie, prima di questa riforma, prevedeva invece un esame molto impegnativo che richiedeva una buona preparazione, ottenuta quasi sempre per mezzo di ripetizioni a pagamento, che noi non ci potevamo permettere. Inoltre la scuola media era l’inizio di un percorso scolastico che di solito terminava con il conseguimento di un diploma o di una laurea. Un lungo ciclo di studi assolutamente impensabile per mio padre, proprio per una questione economica. Per i suoi figli non poteva che prefigurarsi un futuro da operaio; magari un bravo operaio, un tecnico specializzato, ma niente di più. Questo oggi potrebbe sembrare inverosimile, ma è un dato di fatto che dei trentaquattro compagni della mia classe elementare, pochi si sono diplomati. Io solo sono arrivato alla laurea, e non ero sicuramente il più abbiente.

L’Avviamento e le successive Professionali avevano proprio l’obiettivo di formare un operaio che avesse un minimo di cultura, in modo che prendesse coscienza dei propri doveri e anche dei propri diritti. Per mio padre la cultura era assolutamente importante, ma questa, una volta terminata la scuola dell'obbligo, doveva essere coltivata e accresciuta per mezzo di buone letture e di buona musica, proprio come aveva fatto lui.

Queste idee forse rappresentavano un suo limite, ma a ben guardare come vanno oggi le cose, non si potrebbe dargli completamente torto. Nel pieno della più grande crisi occupazionale del dopo guerra le aziende cercano operai specializzati e non li trovano. Le famiglie mandano ostinatamente i propri figli al liceo, anche quando non manifestano alcuna attitudine per questo tipo di studi e nessun interesse per le materie che dovranno affrontare. Questi studenti, spesso incapaci, attribuiscano agli insegnanti la causa della loro impreparazione.

Spalleggiati dai genitori, finiscono in pratica per mortificare i professori, visti più o meno come dei rubastipendio, magari per via delle poche ore settimanali di lezione. Alla fine comunque quasi tutti superano l’esame di maturità; per un’eventuale bocciatura gli insegnanti possono addirittura rischiare un ricorso al TAR. Solo ultimamente sembra che si stia cominciando a valutare concretamente le prospettive di lavoro che un determinato corso di studi può offrire per il futuro.

Nel ’50, in occasione della consegna della licenza elementare, la maestra di mio fratello più vecchio chiamò le madri per dare loro un consiglio. Alla mia disse che era un peccato che quel suo figlio non potesse proseguire negli studi. Alla madre di un suo compagno invece disse: «Signora vuole un consiglio? Gli dia tanta polenta in modo che diventi grande». Quelle poche parole bastarono. Quel bambino da adulto si fece effettivamente grande e robusto e diventò un bravo tecnico, guadagnandosi da vivere benissimo, senza che nessuno gli inculcasse a forza e inutilmente la consecutio temporis latina o le equazioni differenziali.

Un’indagine del 2013 dell’ OCSE ci ha piazzato in fondo alla Classifica, ultimi tra i 24 Paesi più sviluppati, per quanto riguarda la comprensione dei testi e al penultimo posto per le competenze in matematica e per la capacità di risolvere problemi in ambienti ricchi di tecnologia come quelli delle società moderne. Ottimo risultato per un Paese che per superare la crisi dovrà inevitabilmente competere con i paesi emergenti, in cui le nuove generazioni sono fortemente motivate e agguerrite.

Tutto questo, con le dovute eccezioni, perché nel nostro Paese dove tutto sembra allo sfascio, ci sono per la verità punte di eccellenza notevoli, nella scuola, nell’università, nella ricerca, nel lavoro. Solo che queste sono appunto eccezioni e non la regola.

Dicevo, quindi, che non si potrebbe dar torto a mio padre vedendo purtroppo come vanno oggi le cose. Ma allora no, non era così: nei primi anni ’60 chi ha avuto la possibilità di frequentare un buon liceo e poi l’Università ed ha studiato con impegno e capacità, ha avuto sicuramente l’opportunità di occupare un posto di prestigio nella società.

L’ho percorsa per un anno quella strada che da casa portava alla scuola d’Avviamento di Dolo. La chiamavano “strada alta”14 D’inverno era esposta ai venti gelidi di tramontana, carichi di pioggia e neve, ed io, riparato come potevo, ma sempre con le braghe corte, l’affrontavo con una piccola bicicletta due volte all’andata e due volte al ritorno poiché allora le lezioni si svolgevano anche nel pomeriggio. Talvolta con l’ombrello proteso in avanti, quasi a voler fendere l’aria, un po' come Don Chisciotte quando a cavallo del suo Ronzinante protendeva la lancia contro i mulini a vento. Prima di arrivare a Dolo c’era una passerella pedonale che attraversava il Brenta. Sollevata di peso la bici bisognava salire e scendere i gradini per poi proseguire il viaggio.

A scuola non avevo alcun problema, ad eccezione delle esercitazioni pratiche: come agrario non valevo certo un granché.

Nel suo libro il mio maestro, come ho anticipato nell’introduzione, parla delle persone che l’hanno ospitato al suo arrivo e di quelle che l’hanno circondato di affetto e gli hanno voluto bene. Non si poteva non voler bene a una persona come lui. Racconta dei buoni rapporti con i suoi colleghi, non tutti simpatici, dell’amicizia con il parroco, don Giovanni. Dà una visione del paese che l’ha adottato quasi deamicisiana (non me ne voglia).

Lui ha amato quella comunità, ne sono scuro e si è speso molto per essa, ma non poteva conoscerla profondamente. La sua breve permanenza nel paese, la sua diversa formazione culturale, ma soprattutto la sua posizione sociale, non gli permisero di coglierne tutti gli aspetti.

Lui era comunque un uomo delle istituzioni; davanti al “signor” maestro allora si andava con il cappello in mano e con il vestito buono e nessuno mai avrebbe osato contraddirlo. I paesani avevano un profondo rispetto per il maestro e per ciò che rappresentava, forse più del parroco, anche se le apparenze potevano far sembrare il contrario.

Solo chi vive per anni all’interno di una comunità e la vive da “dentro”, con le radici che sprofondano in essa, può conoscerla.

Impara a conoscerla non solo attraverso la propria esperienza di vita, ma anche attraverso le esperienze di vita di chi l’ha preceduto e che in quella stessa comunità è vissuto. Solo allora, forse, si possono coglierne gli aspetti più intimi, si può distinguere il bene dal male, riconoscere le persone veramente buone, sincere e oneste e quelle che lo sono solo apparentemente.

Il mio “angolo di visuale” non poteva pertanto non essere diverso da quello del maestro, non solo per la differenza di età, ma soprattutto per la diversa condizione sociale.

Mio padre Antonio era un comunista, uno che allora era considerato quasi al di fuori delle istituzioni. Non era facile per quei tempi e nel “bianco” Veneto essere comunisti e non era facile neanche per un bambino figlio di un comunista.

Io sapevo che lui era una brava persona e intuivo che molte delle sue idee erano giuste, ma quella sorta di disapprovazione sociale era come un tarlo nella mia piccola mente. «Tuo padre vota comunista!» Mi dicevano i miei compagni di classe in occasione delle elezioni. «No, mio padre vota questo» e indicavo prontamente sul fac-simile della scheda elettorale il simbolo del Partito Socialdemocratico. Quel democratico mi sembrava più accettabile. Un po’ mi vergognavo anche della mia famiglia numerosa. I comunisti si sa mettono al mondo i figli non “per far piacere a Dio”, ma per lussuria o per mangiarseli a pranzo o a cena. Mio padre invece amava molto la sua famiglia e per mantenerla ha speso tutta la sua vita lavorando e facendo enormi sacrifici. Non ha mai chiesto nessun tipo di sussidio. Era orgoglioso dei suoi figli, forse esageratamente orgoglioso. A noi insegnò soprattutto l’onestà, quella vera. L’onestà verso gli altri e verso se stessi. “Basta solo questa” diceva “per diventare una brava persona nella vita”. Credo che in paese nessuno, nemmeno quelli che non la pensavano proprio come lui, non gli riconoscesse questa virtù. Come tanti comunisti di quel tempo non conosceva Marx, non aveva letto “Il Capitale”, ma al massimo qualcosa di Gramsci. Non sognava la Rivoluzione di ottobre né l’assalto al Palazzo d’Inverno. Per lui il partito Comunista era visto come l’unico partito che appoggiava gli operai nelle loro lotte per la conquista di un salario equo, ma soprattutto per quei diritti che oggi sono considerati inalienabili e che allora erano negati ai più.

Non c’era in lui nessun atteggiamento pregiudizialmente anticlericale, non ce ne sarebbe stato il motivo. Fu invece la Chiesa che, anziché far proprie tali rivendicazioni, quelle sì sacrosante, assunse posizioni oltranziste. Basta ricordare il Decreto della Congregazione del Sant’Uffizio del 1 luglio 1949, al tempo di papa Pio XII, conosciuto a livello popolare come la scomunica dei comunisti. La Chiesa apparentemente vicina agli operai, appoggiò in realtà la classe sociale rappresentata da imprenditori e grandi proprietari terrieri, che trovò nella Democrazia Cristiana il suo riferimento politico. La vittoria elettorale di questo partito le avrebbe garantito il mantenimento delle sue posizioni di privilegio.

Secondo me, fu attuata in quel periodo una grande mistificazione: venne inculcata nella gente l’idea che la Democrazia Cristiana avesse quasi una valenza trascendente, che fosse cioè il partito in cui Cristo si sarebbe identificato. Tutto questo, attraverso una sottile, quanto capillare propaganda, che forse iniziò con i manifesti della campagna elettorale del ’48, tra cui il più noto “Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no”. Parlo ovviamente della posizione dei vertici della Chiesa, ma il dissenso nella sua base fu quasi assente. Il movimento dei preti operai, sorto in Francia dopo la seconda guerra mondiale, si estese in Italia solo a partire dagli anni sessanta. I pulpiti delle chiese di quei paesi furono anzi dei formidabili megafoni per diffondere acriticamente quelle idee anticomuniste.

Riconosco che trattare argomenti molto complessi come questi in due righe può risultare risibile. Meriterebbero certo degli approfondimenti. Ma non è compito che mi prefiggo in questo libro. Io voglio qui solo riportare la percezione che si avvertiva allora nel paese. Ed è un dato di fatto incontrovertibile che era proprio questo ciò che pensava allora la maggior parte della gente, specialmente quella più anziana. Alla nonna Alba, che sapevamo votare per la Democrazia Cristiana, chiedevamo provocatoriamente: «Nonna per chi voti stavolta?» «Caro, io voto per il Signore, ho sempre votato per Nostro Signore».

Mio padre non volle mai che i suoi figli avessero un comportamento nei confronti della chiesa e dei suoi riti, diverso dagli altri ragazzi. Prima di tutto per non dar dispiacere a sua madre, che avrebbe sofferto nel vedere i nipoti “disertare” la chiesa, poi perché aveva capito la forza aggregante di quell’istituzione. Non ci sarebbe stato alcuno spazio al di fuori, specie per un ragazzo, se non una vera e propria emarginazione.

Ciò nonostante furono attuate delle discriminazioni nei nostri confronti. Durante il servizio di leva di mio fratello più vecchio, il cappellano militare, che lo aveva preso a ben volere, lo chiamò in disparte, dopo che arrivò al comando una busta con l’intestazione della parrocchia di Sambruson, e gli disse: «Guido mi dispiace, non ti possono prendere nel Corso Caporali. Sai, si sono informati e... sì insomma sai com’è... tuo padre è troppo di sinistra». Un’altra volta toccò proprio a me. Fu bandita una gara tra i bambini della quinta elementare, se non ricordo male, appartenenti alle varie Diocesi del Veneto15 per il miglior tema su un argomento religioso. Il premio consisteva in un viaggio a Roma per essere ricevuti dal Papa. Io risultai uno dei vincitori e questo creò un problema. Era disdicevole che il figlio di un comunista fosse ricevuto dal Papa. Il mio premio pertanto venne barattato con un “bravo” e un sacchetto di dolciumi.

I figli di Toni, com’era chiamato da tutti mio padre, continuavano però, per la loro vivace intelligenza, ad essere malgrado tutto i “protagonisti” degli eventi del paese. Chi è che risponde a Messa, senza sbagliare neanche una parola? Sono i figli di Toni. Chi erano quei bambini che recitavano così bene nei teatrini allestiti dalle suore? I figli di Toni. Ci fu poi un evento particolare che coinvolse proprio me. Un figlio di contadini era stato ordinato sacerdote e come regalo gli fu concesso di celebrare la sua prima Messa proprio nel paese di origine. Tutto Sambruson lo avrebbe accolto festante davanti al sagrato della chiesa e un bambino avrebbe dovuto recitare una poesia composta non so da chi, dedicata a lui. Fui scelto io. Tutto il paese si preparò per questo grande evento. La chiesa era addobbata di fiori, il sagrato tutto ripulito, le suore avevano preparato un pranzo nel refettorio dell’asilo per il giovane prete, i suoi famigliari, il parroco, l’arciprete e anche per il sottoscritto. C’era solo un problema: per me ci voleva un vestitino adatto, possibilmente nero, con i pantaloni lunghi. Un capo di abbigliamento che certo non possedevo. Allora mio padre fece il giro di tutto il parentado, finché trovò qualcosa che poteva andare bene. Mia madre, molto brava nel cucito, lo adattò alla mia taglia. Ero pronto quindi per la recita. Mi misero in piedi sopra uno sgabello di legno perché allora non ero certo molto alto, rivolto verso la strada che proveniva da Dolo e da dove sarebbe arrivato in auto il festeggiato.

Tutto intorno avevo una folla emozionata, per prima mia nonna che non stava più in sé. Recitai la poesia con voce stentorea senza sbagliare una sillaba. Ne ricordo ancora le ultime due strofe “Vai or dunque don Paolo all’altare/ la tua prima Messa a celebrare”. Poi scesi dallo sgabello, aiutato da qualcuno, corsi a portare un mazzo di fiori al nuovo sacerdote e secondo copione gli baciai le mani consacrate, mentre le campane suonavano a festa. Mio padre era nascosto da qualche parte perché non voleva farsi vedere, ma voleva accertarsi che facessi una bella figura. Più tardi, durante il pranzo al refettorio, presi la prima piccola sbornia della mia vita.

Allora a Sambruson tutti avevano un soprannome e mio padre era chiamato “scienza” dal nostro vicinato, perché conosceva molte cose ed era sempre ben informato su tutto. Era indubbiamente una persona intelligente, naturalmente se paragonato alla media dei suoi paesani, nonostante i suoi studi non fossero andati oltre la licenza elementare. Ricordo quando il 14 febbraio del ’61 disse a mia madre che il giorno dopo si sarebbe verificata l’eclissi totale di sole. Lei ne parlò con una vicina e questa fu molto stupita che uno come Toni potesse credere a simili superstizioni. All’indomani, quando il sole effettivamente si oscurò e le galline tornarono nel pollaio anzitempo, la vicina si mise a urlare come un’ossessa: «Madonna mia vien sò el cuercio»16.

La sua concezione del mondo non era né tolemaica, né tanto meno copernicana. Per lei semplicemente il mondo era un gran pentolone con sopra un coperchio.

Ovviamente non tutti consideravano Toni una “scienza”. Nei giorni immediatamente successivi allo scoppio della seconda guerra mondiale, una sera lui si trovava nell’osteria di suo fratello e stava convincendo alcuni avventori presenti dell’inutilità di quella guerra.

«Ci porterà solo lutti e miseria».

Il postino del paese, un fascista nostro vicino di casa, sentendo quelle parole, lo apostrofò a voce alta in modo che tutti sentissero: «Solo una testa come la tua non capisce che la guerra l’abbiamo già vinta!». Quella guerra “già vinta” costò a mio padre quasi un anno al fronte, prima su quello jugoslavo e poi su quello francese e una rocambolesca fuga da quest’ultimo, assieme a due compagni, dopo la notizia che il suo contingente era destinato a partire per la Russia. Trovò riparo presso una famiglia di Dronero in provincia di Cuneo che lo tenne nascosto fino all’otto settembre. Mia madre con tre bambini piccoli non sapeva nemmeno dove si trovasse Era comunque un uomo che si faceva rispettare, tanto che in fabbrica era l’unico operaio al quale davano del “lei”. I paesani che condividevano sinceramente le sue idee, pochi per la verità, gli erano veramente amici. Altri erano contrari al suo modo di portare avanti quelle idee. Sì insomma, talvolta bisogna venire a patti con la propria coscienza, essere più tolleranti con gli altri, ma soprattutto con se stessi, bisogna saper adattare il proprio pensiero alla convenienza del momento.

Sinque schei de mona in scarsea ghe fa ben a tutti. Questo modo di dire tipicamente veneto, che significa “fare un po’ il tonto può essere di vantaggio per ognuno”, sintetizza benissimo quel modo di pensare. Per chiarire ancor meglio questo atteggiamento, un po’ farisaico, riporto la risposta che una mia conoscente mi diede parecchi anni fa, allorquando le feci notare gli scandali e le ruberie dell’allora unico partito di governo.

«Capisco, puoi avere anche ragione, ma mia madre mi ha sempre detto “figliola tu vota Democrazia Cristiana e vedrai che ti troverai sempre bene nella vita”. E così è stato».

A quell’epoca in paese la chiesa era l’unica depositaria della morale. Ma sostanzialmente non esisteva in Italia una morale così detta laica. Era solo la Chiesa a stabilire ciò che era bene e ciò che era male. Le censure dei film che venivano proiettati nei due cinema di Dolo erano affisse alle porte della chiesa di Sambruson, come le tesi di Lutero su quelle della cattedrale di Wittenberg. Era “per tutti”, che ne so, un western dove coloni e pellirossa si massacravano senza pietà. Ma veniva censurato quel film che poteva scuotere lo spettatore, non per la sua violenza, ma per i temi trattati che coinvolgevano la sfera della morale e dell’etica.

Allora era considerato “per adulti”, “per adulti con riserva” o proprio “vietato”, a seconda dell’ipotetica influenza negativa che quella pellicola poteva avere sugli ignari spettatori. Era sostanzialmente vietato pensare con la propria testa.

Il ricordo più vivo però che ho di quegli anni è la costante condizione di peccato perenne in cui venivamo a trovarci. Tutto era peccato. Era peccato mangiare “di grasso” al venerdì, leggere giornali considerati licenziosi, come quel rotocalco, campionario di scemenze amorose, che si chiamava “Grand’Hotel”, unico sogno liberatorio per le casalinghe. Era peccato non frequentare con l’assiduità dovuta la chiesa e non accostarsi ai sacramenti, per le donne indossare abiti considerati allora troppo succinti (sic!). Ma soprattutto era peccato tutto ciò che atteneva strettamente alla sfera del sesso. Fin da bambini, i maschi con il grembiulino azzurro e le femminucce con quello rosa erano tenuti accuratamente separati perché come dicevano le suore: tosi co tose, diavolo in meso. Mi viene da sorridere oggi quando vedo bambini e bambine giocare assieme, darsi la mano, scambiarsi effusioni con l’innocente tenerezza della loro età. Alle elementari le classi maschili e femminili erano rigorosamente separate. Ricordo che avevo il cuore che palpitava in gola, quando dovevo portare il registro da firmare in una classe di tutte femmine. Così in chiesa: a destra gli uomini e a sinistra le donne con i loro pargoli. Era peccato andare a ballare al sabato sera al “Mocambo” di Dolo, una povera balera considerata un locale sconveniente, dove i ragazzi davano un po’ di sfogo al loro brio giovanile. Era peccato per noi bambini fare il bagno nudi nell’acqua ancora limpida dei fossi, durante l’opprimente calura estiva, perché era disdicevole mostrare le nostre nudità infantili. Spesso il parroco si nascondeva, aspettava il momento in cui eravamo tutti in acqua, ci portava via magliette, calzoncini e mutande e li portava con sé in chiesa. Eravamo così costretti a tornare a casa nudi, coprendo con le mani le nostre “vergogne”, per beccarci le rampogne dei genitori, costretti a loro volta ad andare a riprendere dal parroco i nostri indumenti e ad ascoltare la sua predica. Era peccato qualsiasi contatto intimo tra un maschio e una femmina, se non all’interno del matrimonio e la donna che aveva partorito non poteva accostarsi subito ai sacramenti perché impura.17

Quest’alone di proibito non faceva altro che ingenerare una sorta di morbosità nei confronti dell’altro sesso. Una volta cresciuto, mia madre mi raccontava le storie boccaccesche dei buoni cristiani che abitavano lungo la nostra via: la moglie di quello con il marito di quell’altra, il genero di quella con la cognata di quell’altro. Ovviamente tutti sapevano, ma tutto era avvolto da un impenetrabile silenzio, rotto solo dentro al confessionale. Chi non ricorda il bel film di Pietro Germi “Signore e signori” ambientato proprio nel Veneto? Questi penitenti ottenevano l’assoluzione con tre Pater Ave e Gloria e tornavano poi tranquillamente a fornicare. Un notabile del ‘600 inviato in Italia dall’allora governo inglese per capire come mai nel nostro Paese ci fosse tanta corruzione, una volta tornato espresse il suo giudizio.

La causa principale era la facile assoluzione grazie alla quale la religione cattolica rimuoveva qualsiasi peccato. Il peccatore tornava così al suo cattivo comportamento, sapendo che c’era sempre un prete che prima o poi l’avrebbe rimesso in pace con Dio.

Mia madre era forse meno intelligente di mio padre, ma dotata di quella saggezza che solo le madri possiedono. Rimasta vedova, ancora relativamente giovane, con tanti problemi soprattutto  economici, prese le redini della famiglia e la guidò con equilibrio e fermezza. Seppe più tardi adottare un giusto comportamento e misurare le parole in modo da non creare mai alcuno screzio tra tanti figli, figlie, generi, nuore e nipoti. Perché il problema più importante per lei era l’unità della famiglia. Ne divenne quindi il perno e tutti ruotarono intorno alla sua figura, fino alla sua morte, avvenuta in tarda età.

Le fatiche che fece allora a Sambruson sono inenarrabili. La mattina iniziava ad accendere la cucina economica con qualche fascina inumidita dalla notte. D’inverno spesso era costretta a raschiare, con la lama di un grosso coltello da cucina, il ghiaccio di condensa che si era formato sotto la porta d’ingresso impedendone l’apertura. Doveva poi preparare qualcosa per il pranzo da portare via per mio padre e per qualche mio fratello maggiore che si recavano a Porto Marghera. Doveva mandare i rimanenti figli a scuola, sfamare tante bocche a pranzo e a cena, sempre con le poche risorse disponibili. E poi montagne di panni da lavare e stirare: tute da lavoro, grembiulini, camicie, pantaloni e tutto il resto. Aiutata talvolta dalle mie sorelle, in particolare dalla più grande perché, come ho già detto, dovevano imparare presto l’unico mestiere a loro riservato, quello di casalinga. I maschi non aiutavano quasi mai; era usanza infatti che l’uomo non si dovesse impicciare dei lavori domestici. Provo ancora adesso qualche rimorso, quando aiuto mia moglie nelle faccende in una casa piena di elettrodomestici; allora nessuno di noi sollevava un piatto per aiutare la mamma. Il suo polso destro era in continua rotazione: al mattino per sbattere le uova per “tirare su” i bimbi e la sera per girare e rigirare la polenta nel paiolo. Dopo cena, sfinita, si metteva accanto alla cucina economica scaldata dalle ultime braci, s’infilava il ditale e cominciava a cucire di tutto. Rivoltava i colli delle camicie, allungava i pantaloni dei ragazzi che crescevano, ma soprattutto rammendava ogni cosa: calze, maglie perfino gli scalfarotti18. «Maria, stanotte sono sceso a spander acqua (a far pipì)» le disse una mattina un anziano che abitava di fronte «saranno state le due e la luce della sua cucina era ancora accesa. Ma quanto lavora poveretta!». Credo che tutti, ma proprio tutti in paese la ritenessero una brava donna per come allevava i figli, li mandava in chiesa e a scuola. Ricordo che tutte le mattine tendeva il mio nastro azzurro con entrambi le mani e poi lo strisciava sul tubo della stufa per stirarlo in modo che facesse la sua bella figura sotto il collettino bianco.

Però... però non era proprio un fulgido esempio di donna cattolica. La famiglia va bene, e Dio? Non faceva parte di nessuna associazione di donne cattoliche, come quella delle “Figlie di Maria”, molto attiva in paese, non si recava in chiesa con la dovuta frequenza (quando mai aveva un attimo di tempo, poveretta?). Non si confessava con regolarità. «L’unico peccato che ho commesso è stato quello di aver messo al mondo tanti figli» diceva ogni tanto, presa dallo sconforto.

Non era, insomma, come le bidelle della mia scuola: due beghine che erano sempre in chiesa, preoccupate com’erano che gli alunni del maestro Di Rosa non leggessero il “Monello”. Non ho mai capito perché quel benedetto giornalino che ci passavamo di mano in mano, senza sapere chi fosse stato l’acquirente originario, fosse stato messo all’indice. Oggi potrebbe tranquillamente leggerlo al suo bimbo la mamma mentre gli dà la pappa.

«Ma Signor, – così veniva chiamato il parroco, – sul “Monello” ci sono Ciccio Tom, Piccola Eva e Cuoricino e fanno tante buone azioni» dicevo io dentro al confessionale. «Taci» sentivo quasi urlare al di là della grata, «se tu vedessi un bel piatto di minestra e sapessi che è avvelenata la mangeresti?» «No, no» rispondevo io. «E allora non leggerlo più quel giornale altrimenti la prossima volta non ti darò l’assoluzione! E recita un Atto di Dolore per chiedere perdono al Signore».

Non so cosa ne pensasse Nostro Signore del “Monello”, ma la mia coscienza mi diceva che potevo continuare tranquillamente a leggerlo. Questa era la concezione della religione allora a Sambruson. I secoli bui della Santa Inquisizione erano lontani, ma l’oscurantismo aleggiava ancora in quei paesi. Eccome!

Oggi la gente plaude al nuovo stile di papa Francesco perché semplicemente vede nel suo modo di agire, pensare, parlare, quello proprio di un pastore della Chiesa cattolica. Fin da quando ero un piccolo parrocchiano, non ho mai creduto a un Dio al quale gli uomini devono rivolgersi con il capo chino e con un perenne senso di colpa (mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa). La Chiesa di Cristo non dovrebbe essere amore, misericordia? «Chi sono io per giudicare?» Dice oggi il nuovo papa.

Ma quante sono state le persone giudicate e condannate dalla Chiesa, nel corso della sua storia, per colpe che oggi non sono più considerate tali? Soltanto una volta, secondo i Vangeli, Cristo espresse il suo durissimo giudizio nei confronti degli uomini, quando si infuriò contro i mercanti del Tempio. E Dante, oltre mille anni dopo, nel Canto XIX dell'Inferno condannò il potere temporale della Chiesa: Ahi Costantin di quanto mal fu matre,/ non la tua conversion, ma quella dote/ che da te prese il primo ricco patre. Questi sono i grandi peccati commessi in spregio al richiamo di povertà da parte di Cristo. Un altro grande peccato dell’umanità è stato la sopraffazione del più debole, del più indifeso, per “volontà di potenza”. Queste sono le vere colpe contro le quali avrebbe dovuto rivolgere i suoi anatemi dal pulpito della chiesa, caro don Giovanni, certamente non contro un bambino che leggeva il “Monello” o contro un uomo che si batteva per ottenere delle condizioni di lavoro più umane!

NOTE

[1] Brace ancora attiva sotto la cenere.

[2] Se fa freddo al 13 di giugno, farà molto caldo ad agosto.

[3] Se piove il giorno dell’Ascensione pioverà per altri quaranta giorni.

[4] A Natale le giornate cominciano ad allungarsi di poco, appena un piede di gallo, e a Pasquetta – così veniva chiamata l'Epifania, preannuncio della Pasqua – quasi un’ora.

[5] Se piove la domenica della Palme non pioverà a Pasqua e viceversa.

[6] Venivano chiamati così i geloni.

[7] Arachidi.

[8] Castagne secche.

[9] Il casello 12, molto noto da quelle parti, era la fermata del tram a Dolo per Porto Marghera.

[10] Dammi tanto pane perché siamo in tanti ragazzi.

[11] Quel tipo di scuole furono inaugurate nel 1949 con la denominazione Gruppo Scuole C.E.M.M. “Corpi Equipaggi Militari Marittimi”. Il 1 ottobre 1952 furono concentrati in unica sede più scuole di diverse categorie. Il Gruppo Scuola C.E.M.M. della Maddalena fu ridefinito Scuola Meccanici e Scuola Motoristi Navali.

[12] Era una nota marca, forse la più conosciuta allora in Italia.

[13] Stracci, ossi, ferro vecchio.

[14] Era l’antico argine del Brenta.

[15] Il comune di Dolo appartiene alla Diocesi di Padova.

[16] Viene giù il coperchio.

[17] Secondo l'usanza ebraica, una donna era considerata impura del

sangue mestruale per un periodo di 40 giorni dopo il parto di un

maschio e doveva andare al Tempio per purificarsi. La festa della

candelora del 2 febbraio è anche detta della Purificazione di Maria e

cade appunto 40 giorni dopo il 25 dicembre, giorno della nascita di

Gesù.

[18] Soprascarpe di lana, chiuse sul davanti da una cerniera, che

finirono per essere usate come vere e proprie scarpe.

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Anni difficili

Nella primavera del ’61 ci trasferimmo a Mestre. Mio padre si era reso conto da qualche tempo che quel paese non poteva offrire alcuna opportunità per i suoi figli che stavano crescendo. Su sua richiesta e dopo tanto peregrinare gli fu assegnato un alloggio delle case popolari in un quartiere di Mestre.

Prese quella decisione senza esitazione, seppur a malincuore: bene o male quello era il paese dov’era nato e cresciuto, lì aveva vissuto per cinquant’anni e lì lasciava sua madre, i suoi fratelli e qualche sincero amico. Non è facile adattarsi a una nuova realtà a quell’età. Non lo fu neanche per me. Ogni persona costretta a lasciare la propria terra di origine, anche se ha vissuto anni difficili, la lascia sempre con rimpianto: “Addio monti sorgenti dall’acque...”.

Anch’io, al momento della partenza, pronunciai nella mia mente di ragazzo il mio semplice addio. Addio alle corse folli d’estate tra i campi gialli di frumento. Addio al volo delle lucciole sotto un cielo fitto di stelle. Addio al dolce canto di mia madre china a lavare i panni sulla tinozza (con la lavatrice non l’ho più sentita cantare) e alle lenzuola bianche di cotone grezzo svolazzanti ad asciugare al sole e profumate d’aria pulita. Addio ai petali di rosa sparsi dalle bambine nella processione del Corpus Domini e al suono delle racoète1, in quella del Venerdì Santo. Addio alle nenie cantate nelle fredde notti di Avvento lungo le strade buie, col Presepe posto dentro ad una scatola di scarpe e ai cori delle contadine durante la trebbiatura di luglio. Addio agli stormi primaverili di rondini e alle raganelle verdi posate sui tronchi in riva ai fossi d’acqua limpida.

Addio alle cose buone e semplici di un piccolo paese di campagna.

Ripenso a quella sera, quando mio padre radunò la famiglia e, com'era solito fare, senza tante cerimonie, ci disse che d‘ora in avanti le nostre abitudini sarebbero dovute cambiare. «Andiamo a vivere in un appartamento, avremo gente sopra e sotto, non facciamoci riconoscere subito per carità!»

Mai discorso fu più fuori luogo. Finimmo in una canea indescrivibile. Le famiglie, tutte numerose, poiché il numero dei figli assicurava un buon punteggio ai fini dell’assegnazione dell’alloggio popolare, provenivano per la maggior parte da Venezia e molte anche dalle isole dell’Estuario, specie Burano e Pellestrina. Erano per l'appunto di Pellestrina i nostri vicini di casa, quelli a cui, secondo mio padre, non avremmo dovuto arrecare disturbo. La loro maleducazione e la totale mancanza di rispetto per qualsiasi regola di convivenza civile era tale che al confronto l’invasione degli Unni fu una scampagnata di educande. E la loro ignoranza talmente disarmante da far impallidire il più rozzo contadino di Sambruson. Vale per tutti questo piccolo aneddoto: un degno rappresentante di quella ciurma fece apporre la sua targhetta sulla cassetta delle lettere, ma anziché mettere l’iniziale del nome seguita da punto, lo fece con il cognome: Busetto G., per Busetto Gino, diventò Gino B. Il postino ci mise un po’ per capire l’arcano e le cambiali, peraltro l’unica corrispondenza, nel frattempo andarono tutte in protesto.

Spesso in quelle persone l’ignoranza era accompagnata da protervia: noi per loro eravamo i campagnoli, termine usato in senso dispregiativo. Per i veneziani infatti, oltrepassare il ponte della Libertà significava andare in campagna, che nel loro immaginario rappresentava non un ambiente agreste, ma un piattume rispetto alla loro splendida città. Non avevano ancora capito, gli ingenui, che l'espressione “andare in campagna”, usata dai nobili del '700, non si addiceva più a quegli anni, e che oltre il ponte della Libertà non c’era più la campagna, ma Porto Marghera.

La rabbia con cui qui mi esprimo è la rabbia coltivata in quell’ambiente, a seguito dei continui soprusi e delle continue angherie che io e la mia famiglia fummo costretti a subire da quel vicinato.

Il grande complesso residenziale in cui ci trasferimmo, chiamato Villaggio San Marco, non godeva di buona fama a causa dei suoi residenti. La povertà non è una colpa, lo diventa quando, anziché essere vissuta con dignità, viene ostentata senza ritegno. Un paese povero di montagna con poche risorse è comunque decoroso. Un quartiere popolare di una grande città dà spesso l’idea del degrado. E degradanti erano quei litigi quotidiani tra vicine, per i più futili motivi, che non avevano assolutamente nulla di goldoniano: nelle “Baruffe Chiozzotte” i personaggi sono mossi da sinceri affetti dell’anima. Quelle donne che sbraitavano dalle finestre erano solo sguaiate e basta.

Peccato, perché a quel tempo quel complesso rappresentava un modello di edilizia popolare2. Era formato da tanti piccoli quartieri collegati tra di loro per mezzo di stradine pedonali o ciclabili. A loro volta i quartieri erano composti da tante piazzette contornate da palazzine di cinque piani al massimo, ma i piani erano sfalsati tra di loro in modo tale che l’altezza non superasse i dieci metri. Ogni palazzina aveva il suo spazio di verde pubblico e tanti minuscoli appezzamenti di terreno per i condomini. Si trattava, insomma, di un ambiente molto diverso dai numerosi quartieri che stavano spuntando come funghi attorno alla periferia di Mestre: casermoni anonimi, in cui erano stipate centinaia di

famiglie. Non posso dire che fossero cattivi i miei coetanei del quartiere dove abitavo, anche se in loro compagnia diventavo oggetto di scherno. Per loro io rimanevo il campagnolo di Sambruson, un nome che solo a pronunciarlo li faceva ridere a crepapelle. I miei interessi però erano completamente diversi dai loro. Molti avevano già abbandonato la scuola. Ricordo che fino all’ottobre del ’63 la scuola dell’obbligo terminava con le elementari. Alcuni, provenienti da Burano, lavoravano già prima di arrivare a Mestre: facevano gli aiutanti nelle fornaci di Murano, dove si producevano gli oggetti di vetro tipici di quell’isola. Tutto sommato non erano pagati male, anche se il lavoro era massacrante.

La loro occupazione preferita durante il tempo libero era quella di pettinarsi e vestirsi come i Beatles. Ma questa imitazione esasperata sfiorava spesso il ridicolo. L’obiettivo del sabato sera era quello di rimorchiare qualche ragazzina dei quartieri vicini, con l’unico scopo di raccontare agli altri, il giorno dopo, se questa aveva “ceduto” o meno. Alla domenica, specialmente d’inverno, passavano l’intero pomeriggio nei numerosi bar della zona davanti al flipper. Poi stanchi, si contendevano con gli anziani il mazzo di carte per giocare a scopa o a briscola.

Qualche volta decidevano di andare al cinema, ma il film doveva essere d’infimo livello. Andavo quindi da solo a vedere i film di quegli anni che hanno fatto la storia del cinema. Questi “amici” non uscivano mai dal nostro quartiere, se non per recarsi al lavoro; quello era il loro regno. Non ricordo di aver mai fatto due passi per il centro di Mestre o a Venezia assieme a loro. D’altra parte io non potevo “ambire” a compagnie migliori: ero figlio di un operaio, abitavo in un quartiere popolare e un po’ malfamato, frequentavo scuole di serie B. Le ragazzine del posto spesso mi respingevano: ero un biondino con la pelle chiara, portavo i primi occhiali da miope, nel vestire non rincorrevo certo la moda. Insomma non ero esattamente il “fico” che loro sognavano. Senza dubbio quelli sono stati gli anni peggiori della mia vita.

Spesso passavo intere domeniche da solo in casa. Iniziai allora a leggere le poesie di Leopardi e paragonavo la sua infinita tristezza alla mia.

Mestre fino all’inizio del '900 aveva conservato un suo aspetto gradevole: era attraversata dal Marzenego sulle cui rive pendevano i salici piangenti. Molti ponti collegavano le due sponde di questo piccolo fiume che oggi scorre per buona parte interrato. C’erano l’approdo delle barche che provenivano da Venezia, la pescheria e alcune belle torri medievali. Dopo gli anni cinquanta fu cementificata senza pietà, senza uno straccio di Piano Regolatore. Nessuno amava questa città, nessuno la sentiva propria: pochi i nativi, quasi tutti immigrati dalle campagne, ma soprattutto veneziani i quali erano stati costretti ad abbandonare la loro città a causa delle abitazioni umide, buie e malsane. Avevano vissuto il trasferimento a Mestre come una sorta di condanna. Come il pensiero degli ebrei in Babilonia era rivolto alla loro patria “bella e perduta”, così coloro che erano nati nella città dei Dogi e si trovavano a vivere forzatamente in terraferma, avevano lasciato il loro cuore a Venezia. Per la prima volta erano costretti a convivere con il traffico automobilistico, i semafori, le strisce pedonali; un adattamento difficile, specialmente per le persone anziane, alcune delle quali non avevano mai oltrepassato il ponte.

Cresceva così una città senz’anima, annoverata tra le più brutte d’Europa. La città più popolata d’Italia che non era Comune. Il centro amministrativo, infatti, rimaneva a Venezia e gli amministratori locali avevano tanti problemi da risolvere nella città lagunare che non avevano tempo per occuparsi di Mestre. Fu indetto più volte un referendum per staccare le due città, ma la maggioranza votò sempre contro. Non era secondario l’aspetto psicologico: i mestrini veneziani temevano di finire mestrini e basta, mentre volevano continuare a sentirsi veneziani.

Dagli anni novanta per fortuna le cose sono cambiate. La generazione di coloro che erano nati a Mestre, com’era naturale, si  sentiva di appartenere a questa città e basta. Impose di conseguenza alle amministrazioni veneziane un radicale cambiamento e Mestre finì di essere il brutto anatroccolo.

Ultimai quindi a Mestre gli ultimi due anni di Avviamento.

Adesso mi trovavo in una città industriale, quindi l’Istituto d’Avviamento era industriale e non più agrario. La successiva iscrizione all’Istituto Professionale fu quasi automatica. Le due scuole facevano parte di un unico complesso edilizio, quasi a voler stabilire una logica continuità degli studi. La specializzazione me la suggerì mio padre: frigorista. La diffusione capillare dei frigoriferi domestici, i nuovi banconi frigoriferi di bar e gelaterie e gli impianti industriali di raffreddamento avrebbero assicurato buone opportunità di lavoro.

Erano gli anni del pieno boom economico, aprivano negozi a ogni angolo di strada, soprattutto di arredamento per la casa e di elettrodomestici. Le migliaia di famiglie che venivano ad abitare in quei quartieri avevano bisogno un po’ di tutto: di armadi, letti, cucine nuove, frigoriferi e televisori, i più fortunati anche della lavatrice e di un’infinità di altri oggetti e i commercianti in quel periodo facevano affari d’oro. Si comprava quasi tutto a rate. Gli operai spesso s’indebitavano, ma il lavoro non mancava e se non bastava si ricorreva agli straordinari o al secondo lavoro. Anche mio padre fu costretto ad acquistare subito il frigorifero (non si poteva certo utilizzare il moscheto). Arrivò quindi la televisione, soprattutto per cercare di limitare le uscite serali dei miei fratelli che sgattaiolavano fuori di casa per poterla vedere nei bar di periferia e addirittura il telefono, a quel tempo in duplex.

A proposito dei miei fratelli che sgattaiolavano, non posso non ricordare le mie povere sorelle che, “schiacciate” da tanti maschi in famiglia, faticarono non poco per sottrarsi piano piano al ruolo di aiutanti di mia madre nei lavori di casa, che a loro giustamente stava stretto. Specialmente la più grande, una volta adolescente, dovette scontrarsi più volte con mio padre nel tentativo di cercare una sua autonomia. Anche lui, come tanti uomini di allora un po’autoritari e legati al passato, senza rendersene conto, non voleva e non sapeva adeguarsi ad un mondo che stava velocemente cambiando.

Come dicevo, i soldi per pagare tutto non bastavano mai e di conseguenza anche mio padre s’ingegnò a fare qualche lavoretto di falegnameria alla sera, al sabato e anche la domenica.

Compravamo a rate persino i capi d’abbigliamento. Uno scaltro negoziante di Mestre ideò il sistema dei bollini: un suo incaricato si recava periodicamente presso le famiglie, quasi tutte di operai, che avevano aderito a questo sistema e le donne, mia madre era una di queste, acquistavano un certo numero di bollini, secondo le possibilità economiche del momento. I bollini, di colore rosso, venivano quindi incollati su un libretto. Raggiunto un certo numero, le madri di famiglia si recavano nel negozio per vedere quanto potevano acquistare per i figli, per il marito o per loro stesse: tanti bollini, altrettanta merce. E se i bollini erano insufficienti? Niente paura: il debito residuo si sarebbe saldato con i bollini acquistati in seguito. Era in un certo senso un vantaggio reciproco: la gente poteva acquistare tranquillamente capi d’abbigliamento a rate ed il negoziante poteva contare su clienti sicuri. La qualità era quel che era, ma i prezzi erano abbastanza contenuti.

Provavo sempre un certo imbarazzo quando varcavo l’uscio di quel negozio con mia madre: sembrava un po’ come andare a chiedere l’elemosina. L’ho rivisto dopo circa vent’anni quel negoziante. Eravamo a una festa di un’amica piuttosto benestante.

Lui era un conoscente di sua madre. Mi guardò, incrociò il mio sguardo e mi chiese: «Ma... lei non veniva nel mio negozio tanti anni fa?» «Guardi che probabilmente si sbaglia con un’altra persona» risposi io un po’ imbarazzato. Credo che la mia risposta non l’abbia convinto, ma forse capì e lasciò perdere.

Negli anni del boom lo stile di vita degli italiani indubbiamente cambiò rapidamente: aprivano ristoranti e le prime pizzerie, negozi di articoli sportivi, concessionarie d’auto di tutte le marche e non solo FIAT, e poi cinema e teatri. Tutto questo nuovo benessere derivò soprattutto dalla svolta industriale impressa con forza al Paese. Le fabbriche spuntavano dappertutto e Porto Marghera divenne uno dei poli industriali più importanti d’Italia.

Certe mattine mia madre non riusciva a preparare la “borsa” per mio padre. La “borsa”, che affliggeva le mogli degli operai di allora, non era quella che affligge oggi gli investitori di tutto il mondo. Si trattava di una cosa molto più semplice: la donna doveva mettere insieme qualcosa da dare al marito per il pranzo.

Spesso erano gli avanzi della cena, qualche volta una pietanza cucinata in fretta all’alba. Il cibo era poi riposto in due pentolini di alluminio, il più grande per la minestra ed il più piccolo per il secondo e il contorno. Questi venivano poi infilati in una specie di cartella in finta pelle, dalla quale spuntava immancabilmente il collo della bottiglia di vino turata dal tappo di sughero: la “borsa” appunto, che infine veniva agganciata alla canna della bicicletta. Come scaldare poi i pentolini al momento del pranzo era affidato alla fantasia di ciascuno. C’era chi li metteva accanto ad un macchinario che sviluppava calore, chi ricorreva alla fiamma ossidrica; i più disgraziati, i manovali d’impresa, bruciavano il cartone dei sacchi di cemento. Quando mia madre non faceva in tempo a preparare qualcosa per mio padre, toccava spesso a me, dopo la scuola, portargli il pranzo. Era un compito che assolvevo sempre volentieri.

Inforcavo la bicicletta, oltrepassavo il cavalcavia e arrivavo a Porto Marghera. Ogni volta che mettevo piede in quella zona, rimanevo letteralmente elettrizzato. Non sapevo da che parte guardare: la selva di tubazioni delle industrie chimiche, le ciminiere altissime che emettevano colonne di fumo nero, le lunghe fiammate dovute alla combustione dei gas di scarico e le immense torri di raffreddamento dalle quali uscivano gigantesche nuvole di vapore. C’erano fabbriche dappertutto e tutto era un palpitare di vita e di attività. Le sirene scandivano il turno degli operai e questi entravano ed uscivano a centinaia con la bicicletta e il motorino.

Certo, l'odore dell’aria era acre e cambiava a ogni curva, talvolta dolciastro, talvolta pungente, e le ruote della mia bicicletta lasciavano i solchi sulle stradine coperte da una sottilissima polvere gialla. Certo, non erano i campi e le aie di Sambruson, ma quello era un piccolo prezzo da pagare per il benessere, per il nuovo stile di vita che aveva condizionato anche la mia famiglia.

L’inquinamento non era ancora un problema socialmente rilevante. Abbiamo imparato purtroppo più tardi quali e quanti danni quelle fabbriche hanno causato al territorio circostante, a due passi dalla città forse più fragile del mondo. Allora gli scarichi non erano assolutamente controllati, mancavano severe norme di legge al riguardo. Nessuna di quelle fabbriche in pratica adottava un efficace sistema filtrante. Tutto finiva nella Laguna, compresa quella polvere gialla che si scioglieva con le prime piogge d’autunno, e il suo ecosistema, già delicato per natura, fu irrimediabilmente distrutto. I prodotti di scarto delle lavorazioni venivano poi accumulati in vere e proprie dune; ne spuntarono diverse proprio all’inizio della Romea. Si diceva fossero fluorite o pirite3, non certo minerali innocui, ma nessuno ne ha mai verificato effettivamente la vera origine e tossicità.

Oggi corre voce tra i mestrini che il manto verde del grande parco di san Giuliano, costruito pochi anni fa di fronte a Venezia, possa nascondere materiali inquinanti. E se fosse effettivamente così, come si potrebbe bonificare un’area così vasta? Ricordo che dalla mia camera da letto si vedevano benissimo le ciminiere e quando il vento spingeva verso la nostra casa quell’aria mefitica che soprattutto nelle giornate afose d’estate diventava assolutamente irrespirabile, eravamo costretti a chiudere tutte le finestre, prima che ci prendesse la gola e scendesse nei polmoni.

Quante volte ho visto il sole al tramonto calare dietro un manto grigiastro che metteva tristezza! E le persone che lavoravano dentro quell’area? Quelli erano i dannati. Mi sento ancora un brivido lungo la schiena quando sento pronunciare il nome di quelle industrie, quasi tutte chimiche o siderurgiche: la Sice, poi Sicedison e quindi Montedison con la fusione di Montefibre, la Sava, la Vetrocoke, la Caffaro, la Lavorazione Leghe Leggere, La Sirma, la San Marco, l’Italsider, le Malterie Adriatiche del gruppo “Chiari & Forti” dove lavorava mio padre, gli Azotati.

Proprio agli azotati lavorò mio fratello Piero per... un giorno! Appena congedato dalla Marina, infatti, trovò subito  un’occupazione come tecnico specializzato in quella fabbrica.

Tornò a casa alla sera stravolto, si chiuse in camera e si mise a piangere. Mia madre subito lo consolò. «Non piangere, vedrai che troverai qualcosa di meglio». Mio padre invece, non facilmente incline alla commozione, gli disse: «Tu volevi farmi credere che era un inferno là sottocoperta, nella sala macchine delle navi. Così pensavate tu e gli ufficiali che stavano in coperta. L’inferno è invece qui, in queste fabbriche, dalle quali, una volta entrato, difficilmente ti puoi congedare». Mio fratello più vecchio che, proprio agli azotati iniziò la sua attività d’impiegato tuttofare, racconta che periodicamente la produzione veniva fermata per provvedere alla manutenzione dell’impianto. Bisognava ad esempio disincrostare le tubazioni dai sali di ammonio che si erano formati, e per quest’operazione veniva incaricato l’operaio di squadra più “sfigato”. Il poveretto veniva imbragato con alcune corde e senza nessun dispositivo di protezione veniva poi infilato dentro ad uno di questi tubi, con una spazzola di ferro per ripulirlo ed un martello sulla cintola dei pantaloni. I suoi compagni dovevano stare molto attenti ai battiti del martello che provenivano da dentro il tubo. Era il segnale che l’operaio era al limite con la respirazione e doveva essere tirato fuori immediatamente, prima che fosse stordito dai vapori d’ammoniaca.

La situazione non era molto diversa nella fabbrica dove lavorava mio padre, quando venivano scaricate le stive delle navi cariche di luppolo, per la produzione della birra. I manovali incaricati per questo compito sollevavano intere nuvole di polvere che coprivano tutto e finivano per ostruire le vie aeree anche di quelli che come lui si trovavano all’esterno. Ricordo che al suo ritorno a casa, mia madre non finiva mai di cambiargli i fazzoletti. Purtroppo allora non esistevano quelli di carta. Lui continuava a soffiarsi il naso e insieme al muco usciva continuamente polvere nera.

Anche da queste attività che mettevano in pericolo la vita di tanti uomini, derivarono gli enormi profitti degli industriali dell’epoca. Oggi purtroppo la crisi attanaglia un po’ tutti. Si sente parlare di imprenditori che si suicidano, di negozianti che chiudono i battenti, di professionisti costretti a cambiare lavoro. Una situazione veramente drammatica. Ci sono ancora però molti figli o nipoti che si stanno godendo, o peggio stanno sperperando i profitti accumulati dai loro padri o dai loro nonni in quegli anni. Non conosco una situazione analoga per un figlio o nipote di operaio, e questo non va dimenticato.

Che cosa è rimasto oggi di quel polo industriale? Quasi nulla. Ogni tanto mi trovo a passare da quelle parti in auto; si vede solo una landa desolata. Sembra di arrivare in un pianeta lontanissimo completamente deserto. Solo quelle “cattedrali” arrugginite stanno a testimoniare una civiltà scomparsa molti anni prima.

Sono stati scritti interi volumi su ciò che è stata la grande industria chimica italiana di quei tempi. È stata una snaturata commistione tra pubblico e privato. Sarebbe sufficiente leggere gli articoli di Cattaneo4 per capire quella che è stata la “guerra” della chimica, ossia una concorrenza spietata tra i colossi di allora, come Montedison, SIR ed ENI, giocata a colpi di scatole societarie, speculazioni in borsa e altre operazioni deleterie, effettuate quasi esclusivamente con denaro pubblico. Quella commistione è stata in pratica un colossale furto ai danni dello Stato, con la connivenza di gran parte della classe politica dell’epoca.

Non di meno fu l’industria siderurgica. Conosco personalmente un ex industriale della provincia di Brescia, pronto a testimoniare sulla quantità di finanziamenti pubblici a fondo perduto ricevuti dai tondinari della zona all’epoca della presidenza della Confindustria Lucchini, il self made man. Fondi destinati all’innovazione degli impianti e finiti nella vicina Svizzera.

Basta fare i nomi, non solo di Porto Marghera, ma quelli di Bagnoli, di Portovesme, di Taranto per capire quale disastro ambientale ed economico hanno causato quelle industrie.

Nel periodo dell’Avviamento e delle Professionali ho lavorato sempre durante l’estate, senza mai fare un giorno di vacanza, a porte qualche domenica quando la mia sgangherata compagnia decideva di andare al mare. Le ricordo come un incubo quelle giornate. Poiché avevamo quasi tutti le tasche vuote, l’imperativo era sfruttare il sole e il mare al minor costo possibile. “In fin dei conti lì, a Mestre, a due passi da Venezia, il mare l’avete a portata di mano” ho sentito spesso dire questa frase da chi non è pratico della zona. Beh! Non è esattamente così. L’appuntamento era alle cinque e mezza del mattino davanti alla fermata dell’autobus che portava a Venezia. Tutti con la sacca a tracolla che conteneva un asciugamano, il costume e qualche scatoletta per il pranzo, mentre qualcuno portava l’immancabile pallone. Arrivati a Piazzale Roma, anziché prendere il motoscafo diretto, andavamo fino a San Marco a piedi dove, con sole cinquanta lire, la motonave ci portava al Lido. Sbarcati, dovevamo percorrere tutto il Granviale Regina Elisabetta, che porta dalla Laguna al mare. A quel punto c’erano due soluzioni: andare a destra, dove si trovavano le spiagge più belle e più costose, come la così detta zona A, le Quattro Fontane, fino alle più esclusive del Des Bains o dell’Excelsior, oppure girare a sinistra verso le spiagge più popolari fino a quella comunale di San Nicolò. Quella era la nostra meta. C’era da fare un bel mezzo chilometro ancora a piedi, ma a quell’età non ci spaventava di certo. Qualche canzone, un tiro al pallone, uno sguardo alle ragazze che passavano e arrivavamo là prima delle sette. Ad attenderci trovavamo già una bella coda di gente più mattiniera di noi e la cassa non apriva prima delle otto. Il motivo di quell’affollamento era dovuto alla differenza del prezzo per l’ingresso: c’erano la famosa capanna, troppo costosa per le nostre tasche, il camerino, che poteva contenere al massimo quattro persone e infine i semplici spogliatoi, per i quali si pagava solo la custodia degli abiti. Ma questi ultimi erano in numero limitato e non potevamo concederci il lusso di arrivare alla cassa sentendoci dire che erano esauriti. Ci davamo quindi il cambio per fare la coda. All’apertura del cancelletto quella coda che nel frattempo era diventata una vera e propria calca, iniziava a muoversi disordinatamente e tra spintoni e gomitate bisognava guadagnare metro su metro. Poi finalmente la spiaggia e il mare. Era limpido e bello il mare allora, ci divertivamo a stuzzicare i cavallucci marini che nuotavano in superficie o a cercare di prendere le tante stelle marine che s’insabbiavano sul fondo per nascondersi, tra branch di pesciolini che ci nuotavano intorno. Oggi in quelle stesse spiagge, se qualcuno intravede qualche sperduto pesciolino, c’è untale passaparola che allerta tutti i bagnanti come nei serial dello squalo.

Verso le dieci io avevo già l’asciugamano sulle spalle perché, senza alcuna protezione, la mia pelle chiara stava assumendo un colore violaceo. Si sa che i bagni e l’aria del mare mettono appetito e il nostro limite massimo era mezzogiorno. Ci mettevamo quindi all’ombra di un camerino e divoravamo a tempo di record il contenuto di quelle scatolette che non erano mai abbastanza. Solo i vecchi fanno poi la pennichella all’ombra dopo il pranzo. I ragazzi no. Bisognava sfruttare il più possibile tutta la giornata. Aspettando quindi l’ora del bagno pomeridiano, ci si scalmanava giocando al pallone, sulla sabbia o sulla battigia. Alle cinque dovevamo ripartire e qui cominciava il vero e proprio dramma. Al solo indossare la maglietta e i calzoncini era come ricevere vere e proprie scudisciate sulla pelle. Poi iniziava il viaggio di ritorno. Se al mattino presto l’aria era frizzante e gli autobus e la motonave erano semivuoti, molto diversa era la situazione a quell’ora. Il caldo e l’afa erano opprimenti, e i mezzi di trasporto erano presi letteralmente d’assalto. Bisognava fare attenzione al minimo contatto con i compagni di viaggio, impresa quasi impossibile, perché il rossore si stava trasformando in un’ustione di primo grado. Sbarcati dalla motonave, il tratto da San Marco a Piazzale Roma lo percorrevamo in fila indiana in silenzio e completamente disidratati, come i carovanieri del Sahara, con un unico pensiero: arrivare al più presto a casa, vista a quel punto come un miraggio. Tutte le volte che arrivavo in quelle condizioni, mia madre si spaventava, ma aveva pronto un suo rimedio: spalmare delicatamente sulla pelle la chiara d’uovo. Così impiastricciato, mi ritiravo nella mia caldissima camera e mi sdraiavo stremato su un letto di tormenti, agognando un sonno che avrebbe posto fine a quella giornata al mare.

A parte questi “stacchi” domenicali, come dicevo, ho sempre lavorato durante l’estate. Ho fatto il garzone in una cartolibreria, dove il mio compito era quello di consegnare i giornali a domicilio. Ho lavorato nella reception del campeggio di san Giuliano, che si trovava dove ora sorge l’omonimo parco. Registravo i passaporti dei turisti per la Questura. Mi piaceva moltissimo quel lavoro. Parlare, come potevo, con persone di altri Paesi mi entusiasmava. Guardando i documenti venivo a sapere da che città provenivano e chiedevo loro mille informazioni. Poiché quel campeggio non era per la verità molto attrezzato, mi rendevo disponibile per le varie richieste dei suoi ospiti. Volevo, per quanto mi era possibile, che avessero del nostro Paese una buona impressione. Verso l’ora di cena giravo tra le tende e le roulotte e auguravo buon appetito nella loro lingua, così come mi avevano insegnato. Mi ritornano in mente tanti aneddoti: una sera fui invitato a ballare e a cantare da un gruppo di ragazze provenienti da Saint-Nazaire, un paese della Loira Atlantica, un’altra volta un finlandese mi chiese se era possibile arrivare in piazza San Marco direttamente in auto! Ricordo poi quando dissi sorridendo a un israeliano che il suo nome riportato sul passaporto era impronunciabile. “E perché Lollobrigida non è forse difficile?” Rispose, pronunciando quel nome con molta difficoltà.

Ma l’attività che mi ha impegnato per più tempo è stata quella di garzone in una ferramenta vicino a casa. Era un negozio che lavorava molto per soddisfare tutte le esigenze delle migliaia di abitanti che vivevano nella zona: attrezzi da lavoro, chiodi, ganci e viti, rubinetteria e materiale per l’idraulica, pitture e pennelli di tutti i tipi, casalinghi di ogni genere, binari per le tende, rulli, pulegge e fettucce per tapparelle, vetro su misura per porte e finestre, e altri articoli. Il mio compito, oltre a servire i clienti, era quello di consegnare le bombole nelle abitazioni non raggiunte ancora dalla rete del gas, che erano la maggioranza. Ogni squillo di telefono era una bombola da consegnare e a me ogni volta venivano tutti gli accidenti. Una bombola di gas pesa poco più di quindici chili, ma ce ne sono anche di venticinque e portare una bombola così in spalla fino al quarto o al quinto piano non è uno scherzo. A volte riuscivo a raggranellare qualche mancia e questo era l’unico lato positivo. La mia paga settimanale era di millecinquecento lire e ricordo che ero orgoglioso, quando al sabato sera consegnavo a mia madre quei soldi, tenendo per me solo le mance. Talvolta, quando il negozio era pieno di gente, per non farsi sentire, il padrone sottolineava due volte l’indirizzo scritto su un foglio di carta. Il significato era “se quella non paga, la bombola devi riportarla indietro”. Questo era sempre per me motivo d’imbarazzo. Smontavo lentamente la bombola vuota, cambiavo la guarnizione e montavo, sempre lentamente quella piena, guardando con la coda degli occhi i movimenti della padrona di casa. “È fatta, va a prendere il portafoglio. No, no ha le mani vuote”. «Senti dì al tuo padrone che poi passo io a pagare». «Mi dispiace signora... ma ho l’ordine preciso di ripor...» «E allora portatela via quella bombola e va in mona ti e anca el to paron» mi urlava in faccia la signora.

“Brutta putt...” imprecavo dentro di me “dopo che ho fatto la fatica di portarla su, me la fai riportare giù piena ‘sta c... di bombola. Altro che mancia!”. Avevo più o meno sedici anni. A volte mia moglie mi racconta la sua vita a quell’età. Lei allora frequentava il liceo classico a Modena. Le festine in casa di amici, le vasche5 in centro, il complessino rock, le minigonne alla moda. Poi le vacanze in Romagna, la spiaggia e il bagno a mezzanotte, le discoteche e i primi amoretti giovanili. Io la ascolto sempre con una velata tristezza. Ripenso alla mia adolescenza perduta.

Non era molto diverso il metodo di insegnamento dell’Avviamento Industriale da quello dell’Istituto Professionale. Questo prevedeva esercitazioni pratiche, che solitamente si tenevano nei laboratori-officina situati al pianoterra e lezioni teoriche che si svolgevano ai piani superiori. A loro volta le esercitazioni pratiche si suddividevano in corsi base per tutte le classi e specialistici per i vari indirizzi. Quelli di tecnica della lavorazione del ferro, tornitura, saldatura, sia elettrica che ossiacetilenica erano i corsi di base. La progettazione ed esecuzione di impianti elettrici e frigoriferi, meccanica d’auto, chimica industriale erano invece materie dei corsi specialistici dei vari indirizzi.

In aula ero uno dei più bravi, anche se non ci voleva poi molto, ma nelle esercitazioni pratiche ero un disastro. In officina, il lavoro che dava titolo per il giudizio finale, consisteva nella limatura di un blocchetto di ferro fino a farlo diventare una piccola incudine. Per quanto limassi con quelle maledette lime a mazzo6, fino a procurarmi la vescica sul palmo della mano sinistra, quel blocco assumeva tutte le forme fuorché quella dell’incudine. La superficie superiore doveva essere inoltre perfettamente piana, ma ad ogni verifica, eseguita con il minio7, le gobbe e gli avvallamenti risultavano peggiori rispetto a quella precedente.

Inevitabili le continue punizioni dell’assistente, un siciliano basso  statura di cui ovviamente non ho un buon ricordo. Era un perito industriale, che ci teneva a essere chiamato rigorosamente professore. Il suo maggior divertimento era picchiarci il palmo delle mani con il seghetto di ferro. Inutile il tentativo di ritrarle, la razione raddoppiava. Un giorno, durante l’intervallo, preso dalla disperazione, scardinai letteralmente un armadio di ferro che conteneva le piccole incudini fatte dagli allievi dell’anno precedente. Ne presi una che aveva bisogno di qualche rifinitura e la feci passare come mia. Rischiai l’espulsione, ma alla fine fui salvo.

Nel laboratorio di torneria avevo solo la capacità di lanciare i trucioli di ferro incandescenti sul collo del compagno che stava lavorando al tornio davanti a me, come facevano quelli che mi stavano dietro. Con la saldatura, se possibile, ero ancora peggio, non riuscivo a fare un cordone che fosse un minimo lineare. Davo la colpa a quella maschera oscurata che sommata alla mia miopia non mi permetteva di vedere assolutamente nulla. Un giorno la gettai via e provai senza. Mi sembrava che il cordone fosse venuto un po’ meglio e lo feci vedere all’assistente. «Cos’è ‘sta merda?» Mi disse brutalmente.

Alla notte provai cosa voleva dire il termine “lampi agli occhi” sentito da mio fratello che di mestiere faceva proprio il saldatore.

Gli occhi gonfi e doloranti bruciavano come se ci fosse della sabbia dentro. Il rimedio, non molto scientifico e poco efficace, era quello di mettervi sopra delle bucce di patata.

Non ero proprio bravo a fare l’operaio e di quelle scuole non ho certo rimpianto, ma lo loro frequenza si dimostrò utile, come accade solitamente con tutte le esperienze della vita. Oggi riesco, con una certa facilità, ad improvvisarmi elettricista o idraulico nelle piccole riparazioni domestiche, nonostante lo scetticismo di mia moglie.

Certo che a ripensare a quello che facevamo allora, mi dico che solo un vero miracolo ha impedito che la nostra incoscienza di ragazzi ci procurasse seri infortuni. Far la gara a chi cambia per primo il mandrino di un tornio in velocità, è un’operazione pericolosissima.

Un giorno mentre eravamo impegnati con la fiamma ossidrica nei nostri banchetti fatti di mattoni refrattari, vidi con la coda dell’occhio il ciuffo troppo ribelle del compagno vicino prendere fuoco.

«Rosso, rosso» gridai a squarciagola, –rosso era il colore del suo pelo, – «stai bruciando!» Un’altra volta un imbecille che si era scoperto genio, incastrò, non so come, nel mandrino di un trapano a colonna una punta leggermente inclinata. La mise poi dentro ad un barattolo di ferro pieno d’olio da motore, fece partire il trapano e mostrò ai compagni la sua invenzione: un miscelatore d’olio a colonna. Non contento però, aumentò il numero di giri del trapano fino al massimo della velocità di volata. In quel momento la punta si “prese” il barattolo, lo fece roteare a folle velocità, poi lo scaraventò via con forza, mentre schizzava olio per tutta l’officina. Per fortuna, nella sua traiettoria incontrò un armadio di ferro e terminò lì la sua corsa. Ma l’incidente più grave accadde nel laboratorio di impianti frigoriferi. Alcuni compagni per punizione vennero rinchiusi dall’assistente dentro una cella frigorifera spenta. Dopo un quarto d’ora udimmo delle urla e sentimmo battere con pugni e calci la porta da dentro. Quei disgraziati inconsapevoli, per protesta avevano rotto una spirale di un termostato che conteneva anidride solforosa, un gas che provoca ustioni agli occhi e irritazione alle vie respiratorie, soprattutto in un ambiente chiuso. «Sono balle, – urlò l’assistente, – non ci casco. Quelli rimangono chiusi fino alla fine della lezione».

Per fortuna un mio compagno accese la luce, guardò dentro attraverso lo spioncino di vetro, si accorse che non si trattava proprio di uno scherzo e aprì la porta. Uno di questi era già svenuto.

Eravamo alla fine dell’ultimo anno, era una bella giornata di maggio, la ricordo ancora. Durante l’intervallo, mentre i miei compagni si accendevano la cicca, io che indossavo una tuta di almeno due taglie più grandi, perché non ne trovavo una della mia misura, con le maniche arrotolate e le mani unte d’olio, stavo aggrappato alla rete di recinzione. Guardavo l’andirivieni dei miei coetanei del vicino liceo classico, vestiti bene, assieme alle compagne, che a me parevano tutte carine. Mi venne un groppo alla gola. Allora giurai dentro di me che la mia vita doveva cambiare. Era giunto il momento di prendere da solo le decisioni, delle quali d’ora in avanti non avrei dovuto rispondere a nessun altro se non a me stesso.

 

NOTE

[1] Aggeggi di legno che, fatti roteare con la mano, emettono un suono

simile al gracidare delle rane.

[2] Faceva parte del Piano INA Casa (1949-1963) voluto dall’allora

ministro Fanfani, erano chiamate infatti anche case Fanfani.

[3] La Fluorite è utilizzata in metallurgia come fondente, ad esempio

nel processo di produzione dell'alluminio. È la materia prima per la

preparazione dell'acido fluoridrico. La Pirite è invece impiegata per la

preparazione dell’anidride solforosa, usata sia come tale sia come

intermedio nella produzione di derivati quali l’acido solforico.

[4] M. A. Cattaneo “Storia dell’(anti) capitalismo italiano”.

[5] Viene chiamato così l’andar su e giù per il corso principale.

[6] Sono chiamate tradizionalmente così perché vengono vendute a

“mazzi” e servono soprattutto per la sgrossatura.

[7] È un sistema usato nelle officine meccaniche per il controllo della

planarità di una superficie.

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Utopia e realtà

Istituto Pitagora. Corsi di recupero serali per geometri e ragionieri. Conseguimento del diploma in tre anni”.Questo è il manifesto che lessi per caso un giorno, terminate le Professionali. “Ecco la mia scuola, –pensai, – del lavoro di geometra non m’importa un fico secco, ma diplomarmi in tre anni quello sì. Di studiare finalmente Dante e Manzoni e non più tecnologia dei materiali, anche questo sì”. Avrei lavorato di giorno, avrei fatto di tutto per pagare la retta. Quella era la mia scuola e da lì sarebbe iniziato il mio nuovo futuro.

In realtà la scuola non esisteva ancora, era l’anno del suo esordio.

Quando andai per iscrivermi mi trovai in un piccolo appartamento di poche stanze. “Qui sono finito in una trappola” pensai. Il mio sogno stava già svanendo sul nascere. Invece in quella piccola scuola fu arruolato un pool d’insegnanti ben preparati e motivati.

Cambiammo sede dopo appena un mese, tante furono le iscrizioni e questa volta la sede era ampia e le aule capienti. La retta era abbastanza contenuta: quindicimila lire mensili. Furono due i fondatori della scuola, ancora due persone a cui devo molto. Teo Kyriazakis, amabilmente ribattezzato Kyria, una buonissima persona di origine greca. Non era certo se avesse conseguito la laurea in Ingegneria ad Atene. Era comunque un bravissimo insegnante di matematica e si prodigava molto per quella scuola. A lui si addiceva sicuramente il detto “Bacco, Tabacco e Venere”, con prevalenza per le ultime due fonti di godimento. Ma una volta sposato le donne che ha amato con maggior passione sono state le sue tre figlie. Non aveva un gran interesse per il denaro; ricordo che aveva sempre in tasca un grosso rotolo di banconote che dispensava a destra e a manca. Di lui conservo ancora il suo messaggio di saluti e auguri inviato via fax dalla Grecia, a mia insaputa, al ristorante dove ci trovammo con gli amici, quasi tutti ex allievi del “Pitagora”, per festeggiare il mio cinquantesimo compleanno. Aveva messo assieme alcune rime dalle quali traspariva una sottile nostalgia.

Caro Renzo

Stasera vorrei essere con voi a festeggiare,

fare molta baldoria, con voi a brindare,

vedere Renzo spegnere il grande candelone,

tappa indispensabile del primo cinquantone.

Piacere immemorabile per me sarebbe stato

stasera essere vicino al festeggiato,

insieme a voi rievocare momenti preferiti,

racconti interminabili mai esauriti.

Ma ciò non è possibile e non può avvenire,

queste righe ti farò soltanto pervenire

che auguri di compleanno un milione e passa

e se ti mando ancor di più, non sono mai “massa”.

Auspico ch’essi portino a te molta fortuna,

e della tua felicità colmin ogni lacuna,

caro ti auguro restar mietendo sempre elogi,

facendo anche in seguito, come fino ad oggi.

Gli auguri del cuor gli mandi ed essi vanno,

quando sono fervidi quanto si vuol lontano,

i mari attraversano, nell’etere volando

ed in un istante giungono l’amor tuo portando,

a chi chilometri lontan sul nostro globo vive,

che è l’allievo con virtù, di chi ‘ste righe scrive.

Perciò desidero che tu sempre felice viva,

la tua vita un attimo, non essere mai priva,

di gioia e di benessere ancora per cent’anni

e mai non conoscere nessuno dei malanni,

che rendono i nostri dì foschi e tenebrosi

invece che essi siano di gioia luminosi.

Teo

Atene, 10.12.1999

Morì poco tempo dopo, quasi in miseria, in un piccolo paese vicino ad Atene. Povero Kyria!

L’altro fondatore, l’ingegner Piero Bertin, era più serio e compassato, ma non meno buono. Non era altrettanto presente al “Pitagora” come il Kyria perché svolgeva altre attività. Io non ero abituato a quel tipo di scuola, tutti noi avevamo frequentato prima le scuole statali. Io in particolare provenivo dalle Professionali, dove spesso “l’impegno” principale era quello di far gazzarra. Nei primi giorni, anzi nelle prime sere, perché le tre ore di lezioni iniziavano alle diciannove e trenta, mi comportavo come prima: la battuta ogni tanto, l’intervento che spesso interrompeva l’insegnante e così via.

«Senti cocco» mi disse una sera quello che stava dietro di me, un 80 uomo adulto già sposato «qui paghiamo non per ascoltare te, pertanto smettila di rompere i coglioni, chiaro?» Fu chiarissimo, imparai immediatamente la lezione. La sera dopo il mio comportamento cambiò radicalmente.

La classe, di cui non ricordo il numero preciso dei componenti, era sicuramente anomala. Ogni tanto arrivava un nuovo iscritto e ogni tanto qualcuno lasciava, forse spaventato dall’impegno.

Eravamo tutti diversi, per età, per condizione sociale, per provenienza scolastica. Qualcuno era già sposato, altri no. Più o meno tutti lavoravano di giorno e i lavori erano i più disparati.

Ricordo il titolare di un’autoscuola di Mira, un operaio che veniva addirittura da San. Donà di Piave e perfino un rappresentante di biliardi. Ognuno aveva una sua storia alle spalle e aveva scelto quella scuola per un motivo diverso: chi per cambiare mestiere, chi per un avanzamento di carriera, chi per prendersi un diploma che prima o poi sarebbe tornato utile.

Spesso durante le lezioni a qualcuno si abbassavano le palpebre.

Eravamo tutti provati dopo le ore di lavoro e non era facile mantenere alta l’attenzione per tre ore di fila, specialmente di sera.

Il programma era molto impegnativo, dovevamo “portare” agli esami la prima e la seconda classe contemporaneamente. Non c’era tempo da perdere. Le lezioni erano sintetiche, visto il poco tempo a disposizione, ma si doveva comunque centrare l’obiettivo di una buona preparazione. Veniva tagliato ciò che era considerato superfluo o ridondante. Non esistevano né registro presenze né interrogazioni. Là dentro c’erano persone mature, ognuno era conscio della propria preparazione, sarebbe stata una perdita di tempo inutile misurarla con un voto. Io me la cavavo bene in tutte le materie, anche quelle per cui non ero tanto portato: il Diritto, l’Estimo, la Scienza della Costruzioni. Il Kyria mi fece amare la matematica. Non ci avrei mai creduto. Mi piacevano la geometria analitica e la trigonometria. Risolvevo gli esercizi con una certa abilità. Ma la mia passione più grande era l’Italiano e in particolare la Letteratura. Avevamo un professore che, quando declamava la Divina Commedia, chiudeva gli occhi ed io con lui. Imparai a memoria, senza che mi fosse richiesto, diversi passi di quel Poema. Lo facevo per puro piacere. Ancora oggi, mentre m’inerpico su sentieri di montagna, ripasso in silenzio quei versi e mi stupisco di come siano rimasti stampati nella mia mente.

Il “Pitagora” non era una scuola parificata e alla fine dell’anno c’era il problema di quale sede scegliere per affrontare gli esami.

Eravamo terrorizzati, sapevamo che all’Istituto per Geometri di Mestre ce l’avevano a morte con i privatisti. I pregiudizi spesso erano più che giustificati. Gli insegnanti, impegnati fin dai primi giorni di luglio con gli scrutini e gli esami per i loro interni, erano costretti a ritornare a scuola, magari per poche lire di diaria, per esaminare i privatisti. Scritti e orali in tutte le materie. Loro, che sapevano quanta fatica avevano fatto per insegnare agli allievi gli  argomenti di un solo anno, adesso se la dovevano vedere con questi alieni che di anni ne portavano addirittura due, in qualche caso anche tre, talvolta sperando in un colpo di fortuna anziché confidare in una seria preparazione. Sarebbe stata una carneficina.

Le mie certezze stavano crollando. Bisognava trovare una sede “buona”. Ogni sera arrivava qualcuno con il nome di una scuola nuova.

«Allora so che vai in una parificata di Bologna?» Dissi una sera a un mio compagno anche se faccio fatica a chiamarlo così perché era molto più vecchio di me, sposato con un figlio. Era un uomo tanto buono quanto simpatico.

«Cosa vuoi, – mi rispose, – tu sai tutto ed io non so niente, dovrei studiare di più a casa. Ma come faccio? Arrivo stanco dal lavoro, mio figlio è già vestito da Zorro e vuol giocare con me. Vuole che io faccia il sergente Garcia. Almeno voi giovani non avete famiglia!»

Poi tirando fuori quel suo sorriso da una bocca gigantesca mi disse: «Se potessi portarti con me, ti metterei sul mio braccio,  come il pappagallo sul trespolo. Ti coprirei però con un cappuccio, perché tu quando parti a parlare non ti ferma più nessuno. Solo davanti ai professori ti toglierei il cappuccio e lascerei che rispondessi tu».

«So che non è molto serio» disse poi abbassando il capo quasi  vergognandosi «ma mi hanno detto che in quella scuola, sì insomma, pagando e ungendo un po’ i professori, questi chiudono un occhio. Io ho bisogno di quel diploma, con quello potrei avere un salto di categoria, sono stanco di fare l’operaio. Se non lo ottengo adesso il diploma, non lo prendo più». Scoppiammo tutti in una fragorosa risata, quando ci disse che per omaggiare gli insegnanti aveva messo nella valigia, oltre ai libri, qualche gondola con le lucine e alcune di quelle orribili sfere di vetro che fanno nevicare sul Canal Grande come fosse la Neva a San Pietroburgo.

Il Kyria si era riproposto di portare con la sua macchina alcuni di noi che avevano scelto una scuola parificata di Como. Anche lì si pagava e il risultato non era certo scontato. A me e a tre miei compagni, Franco, Ivano e Sandro, che non avevamo né i soldi per pagare, né quelli per ungere, consigliò l’Istituto Statale di Pordenone.

«Ho preso delle informazioni, sembra che lì i professori siano di manica larga. Vorrei tanto venire con voi, ma non posso dividermi in due. Fra l’altro voi siete tra i migliori, fatevi onore e buona fortuna ragazzi».

Concordammo con un alberghetto una pensione completa per circa dieci giorni: una camera per quattro e menù fisso a pranzo e a cena. Il prezzo era abbordabile. Quell’albergo si chiamava “Alle Caserme” perché si trovava in mezzo alle tante caserme di militari di stanza a Pordenone. Partimmo quindi per quell’avventura a bordo della 600 usata di Ivano. Lui lavorava come tornitore in una fabbrica di lampadari e aveva agghindato la macchina come se fosse una piccola cattedrale. Dietro i sedili posteriori aveva collocato una specie di ringhiera cromata e agli angoli due  angioletti stilizzati. Aveva applicato alla leva del freno a mano un tubo cromato, finemente lavorato e un altro più grezzo sulla marmitta. L’antenna corta sportiva, finta, perché non c’era l’autoradio. Il cofano posteriore del motore era leggermente aperto e fissato con un pezzo di legno, tanto da farla sembrare un’Abarth. Vuoi mettere un’Abarth 750 con una popolare 600? Facevamo un figurone mica da poco. Durante il viaggio avevamo pianificato un ritmo serrato di studi: dopo gli scritti del mattino, studio tutto il pomeriggio e ancora studio dopo cena, tanto noi eravamo abituati allo studio serale.

Ma lì a Pordenone era tutto diverso; io ero il più giovane, non avevo ancora compiuto i diciott’anni ed il più “vecchio” aveva appena superato i venti. Ci trovavamo per una decina di giorni fuori casa, completamente liberi e in un albergo. Io poi, in un albergo non c’ero mai stato prima. Si poteva scommettere che non avremmo mantenuto totalmente fede a quell’impegno e così fu.

Appena arrivati, puntammo subito gli occhi sulla figlia del proprietario, una bella biondina con un sorriso simpatico, ma anche la cameriera non era male, una brunetta un po’ più piccola, ma con gli occhi vispi.

Il mattino dopo ci svegliò il suono della tromba della caserma più vicina. Ci aspettava la prima prova scritta, il classico compito di Italiano. Al pomeriggio eravamo troppo stanchi per aprire un libro e decidemmo di fare due passi in centro. Alla sera, dopo cena ci sistemammo sulla terrazza dell’albergo con il serio intento di studiare, ma durò poco, perché spuntarono sia la biondina che la moretta e non fu certo per caso. Avremmo iniziato a studiare la sera dopo. La sera dopo però fu la stessa cosa, ma stavolta il padrone si accorse e richiamò all’ordine figlia e cameriera. Tutto finì lì, tranne forse per Sandro che si era proprio invaghito della biondina. Il giorno seguente ci aspettava la terza prova scritta: il compito di matematica. Cominciammo purtroppo a capire da quel compito  che non era larga, ma in realtà strettissima la manica di quei professori. Dovevamo risolvere, fra l’altro, un sistema di equazioni che sembrava semplice all’apparenza, invece era di una difficoltà unica. Lo confermò anche il Kyria quando glielo sottoponemmo al nostro ritorno a Mestre. Più si procedeva con la sostituzione delle  variabili e più quel sistema si faceva lungo e maledettamente complicato. Preso dal panico, forse sbagliai proprio l’ultimo passaggio. Mi ricordo che ne uscì un risultato inverosimile.

Spaventati da quel compito, passammo tutto il pomeriggio a studiare. Alla sera, terminata la cena, decidemmo di sederci al bar, ma solo il tempo di bere una bibita fresca. Dopo qualche minuto arrivò una macchina di quelle che si vedono solo nei film americani, di una lunghezza incredibile. Scese un gigante dalla pelle nera, sarà stato alto più di due metri. Era uno dei tanti militari americani dell’USAF di Aviano. Sedette a un tavolino accanto al nostro e si fece portare, quasi da copione, una bottiglia di whisky. Quando si accorse che non gli staccavamo gli occhi di dosso cominciò a parlare in un italiano forse più incomprensibile del suo inglese. Proveniva dall’Alabama, il mese successivo sarebbe dovuto partire per il Vietnam.

«Io non voglio andare là» diceva, mentre tracannava un bicchierino dietro l’altro. «Io ho paura e non voglio ammazzare nessuno. I am a black. Io sono un nero e i bianchi hanno già fatto tanto male alla mia gente, ed io non voglio fare del male a nessuno. No war, no war!»

Noi continuavamo ad ascoltarlo a bocca aperta senza dire nulla.

Non aveva molti anni più di noi, anche se era il triplo di me come stazza. Ho visto i suoi occhi arrossarsi e mi sembrava impossibile che un omone così potesse piangere. Se ne andò senza pagare, forse aveva un conto aperto con quel bar. Schizzò via con la sua auto per quella stradina come se si trovasse sulle Texas Highways. Lasciò il suo nome su un tovagliolo di carta, si chiamava Marc Sullivan. Anche quella sera non studiammo per niente. Qualche anno fa passando per Washington, durante un viaggio negli Stati Uniti, cercai il suo nome sulla lapide nera del Vietnam Veterans Memorial1. Non lo trovai.

Il mattino dopo, a colazione, cercai di fare la faccia più seria possibile.

«Ragazzi, stasera anche se si presenta qui Brigitte Bardot nuda, io mi chiudo in camera. Anzi mi metto cavalcioni sul davanzale della finestra per non farmi prendere dal sonno e vado avanti a studiare finché crollo. Avete visto gli scritti? Ebbene credo che agli orali sarà ancora peggio; dobbiamo presentare tutte le materie dei due anni. Quelli ci fanno un mazzo così. Io non posso permettermi il lusso di essere bocciato, sarebbe la fine. Voi fate quello che volete».

La sera ci ritirammo dunque tutti in camera, due sul letto, uno sul tavolino ed io cavalcioni della finestra. Studiammo fino alle dieci e un quarto circa. A un certo punto sentimmo delle voci provenire dalla stanza accanto e poi un respirare affannoso, quasi un ansimare.

«Ragazzi nella stanza accanto stanno facendo l’amore».

«Sì stanno facendo l’amore, state zitti. Tu scendi da quella finestra e voi spegnete la luce, potrebbero accorgersi della nostra presenza». Le finestre erano semi aperte, faceva molto caldo, e dalla stanza accanto si vedeva filtrare una debole luce. Appoggiammo le nostre orecchie sul muro per sentire meglio. «Senti come ansima, questa è lei».

«No caro mio questo è lui, non lo senti?»

«Ti sbagli proprio questa è lei. È come se la vedessi. Adesso è tutta nuda sdraiata sul letto e lo sta provocando. Secondo me quella è una mangiauomini».

«Ce ne fosse un po’ anche per noi!»

«Zitto, stai zitto, adesso ansima sempre più forte, è arrivato il momento... beato lui».

Facemmo fatica a prendere sonno quella notte. Al mattino ci  accorgemmo delle nostre orecchie e dei nostri polpastrelli stampati sul muro annerito dal termosifone.

Sentimmo quindi aprire la porta della camera delle orge.

«Dai, apriamo anche noi, andiamo a vedere come sono ridotti dopo una notte così». Uscì una coppia di anziani. Lui era asmatico e si accompagnava col bastone; andavano giù a far colazione.

Arrivò quindi il tempo degli orali. Ci divisero in due gruppi, io nel primo e gli altri tre nel secondo. Iniziai io per primo. Quella mattina arrivai in albergo verso le tredici e trenta. Trovai gli altri tre a pranzo. Cercarono di capire dal mio sguardo com’erano andate le cose. Non li tenni per molto col fiato sospeso.

«Ragazzi, ho paura che sarà una catastrofe. Quella di francese ad esempio è una carogna. Non ti dice nessuna parola in Italiano, fa le domande e vuole le risposte tutte esclusivamente in francese e poi ti chiede di argomentare, sempre in francese, un fatto di cronaca.

Io me la sono cavata, credo, ma so che tanti altri hanno fatto scena muta».

Forse con quelle parole bloccai la loro digestione, ma non potevo dire che la verità.

«E allora dimmi, com’è andata in francese?» Chiesi a Ivano il giorno dopo.

«Come vuoi che sia andata. Mi ha chiesto “Parlez-moi de la guerre au Vietnam”».

«Poteva chiederlo all’americano dell’altra sera. E tu?» Lui mi diede una risposta che assomigliava tanto a una delle sue rare, ma proverbiali battute.

«Io le ho risposto “Je ne sais rien, Je ne lis pas de journaux”.

Fine».

«Beh! Qualcosa hai detto. E lei?». Dissi trattenendo una risata.

«E lei, mi chiedi? Come si dice vaffanculo in francese?». Fu proprio una vera catastrofe. Di venti candidati, diciassette bocciati e tre rimandati: io, Franco e Ivano. Io solo in matematica a causa di quel compito veramente impossibile. Sandro non ce la  fece e abbandonò tutto. Quell’esperienza consolidò talmente

l’amicizia di noi tre, che ancora oggi a distanza di quasi cinquant’anni è ancora ben salda.

Agli esami di riparazione non ci fu alcun problema; gli scritti furono sicuramente più facili, forse perché eravamo assieme agli interni e anche agli orali non fummo trattati diversamente da questi ultimi.

Al ritorno ripresi il mio lavoro. Lavoravo allora in una legatoria artigianale nei pressi della stazione. Avevo scelto quel posto per l’orario: s’iniziava presto alla mattina e si terminava alle quattordici, salvo qualche rientro pomeridiano. Potevo quindi studiare tutto il pomeriggio. Il lavoro era però a ritmo frenetico e non si poteva quasi andare al bagno. Lo stipendio, ovviamente in nero, bastava a malapena per pagarmi la retta, qualche capo di abbigliamento e i “capricci” domenicali. Non parlai mai con nessuno delle mie scuole serali: potevano pensare che arrivavo già stanco al mattino e i proprietari non erano certo delle persone tolleranti. I colleghi, resi a loro volta intolleranti da quelli, spesso mi prendevano in giro per la mia scarsa manualità.

«Che cosa farai da grande tu?»

“Non certo il lavoro di merda che fai tu che grande lo sei già” pensavo dentro di me.

Dopo non molto tempo lasciai quel posto per fare... il garzone di mio fratello! Il terzogenito aveva lavorato in Africa per alcuni anni come saldatore negli impianti petroliferi, prima con l’italiana Saipem e poi con una ditta americana. Dovette tornare in Italia in seguito ad un totale distacco di retina mentre si trovava in Libia. Si mise in testa quindi di aprire un negozio di frutta e verdura alla periferia di Mestre. Per un po’ di tempo fu “allievo” dello zio Romano che gli insegnò i trucchi del mestiere. Ma lui era adatto a fare il negoziante come io il boxer. La mattina presto andavo ad aprire il negozio, approfittando del fatto che a quell’ora i clienti erano pochi. Mi rifugiavo quindi nel freddo e semibuio retrobottega, dove avevo messo una cassetta di frutta in piedi come sgabello e due orizzontali, una sopra l’altra, come tavolo. Quello era il mio studio e lì studiavo ogni volta che il negozio era vuoto.

Aspettavo poi che arrivasse mio fratello dal mercato generale di ortofrutta per scaricare la merce comprata. Aveva acquistato una vecchia Ape. Certe mattine la vedevo arrivare carica fino all’inverosimile, sembrava uno di quei piccoli carri armati vietnamiti che avanzavano nella giungla ben mimetizzati da piante e frasche.

«Come mai tanta roba?»

«Senti, se si vuol vendere, bisogna avere tanta scelta, i clienti devono confrontare diverse qualità con il prezzo. Se diversifichiamo molto, c’è possibilità di scelta per tutti, altrimenti i clienti cambiano negozio».

«Va bene» dissi io.

Altre mattine lo vedevo arrivare con l’Ape quasi vuota.

«Come mai così poca roba?»

«Senti, io sto buttando via un sacco di merce invenduta. La gente vuole questo se c’è quello e vuole quello se c’è quell’altro. Mi sono stufato. Questo c’è, e se non gli va bene cambino pure negozio».

«Va bene» dissi io.

Era fatto così. Nell’esporre in bella vista frutta e verdura era ancora peggio: patate vicino alle pere, cipolle accanto alle mele, trecce d’agli a fianco dell’uva. Qualche volta mi sembrava vagamente di scorgere in quella variegata composizione un ritratto di Arcimboldo.

Dopo circa un anno e mezzo ci ritrovammo noi due soli in negozio a mangiare lupini e semi di zucca salati. La mia esperienza di fruttivendolo terminò lì.  Io e i miei due amici dell’avventura pordenonese decidemmo di tornare in quella città l’anno successivo, nello stesso Istituto.

Questa volta portavamo solo la terza classe e poi eravamo i soli superstiti di quella catastrofe, i professori certo si sarebbero ricordati di noi. Avevo studiato come un matto quell’anno, più di quello precedente, avevo un’ottima preparazione e fu quasi un trionfo personale specialmente in Italiano. I due professori non finivano più di interrogarmi su tutti gli argomenti. Sui “Promessi Sposi” poi mi fecero le domande più nozionistiche possibili. Non  per incastrarmi, perché avevano capito che ero ben preparato, ma per vedere fin dove arrivava la mia preparazione.

«Che mestiere diceva di fare lo sbirro che incastrò Renzo nell’osteria della Luna Piena?»

«Faceva lo spadaio e si chiamava Ambrogio Fusella» risposi prontamente io.

«E come si chiamavano i due pretendenti della perpetua di don Abbondio, citati nella “notte degl’imbrogli”?»

«Beppe Suolavecchia e Anselmo Lunghigna e se vuole le dico anche che...».

«No basta per carità».

Non lo avevo studiato quel romanzo, l’avevo divorato, perciò era dentro di me e quindi lo conoscevo tutto e l’ho amato non certo per quelle quattro nozioni.

«Dai lasciacelo ancora un po’, lasciacelo perché con questo ci stiamo divertendo» dissero gli insegnanti di italiano al professore di topografia che si dimostrava spazientito, perché toccava a lui interrogarmi.

Eravamo arrivati alla fine dunque: l’ultimo anno. Dovevamo portare la quarta e quinta classe e poi sostenere gli esami per il diploma. Questa volta però saremmo stati messi assieme agli interni, i temi sarebbero stati gli stessi in tutte le scuole nazionali, lmeno sugli scritti non saremmo stati discriminati. Era il caso di tornare a Pordenone? Sostenere ancora costi per l’alloggio?

Rinviammo la decisione.

«Il direttore del “Pitagora” vorrebbe conoscerti» dissi a mio padre una sera ai primi di ottobre.

«C’è qualcosa che non va?»

«No, no, dice solo che gli piacerebbe conoscerti, scambiare due parole, non ti ha mai visto!»

Fissammo l’appuntamento per la sera dopo all’ingresso della scuola. Lo vidi arrivare dal lavoro con il motorino che appoggiò a un pilastro del portico. Si presentò al Kyria con il rispetto che lui aveva per le persone istruite.

«E allora vedrò mai questo qua diventare geometra?» Disse quasi con tono di scherzo, ma mica poi tanto. Ancora non riusciva a realizzare l’idea che uno dei sui figli potesse diplomarsi: allora un diploma valeva qualcosa, diversamente da oggi. Il Kyria lo guardò con un certo stupore.

«Ma lei si riferisce a suo figlio? Guardi che per Renzo sarei disposto a mettere non una, ma tutte due le mani sul fuoco». Mio padre fece finta di non dar troppo peso a quelle parole dette con una certa enfasi, ma tornò a casa scherzando, segno evidente che si era inorgoglito.

Aveva invece ragione lui, non vide mai quel suo figlio diplomarsi: morì due mesi dopo, la notte di Natale, stroncato da un tumore al polmone, grazie sicuramente alle maledette polveri di quella maledetta fabbrica. Non aveva ancora compiuto i cinquantasette anni. Nei mesi precedenti non aveva mai dato importanza ai primi subdoli sintomi della malattia: un po’ di sonnolenza, qualche raro colpo di tosse, un senso di freddo forse a causa di una febbriciattola mai misurata. Lui continuò ad andare a lavorare imperterrito. Verso la fine di novembre andammo assieme a ritirare il referto della radiografia al torace.

«Leggi tu, cosa c’è scritto?»

«Non so, sono termini medici che non capisco, bisognerà sentire uno specialista» dissi io, atterrito nel leggere quel foglio. «Leggi cosa c’è scritto. Hai capito?» Disse lui già spazientito. «Grossa cavità alla base polmonare del diametro massimo di cm 10, con varie ramificazioni. Parla, però alla fine di un probabile ascesso, sì forse è un ascesso curabilissimo».

«Credono che io abbia un tumore, ma il tumore ce l’hanno loro nel cervello» disse lui.

Non ho mai capito quel suo atteggiamento. Non era sicuramente un pavido, ma di fronte alle malattie non era certo un eroe. Così come sono io. Le persone che non si tirano mai indietro di fronte alle difficoltà della vita, ma anzi le affrontano con determinazione e caparbietà, quando si trovano impotenti di fronte al male, non reagiscono più, ma si lasciano andare. Quella volta invece sembrò che volesse quasi rimuovere la terribile diagnosi che di fatto era già scritta nel referto o forse aveva capito che era arrivato alla fine e voleva comportarsi con dignità, così come aveva fatto per tutta la sua vita.

Fu ricoverato in ospedale l’otto di dicembre, festa dell’Immacolata. Era una piovosa domenica, dopo due giorni avrei compiuto diciannove anni. Io ci speravo in quell’ascesso, ma quando ebbe un’emorragia interna (gli scoppiò letteralmente un polmone) i medici dissero che non gli mancava molto. Andai a trovarlo in ospedale.

«Come stai papà?»

«Siete andati a prendere la tredicesima?» Disse con un filo di voce.

«Lascia stare la tredicesima, come ti senti? Hai dolori?»

«Vai tu a prendere la tredicesima» la sua voce si era fatta più forte «tua madre ha bisogno di quei soldi!»

In quei quindici giorni prima delle vacanze di Natale, non riuscivo più a studiare, a scuola non seguivo le lezioni. Il mio pensiero era sempre lì. Mi alternavo ai miei fratelli accanto al suo capezzale, passavo ore in quella stanza semibuia ad ascoltare quel rantolo incessante. Aveva gli occhi fissi che mi guardavano, forse avrebbe voluto dirmi tante cose, ma rimanevamo in silenzio.

Alla fine delle vacanze tornai a scuola, il Kyria e l’ingegner Bertin, che mi stavano aspettando, mi strinsero la mano.

«Renzo, se in questo momento hai dei problemi di natura economica, non ti preoccupare assolutamente per la retta. Stai tranquillo, pagherai tutto dopo il diploma, quando inizierai a guadagnare seriamente». Io li ringraziai, ma dissi loro che ero rimasto molto indietro con il programma e non avevo tanta voglia di riprendere. Il mondo mi era crollato addosso e avevo voglia di mollare.

«Per quel poco che ho conosciuto tuo padre» mi disse allora il Kyria «credo che non approverebbe!»

Mi tornò allora alla mente quello che diceva a volte lui, scherzando “Se dovessi morire io, voi dovete piangere, diciamo per... dieci minuti. Dopo di nuovo sotto, sorridendo, perché la vita continua!” Così feci e riuscii a pagare regolarmente la retta anche se con qualche difficoltà.

Dopo un mese a mia madre arrivò circa un milione di lire: era il Trattamento di Fine Rapporto di mio padre. Più che un premio di fedeltà per ogni anno passato in quella fabbrica, quella somma assunse il sapore amaro di un risarcimento. Un milione di lire, il prezzo di una piccola utilitaria, tanto valeva allora la vita di un operaio.

Verso la Primavera, una sera il Kyria si presentò in aula con una novità.

«Ragazzi ho conosciuto l’ingegner... (non ricordo il nome). Lui è l’insegnante di Scienza delle Costruzioni dell’Istituto per Geometri “Foscari” qui di Mestre. Gli ho chiesto gentilmente se qualcuno dei “miei” può assistere in aula alle sue lezioni. Mi ha risposto che è possibile, basta mettersi d’accordo sui giorni. Se qualcuno di voi ci tiene a fare questa esperienza, me lo dica ed io gli telefono». Un piccolo gruppetto, non ricordo se quattro o cinque, tra cui io stesso, aderì. Ci ritrovammo quindi nell’aula di una scuola pubblica; erano circa tre anni che ciò non accadeva. Il professore ci presentò ai suoi allievi e ci sistemò nell’ultima fila rimasta vuota. Quello che vidi quel giorno non lo dimenticherò facilmente. In aula c’era una cagnara indescrivibile: il professore spiegava, ma quasi nessuno ascoltava. C’era chi stava in piedi a guardare fuori della finestra, chi parlottava ad alta voce con un compagno distante due file e chi stava leggendo una rivista di motori. Il professore li richiamava spesso all’ordine, ma non era assolutamente in grado di tenere un minimo di disciplina in quella classe.

«Non state facendo una bella figura con i nostri ospiti» diceva ogni tanto. Noi, che al vedere quelle scene eravamo rimasti increduli, non sapevamo come comportarci. Alle parole del professore io tirai fuori un sorriso di circostanza, sollevai un po’ la mano con il palmo rivolto verso di lui come per dire “non si preoccupi professore, siamo noi che siamo venuti qua a disturbare sic!)”. Ad un certo punto l’insegnante chiamò uno di questi per interrogarlo. Lui rispose che non si sentiva bene: «Oggi ho il mio ciclo». E giù fragorose risate. Un altro invece si presentò spontaneamente, diede delle risposte assurde, quasi volesse prendere in giro il professore. Denotavano comunque una totale impreparazione. «Basta, basta così, va al tuo posto, però non ti posso dare la sufficienza» disse quasi con tono di scusa l’insegnante.

«Ti do, vediamo... dal cinque al sei».

“Io ti avrei dato dallo zero all’uno, tanto per non mortificarti” pensai.

Il ragazzo, anziché andare al suo posto, con uno scatto si sedette sulla cattedra.

«E no prof, tu mi devi dare sette».

Quel “tu” fu la ciliegina sulla torta. «Ma che sette e sette, via non scherziamo».

«Prof tu mi devi dare sette, capito?» Fu la sua risposta, data con tono quasi minaccioso. «In fin dei conti mi sono offerto spontaneamente per l’interrogazione».

Ci presentammo ancora un paio di volte a quelle lezioni, poi decidemmo che per noi era solo tempo perso.

Ciò che avevamo visto e sentito ci portò senza indugio a iscriverci agli esami di diploma proprio lì, al “Foscari”. Non potevamo certo temere una simile concorrenza! Quella piccola esperienza ci poteva consentire di allentare i nostri ritmi di studio e invece li intensificò. Eravamo presi da una sorta di frenesia. Ci tornarono in mente le tante discriminazioni subite, talvolta ingiustamente, agli esami degli anni precedenti e volevamo una rivincita. Alcuni di noi si misero d’accordo con l’insegnante di topografia per andare a scuola anche la domenica mattina. Lui acconsentì e lo fece senza alcun compenso. Vedevamo dalla finestra i nostri coetanei partire per Jesolo in moto, con la ragazza dietro, mentre noi eravamo alle prese con i logaritmi e le funzioni trigonometriche (allora non esistevano le calcolatrici, tanto meno quelle scientifiche). Eravamo diventati velocissimi a risolvere i problemi, facevamo a gara chi terminava per primo.

Il sette richiesto quasi con prepotenza da quel ragazzo, noi non lo conoscevamo ancora: era il così detto “sette politico”. Eravamo in piena contestazione giovanile.

Credo che pochi periodi della storia recente siano stati oggetto di un’interpretazione manichea come quello della fine degli anni ’60: per alcuni un movimento che spezzò le catene dalle quali la vecchia società era imbrigliata, per altri una follia collettiva che finì per distruggere le istituzioni fondamentali della società, famiglia, scuola e lavoro. In realtà qualsiasi visione manichea degli eventi storici è una visione distorta. Ma a me non interessa qui avvalorare una o l’altra tesi. Sono già stati scritti fiumi di parole su quest’argomento e il mio contributo tenderebbe allo zero. A me interessa riportare quello che fu il mio atteggiamento nei confronti di quelle nuove idee che scossero senza dubbio tutto il mondo occidentale.

“L’immaginazione al potere”: come non potevano quelle parole accarezzare l’animo di un giovane della mia età? La lotta a favore del più debole ed indifeso contro la prepotenza del più forte, rappresentata dalle oceaniche manifestazioni contro la guerra in Vietnam. Le richieste dei lavoratori, tagliati fuori sostanzialmente da quel boom economico che aveva favorito per lo più la borghesia: migliori condizioni salariali, maggiori tutele in fabbrica, diritto allo studio anche per i giovani di famiglie disagiate. Ma anche la presa di coscienza della necessità di una liberazione dai falsi bisogni, quelli che vengono imposti all’individuo da parte di interessi particolari della società moderna e che poi sono gli stessi che perpetuano la miseria, la fatica e l’ingiustizia sociale2. Tutto questo, inizialmente, rappresentò ai miei occhi la base solida su cui costruire un futuro migliore.

Ma come avviene quasi sempre nella storia, le grandi idee finiscono per essere strumentalizzate a favore di meschini interessi di parte. Uno dei più sciagurati fu a mio avviso proprio la richiesta del sette o del diciotto politico che fosse. L’uguaglianza delle condizioni di partenza rappresenta un'aspirazione legittima, ma non può essere confusa con quella di arrivo. Il diritto allo studio per tutti è sacrosanto, ma lo studio è passione, fatica, impegno, serietà, tenacia e la scuola dev’essere altamente selettiva, deve premiare il più meritevole, altro che diciotto politico! Le cosiddette forze progressiste di sinistra in quegli anni non capirono che questa sorta di buonismo scolastico finiva proprio per danneggiare i figli delle famiglie economicamente e culturalmente più svantaggiate. Perché la sinistra fu contro la selezione scolastica? Perché pretese le promozioni di massa? Fu un errore cercare con questi espedienti di eliminare una scuola selettiva per censo. C’è qualcuno che si farebbe serenamente aprire la pancia da un cardiochirurgo arrivato a quella posizione per mezzo di tanti diciotto politici? Non credo. Questo vale anche per le altre professioni, un ingegnere che costruisce un ponte, un avvocato chiamato a difendere un innocente accusato di colpe infamanti e perché no, l’insegnante che deve formare i futuri chirurghi, ingegneri e avvocati.

Al tempo stesso credo – e questa è la mia Utopia – che la conoscenza e la cultura non dovrebbero essere strumenti utilizzati per sopraffare coloro che non possiedono tali doti. La soddisfazione che si ricava nello svolgere un’attività non dovrebbe essere quella di accumulare denaro e potere e ostentare con il lusso il proprio status sociale. Ciò provoca inevitabilmente invidia e quindi conflitto. La massima soddisfazione dovrebbe derivare invece dall’ammirazione che quell’attività suscita di per sé.

Torniamo all'esempio del cardiochirurgo, e prendiamone uno bravo che, grazie alle sue doti naturali, ma anche grazie ai suoi studi e alla sua esperienza, opera a cuore aperto e ridona la vita a un malato. Questo suscita un’ammirazione da parte della gente, inevitabilmente superiore a quella riservata, che ne so, al titolare di un’impresa di espurgo dei pozzi neri, indipendentemente dal loro guadagno e dalla consapevolezza che entrambe queste figure sono necessarie in una società. La piramide di Maslow, che rappresenta una struttura gerarchica dei bisogni dell’uomo, ha alla sua base quelli primari, di pura sopravvivenza, ma al vertice la stima e l’autorealizzazione, certamente non la ricchezza. E cosa dire dell'ammirazione che gli uomini provano per i grandi artisti? Quando una persona ascolta Mozart o legge Dostoevskij, pensa alla bellezza e all’immortalità delle loro opere, non certo a quanti beni sono riusciti ad accumulare componendo o scrivendo. Più semplicemente, la stima nei confronti del mio vecchio maestro  non è dovuta ai soldi che è riuscito a fare con la sua professione (so che lo farei ridere), ma al fatto che quei suoi primi insegnamenti, l’amore per la poesia e la bella musica, hanno sicuramente contribuito a formare la parte migliore di me. E questo non ha prezzo.

Nonostante la facoltà di Sociologia dell’Università di Trento (dove mi sono laureato) fosse l’epicentro della contestazione giovanile italiana, ho sempre tenuto una distanza netta da quelle formazioni della così detta sinistra antagonista che si formarono proprio in quegli anni, come Lotta Continua, Potere Operaio, spesso, come si diceva allora, cresciute all’ombra del campanile, poiché molti esponenti di spicco provenivano proprio dall’area cattolica. Con le loro rivendicazioni pseudo-rivoluzionarie, queste formazioni finirono in pratica per legittimare la posizione della destra più retriva, che è sempre stata la maggioranza in Italia, ostile a qualsiasi accordo con un partito di sinistra, qualunque esso fosse (fu del tutto casuale?).

Individuarono più tardi proprio nel partito Comunista, con il suo compromesso storico, il nemico da abbattere. Mi presi del “compagno opportunista” quando criticai la loro ideologia, durante un’affollatissima e infuocata assemblea universitaria. Eravamo agli inizi degli “anni di piombo”.

In politica quindi non ho mai assunto un atteggiamento radicale, anche se le mie origini lo avrebbero in parte giustificato, ma non sono mai state morbide le mie idee in economia politica. Ho sempre trovato ad esempio le rendite di posizione un ingiusto vantaggio, specialmente per quanto riguarda la proprietà della terra. Non mi voglio certo richiamare a Prudhon e sono consapevole che non è facile legiferare su materie come queste.

Ma la mia convinzione nasce dall’idea che l’unica cosa che è veramente di proprietà di un uomo è il frutto del suo lavoro e della sua opera d’ingegno. La terra, come l’aria e l’acqua, preesisteva all’uomo e gli sopravvivrà.

Da tempo ormai mi sono disaffezionato alla politica. La sinistra in cui credevo non esiste più. C’è stato negli ultimi vent’anni un gattopardesco cambiamento di sigle: PDS, DS, PD, mentre la base chiedeva cambiamenti veri nel Paese. Il PD oggi è ancora un insieme di correnti impegnate in guerre fratricide. Non parliamo poi di quello che è successo a livello locale. Un vero e proprio assalto alla diligenza da far rimpiangere i vecchi notabili della DC.

Personaggi assolutamente sordi al richiamo di Berlinguer sulla questione morale, che di sinistra avevano solo a cuore la tasca dove tenevano il portafoglio, si sono lanciati in acrobatici passaggi tra sindacato e partito e all’interno di questo, da un carro del vincitore a un altro. Se risultavano poi “trombati” alle elezioni, perché il “popolo sovrano” non li voleva come propri rappresentanti, erano ricompensati con prebende o posti di potere per i quali non avevano alcuna preparazione e attitudine, oltretutto con stipendi da capogiro. Personaggi incapaci di amministrare bene persino la propria famiglia, erano chiamati a gestire interi settori della Pubblica Amministrazione, con posti da assessore o direttore generale. E pensare che nel secolo scorso ci furono uomini che si sono battuti, sono finiti nelle patrie galere, al confino o sono dovuti espatriare nel tentativo di costruire una forza di sinistra, laica, ispirata ai più alti valori etici e morali! Quando, negli anni scorsi, sentivo in autobus o in qualche ufficio pubblico dire la solita frase “Tanto sono tutti uguali”, mi adiravo e rispondevo “No, mi dispiace non sono tutti uguali, perché non siamo tutti uguali”.

Ora me ne sto zitto e finisco anch’io per annuire.

Rimango comunque un uomo di sinistra, per quanto possa valere oggi questa definizione. Ma mi sento di appartenere sempre di più a una dimensione sovranazionale: un “cittadino del mondo” come si dice. Sono convinto che le nostre difficoltà economiche possano essere superate solo attraverso un processo di riunificazione europea e non rincorrendo spinte populiste animate da interessi locali che vorrebbero creare nuovi confini e  nuove barriere doganali.

Molte delle mie idee giovanili sono cambiate; dicono che solo lo stupido non cambia mai idea. Lo spirito rivoluzionario che arde nel petto di un giovane con l’età si placa. Sono cambiati soprattutto i miei concetti sul rapporto tra pubblico e privato. Oggi ritengo che il compito dello Stato non sia quello di fare l’imprenditore; quando lo Stato italiano lo ha fatto, lo ha fatto malissimo. Lo Stato deve tenere per sé quelle attività che non dovrebbero avere scopo i lucro, come la Sanità, la Scuola, la Giustizia e la Difesa, e lasciare tutte le altre all’iniziativa privata. Il compito di un Parlamento serio sarebbe quello di emanare un complesso di leggi tanto semplici quanto ferree, prevedendo punizioni esemplari per la loro trasgressione, tenendo presente che la parte più debole del “contratto sociale” rimane sempre quella del prestatore d'opera.

Dentro questo complesso di norme dovrebbe trovar spazio una sana competizione, in cui il migliore viene premiato con un giusto profitto per sé e per coloro che collaborano con lui. Tale profitto dovrebbe essere visto con quello spirito calvinista che Max Weber ha illustrato nel suo bellissimo saggio3: il capitalista vero è colui che ottiene la massima soddisfazione dal conseguimento del profitto in sé, non dai piaceri che questo può procurare. Reprime quindi la spontanea sete di guadagno e reinveste i frutti della propria attività per generare nuove iniziative economiche e creare così nuovi posti di lavoro. In questa prospettiva qualsiasi lavoro acquista quasi una vocazione religiosa: è Dio stesso che ci ha chiamato a svolgerlo bene in terra. Abbiamo mai avuto nel nostro Paese una classe industriale animata da quest’etica?

Era arrivata così anche per noi la celeberrima “notte prima degli esami” ed io mi sentivo assolutamente tranquillo. Agli scritti non ci fu storia: consegnammo gli elaborati per primi noi del “Pitagora”, mentre gli altri si stavano ancora “grattando” la testa.

Avevamo adottato una tecnica collaudata un mese prima durante le domeniche passate a scuola: c’eravamo messi vicini e con segni particolari verificavamo, passo dopo passo, i risultati parziali dei vari esercizi tecnici.

Ma gli orali potevano andare diversamente, in quanto dovevamo comunque portare tutti gli argomenti del quarto e quinto anno.

Qualche interno della commissione poteva “ridimensionare” quel risultato, se non altro per non dare un’immagine troppo negativa della scuola dove insegnava. La lettera dell’alfabeto scelta a caso per identificare l’iniziale del cognome del candidato che doveva essere interrogato per primo fu la “V”. La V di Vianello.

«No, Armando, non puoi andare tu per primo, se cominciano con te, noi del “Pitagora” ci ammazzano tutti!» Il povero Vianello, un uomo sposato, ex gondoliere, allora impiegato all’ACI, con una pancia un po’ prominente, bersaglio delle nostre battute, non si offese, tutt’altro.

«Ragazzi, non sono io che voglio andare per primo, anzi, io sono indietro, avrei bisogno ancora di tempo per studiare. Ci deve andare lui» e indicò me.

«Che c’entro io? L’iniziale del mio cognome è la D».

«Senti Renzo, trova una scusa, dì che hai la morosa che è incinta, dì che hai la nonna moribonda, dì quel cavolo che vuoi, ma comincia tu». Anch’io mi resi conto che mandando avanti Armando per primo, noi del “Pitagora”, qualche rischio lo correvamo. Accettai. Convinsi la Commissione che dovevo essere trasferito per lavoro e il giorno dopo mi presentai agli esami.

Il presidente della Commissione, quando terminai, uscì e volle complimentarsi con me. Mi chiese quale scuola ci avesse preparati così bene. Il mio compito di apripista aveva funzionato. Ricordo ancora la lauta cena che mi offrì Armando in un bel ristorante a Venezia assieme a moglie e parenti per ripagarmi del mio “sacrificio”.

Le scuole di recupero come quella che io frequentai, spuntate un po’ come funghi verso la metà degli anni sessanta, furono a loro modo delle benemerite, anche se l'obiettivo che si ponevano era ovviamente il guadagno. Prima di quegli anni, solo chi proveniva da una famiglia benestante poteva scegliere autonomamente se continuare o meno gli studi; molti, che pure avrebbero avuto le capacità, erano invece costretti a interrompere il loro percorso scolastico per ragioni di natura strettamente economica. I nati negli anni a cavallo dell’ultima guerra mondiale non si sentivano ancora abbastanza vecchi da non poter aspirare legittimamente al conseguimento di un diploma, pur lavorando, e quelle scuole diedero loro quest’opportunità. La scuola pubblica arrivò più tardi.

Solo alcuni anni dopo furono istituiti presso l’Istituto Tecnico Statale “Pacinotti” di Mestre, corsi serali regolari per periti della durata di cinque anni. Corsi ai quali s’iscrisse mio fratello più grande di me e che gli consentirono di conseguire un diploma.

Però, mentre una scuola come il “Pitagora”, pur con tutti i suoi limiti, aveva il merito di assicurare a chi lavorava la possibilità di proseguire negli studi e, pur essendo una scuola a pagamento, si rivolgeva ai figli delle famiglie meno abbienti, oggi spesso scuolecome queste, in cambio di lauti compensi, promettono soprattutto facili scorciatoie a studenti che non hanno alcun problema di natura economica, ma semplicemente non hanno voglia di fare nulla e/o non sono riusciti a combinare nulla né nelle statali né nelle paritarie.

Dopo gli esami di diploma mi regalai una piccola vacanza, era la prima della mia vita. Non avevo più lavorato da giugno per preparare bene gli esami, ma avevo messo da parte qualche soldo.

D’altra parte quella breve vacanza fu tanto economica quanto poco riposante. Noi tre, i famosi tre di Pordenone e un quarto amico, partimmo con il treno fino a Calalzo di Cadore, zaino in spalla, con i viveri sufficienti per qualche giorno e la “canadese” per la notte. Avevamo programmato una serie di escursioni sulle Marmarole, un gruppo dolomitico situato nel centro Cadore.

Quasi ogni giorno la meta prestabilita era un rifugio che raggiungevamo non senza fatica e con qualsiasi intemperia. C’è stata solo una piccola parentesi quasi romantica: l’incontro con un gruppo di ragazze della parrocchia di Mestre che soggiornavano da quelle parti. Infine il ritorno a casa in autostop.

Terminata quindi l’euforia del diploma e dopo quella pausa “liberatoria”, il mio morale precipitò. Nuovi problemi si presentarono con tutta la loro drammaticità. Come ho detto, avevo smesso di lavorare a giugno, ma da quando era morto mio padre, circa otto mesi, stavo gravando sulla magra pensione di reversibilità di mia madre. Tutti i lavori svolti in precedenza non avevano potuto garantirmi una completa autonomia dal punto di vista economico. I miei fratelli cominciavano a storcere il naso.

Dovevo dunque cercarmi un lavoro, e alla svelta. Questa volta però doveva essere serio e possibilmente definitivo (allora c’era il mito del posto fisso). Certamente la situazione non era come quella attuale, ma non era poi così facile. Ai posti ambiti si era assunti tramite concorso, ma i candidati che partecipavano erano sempre in numero spropositato rispetto ai posti disponibili, come in quello bandito dalle Ferrovie dello Stato, per alcuni posti di personale viaggiante a cui partecipai, senza alcun entusiasmo e senza successo.

Inviavo quasi ogni giorno il mio curriculum a un’azienda diversa, ma non avevo quell’esperienza necessaria per essere assunto.

A metà settembre mi chiamò l’ingegner Bertin e mi disse che al Consorzio Agrario di Venezia, dove lavorava suo cognato, cercavano un giovane diplomato.

«Scrivi subito che sei disponibile per un colloquio, perché mio cognato ha già parlato al direttore di te e ti ha presentato come un ottimo elemento quale tu sei».

Non dimenticherò mai quel colloquio. Il direttore, sulla sessantina, era seduto dietro ad una scrivania e aveva al suo fianco due collaboratori. Aveva una faccia tonda con un sogghigno da vero e proprio sepolcro imbiancato.

«Mi racconti qualcosa di lei, mi dica quali sono le sue aspirazioni, le sue ambizioni. Insomma ci faccia capire chi è, caro geometra».

Era la prima volta che mi sentivo chiamare con quel titolo. Ma era stato detto in un modo da sembrami una presa in giro e forse per la prima volta mi bloccai davanti a quell’interrogazione come non mi era mai successo in nessun esame scolastico. Poi mi ripresi e gli raccontai un po’ la storia della mia vita e le fatiche fatte per diplomarmi. Gli dissi che la mia ambizione più grande sarebbe stata quella di proseguire negli studi, che mi sarebbe piaciuto laurearmi, pur impegnandomi nel lavoro. Credevo ingenuamente di fare una buona impressione con quelle parole. Invece di colpo il sogghigno si trasformò in una smorfia e il direttore mi guardò fisso negli occhi.

«Che lei voglia continuare a studiare non le fa che onore. Però noi qui non abbiamo bisogno di un dottore, ma di un geometra. Ci pensi su. Se lei intende perseguire quella strada il nostro colloquio purtroppo finisce qui» disse scandendo bene le parole. Poi si rivolse ai due scagnozzi che aveva a lato per cercare consenso e quelli non poterono che annuire.

«Guardi dottore che io ho bisogno di lavorare. Questa è un’opportunità che non voglio assolutamente perdere. Se per lei la mia iscrizione all’Università rappresenta un problema, le assicuro che i miei studi possono terminare qui». Mentivo, in realtà il mio proposito andava nella direzione opposta. “Tu assumimi, faccia da culo, che poi ai miei studi ci penso io”.

«Queste sue parole mi fanno piacere, perché lei mi sembra un giovanotto in gamba. Possiamo quindi continuare il nostro colloquio per valutare anche le sue conoscenze tecniche, che non sono meno importanti». Mi fece qualche domanda di Estimo agrario e il sogghigno tornò a poco a poco sul suo volto.

Mi congedò stringendomi la mano e con un’occhiata che voleva dire “tu sei un ragazzo preparato e potresti fare al caso nostro, ma non credere di poter fare il furbo con me”. Io lo ringraziai, salutai con deferenza anche i due scagnozzi che dimostrarono di gradire, forse non più abituati a quell’attenzione nei loro confronti. Il giorno seguente girovagai da solo per Mestre senza una meta.

Potevo capire le ragioni del direttore, ma quel colloquio mi aveva profondamente amareggiato. Avevo certo bisogno di lavorare e non avrei per nessuna ragione rifiutato quel posto. “Ma cosa ci faccio io in un Consorzio Agrario, – pensavo, – era per questo che avevo fatto tanti sacrifici?” Ma poi mi chiedevo veramente che cosa volessi. Non lo sapevo. Non volevo stare con i piedi per terra. La passione per lo studio mi aveva fatto dimenticare che avevo studiato per diventare un geometra, un’attività per la quale non provavo nessun interesse, come non avevo provato nessun interesse per il lavoro di frigorista. Altre sarebbero state le mie inclinazioni. Se avessi potuto scegliere liberamente, avrei frequentato sicuramente le scuole medie, poi il liceo classico.

Magari, e lo dico oggi sorridendo, con un compagno come Italo Calvino, per parlare con lui di filosofia e di mitologia greca. Ma nelle mie condizioni che cosa avrei potuto fare di più o di meglio? Rimpianti inutili, dovevo smettere di sognare. Era giunto il momento di lavorare seriamente. Non potevo più farmi mantenere da mia madre o, peggio da qualche mio fratello, e un geometra cosa poteva fare se non quel mestiere? Andai avanti per un bel po’ di tempo con quei pensieri che mi tormentavano. Finché un giorno la mia attenzione fu catturata da

un articolo di giornale che mi fece intravedere una possibilità di lavoro, che neanche la più fervida mente avrebbe potuto immaginare.

Era forse un lunedì di ottobre. Quel giorno comprai “Il Gazzettino” perché al lunedì venivano pubblicate le offerte di lavoro. Lo stavo sfogliando sdraiato sul letto quando, del tutto casualmente, posai l’occhio su un trafiletto delle pagine locali.

“Tra pochi giorni sarà allestito, presso il palazzo Papadopoli di Venezia un nuovo laboratorio del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Un gruppo di ricercatori e alcuni topografi studieranno il fenomeno della subsidenza della nostra città. I costi saranno finanziati in parte dall’UNESCO.”

Chiusi il giornale e senza esitare un solo attimo mi ritrovai a Venezia. Quello di Papadopoli è un antico palazzo che si affaccia sul Canal Grande un po’ prima di raggiungere Rialto. Vi arrivai correndo per ponti e calli. C’era già la targhetta apposta all’esterno:

Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Laboratorio per lo studio della dinamica delle grandi masse.

Laboratory for the study of the dynamics of large bodies.

Era scritto anche in inglese. Non stavo più nella pelle. Non vedevo nessun campanello però. Forse ero troppo agitato per vederlo.Presi direttamente l’ascensore. Gli ascensori dei palazzi antichi veneziani sono stati costruiti ovviamente più tardi rispetto all’edificazione di questi ultimi. Spesso portano direttamente nelle stanze e non in un ingresso. Così fu anche per quell’ascensore.

Aperte le porte, mi ritrovai di colpo in una sala bellissima, piena di quadri e di arazzi. Un immenso lampadario di vetro di Murano a gocce pendeva dal soffitto, negli angoli c’erano alcune statue di legno intarsiato e davanti a me una figura di donna. Non era una figura stilizzata, ma un pezzo di ragazza in carne ed ossa. Era bionda e con un corpo alto e slanciato e una minigonna mozzafiato. Avevo quasi vent’anni allora e i miei pensieri non erano solo lo studio ed il lavoro... Era inglese e parlava un italiano un po’ stentato. Seppi dopo che era una stagista dell’UNESCO e aveva la funzione d’interprete.

«What’s the matter? Che cosa desidera?» Mi disse vedendomi un po’ intontito. La mia mente tornò immediatamente al motivo per cui mi trovavo lì.

«Ho letto l’articolo sul giornale che parlava di questo laboratorio dove ci sarebbero stati anche dei topografi. Io conosco bene la topografia... Sarebbe il mio sogno lavorare qui... Sarei disposto a lavorare gratis affinché possiate mettermi alla prova... Io vorrei tanto lavorare qui, lavorare per Venezia, la mia città... Sarebbe un sogno ripeto... Farei qualsiasi cosa per lavorare qui... A chi posso rivolgermi?»

I miei amici mi prendono spesso in giro per il mio modo di parlare veloce. In quel momento la mia velocità si triplicò. Dissi tutte quelle parole in pochi secondi, senza respirare, tanto da farmi pensare che l’inglese avesse capito solo il termine lavorare.

«La dottoressa, capo del personale adesso è in riunione e non credo possa riceverla».

«Certo. Ma è possibile parlarle in qualche momento?» Le chiesi.

«Non lo so. Comunque lei non può stare qui, mi dispiace».

«Ma uscirà dall’ufficio prima o poi. Ha un orario? Io l’aspetto giù in calle. Non ho problemi di tempo. Posso aspettarla?» «La dottoressa non ha orari, certo non rimane qui la notte. Lei aspetti giù, non posso certo impedirglielo, faccia come vuole».

«Ma com’è? È bionda e bella come lei?» Cercavo già di ingraziarmela.

«La dottoressa è mora. Arrivederci. Si accomodi prego».

«Thank you» fu la mia risposta cretina.

Erano circa le tre del pomeriggio, continuavo ad andare su e giù per la calle, senza perdere d’occhio l’uscita. Mi “centrò” sulla testa anche un colombo. Dicono che sia di buon auspicio. Io che non sono mai stato superstizioso, quella volta ci contai davvero. Le ore non passavano mai. Mi scappava anche la pipì, ma tenni duro. “Se vado in un bar, sono sicuro che la dottoressa esce proprio in quel momento e la perdo” pensai.

Verso le sei e trenta usci l’inglese.

«Lei è sempre qui?» Mi disse. Io feci un cenno con il capo come per dire “Certo che sono qui e da qui non mi muovo finché non ho parlato con quella”. Poi la guardai ancheggiare fino alla fine della calle per poi girare a destra. Furono i soli quindici secondi di distrazione.

Mancava un quarto alle otto, quando uscirono due persone, uno era un uomo, l’altra una donna con i capelli neri. “È sicuramente lei” pensai.

«Scusi dottoressa». Lei mi aveva già superato e si voltò senza fermarsi.

«È lei la persona di cui mi ha accennato la signorina?»  Risposi di sì e le spiegai le stesse cose già dette alla miss qualche ora prima, ma con più calma e più enfasi, anche se facevo fatica a starle dietro, tanto camminava in fretta.

«Guardi, per il momento non se ne parla» disse.

«Per quanto riguarda poi i topografi, è una questione che dobbiamo ancora esaminare e non è detto che ne avremo bisogno L’articolo che lei ha letto era impreciso. Mi lasci comunque il suo nome e caso mai la farò chiamare».

Le diedi uno dei biglietti da visita che lo zio Piero aveva fatto stampare a Sambruson come regalo per il diploma. C’era tutto, compreso... il nuovo titolo di studio. Lei lo prese con un tono che sembrava dire “adesso che ti ho accontentato, togliti dai piedi e non farti più vedere”. Mi fermai e in pochi attimi la vidi sparire.

Com’ero arrivato di corsa, così tornai indietro lentamente. Era come se non volessi allontanarmi da quel palazzo, come se non volessi allontanarmi dal mio sogno.

Quella sera non cenai.

Lasciai trascorrere una quindicina di giorni e poi decisi di ritornare in quel posto. Quella volta però non ebbi il coraggio di prendere l’ascensore e rimasi ad aspettare giù nella stessa calle. Il portone d’ingresso era chiuso e non vedevo né entrare né uscire nessuno. “Forse l’apertura di quel laboratorio è stata rinviata, – pensai, – o forse non lo apriranno mai per mancanza di fondi.”Come facevo a saperlo? Bastava semplicemente suonare il campanello e chiedere. Ma poi come mi sarei presentato? Sono quello dell’altra volta... Quello che voleva lavorare come topografo... Sì, quello che era disposto a lavorare anche gratis... Quello che... Ma no. E poi chi mi avrebbe risposto? Magari un usciere.

Più volte il mio dito indice toccò quel campanello, ma senza premerlo. Poi mi venne un’idea e suonai. Qualcuno rispose, era una voce di donna, ma non aveva l’accento inglese, quindi non era la bionda dell’altra volta. Anzi mi sembrò proprio la voce della dottoressa, ma non ero sicuro.

«Chi è?» «Posta; metto in cassetta» risposi.

Il portone si aprì. Quindi qualcuno c’era. Ma chi? Non potevo saperlo. Comunque qualcuno c’era e prima o poi quel qualcuno sarebbe uscito. Forse era proprio la dottoressa e allora sarebbe stato più facile parlarle a quattr’occhi che attraverso un citofono.

Aspettai alcune ore, ma da quel portone proprio non usciva nessuno. Verso sera scoppiò un piccolo temporale e io non avevo alcun ombrello con me. Rimasi quasi schiacciato con la schiena contro il muro del palazzo, cercando di ripararmi sotto il suo cornicione. Una volta smesso di piovere provai a vedere se ci fossero altre uscite. Nessuna, se non quella che si affacciava sul Canal Grande.

“Forse è già andata via e non me ne sono accorto. Forse sono un cretino. Star lì ad aspettare tutto quel tempo. Ma aspettare chi, poi?” Stavo quasi per arrendermi, quando sentii un batter di tacchi provenire dall’interno. Il portone si spalancò. Era proprio lei. Le andai incontro e la fermai.

«Scusi dottoressa!»

“Chissà se si ricorda di me” pensai.

«Ancora lei?!» Si ricordava. Eccome se si ricordava.

«Mi sembrava di averle detto la volta precedente che se ci fossero state novità l’avrei chiamata. È inutile che lei venga qui» rispose un po’ infastidita. Poi proseguì senza salutare.

«Mi scusi dottoressa, mi scusi tanto... Io pensavo che... Mi scusi ancora. Farò come ha detto lei. Grazie. Buonasera».

No so neanche se sentì quelle mie parole.

“Ma cosa ho combinato, – pensai, – quella non mi chiamerà mai, neanche se fossi l’unico disponibile a lavorare in quel laboratorio. Che stupido sono stato. Avrei dovuto aspettare. Ma aspettare che cosa? Io pensavo che se mi fossi fatto rivedere sarei riuscito a convincerla che a quel posto tenevo veramente. Che

stupido, mi son giocato tutto. Quella non mi chiamerà mai, se non altro per ripicca”.

Il mattino seguente andai al “Pitagora”, poiché il Kyria mi aveva assegnato alcune ore di ripetizione.

«Sei un po’ giù, c’è qualcosa che non va?» Mi disse. Gli accennai al giorno precedente. Lui si accese l’ennesima sigaretta e mi guardò, ma io capivo che non stava guardando me: ormai lo conoscevo, stava rimuginando.

«Hai qui uno dei tuoi biglietti da visita?»

«Ecco qua, ne tengo sempre due o tre in tasca... non si sa mai» risposi accennando un sorriso.

«Scrivi sul retro il nome del laboratorio del CNR e seguimi».

Così feci. Uscimmo dalla scuola e percorremmo circa cinquanta metri sempre in centro, poi lui si fermò davanti ad una porta, sotto il portico, vicino a una vecchia fabbrica di ghiaccio. Non ci avevo mai fatto caso: quella era la sede della Democrazia Cristiana.

Entrammo ed io rimasi senza parole, era come una sala d’aspetto di un medico affollata di gente. Ovviamente tutti erano lì per chiedere qualche favore: un posto di lavoro, un trasferimento, un avanzamento di carriera, una pensione che tardava ad arrivare.

«C’è l’Onorevole?» Disse il Kyria a quella che doveva essere la segretaria.

«No, dovrebbe essere qui a momenti» rispose lei gentilmente.

Aspettammo un quarto d’ora in piedi perché non c’era più posto per sedersi.

«Buongiorno onorevole» disse il Kyria vedendolo arrivare. Noi eravamo ultimi nella lista di attesa, ma il Kyria non era il tipo da aspettare.

«Buongiorno professore, come sta?» Il Kyria non rispose, ma gli mise nel taschino della giacca il mio biglietto da visita.

«Si ricordi onorevole» disse, niente più, poi uscimmo dalla sede.

«Speriamo che si ricordi» disse.

«Speriamo» replicai io a bassa voce.

Non era certo uno sprovveduto il Kyria, ma non era sicuramente un uomo che si serviva della politica per interessi personali.

Questo no: come ho già detto morì quasi in miseria, lui che aveva dato tanto. Non so come mai conoscesse quel deputato, ma so che avrebbe venduto la sua anima al diavolo per aiutare uno dei suoi studenti in difficoltà. Comunque io non ero abituato a quel tipo di richieste e non volevo farmi troppe illusioni.

Verso la fine di novembre del’69, una sera al mio ritorno a casa, vidi mia madre che non stava più in sé dall’emozione.

«C’è una lettera per te dal Presidente della Repubblica!»

«Mamma, ma cosa dici? Il Presidente che scrive a me, fammi vedere dai».

In realtà era una busta con l’intestazione “Presidenza della Repubblica Camera dei Deputati”.Lo dico sinceramente, in quel momento non mi venne da fare nessun collegamento con la storia dell’onorevole. Erano passati più di due mesi, avevo dimenticato quasi tutto, anche perché da allora non ci avevo più sperato. Avevo saputo dall’ingegner Bertin che l’assunzione presso il Consorzio Agrario era imminente. Quel colloquio tutto sommato era andato bene. Strappai comunque la busta con una certa apprensione. In sintesi e senza far nomi, questa conteneva una lettera di un alto dirigente del CNR indirizzata all’onorevole, nella quale si diceva che io potevo prendere direttamente accordi con il direttore del laboratorio per un colloquio. Il direttore stesso era già informato di tutto. Conteneva poi un “santino” elettorale dell’onorevole con scritto a mano “Cordialmente”. Pochi giorni dopo ci fu il colloquio che durò una decina di minuti e nel quale mi vennero chieste delle banalità. Fui assunto. Mi dissero poi che credevano che io fossi un qualche parente del presidente del CNR!

Ho voluto raccontare questa storia per intero, perché potrebbe far sorridere se non rivelasse una delle peggiori piaghe sociali del nostro Paese: la pratica diffusa delle raccomandazioni. Non fu sufficiente presentarmi per quel che ero, non fu ancora sufficiente dire che avrei lavorato gratis per dar modo di conoscermi, non fu di nuovo sufficiente dire che sarei stato disposto a farmi valutare, a farmi esaminare da chiunque per verificare che non millantassi qualità che non possedevo. No, non fu sufficiente tutto questo. È bastata la segnalazione di un onorevole che non ho mai conosciuto e che non ho mai votato.

Fui assunto inizialmente come precario e poi, dopo il bando di concorso pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale (il CNR è un Ente Pubblico) a tempo indeterminato. Quei bandi di concorso, altra bufala di Stato. I requisiti richiesti nel bando sono talmente commisurati al candidato già prescelto da far scoraggiare anche il più temerario in cerca di un posto di lavoro. Che serietà è mai questa?

Nella Pubblica Amministrazione il concorso, se è fatto seriamente, e qui si potrebbe aprire un intero capitolo, è l’unico strumento che può far emergere il più meritevole. Tale concorso, ovviamente, dovrebbe essere bandito a priori e non a posteriori, quando alcune posizioni sono già ormai consolidate (in maniera non sempre corretta, come fu nel mio caso).

Allora però non provai alcun senso di disagio per quella raccomandazione. Quel posto era mio, me l’ero meritato, avevo lottato con tutte le mie forze per averlo. Ero fermamente convinto di non aver portato via niente a nessuno. Adesso facevo parte del CNR, “Laboratorio per lo studio della dinamica delle grandi masse”. Lo dicevo a ogni conoscente che incontravo. «Vuoi che te lo dica in inglese? Laboratory for the study of...» Non ero un geometra del Consorzio Agrario né del Catasto. Lavoravo in un laboratorio con geologi, fisici, ingegneri. Non ero tra i primi, ma per il momento mi bastava eccome. Avrei rinviato l’iscrizione all’Università per non creare subito dei problemi. Poi lavoravo per salvare Venezia, la città più bella del mondo, sotto il patrocinio dell’UNESCO. Se qualcuno me l’avesse detto qualche anno prima, l’avrei scambiato per pazzo. Ero al settimo cielo.

All’inizio fu entusiasmante, il mio compito era quello di effettuare una mappatura completa dei pozzi artesiani presenti a Venezia e nelle isole dell’Estuario. Una di queste, Poveglia, la ricordo come un piccolo Paradiso Terrestre. Nel periodo della Serenissima questa isoletta aveva la funzione di stazione per la quarantena marittima, ma durante la mia attività era abitata da una sola famiglia di contadini. Tutti gli animali da cortile razzolavano liberi tra alberi carichi di frutta. L’acqua veniva attinta dall’unico pozzo presente ed era limpida e fresca anche d’estate. Il suo vecchio campanile si specchiava sulla laguna circostante e tutto era avvolto da un silenzio surreale. Spesso il contadino si recava al Lido con la sua barca per le necessità quotidiane, vogando lentamente. Sembrava che il tempo in quel piccolo angolo di mondo si fosse fermato.

Purtroppo però il mio entusiasmo iniziale a poco a poco si affievolì perché iniziai a capire in quali condizioni versava la icerca pubblica in Italia. I fondi tardavano ad arrivare e lo stipendio mensile non sempre veniva pagato regolarmente. Il CNR era un altro carrozzone di Stato dove anche la “scienza” doveva sottostare alla burocrazia. Alcuni anni dopo, a seguito di una determinazione della Corte dei Conti, risultò che su dieci euro di spesa, sette andavano a coprire gli stipendi del Consiglio di Amministrazione, delle segreterie, dei dirigenti amministrativi e della burocrazia centrale. Solo tre euro gocciolavano effettivamente, quasi per miracolo, fino alla ricerca. Quella determinazione fu contestata, ma non credo fosse molto lontana dalla realtà. Tutto questo senza togliere nulla ai giovani ricercatori preparati che lavoravano là dentro. Non tutti per la verità, non tutti.

Oggi quel laboratorio non esiste più. La sua sede è diventata un albergo di lusso e francamente non so a quali risultati abbiano portato tutte quelle ricerche.

Nel gennaio del ’71 vinsi un concorso all’Enel, questa volta senza nessuna raccomandazione. Lasciai il CNR senza alcun rimpianto e iniziai in quella nuova società la mia carriera.

NOTE

[1] E’ un lungo muro di granito nero lucidato, dove sono incisi in rilievo migliaia di nomi dei caduti in Vietnam. Qualcuno non aveva ancora compiuto vent’anni.

[2] Herbert Marcuse “L’uomo a una dimensione”.

[3] Max Weber “L’Etica protestante e lo spirito del Capitalismo”.

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Conclusioni

Con l’inizio degli anni ’70 e l'ingresso nel mondo del lavoro il mio racconto giunge alla conclusione. Non che le cose da raccontare siano finite, tutt’altro: l’acquisto della prima auto, le gite con la compagnia di amici, le arrampicate inmontagna, l’incontro ad Alleghe con una ragazza carina che sarebbe poi diventata mia moglie, l’Università, la passione per i viaggi per conoscere popoli e culture diverse, la nascita di un figlio, la fondazione di una piccola software house con un amico ingegnere.

Ma io ho voluto narrare soprattutto la mia infanzia e adolescenza, perché credo che sotto molti punti di vista non siano assolutamente paragonabili a quelle delle ultime generazioni.

Non è certo facile dare un senso univoco alla propria esperienza di vita, ma quando rifletto sulla mia storia, così come mi è capitato di fare scrivendo questo libro, voglio pensare che la mia buona volontà, la tenacia, la grande passione per lo studio e la conoscenza, nonostante le paure e le ansie che mi hannoaccompagnato nel corso della vita, in qualche modo siano state premiate. Io venivo dal nulla e vedevo un futuro pieno di opportunità, bastava avere la forza e la determinazione per coglierle, malgrado le mille difficoltà dovute alle condizioni di partenza. I giovani d’oggi invece, pur provenendo da un ambientesicuramente migliore del mio, vivono difficoltà di natura completamente diversa. Queste sembrano spesso insuperabili a causa di una crisi occupazionale senza precedenti che, nonostante tutto, io e molti altri della mia età non abbiamo conosciuto. Di fronte a tale situazione però, non ci si dovrebbe arrendere senza lottare. Sono necessari oggi più di ieri coraggio, determinazione e soprattutto grande competenza. Spesso invece prevale un atteggiamento rinunciatario, che comporta il rischio di perdere un’intera generazione con un futuro incerto per tutti. Credo inoltre che il disagio che ha caratterizzato la mia infanzia sia stato dovuto oltre che alle condizioni economiche, anche alla mentalità ristretta tipica della campagna veneta di quel tempo; penso tuttavia che lo spirito di solidarietà che anima le comunità povere, dove le famiglie, solitamente molto unite, si aiutano l’una con l’altra, spesso con spirito di abnegazione, per certi aspetti abbia mitigato quel disagio. In quella gente inoltre c’era un senso di umiltà dovuto alla consapevolezza dei propri limiti culturali. Lo sviluppo economico senza precedenti, che si realizzò successivamente, per cui oggi, nonostante la crisi economica, il Veneto vanta ancora dei primati, accompagnato però da un’insufficienza della società civile, ha contribuito in parte a sgretolare proprio quei valori positivi che caratterizzavano questa regione, a suo tempo terra di emigrazione, lasciando spazio a forme diverse di disagio per certi aspetti più cocenti.

A questo proposito vorrei concludere da dove ho iniziato, cioè dal libro speditomi dal mio maestro. C’era un biglietto che accompagnava quel libro: oltre ai saluti e agli auguri, una frase era scritta quasi con timore: “Spero che lo spirito della Lega non abbia cambiato le cose tra noi”. L’ho fatto leggere a mia moglie e anche lei ha sorriso come ho fatto io. No, caro maestro, lo spirito della Lega non mi ha nemmeno sfiorato. Non sarei però disposto a scommettere invece per i tanti che a suo tempo l’hanno circondata di affetti, poiché la Lega al comune di Dolo ha avuto consensi “bulgari”.

C’è stato uno stretto legame tra il cosiddetto miracolo economico del Veneto e le vicissitudini della Liga prima e della Lega Nord poi. Molti autori1 attribuiscono il successo di questa forza politica all’adesione ai forti valori che permangono nel Veneto, nonostante le trasformazioni produttive che hanno caratterizzato la regione: il senso della famiglia come azienda naturale, così come il senso del campanile e del municipio.

Era quasi scontato che prima o poi una parte dell’elettorato di questa regione avrebbe abbandonato la DC, considerata un partito-Stato in contrapposizione al non-Stato, cioè all’abitudine di fare da soli. Ė stata proprio la proverbiale laboriosità dei suoi abitanti a creare il benessere economico del Veneto, più che una innovazione dei sistemi produttivi. Ricordo famiglie nelle quali tutti s’improvvisarono veri e propri artigiani: chi tagliava o cuciva i maglioni per Benetton, chi preparava le tomaie per i calzaturifici della Riviera del Brenta, chi confezionava cappelli di tela. Il capofamiglia spesso svolgeva una di queste attività come secondo o terzo lavoro, alla sera o nei giorni di festa. Il laboratorio, dapprima era la cantina o la soffitta, poi il garage esterno.

Un giorno mia moglie venne a sapere che un po’ fuori Mestre c’era un laboratorio di artigiani che fabbricavano scarpe da uomo per un noto marchio di lusso. Tali prodotti venivano venduti ad amici di amici fidati a un prezzo scontatissimo. Mia moglie mi convinse, con qualche difficoltà, ad andare a vedere. Dalle indicazioni ricevute ci trovammo ben presto in aperta campagna, dove solo qua e là spuntava qualche casolare. Chiedemmo informazioni, ma nessuno sapeva di questo laboratorio. Io persi subito la pazienza, che non è da annoverare tra le mie virtù.

«Ti rendi conto che è impossibile che ci sia uno spaccio di scarpe qui, in mezzo ai campi? Torniamo a casa, su!» «Stai calmo, chiediamo ancora in quei cascinali in fondo laggiù» disse mia moglie che in queste cose è più testarda di me.

Finalmente in uno di questi aprì una signora di mezza età che sembrava essere una contadina.

«Scusi signora, è qui che...»

«Sì, è qui, venite».

Dietro al cascinale, ben nascosto in mezzo ai filari d’uva, c’era una piccola costruzione adibita a laboratorio, in cui i tre figli della signora lavoravano alacremente. Era domenica mattina.

Alcuni sostengono che tutta quest’attività sommersa venne alimentata anche dalla fuoriuscita di molti operai in seguito alle prime ristrutturazioni di Porto Marghera. Naturalmente tutto era in nero e il sindacato era tenuto ben lontano. Non c’è dubbio quindi che il reddito familiare aumentava e la capacità di spesa anche. Il benessere economico generato in queste condizioni era destinato però a fallire ben presto. Anche se i garage nel frattempo si erano trasformati in capannoni, una parcellizzazione produttiva comporta inevitabilmente un ritardo nell’adozione diffusa di nuove tecnologie che richiederebbero una diversa struttura organizzativa e rende più difficile presidiare i mercati esteri, sviluppare reti commerciali/distributive adeguate. Finisce in pratica per limitare anziché aumentare la produzione. Con il crollo del muro di Berlino e con l’apertura dei mercati dell’Est questo sistema ha dimostrato ben presto i suoi limiti e il benessere piano piano si è ridotto. La Lega probabilmente intuì che la causa della crisi economica del Nord-Est e in particolare del Veneto andava ricercata proprio all’interno di questo debole sistema produttivo ma, impegnata com’era a raccogliere il malcontento che cominciava a serpeggiare in questa regione, fu abile a convincere molti che le cause erano altre: l’immigrazione dei meridionali prima e quella degli extracomunitari poi, l’esosità di “Roma ladrona”, ecc. Così, dopo l’implosione della Democrazia Cristiana, i Veneti corsero in massa tra le braccia della Lega.

Questa, che in origine aveva qualche vaga idea accettabile – il principio del federalismo, la necessità di un controllo dei fiumi di denaro che dal Nord andavano verso il Sud, non sempre per contribuire al riscatto economico e sociale di quelle regioni – finì per essere il collettore di qualsiasi rancore sociale e odio xenofobo.

Anche in questo caso non posso non richiamare le responsabilità della Chiesa. Senza nascondermi dietro ad un facile buonismo e con la consapevolezza che il problematico fenomeno dell’immigrazione non ha facili soluzioni, provo un senso di malessere interiore ogni volta che vedo quei barconi carichi di disperati, colpevoli solo di essere nati a una latitudine o a una longitudine diversa dalla nostra. E se è così per un laico, quale dovrebbe essere l’atteggiamento di un cristiano di fronte a questa tragedia? Non dovrebbe levarsi alto e forte dal pulpito delle nostrane chiese parrocchiali un monito contro i fedeli che votano per la lega, poiché è assolutamente inconciliabile per un cristiano aderire a un partito che si richiama a ideali xenofobi? “Ama il prossimo tuo come te stesso” comandò Gesù, e non mi sembra di ricordare che aggiunse poi “purché non sia extracomunitario”.

Eppure tra i leghisti si annoverano anche diversi parroci, forse spaventati dai nuovi saraceni. E pensare che nessuno come la Chiesa cattolica ha saputo condannare, nel corso degli anni, le nuove idee che riteneva contrarie ai suoi dogmi. Ho ancora bene nella mente quello che avvenne all’aeroporto di Managua, durante la visita pastorale di Giovanni Paolo II in Nicaragua, il 6 marzo 1983: papa Wojtyla dritto in piedi, con la stola svolazzante e il dito alzato in segno di condanna, e il povero padre Ernesto Cardenal in ginocchio col capo chino, umiliato davanti a tutto il mondo, colpevole agli occhi del pontefice di voler applicare la Teologia della Liberazione nei confronti delle popolazioni povere dell’America Latina.

A proposito del bacino di voti della Lega, va ricordato soprattutto che molti osservatori hanno parlato di una certa avversione, da parte di questi protagonisti del miracolo economico, nei confronti di alti livelli di acculturazione, quasi che l’accesso alla cultura fosse un elemento da tenere a debita distanza.

Nell’ultima parte della mia attività all’Enel mi è capitato spesso di far parte di una commissione per l’assunzione di operai specializzati. Mi recavo quindi nelle sedi provinciali, che per l’occasione diventavano sedi di esame. Il mio compito era quello di capire se il candidato, destinato, se assunto, a diventare un tecnico operativo a capo di una squadra di operai, fosse dotato di un minimo di destrezza nel ragionamento. Poi venivano le domande dell’ingegnere, il presidente della commissione, tutte di carattere tecnico specifico. I candidati provenivano in gran parte da istituti tecnici con il diploma di perito elettrotecnico. Spesso rivolgevo loro questa domanda: “Secondo lei quante utenze domestiche ha l’Enel nel Veneto?” Non m’interessava la risposta di per sé, ma il ragionamento che la sottendeva. In Italia ci sono 60 milioni di persone e 20 regioni, cioè un numero medio di 3 milioni per regione; una famiglia è composta mediamente da 3 persone: quindi 1 milione di famiglie per ogni regione, 1 milione di utenze domestiche.

Ecco alcune risposte che non si possono dimenticare: «Trecento milioni».

«Quanti abitanti ha il Veneto, scusi?» Rifeci la domanda sperando di aver capito male.

«Non so. Trecento milioni più o meno».

«E... quanti abitanti avrebbe secondo lei allora l’Italia?»

«Non saprei, qualche miliardo».

Altro esempio: «Quanti abitanti ha l’Italia?»

«Cinquecentomila».

«Scusi, ma lei dove abita?»

«A Dueville».

«E quanti abitanti ha Dueville?»

«Quindicimila».

«Un solo comune ha quindicimila abitanti e dunque tutta l’Italia?»

«Cinquecentomila» rispose prontamente con il tono di chi vuol dire “ma quante volte devo darti 'sta risposta?”

Ovviamente le domande finivano lì e il candidato era invitato ad andarsene.

Un giorno, il Capo Zona di Padova, un giovane e brillante ingegnere, si accorse del mio sconcerto e mi disse: «Senti, se tu vai a vedere dove abitano questi ragazzi, scoprirai delle casette singole di periferia, tutte ordinate, tenute benissimo, imbiancate di fresco e con un piccolo prato rasato all’inglese. Dentro non c’è un libro o un giornale e quando c’è è aperto sulle pagine sportive o al massimo sulla cronaca locale. A cena, tra un sms e l’altro, non si parla che di schei e calcio. La televisione è sempre accesa sui canali commerciali e in particolare sui vari reality. Questo è l’ambiente culturale in cui vivono».

«Ma la scuola, la scuola?» Lo interruppi io.

«Cosa vuoi, la scuola fa quello che può».

«Ma noi già alle elementari, in un ambiente molto più povero del loro, sapevamo tutto sulle regioni, gli abitanti, le provincie: Torino, Alessandria, Asti, Cuneo Novara Vercelli. Milano, Bergamo, Brescia, Como, Cremona...».

«Se non c’è un interesse personale, la scuola non serve a niente» m’interruppe lui. «E poi oggi negli istituti tecnici le iscrizioni sono in calo. Gli insegnanti si guardano bene dal bocciare: sarebbe come segare il ramo su cui siedono, vanno avanti tutti. Oggi si va a suola non per sapere, per il desiderio di apprendere, come credo facevi tu, ma per prendere un diploma qualsiasi che quasi sempre non serve. In un contesto del genere cosa ti puoi aspettare?»

«Niente» risposi io, amareggiato da quelle parole.

«Appunto, niente!»


Indice

Copertina

Introduzione

I     Sambruson

II    Anni difficili

III  Utopia e realtà

Conclusioni

_________________________________________________________________

articolo a cura di luigi zampieri

Ultimo aggiornamento (Martedì 25 Agosto 2015 17:25)

 

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