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Padre Renato Zilio, missionario, giornalista, scrittore

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PERSONE - PERSONE IMPORTANTI

Aggiornamento a fine articolo : Trentesima Ristampa "Dio attende alla frontiera"


Padre Renato Zilio fra le persone importanti

nel sito internet Sambrusonlastoria

E’ andata così.

Il 25 Aprile, arriva a casa una telefonata e come sempre risponde Renata, mia moglie.

La sto guardando e ascoltando mentre telefona e la sento, molto sorpresa, pronunciare

“Come mai, padre Renato, dopo tanti anni?”

“Perché, forse ci conosciamo?”

“Altroché, non ti ricordi, a Parigi, tanti anni fa’ …….. “

Gli anni fà sono almeno una trentina.

Padre Renato, allora giovane prete, ci aveva accolto, con altri quattro amici di Dolo e Sambruson, e scarrozzato per Parigi, prelevandoci dalla Gare de Lyon e facendoci da guida e interprete durante la nostra permanenza ma soprattutto creando le condizioni per una amicizia  sempre latente nei nostri pensieri anche se poi non più coltivata.

Bastò quel breve periodo per intuire lo spessore dell’uomo.

La telefonata continua e poco dopo passa a me.

Renato, ora a Marsiglia, mi informa che segue il sito internet Sambrusonlastoria, fa i complimenti per il sito e mi fa capire che in qualche modo vorrebbe esserci.

“Ma quale stretto legame hai con Sambruson?” gli chiedo.

Mi risponde

“Sambruson per me è un riferimento perché i miei parenti, da questo paese hanno origine e alcuni ancora vi abitano; lo considero il mio paese adottivo, mi sento Ambrosiano.”

E noi, di Sambruson, siamo onorati di averlo come

nostro compaesano.

Da Parigi, Londra, Ginevra, Marsiglia, dall’Africa e dall’Asia, il “cittadino del mondo” Padre Renato, fa trasparire nelle sue innumerevoli testimonianze un grande attaccamento alle sue radici, mantenendo costantemente un profondo legame con i suoi luoghi di partenza: Prozzolo, Dolo, Venezia,Treviso, S.Donà e Sambruson.

Dell’importanza dell’uomo, missionario, scrittore, giornalista, mi rendo conto subito dopo, cercando in internet:

biografia, referenze, scritti, interviste, bibliografia, ect., una valanga di opere.

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Questo articolo propone, recensioni dei suoi libri, corrispondenze, interviste e notizie che ci sono sembrate significative. Mi scuso, soprattutto con P. Renato, per il modo un po’ casuale e  incompleto ma anche tipico delle cose in rete, in cui viene presentato l'articolo stesso.

In tempi come questi, di migrazioni tragiche, di intolleranza e di razzismo, faccio notare le parole ricorrenti nella sua opera di missionario, giornalista e scrittore.

multireligiosità, multiculturalità, multietnicità

Queste parole riassumono la sua vita e il suo insegnamento.

Egli ci insegna a leggere le persone, le situazioni o le novità, a guardare senza pregiudizio, a considerare la differenza e la novità come una ricchezza, a guardare da altre visuali e ad aprire mente e cuore, per "costruire il bene più prezioso tra gli uomini, l'unità tra di loro".

 

Padre Zilio è un missionario scalabriniano, ha fatto studi letterari presso l'Università di Padova, studi teologici a Parigi. Ha iniziato e diretto il Centro interculturale giovanile di Ecoublay nella Regione Parigina. Ha diretto a Ginevra la rivista della comunità italiana Presenza italiana. Dopo l'esperienza al Centro Studi Migrazioni Internazionali (Ciemi) di Parigi e quella missionaria a Gibuti (Corno d'Africa), è vissuto a Ginevra, a Londra al Centro interculturale Scalabrini di Brixton Road e vive attualmente a Marsiglia.

Ha scritto :

Dio attende alla frontiera

Zilio Renato - 2012 – EMI

Vangelo dei migranti. Con gli italiani in terra inglese

Zilio Renato - 2010 – EMI

Lettere da Gibuti

Zilio Renato - 2009 – EMP

Parole dal deserto. Incontri di conversione

Zilio Renato - 2009 - Paoline Editoriale Libri

Elogio dell'incontro

Zilio Renato - 1996 - Paoline Editoriale Libri

Elogio della differenza

Zilio Renato - 1996 - Paoline Editoriale Libri

Elogio della tolleranza

Zilio Renato - 1995 - Paoline Editoriale Libri


Giornalista freelance della Free Lance International Press e redattore di La Perfetta Letizia, rivista cattolica online di attualità.

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Mons. Franco Costa - Vicario episcopale - Diocesi di Padova

così presenta e commenta il libro di P. Renato Zilio

Dio attende alla frontiera

proponendoci anche la figura e la vita dell’autore

Si può “rappresentare” in un racconto accattivante, fatto di mondi che si incrociano, di tradizioni e di popoli fino a ieri lontani, che cosa è “un’antropologia cristiana”? Ossia una umanità che sappia affascinare il lettore alla vita buona del Vangelo? Risponde significativamente a queste domande un libro di Renato Zilio, missionario scalabriniano e scrittore, veneziano per nascita e padovano per diocesi. Il libro “Dio attende alla frontiera” (EMI, Bologna 2012, 142 pagine), con la prefazione dell’Abate di Montecassino Don Pietro Vittorelli raccoglie una serie di racconti brevi, réportage di viaggi e di soste, quadri di vita vissuta, tutti sul limitare di frontiere che per l’Autore - a differenza delle frontiere nazionali del mondo e dei muri che vi si innalzano - favoriscono incontri di popoli diversi e di culture, avvicinano religioni, suggeriscono osmosi reali e possibili di riti, esperienze religiose e valori. Viaggiatore planetario, già fondatore del Centro interculturale di Ecoublay a Parigi e direttore della rivista Presenza italiana a Ginevra, ora a Londra, in Brixton Road, al Centro interculturale Scalabrini, Padre Zilio ha il merito di suscitare il fascino di una vita che si rinnova solo se si sforza di guardare oltre le diversità. Di varcare limiti apparentemente insuperabili, di scorgere lampi di verità e di bellezza autentici nelle pieghe di esistenze anonime di uomini e donne di oggi. La frontiera sulla quale scegliere di abitare, per l’Autore, è come l’orizzonte fino al quale si spinge lo sguardo e si dilata quando tu lo avvicini per rivelarsi ancora con nuovo fascino. Ha imparato da bambino ciò che la sua famiglia e la natura della sua terra gli ha fatto apprezzare: che la vita viene spesso incontro con il volto della gratuità e insegna ad amare ciò che sta “oltre” il confine che momentaneamente si vede. Oltre la frontiera della propria cultura e della propria confessione religiosa. Oltre le frontiere che separano maggioranza e minoranze. Oltre le frontiere fisiche, politiche, culturali e, perfino, oltre la frontiera della morte, poiché in ogni cultura e religione si riconoscono riti e gesti per medicare il lutto. Cittadino del mondo, padre Renato Zilio ti fa riconoscere e incontrare Dio negli ospiti dei centri interculturali di Ginevra, di Londra e di Parigi; nell’esperienza pastorale del seminarista brasiliano Eduardo e poi anche nella pratica della vita monastica buddhista di Luoyang (Cina). Ma specialmente nella comunità trappista di monaci a Midelt, altopiano desertico nel cuore del Marocco, dove una rinata comunità di Notre-Dame de l’Atlas fa rivivere e amare la testimonianza del martirio dei monaci trappisti di Tibhirine (1996). Dio è sulla frontiera che ti attende. E non ti realizzerai pienamente in umanità se non vai a vivere su ogni frontiera, dove Lui ti attende. Il Dio di Gesù Cristo è il Dio dell’incontro.

Mons. Franco Costa - Vicario episcopale - Diocesi di Padova

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Renato Zilio: Dio attende alla frontiera

Martedì, 6 Marzo, 2012

Francesca Di Palma

Renato Zilio, missionario scalabriniano, racconta e medita su tanti episodi della sua lunga esperienza in missione in diversi paesi, proponendo, con il suo stile nitido, gradevole, e a tratti soffuso di poesia, quadri di vita vissuta, guardata con l'occhio attento e libero che sa andare oltre l'apparenza della superficie e arrivare in profondità, alla vera essenza di situazioni umane, all'anima. E' così che riesce a trasmettere con convinzione ciò che ha imparato: a leggere le persone, le situazioni o le novità, a guardare senza pregiudizio e a valorizzare l'altro, a considerare la differenza e la novità come una ricchezza, a guardare da altre visuali e ad aprire mente e cuore, per "costruire il bene più prezioso tra gli uomini, l'unità tra di loro". Così si legge nella prefazione, redatta da dom Pietro Vittorelli, abate di Montecassino, al volume "Dio attende alla frontiera" di Renato Zilio, edito da Emi, Editrice Missionaria Italiana.
Il libro racconta l'esperienza missionaria del padre scalabriniano che, fedele allo spirito della sua congregazione, accompagna la vita, la fede e la cultura di comunità di italiani emigrati all'estero, secondo i valori dell'accoglienza e della minoranza.
Il racconto ha avvio nel 1995, quando padre Zilio si trovava nel Centro Interculturale per giovani a Ecoublay, nei pressi di Parigi, un luogo dalla natura meravigliosa dove ha imparato l'atteggiamento dell'ascolto, fondamentale nell'approccio e nella comprensione completa dell'altro.
Dopo l'esperienza francese, padre Zilio si è trasferito nella Missione cattolica italiana a Ginevra, città di frontiera per eccellenza, dove alla celebrazione della Messa intervenivano gruppi di Colombiani, Ecuadoregni, Boliviani, Portoghesi, e dove, nella settimana di preghiera per l'unità dei Cristiani, la comunità cristiana si ritrovava con la parrocchia cattolica svizzera e protestante per incontri di riflessione e scambio, realizzando il vero ecumenismo.
Dal 2008, Padre Zilio si trova a Londra, al Centro Scalabrini di Brixton Road, dove si trovano insieme gli italiani trasferitisi nella metropoli inglese. Qui, si ritrovano i propri connazionali, la propria gente, la propria lingua; questo contatto induce in padre Zilio una riflessione, cioè che gli emigranti hanno conservato la fede, e hanno saputo vincere le grandi paure nascoste in ogni essere umano, che mette la propria vita nelle mani di Dio, lasciando tutte le certezze, le sicurezze legate alle proprie origini, seguendo l'invito evangelico "Esci dalla tua terra!".
Il libro prosegue raccontando innumerevoli episodi di ecumenismo sperimentati da Padre Renato nella sua esperienza londinese a contatto con una città multietnica, multiculturale e multireligiosa.
La comunità cristiana presente a Londra trova nella Missione cattolica accoglienza, empatia e un senso di famiglia, ricordando le origini comuni, commentando gli accadimenti del Paese, riconoscendosi negli stessi valori.
L'ultima parte del volume, racconta l'esperienza di Renato Zilio in Marocco, luogo di provenienza di molti immigrati in Europa; il senso di questo viaggio riporta proprio alla necessità di toccare con mano la cultura, gli usi, le tradizioni e la religione di chi arriva nel nostro continente da questa parte del mondo.
"Incontrare l'altro è sporgere la testa fuori dalla propria tenda. E al tempo stesso prepararvi uno spazio al suo interno, per accogliere chi potrebbe passare": in queste parole dell'autore si può riassumere il senso del volume, che costituisce un piccolo tassello nella direzione di una costruzione di una vera unità fra gli uomini. Francesca Di Palma.

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LETTERE DA GIBUTI  
di Renato Zilio con note di Giulio Albanese e Giorgio Bertin, 
Edizioni Messaggero Padova 2009, pp. 88.

Renato Zilio, missionario scalabriniano, è specializzato in teologia delle religioni. Il suo carisma gli permette di esprimersi in modo semplice ed incisivo, andando diritto al cuore del lettore.
Questa è una pubblicazione struggente e affascinante. L’autore ci fa toccare i drammi della miseria più nera, della droga, delle malattie, della fame, della sporcizia (a Gibuti non piove da più di quattro anni), della fuga disperata verso la ricerca di un posto di lavoro. Eppure questo paese incanta l’autore non solo per il miracolo delle religiose che leniscono tante piaghe, non solo per la fede che musulmani e cristiani esprimono in modi diversi, capaci comunque di capirsi e di amarsi, ma anche per la serenità e la gioia che quella popolazione assapora e irradia, pure segnata da ferite laceranti.

Mi rendo conto che ogni citazione sarebbe una mutilazione di un’opera che va letta e meditata nel suo complesso. Questa sintesi è un gioiello che ci offre la chiave per lasciarci coinvolgere nel mistero di queste “Afriche” così ricche non solo di materie prime, ma soprattutto di spiritualità. Il petrolio fa gola alla Cina, agli Stati Uniti, che hanno intrapreso una nuova colonizzazione di quel continente. Le oligarchie locali, ben foraggiate, tacciono sul dramma di questa invasione, che strappa all’Africa la sua anima.

Si vive la situazione paradossale di sprofondare nella miseria in mezzo all’abbondanza. Già oggi nel mondo si produce cibo per sfamare 12 miliardi di persone (cf.Jean Ziegler, p.80), ma la squilibrata distribuzione di esso fa sì che i pochi abbiano troppo e i molti abbiano niente.
Ci sarà un futuro positivo per le Afriche? È un fatto che ci siano indizi terribili che portano allo scoraggiamento, ma ci sono pure segni di speranza. I giovani africani, la stragrande maggioranza della popolazione, “hanno fame e sete di democrazia”(p.83). 
“Le donne producono il 62% del reddito e sono spesso alla guida di movimenti per i diritti umani. E proprio grazie ai giovani e alle donne sta maturando una società civile composta di comunità cristiane, associazioni ambientali, movimenti per la libertà di pensiero, con l’intento di promuovere l’affezione al “bene comune”.
Occidentali e africani dobbiamo incontrarci, come scrisse Léopold Senghor, all’appuntamento dove il dare e il ricevere sono reciproci” (pp. 83-84).
a cura di Sandro VITALINI Professore emerito dell’Università di Friburgo (Svizzera). 
Recensione apparsa sul Bollettino Ufficiale della Diocesi di Lugano, gennaio 2009.

Anna Bertini il 12 ottobre 2009 ha scritto:
Gibuti è il nome di una giovane repubblica africana e, allo stesso tempo, della sua capitale nel Corno d’Africa, tra Somalia, Etiopia e Eritrea.Territorio dell’Islam, sbarcato già nel VII secolo dalla vicina penisola Arabica. 
Qui si incontra povertà, disoccupazione, emigrazione, kat, prostituzione: su tutto questo, però, si distende magnifico il canto delle moschee ”Dio è grande!” come una strana e spendida corale. Solo la fede sostiene questo meraviglioso popolo e una solidarietà quotidiana...

Ma c’è anche la presenza di uomini e donne, che fanno miracoli altrettanto quotidiani: sono cristiani. I loro sono gesti di collaborazione, di aiuto, di uno sguardo o una parola che incoraggiano. Sono suore, giovani volontari, missionari, piccole comunità cristiane, che si fanno in cento nel campo della sanità, dell’insegnamento, dell’aiuto concreto alle varie povertà.

Spiccano nella lettura di Lettere da Gibuti alcuni volti come quelli delle Suore di Gibuti, “donne di carità, di frontiera e di obbedienza”. Tra di loro la figura di suor Anna, anziana donna veneta di gran cuore e altrettanto temperamento, capace, talvolta, di presentarsi alla polizia per fare le sue rimostranze: “Voi trattate come animali questi emigranti!” I poliziotti la ascoltano rispettosamente e restano interdetti. L’impegno delle suore cristiane in questa terra musulmana è assicurare la presenza viva del Vangelo non solo attraverso le attività, ma anche l’impegno vissuto nella gioia e realizzato nell’amore. 

Vivere da cristiani in un ambiente musulmano è qualcosa di veramente originale. È la vocazione coraggiosa di una Chiesa povera, minoritaria, senza ambizioni, di un cristianesimo che riscopre il messaggio del Vangelo: la passione per l’uomo, per tutti gli uomini senza distinzioni. Volti e situazioni differenti sono presentati in queste Lettere con pennellate rapide, efficaci ed uno sguardo commosso come di eroi in un mondo di umili: sono i discepoli del Signore nella terra del Profeta, appassionati del “dialogo della vita” con un popolo radicalmente differente. Nella terra dove i credenti vivono unicamente la grandezza di Dio essi si fanno testimonianza di un Dio che è Amore.

Un tocco poetico si allea sempre ad una riflessione lucida ed efficace nel comprendere una grande verità: “I sistemi si oppongono, gli uomini si incontrano”. Pregevole, infine, la post-fazione di Giulio Albanese, sulla problematica delle Afriche (volutamente al plurale), che ricorda quanto lo scrittore senegalese Cheick Anta Diop a proposito dei rapporti Nord-Sud: “Non abbiamo avuto lo stesso passato, noi e voi, ma avremo necessariamente lo stesso futuro”.
Da un’esperienza di missione è nato questo libro e ne è testimonianza viva, concreta e appassionante. Si fa anche gesto missionario: i diritti di Autore sono inviati alla diocesi di Gibuti per la vita delle piccole comunità cristiane. Ma diventa anche strumento utilissimo per le nostre parrocchie, per una sensibilizzazione missionaria e migratoria, per una apertura sul panorama multireligioso attuale. È, in fondo, entrare in un mondo molto differente dal nostro, percorrendolo con lo sguardo, il cuore e la preghiera. Alla fine sarete senz’altro differenti. Si avvera, infatti, quella convinzione essenziale:“Un vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre,ma avere nuovi occhi”.)

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22/01/2014

INTERVISTA A P. RENATO ZILIO MISSIONARIO A LONDRA

La nuova frontiera  per tanti nostri giovani :

P. Renato Zilio è Missionario dei Migranti nella “ Parrocchia Italiana “ di Londra presso il Centro Interculturale Scalabrini di Brixon Road , corrisponde sul tema emigrazione con qualificate testate giornalistiche ,  è stato il relatore ufficiale della Giornata Mondiale dei Migrante celebrata a S.Maria del Rovere: “un polso della situazione “  ragguardevole per quanto riguarda la sua attualissima area  emigratoria. Lo abbiamo intervistato .

- Quanti sono i conterranei a  Londra , in quale contesto vivono ?  - “ Questa  non è una città, ma una metropoli. Quantificare  esattamente è un problema  perché non si registrano  e  arrivano continuamente valanghe di giovani . Recentemente il Console mi ha informato che  a  Londra  abbiamo  8 milioni di abitanti., tra cui sicuramente sui 400 mila italiani con una buona fetta di veneti e trevisani:  quasi una città come Firenze,  dove si parlano 300 lingue “

- Cosa consiglia a chi intende fare questo passo  ? – “ Che è un momento difficile , perché anche a Londra c’è crisi , con  difficoltà a  trovare lavoro e di conseguenza anche l’inserimento diventa un problema. Tuttavia , c’è  una concorrenza di giovani che arrivano numerosissimi . Qui c’è qualcosa che li magnetizza: è la capitale più interessante in Europa “

-Vantaggi e svantaggi ? – “ Partendo dall’Italia ,  il nostro piccolo mondo antico, si arriva al mondo dove, come dicono i giovani, qui tutto funziona . E’ un miracolo. Quindi è un modo di funzionalità. Mi ricorda mio nonno che  mi diceva :vai a militare e  farai giudizio. Adesso vanno all’estero e lì si faranno un’altra mentalità . Ma non si possono ignorare problemi che fanno parte dell’indole umana, come l’adattamento e la nostalgia. “

- Come  deve essere costruita la  personalità di chi viene lì ? - “   Deve essere solida , ben preparata anche intellettualmente, avere una buona conoscenza della lingua perché è la terra che incontri, è il passaporto per il mondo. Meglio se ha anche fede, perché è un motore in più nelle difficoltà . Poi ci vuole la curiosità, l’apertura al mondo e agli altri , la voglia di conoscere e capire.”

- Cosa può offrire , di prima istanza, questo nuovo approdo ? –  “ Qui , c’è una cultura che  vige da secoli, specialmente in quello ultimo: è la ristorazione , la cucina italiana, anche nel senso dell’indotto commerciale e alimentare . E’ la nostra onda, la nostra eccellenza “

-  Nel nuovo tessuto sociale, ci si sente stranieri oppure bene accolti ? - “ A differenza della vecchia emigrazione, qui i giovani che arrivano incontrano subito un mondo multiculturale dove si trovano a loro agio, come pesci nell’acqua . E , in poco tempo, riescono a trovarsi bene.

- Si ritrovano fra loro ? - “ I giovani hanno tanti mezzi di comunicazione, internet e altro , per cui non sono così attenti a socializzare o fare associazionismo. Ma si disperdono.  Anzi ,qualche giovane mi dice  “ sono appena arrivato, non voglio vedere italiani, perché così non imparerò mai la lingua “

-  Cosa apprezza di Londra e di Treviso ? – “  A Londra si vive in un continente particolare, con il  mondo in casa, dove c’è il senso del rapporto con l’altro , ormai  levigato da anni, che consente di  vivere insieme ogni istante,con una certa armonia . Quello che trovo interessante a Treviso è ciò che troverebbe interessante ogni inglese quando arriva in Italia . Egli ama la delizia del piccolo rapporto , la relazione umana quel senso di paese che abbiamo noi e se mai anche di famiglia. Eppoi, , il paesaggio, le costruzioni, l’arte, il senso del bello che noi coltiviamo come priorità  e che  all’estero non c’è

- Le sembra giusto che tanti cervelli cresciuti a plasmati in Italia vengano regalati all’estero ? – “  Questa è una grande tristezza in quanto non si capisce che ciò è un grande impoverimento , economico e anche morale,  Il fatto che i giovani partono da una nazione che non riesce a trattenere i talenti  che essa  stessa ha coltivato e prodotto , fa pensare.  Anni di studio e di investimenti e quando sono pronti  partono. Naturalmente, le altre nazioni, sono ben contente di ricevere già uomini fatti, già laureati, già  pronti all’opera. Non  siamo coscienti di quanto sia drammatico questo problema . Anche perché una nazione anziana come la nostra, se perde anche i giovani , come può scommettere sul suo avvenire .  Riccardo Masini

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Lettere da Gibuti

Vivere da cristiani in un ambiente musulmano è qualcosa di veramente originale. È la vocazione coraggiosa di una Chiesa povera, minoritaria, senza ambizioni, di un cristianesimo che riscopre il messaggio del Vangelo: la passione per l’uomo, per tutti gli uomini senza distinzioni. Questo nel Corno d’Africa, ad esempio, nella giovane repubblica di Gibuti.

Volti e situazioni differenti sono presentati con pennellate rapide, efficaci ed uno sguardo commosso come di eroi in un mondo di umili: sono i discepoli del Signore nella terra del Profeta (Maometto), appassionati del “dialogo della vita” con un popolo radicalmente differente. Nella terra dove i credenti vivono unicamente la grandezza di Dio - come ricordava Giovanni Paolo II ai giovani musulmani a Casablanca -  essi si fanno testimonianza di un Dio che è Amore. Un tocco poetico si allea sempre ad una riflessione lucida ed efficace nel comprendere una grande verità: “I sistemi si oppongono, ma gli uomini si incontrano”.

Da un’esperienza di missione è nato questo libro e ne è testimonianza viva, concreta e appassionante. Si fa anche gesto missionario: i diritti di Autore sono inviati alla diocesi di Gibuti per la vita delle piccole comunità cristiane.

Lettere da Gibuti di Renato Zilio,  Ed. Messaggero Padova 2009

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Parole dal deserto

Il lettore è invitato a vivere differenti luoghi o comunità, tra cui il monastero Notre Dame de l’Atlas in Marocco dei monaci di Tibirhine e il deserto del Sahara. Il deserto insegna l’essenziale, al di là di ogni cultura, di ogni abitudine acquisita o di ogni religione. Insegna ad andare all’essenza delle realtà che l’uomo vive, al cuore stesso dell’uomo per raggiungere, finalmente, il cuore di Dio. In questi luoghi uomini o donne più differenti sono portati dal soffio del vento del deserto. Uno Spirito di amore vivo, gratuito e profondo li anima. Una sorgente nascosta e potente scaturisce in loro, una vera scoperta per chi sa incontrarli: l’amore essenziale, nudo, senza contropartita, il più grande messaggio sulla terra di un Profeta venuto dal deserto. Uomo divinamente umano, creduto dai suoi discepoli come il volto stesso di Dio. Un giorno, spezzando del pane ha voluto rivelare che l’amore più grande è spezzarsi, perdersi e perdere tutto. Rimase questo il suo testamento consegnato ai secoli nella notte stessa del suo martirio. Per ogni discepolo, allora, amare sarà spezzare la propria vita, come il pane, per la vita degli altri, per la vita del mondo. «Il deserto, nella sua austera nudità, è un riferimento forte dell'esperienza religiosa e cristiana.Il libro Parole dal deserto con la sua densità poetica ci fa incontrare luoghi di deserto significativi per la vita attuale della Chiesa». (dalla presentazione del Cardinale Georges COTTIER)

Attraverso la metafora del deserto si ritrova qui l’urgenza, oggi più che mai evidente, del dialogo, dell’ascol-to dell’altro, dell’attenzione alla sua cultura differente, al suo mondo. L’Autore indica chiavi di lettura per guardare i grandi movimenti migratori nel loro aspetto più quotidiano. Queste pagine, dal linguaggio intenso e poetico, sono uno strumento di meditazione, di contemplazione e di sicura trasformazione interiore.

Parole dal deserto di Renato Zilio,  Ed. Paoline, Milano  2009

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Al cimitero inglese

“È un funerale di stato!” si precipita subito a dirmi una donna, appena arrivato. Qui in Inghilterra la cosa significa proprio il contrario, pur mantenendo il suo senso letterale. L’incinerazione sarà a spese dello stato. Ma lo è per dei poveri cristi, senza risorse, come questi. Anche per il servizio religioso nessuno se ne prenderà carico, a meno che un responsabile religioso abbia un po’ di cuore... La moglie è deceduta l’anno scorso e quest’anno è il giovane uomo, alcoolizzato; qui di fronte il resto della famiglia di emigranti portoghesi: un adolescente e una ragazza dallo sguardo pietrificato. Un’immensa pietas, allora, ti prende guardando attorno i pochi amici di famiglia... Sì, siamo in emigrazione.

Non è un funerale con i cavalli neri, come quello dell’altro giorno per un emigrato italiano. Questi aveva preferito qualcosa di old style. Il defunto, infatti, lo aveva sempre detto e desiderato, “un funerale con i cavalli,” creando non poche difficoltà per una strada stretta e trafficosa come la nostra. Qui la tradizione ancora impera e vecchie abitudini resistono, senza che nessuno se ne preoccupi tanto. Vecchio e nuovo coesistono a Londra, come la multiculturalità dai mille volti differenti. Si tratta di pacifica coabitazione, in fondo, che lascia ad ognuno la volontà di essere se stesso. Con la sua ambizione. Straordinaria metropoli inglese!

E così, prima del momento di preghiera al cimitero osservo il prato verde attorno all’antica cappella gotica. Una piccola croce di cenere è disegnata sull’erba con attorno deposte con grande cura a raggiera una dozzina di lunghe rose appassite. Vicino, scorgo un’altra croce di cenere. Sono esseri umani. Destinati a scomparire alla prima pioggia...

Scomparire nel nulla. Come l’essenzialità qui di un cimitero musulmano, dove si esalta unicamente la grandezza di Dio.  Così, una semplice pietra senza nome indica sotto, in profondità, la presenza di un credente. O solo una ciotola d’acqua sulle tombe di terra, perchè gli uccelli possano venirvi a cantare e ricordare la vita dell’aldilà. Semplicità evangelica, diresti, che corona la fine di un’esistenza. Su ogni cosa, infatti, sovrasta unicamente l’onnipotenza di Dio.

Tutto dice la provvisorietà di un’esistenza, il senso migrante del vivere che spesso  dimentichiamo. L’importanza di camminare con altri compagni in umanità - differenti da noi - con cui condividere la gioia e la fatica del vivere insieme. Altra lezione fondamentale di un cristianesimo rivisitato. E ritorna in mente il senso delle ultime parole del Cristo: “Tutto è compiuto!” Non tanto finito, quanto piuttosto vissuto, realizzato. E questo si fa stupenda convinzione per una giovane missionaria, suor Leonella, martire in terra d’Africa: “Abbiamo una sola vita e dobbiamo viverla intensamente. Alla fine non resterà nulla. Se non l’amore.”

Vangelo dei migranti di R.Zilio, EMI 2010 ( Prefazione Cardinal R.Etchegaray)

Dio attende alla frontiera - Renato Zilio

Pubblicato il 09 ott 2012

Per un'Italia ormai con il fiato corto si rivela urgente uscire dalle abitudini, dalle chiusure e dalle paure. Questa testimonianza missionaria vissuta all'estero tra emigranti italiani a Parigi, a Ginevra, a Londra e in Marocco e il loro sguardo sulla nostra patria sono un capolavoro di passione e di analisi delle situazioni che viviamo.

«Quadri di vita vissuta,
guardata con l'occhio attento e libero
che sa andare oltre l'apparenza
della superficie e arrivare in profondità,
alla vera essenza di situazioni umane,
all'anima»

Uomo di frontiera è colui che ha la lunga pazienza di cucirsi sulla pelle un vestito di terre e di cieli nuovi. 
Che si abitua a vedere paesaggi differenti, a spaziare nell'orizzonte dell'altro come una normalità. 
Vive a fianco dell'altro con empatia, oltrepassa i confini, nemici dell'umanità. 
Contemplare, oggi, tutto questo, e intravederne la forza segreta, significa riscoprire il medesimo e sempre nuovo volto di Dio: Colui che ti libera da te stesso. 
Il Dio dell'incontro. 
Colui che ti attende a ogni frontiera.

Prefazione di Don Pietro Vittorelli, abate di Montecassino
AUTORE: Zilio Renato
Missionario scalabriniano. Ha fatto studi universitari a Padova, in campo letterario, e a Parigi in teologia, conseguendo un titolo di master in teologia delle religioni. Ha fondato e diretto il Centro interculturale di Ecoublay nella regione parigina, e diretto a Ginevra la rivista "Presenza italiana". Attualmente vive a Londra, al Centro Interculturale Scalabrini di Brixton Road.

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P. Renato Zilio, missionario scalabriniano

Italiani in terra inglese Una miriade infinita di casette si allungano sulle rive del Great Ouse, un fiume dal tranquillo ritmo inglese. Un paesaggio verdissimo altrettanto inglese. E un cielo grigio e freddo anche ora in pieno agosto: maledetto clima di un'isola. È Bedford, a un'ora quasi da Londra. E, camminando, tutte le costruzioni ti guardano qui con i loro bei mattoni rosso-scuro... Se questi si mettessero a parlare, parlerebbero italiano! Sì, la grande comunità italiana qui residente se lo ricorda anche troppo bene. Quando circa 50 anni fa si lavorava duro 10-12 ore al giorno, a cottimo, in ben cinque fabbriche, che di mattoni ne sfornavano a milioni perfino per l'estero. Un'intesa con lo Stato italiano faceva arrivare manodopera da Avellino, da Benevento e dai dintorni di Napoli con l'obbligo di non cambiare mestiere nei primi quattro anni. I nostri italiani del Sud cadevano, così, in tutto un altro mondo: lingua, cultura, tradizioni e meteorologia diversissime dal loro paese. Altro che il sole del Sud, si dicevano subito, qui in un solo giorno vivi le quattro stagioni! Se al mattino ti pare bello, alla sera aspettati pioggia e freddo. Qualcuno ricorda ancora quando si andava a fare la spesa e c'era sempre chi si accucciava, sbatteva le ali e... faceva coccodé. Ed era per comprare delle uova! Si arrivava qui con la seconda elementare o anche meno, ma una grande fede, un enorme coraggio e i propri santi patroni. Sì, li ritrovi tutti nella chiesa della Missione italiana di Bedford. Allineati, luminosi, tutti in fila lungo le pareti, come una stupenda processione che ogni domenica ti aspetta. C'è S. Lucia portata da Cava dei Tirreni, S. Lorenzo da Busso, S. Ciriaco... Come per dire che lassù i nostri santi non si sono dimenticati della Chiesa pellegrina sulla terra e dei suoi figli migliori: i migranti. Quando poi qui si cantano le litanie... i ricordi e il coraggio si fanno vivi, vibranti, immensi. Come nei funerali, dove trovi sempre una folla enorme, una messa cantata dall'inizio alla fine. Mai visto altrove. È un vecchio combattente che si accompagna, è una storia eroica che si ricorda. Uno di noi ritorna a Dio e un migrante, pur tra un popolo di umili, è sempre un eroe. Peccato che i figli in chiesa li vedi poco - constata il dinamico parroco P. Giovanni Meneghetti - ancora meno la terza generazione. La fede va sfumando, quasi scomparendo, o almeno sono loro... Anche se le battaglie ci sono ancora, eccome!, ma di altro genere. Sarà il matrimonio di Isabella con un pakistano che stenta a camminare, di un italiano con una spagnola, con un'inglese... o problemi di dialogo, di identità o di prospettive. A volte, però, incontri delle sintesi belle, riuscite, armoniose tra due mondi... Giuseppina da Conegliano con Alfredo (che tutti credevano italiano, ma era semplicemente lituano) vendevano fish and chips che era una meraviglia: pescefritto meglio degli inglesi! Sì, diversamente da questi, disponibilità, sorriso e destrezza facevano parte degli ingredienti. Come sempre l'emigrazione ha una volontà di riuscita, ma anche una forza di rottura e di... ricomposizione sorprendenti! In terra inglese, così, il cammino dei nostri discendenti continua ancora oggi, anche se a volte manca un motore che i nostri vecchi avevano. La fede.

 

GIOVANI A LONDRA DI RENATO ZILIO

Martedì 22 Giugno 2010 20:30

Ma questa è un’invasione!” mi fa un impiegato inglese solitamente così serio e rituale allo sportello della vicina banca Barclays. Parla dell’arrembaggio dei nostri giovani italiani a Londra da un certo tempo in qua...  Evidentemente, nella città più popolosa e multiculturale d’Europa essi arrivano e scompaiono facilmente, mentre il loro accento si polverizza tra le 300 lingue che qui si parlano. Tuttavia il fenomeno si è ingrossato ultimamente e si rende visibile. È un cattivo sintomo per il nostro Paese, commenta qualcuno. La nostra è diventata per moltissimi giovani una terra senza speranza, senza prospettive e dalle rare opportunità. Per il nostro popolo - da sempre ottimista e ambizioso – è questo, in fondo, un vero handicap.

Sono giovani laureati o diplomati, ragazze forse più dei ragazzi, ventenni e più... Sbarcano, si propongono di rimanere qualche mese, qualche anno, senza precise scadenze.  L’attrazione prima è la lingua, vero passaporto per il mondo. Poi, in realtà, si agita sempre quel “sogno di Londra” così attraente anni fa come un’illusione collettiva per un modus vivendi più funzionale, con meno burocrazia, il clima di una società aperta e liberale, la complicità con tanti altri giovani. E, infine - aspetto nuovo in loro - la disponibilità ad ogni tipo di lavoro: la psicologa si fa baby sitter, il laureato cameriere... e spesso seguono contemporaneamente qualche corso all’università. Si parte dal basso. Quasi riscoprendo dei geni ereditari della cultura italiana: una straordinaria capacità di adattamento, un grande senso di universalità e apertura al mondo. Naturalmente, quando il campanile paesano non prende il sopravvento! E così vanno all’estero - go abroad – letteralmente, vanno al largo, come si esprime una lingua che sa di mare come quella inglese.

È la stessa logica che accompagnava qui i primi migranti italiani di fine ‘700, grandi viaggiatori, artisti o commercianti: il senso del cosmopolitismo. Rispolverato oggi, semmai, con il valore europeistico e quel curioso timbro di estraneità che si respira appena si passa la Manica. Le difficoltà, tuttavia, non mancano. È la solitudine di una metropoli, la dispersione, i ritmi a volte duri di lavoro, la difficoltà abitativa, la droga, la perdita di punti di riferimenti... Ciononostante, il vivere in una società pragmatica e  funzionale,  dove non c’è tabù comportamentale o vestimentario, dà la percezione di crescere al senso del mondo. Attraverso la lingua, lo stile di vita, la vivace dimensione multiculturale, insieme a stimoli culturali di ogni genere, nasce la precisa sensazione di essere usciti dal nido.

Si vive, allora, quel senso di provare e di provarsi. È il senso di una vita da combattere, uscendo dal contesto abituale, dal clima affettivo ristretto e vissuto in Italia. Si affronta il mondo. I modelli di vita ereditati di consumo e di riuscita si confrontano con la ristrettezza di mezzi economici, con la scuola della concretezza e del vivere in mezzo alla complessità. Come migliaia di migranti italiani venuti nell’ultimo secolo i giovani imparano che l’emigrazione è una lotta e una danza, qualcosa di duro e di bello insieme da vivere.

La fede si fa, allora, ricerca di senso religioso più profondo, spesso avvertito più fortemente che in Italia. Si impone come necessità di essere positivi, nonostante le disillusioni e le tante sconfitte.  La fede si fa impegno nel mettercela tutta di fronte alle difficoltà e diventa spesso un motore. La vita, così, è challenge, una sfida da giocare a fondo. È una lezione vera che stanno imparando. Educarsi alla mobilità, a uscire dai ghetti e dalle sicurezze circoscritte, che non permettono di respirare l’interculturalità e la diversità sociale di oggi. Evitare, allora, il rischio  di diventare autoreferenziali, per aprirsi a una società di tutte le razze e culture dove la diversità non fa più paura, ma è contesto quotidiano.

Così, alla fine della loro parabola all’estero, Sandro e Anna, due giovani architetti, rientrano in Italia per sposarsi e restarvi. Sono passati quattro anni intensamente vissuti a Londra, lavorando con un architetto coreano, uno indiano, un inglese e un ultimo pakistano: un team internazionale investito in grandi progetti in India. Esperienza formidabile, ti dicono entusiasti mentre brilla loro lo sguardo, ma sarà presa in conto? Difficile immaginarsi il loro futuro in Italia. Capisci, allora, che i giovani si attendono un’altra Italia: aperta, dinamica, tollerante e partecipativa. Sarà quella di domani?

Renato Zilio,  (direttore Voce degli Italiani, Londra)


Marsiglia, vita e cuore di una città di migranti

di Renato Zilio

«Le vieux port », il vecchio porto a Marsiglia è un’icona della città. Anzi, il suo cuore pulsante. Dove turisti, gente del posto, ristorantini, bancherelle di sapone-di-marsiglia e di lavanda si godono un bel sole mediterraneo. Anche a fine gennaio. Dove si gode un va-e-vieni di una miriade di barche o pescherecci. O all’alba, i pescatori, il pesce fresco e i soliti clienti mattinieri. Seicento anni prima di Cristo accostava qui qualche imbarcazione greca, come scritto su una pietra del molo. Erano i fondatori della città più antica di Francia, Massalia. Poi, Marseille. Una sera di quest’ultimo dicembre sbarcava, invece, sul vecchio porto una mappa gigante del Mediterraneo. Distesa per terra per metri e metri riunì ben presto attorno una piccola folla. Cartelli in legno attorcigliati di filo spinato ne indicavano i punti cruciali : Madrid, Ceuta, Melilla, Lampedusa, Roma, Cipro…

Era per commemorare la giornata ONU dei migranti. Organizzata dalla CIMADE, ci si ritrovava inizialmente in un « cercle du silence ». Più o meno 200 persone restano immobili come statue per più di dieci minuti. Forma attuale di protesta e di denuncia in favore dei migranti. Si sta così diffondendo in Francia in varie città. Poi la folla si è messa a cantare una « ballade » dopo l’altra, alla maniera francese, ognuna così bella e triste da lasciare il cuore senza battere, mentre le frasi ti morivano in bocca. Erano parole vere. Composte dagli stessi profughi che hanno vissuto la via crucis del Mediterraneo. I passanti si fermavano sul vecchio porto, presi d’incanto. E di compassione. Il mare e il migrare : é sempre stato un binomio forte come la vita. O come la morte, in tantissimi casi. 

L’altro giorno, invece, il clima era più festoso. Nella chiesa di St. Barnabé sembrava essersi dato appuntamento il mondo intero. Quasi tutti i pezzi del mosaico umano di Marsiglia erano là : la città si riconfermava porto di mare in ogni senso. Era all’occasione della « giornata mondiale del migrante » di metà gennaio. Il responsabile Paul Daniel dava inizio alla lettura di tutti i pregiudizi che la società di oggi scaglia contro chi emigra. Quasi come pietre di un’invisibile lapidazione. « Ci prendono il nostro lavoro » « Fanno figli per avere le indennità dallo Stato » « Vogliono islamizzare la Francia » « Ci prendono gli aiuti pubblici » Dei giovani, ad ogni frase, costruivano un grande muro, pietra su pietra… Poi venivano i differenti gruppi presenti come i polacchi, i capoverdiani, i kossovari, gli irakeni, i vietnamiti, il Caraibi… che tra una danza e un canto scagliavano via una pietra del muro, sgretolandolo. Gli applausi non si facevano senz’altro attendere. Mentre veniva scandita un’altra serie di riflessioni, ancora più incisive. «La dignità di una persona non si discute mai, ma si rispetta ». « Non ci sono stranieri sulla terra, ma degli esseri umani ». « La paura dell’altro è sempre cattiva consigliera ». « Il migrante è la prima vittima della fame, della guerra o della miseria ». 

Concludeva, infine, l’arcivescovo mons.Georges Pontier, Presidente della Conferenza episcopale francese. Ricordava come ad ogni cristiano incombe oggi una grande e grave responsabilità. Quella di ridire ad ogni uomo il messaggio di fraternità di Cristo. Da vivere ogni giorno. Concretamente. È indispensabile impegnarsi sul serio, sottolineava preoccupato, e cambiare per davvero il nostro sguardo. « Per il bene di tutti salviamo la solidarietà », era scritto su un cartello, all’entrata. Ma pareva vibrare in ognuno per tutto l’incontro, come un fondo d’organo. In una parrocchia marsigliese, improvvisatasi incrocio multicolore del mondo, sembravano le note di un indimenticato I dream.

 


Candelora in riva al mare

Originale modo di vivere la festa della Candelora, festa della luce e presentazione di Cristo al tempio, in una città multireligiosa come Marsiglia 

di Renato Zilio

La Candelora a Marsiglia è sempre una novità e una tradizione. Ha il sapore del mare, come tutta la città. Il 2 febbraio, infatti, raccoglie alle prime luci dell’alba una folla impressionante sulle rive del vieux port, l’antico porto, nel cuore della metropoli. Il freddo è tagliente, l’aria di mare penetrante. Arrivano intanto, scendendo dalla basilica di saint Victor un gruppo di giovani, con delle torce accese, portando una preziosa statua di Madonna del XIII secolo, chiamata « Vierge de la confession » per la testimonianza, cioè la confessione dei martiri. La folla prega, canta sommessamente. Riscalda, così, il cuore. Da tutta Marsiglia si era messa in cammino nel cuore della notte: questa, infatti, é una festa cara a tutti i suoi abitanti. 
Qualche minuto dopo le cinque ecco spuntare la sagoma di un’imbarcazione, la nave degli allievi della Marina mercantile. Portano il vangelo, giunto qui via mare nei primi secoli. Lo si rivive ora, come ogni anno : un appuntamento abituale della fede dei marsigliesi. In alto dell’imbarcazione, tre giovani - uno con un antico evangeliario ricco di pietre preziose e due con torce accese – sembrano statue congelate, fissate al pennone. Giunto a riva vi sale anche l’arcivescovo mons. Georges Pontier per una breve omelia e preghiera alla folla. Sembra il Cristo a Cafarnao, quando parlava dalla barca alla folla sulla riva. Presenta oggi a Dio « la sofferenza e le lacrime, la gioia e le risa » della vita di ognuno. È la Candelora, il giorno della presentazione di Gesù, luce delle nazioni, al tempio. 
Accompagnando ancora le ultime ombre della notte, la folla « aux flambeaux » sale lentamente alla basilica di saint Victor, che a quest’ora mattutina scampana a festa. Il sito sovrasta la città ed è insediato su una cripta del IV secolo, luogo del martirio di San Vittore. Primissime tracce, queste, della fede cristiana, in terra di Francia. 
Prima di entrare in basilica, il momento forse più toccante. L’arcivescovo si volta verso la città, che da sotto riempie gli occhi con uno sfavillio ancora di luci e di ombre. La sua benedizione scende su tutto il popolo che vive a Marsiglia. Anche su chi è ebreo, musulmano o non credente. Aggiunge « per avere il conforto della speranza e della presenza di Dio e semmai la gioia di conoscerlo ». Per « crescere tutti nel vivere insieme, e saper fare comunità umana con ognuno ». Un abbraccio universale alla città, che scende come un balsamo nel cuore dei presenti. Lo lenisce, lo incoraggia, dopo i duri giorni di violenza passati.All’interno l’organo con tutte le sue canne anima una celebrazione solenne, intensa e affollatissima. Ed è un brio mattiniero che risveglia gli spiriti. Ancora una volta l’arcivescovo ricorda che la nostra fede non pone mai gli uni contro gli altri, ma insegna a vivere insieme nella pace e nell’armonia. Dopo la dura esperienza vissuta recentemente è un orizzonte che si profila per una città-mosaico come questa, dove un terzo della popolazione é di fede islamica. « Nada te turbe, nada te espante, solo Dios basta», commenta la corale, dolcissimamente come una « berceuse », una ninna-nanna. Anche questo consola e innalza lo sguardo con fiducia.
Al termine della celebrazione, prima della benedizione finale, un’ultima raccomandazione. Mons. Georges Pontier si rivolge calmamente ai presenti : « Pensate ai volti che incontrerete oggi e nei prossimi giorni. Non tradite il Cristo in pensieri, gesti o parole. Non siate suoi traditori ». Tutti capiscono. Bisognerà essere, per davvero, costruttori di pace. Una luce per tutti, nonostante tutto. Ad ogni costo. Un cioccolato caldo sarà offerto, infine, come primo segno di pace. Leggero, come un « au revoir ». 
Renato Zilio.

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Quando vangelo rima con rifugiati

Parrocchie povere alla periferia di Marsiglia, ma cariche di un’umanità che sa aprirsi ad ogni cultura. Nel giorno di un addio, come sempre, si ritrova il senso del proprio cammino… 
di Renato Zilio

Le Canet, «il canneto» forse per le sue origini, è un quartiere per povera gente della periferia di Marseille. Fa parte dei quartieri nord della città ben conosciuti per povertà, concentrazione urbana, grandi casermoni come «la Marine», disoccupazione, a volte delinquenza. La parrocchia è frequentata da un pugno di cristiani, immersi come sono in una marea di musulmani o di non credenti. La presenza in parrocchia è padre Marcello, missionario scalabriniano, vivace ottantenne di Valdagno, nel vicentino. Conserva sempre intatto il suo carisma: spirito di accoglienza a 360 gradi, animo combattente, analisi lucida e spirito bonario della sua terra. Tutte doti utilissime per chi come lui naviga da più di vent’anni in questo grande porto di mare che è Marsiglia. E come ogni "vecchio lupo di mare" è conosciuto per la sua parola franca, diretta, che va dritta al cuore delle persone o delle cose. 
Domenica scorsa, dopo la messa, sotto un sole tiepido di fine febbraio erano in molti con lui per l’aperitivo, nel cortile della canonica. Partecipava anche la comunità capoverdiana, un incrocio tra cultura africana e portoghese che qui lavora nell’edilizia. Ma soprattutto c’era la famiglia di Rosa, dal Kossovo, con il marito da tempo disoccupato e i loro tre spendidi adolescenti. È il loro addio. Il pranzo l’hanno preparato essi stessi durante tutta la settimana per questa piccola folla parrocchiale. La famiglia di Rosa raggiungerà presto la sorella in Alsazia, dove sperano trovare lavoro.
Ultimo ad arrivare, in moto e casco è Pierre, prete settantenne, cappellano fino a qualche mese fa alle Baumettes, famose prigioni di Marsiglia. Togliersi il casco e farvi automaticamente un gran sorriso è un’abitudine per lui come respirare. Visitando la prigione ha acquisito un’umanità da incanto. Gli altri quattro preti sono già con il bicchiere dell’aperitivo mezzo vuoto, come tutta la gente presente. Accompagnano le quattro parrocchie del settore, si rirovano abitualmente ogni venerdi a pranzo con Marcello per informazioni e uno scambio in libertà. «Ottima vitamina!» esclama, quando ne parla. Alla domenica ci si interscambia nei luoghi di celebrazione delle differenti parrocchie: sì, altrettanta vitamina per il loro gregge, un volto e un messaggio nuovo ogni volta. Questa fraternità o collaborazione tra pastori vale oro. 
Tutte le quattro parrocchie del settore La Belle de Mai hanno una grande sensibilità per i migranti e i poveri. Nella canonica di Paul, per esempio, c’è una famiglia di rom da un anno in cerca di casa. "A volte c’è la guerra per i fornelli… per chi arriva prima, io o loro!" vi confida lui, ridendo. Per cui nessuna meraviglia che Rosa, emigrante piena di fede in Dio, faccia parte del consiglio pastorale da un paio d’anni. È segno di una Chiesa che si rinnova con i poveri. Diventano essi stessi protagonisti della loro storia, ma anche del cammino di fede di tutta una comunità. I tempi di papa Francesco qui hanno attecchito sul serio.
Il clima del pranzo parrocchiale con volti del kossovo, dell’India, delle isole del Capo Verde e di gente del posto è davvero familiare. Una grande busta arancione passa discretamente per mettervi due righe di saluto o un’offerta di incoraggiamento ai partenti. Cose semplici, ma vere. L’emozione vi prende quando Rosa in piedi comincia a ricordare la sua odissea. Legge un foglio e ogni tanto tra i tanti particolari spunta una lacrima o un lungo respiro... Ed è rileggere una storia di rifugiati non dalla TV, ma da un reporter in diretta, dai protagonisti stessi.
"Abbiamo lasciato il Kosovo nel 2006 per avere una vita calma e senza paura. Dopo quattro giorni di viaggio siamo arrivati in Francia. Siamo stati presi per tre giorni in un centro di accoglienza notturna e poi da un foyer per quattro mesi con altre dodici famiglie. Grazie all’associazione Sara, poi, siamo stati alloggiati in un vecchio appartamento di Le Canet. Eravamo completamente persi in un posto, in cui non conoscevamo nessuno. Eravamo tristi, con il resto della famiglia in Kossovo tra cui mio padre, che ho lasciato piangendo e non ho più rivisto da quel giorno. Poi passando davanti alla chiesa ho incontrato qualcuno che assomigliava moltissimo a mio padre": padre Marcello. Ci ha notato lui stesso, ci parlava in francese poi in italiano, ma noi non capivamo niente. Ci ha invitato a entrare in chiesa e poi a venire la domenica successiva. Sono tornata a casa contenta, perchè mi sembrava di aver incontrato mio padre. Domenica siamo tornati alla chiesa. P.Marcello ci ha presentato alla gente, che ci ha accolto a braccia aperte. Con le persone di origine capoverdiana, africana e francese abbiamo così formato una famiglia. Ci sentivamo ben accolti, eravamo felici. Ma padre Marcello non ci ha lasciato cadere. Come si dice, per ogni persona c’è un angelo che veglia per proteggerci dal male. Dio è stato buono con noi, perchè ci ha dato questi preti, la Cimade, l’associazione Sara. Ci ha dato un angelo ancora con M. Therèse, che ci accompagnava per tutte le nostre pratiche alla prefettura o dall’avvocato. 

Nel 2008 siamo stati riconosciuti come «rifugiati». Eravamo molto felici. Abbiamo condiviso questa gioia con tutta la parrocchia e i preti, che hanno organizzato una grande festa. Oggi siamo qui per dirvi au revoir, e ringraziarvi di tutto quello che avete fatto per noi. Andremo a vivere lontano, ma, come si dice in Kossovo, «lontano dagli occhi, vicino al cuore». Non vi dimeticheremo mai, perchè ci avete insegnato cosa vuol dire amare una persona, senza fare attenzione alla sua religione, al suo colore o alle sue origini». 

Veniva da pensare ascoltandola, in fondo, che una parrocchia attraversata da tanta umanità è sempre una grazia. Per davvero.

Renato Zilio Autore di «Dio attende alla frontiera »

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La mia nuova frontiera

Vivo da tre mesi a Marsiglia, nel terzo arrondissement, vicino alla stazione.

di Renato Zilio

È considerato il quartiere più povero d’Europa. Un pezzo d’Africa del nord, incastonato in terra francese. Ci si ritrova immersi nel clima del Maghreb, di gente d’Algeria, del Marocco, della Tunisia o anche delle isole Comore… Gente che trovi e incontri ad ogni angolo. Stessi modi di frequentare i bar a piccoli clan, stessi mercati con la merce distesa per terra, negozi halal, banchi improvvisati di frutta secca e datteri… tutto come se si fosse dall’altra parte del Mediterraneo. Dappertutto si parla arabo o berbero. I pochi francesi sembrano sentirsi forse nella pelle del turista in visita a un Paese africano… Non mancano, è vero, altri quartieri più occidentali in questa metropoli, seconda città di Francia, di quasi un milione di abitanti. Ma Marsiglia rappresenta ancora oggi il più grande porto del Mediterraneo. Questo in ogni senso. Un vero porto di mare, infatti, di uomini e di culture differenti.

In rue Crimée 74, a due passi dalla stazione St. Charles, vi accoglie un’associazione che ha aperto i battenti ben 25 anni fa. Costituita da una cinquantina di volontari, essa aiuta le famiglie del quartiere nel sostegno scolastico dei bambini, l’alfabetizzazione per adulti, la banca alimentare, il mercatino di oggetti o vestiti usati che qui chiamano braderie. Il quartiere è quasi esclusivamente musulmano. Suor Valeria, missionaria scalabriniana, familiarmente “Valérie” per le donne in velo e djellaba, è il capitano di bordo di questa struttura, insieme a padre Elia, pure scalabriniano. Un’attività che concretizza e rende visibile il volto di Chiesa di papa Francesco. Chiesa delle periferie. Povera con i poveri. La diocesi ne è ben cosciente e ne intravvede l’importanza, accogliendola nei suoi locali. Questa vera oasi in un quartiere popolare, dove sciama ogni giorno più di un centinaio di ragazzi, sembra spesso un alveare in piena attività, soprattutto il mercoledì e il sabato. Sono quasi tutti musulmani. Vengono volentieri. Qui respirano un’aria di impegno, di serietà e di fratellanza. Cosa invidiabile, anzi impensabile altrove. La sentono come la loro casa comune. Esigenza vitale questa, per dei migranti come loro.

L’opera di animatori e di volontari motivati ha un obiettivo ben chiaro. Aiutare questi ragazzi o questi adulti a non essere l’ultima ruota del carro nella scuola o nella società di oggi. «Enfants d’aujourd’hui pour le monde de demain » (bambini di oggi per il mondo di domani), dal titolo stesso dell’associazione, cresciuta nello spirito dell’Azione cattolica, si comprende che il futuro è la vera posta in gioco. Si lavora per il domani. Vi confiderà, infatti, con semplicità una donna algerina: ”Ringrazio ogni giorno Allah, perché ci siete voi che pensate al futuro dei miei figli. Io non sono mai stata a scuola. Non saprei farlo…” E in una società esigente e selettiva come quella francese questa realtà è anche un prezioso aiuto all’integrazione, secondo i responsabili del quartiere. 

Dopo l’attività pastorale in un insieme di quattro parrocchie popolari, seguo qui dei ragazzi di undici anni in varie ore di un doposcuola di inglese. Ma quasi per gioco. Perché non pesi troppo alla fine della loro giornata. Nascono così paragoni, stili e modi di dire di popoli diversi con ragazzi che parlano arabo in famiglia, francese a scuola e qui inglese. Così Fatima insisterà che il the alla menta è, a differenza di quello inglese, “ the best in the world”. Peccato che la regina non ne sia informata, aggiunge. Sorridendo si chiude, così, la lezione. Inizia la vita, difficile arte della sintesi. Cioè il loro domani.

Renato Zilio

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I giovani e lo spirito di Dio

del nostro corrispondente a Londra

Renato Zilio, missionario scalabriniano

In prossimità ormai della Pentecoste mi viene in mente un’esperienza pastorale che non potrò facilmente dimenticare, in una parrocchia della diocesi di Versailles. Per la cresima dei nostri giovani c’era stata una piccola battaglia: i genitori dei giovani non volevano il Vicario generale come programmato da tempo ma domandavano la venuta del Vescovo stesso… e così è stato. Aveva anche lui compreso la ragione; era per sentirsi tutti più responsabili in questa diocesi, incontrandolo direttamente. Ma era anche per premiare il lungo cammino di due anni di preparazione per una settantina di giovani, francesi e portoghesi insieme. Erano tanti. Ancora un’altra battaglia: per non allungare i tempi della celebrazione, il Vescovo stesso, Jean-Charles Thomas, indicava di presentarli al momento opportuno tre a tre. E a quel punto era emozionante vedere con quale sorriso, con quale trasporto e quali energie interiori si lanciasse lui stesso verso ognuno di loro, uno in alto sui gradini e due più in basso.
Lentamente ne scandiva il nome, ungendo tutta la fronte di olio benedetto con un ampio gesto di croce, mentre gli usciva una frase che sembrava fatta apposta per quel giovane: “La gioia del Signore ti accompagni sempre e renda la tua vita un’avventura bella e coraggiosa per gli altri!”. Parole luminose e incoraggianti per assicurargli sui suoi passi la presenza dello Spirito di Dio. Ogni giovane, immobile senza battere ciglio, assorbiva come una spugna la frase diretta a lui.

Sì, era stato un lungo cammino: una trentina di giovani dell’età di 15 e 16 anni apparteneva alla nostra comunità di migranti portoghesi e altrettanti erano della parrocchia francese; l’impegno preso dagli animatori era per un cammino comune di formazione, dove anche qualità culturali differenti si ritrovavano insieme: un più grande senso di preghiera per i portoghesi, una maggiore predisposizione alla riflessione invece per i giovani francesi.

Prepararsi alla cresima era anzitutto una loro decisione. Responsabilmente avevano detto sì a questo percorso di due anni, mentre molti altri vi avevano rinunciato. Non importava. Per crescere nella fede toccava ormai ad ogni giovane decidere, non più ai genitori. Era questa la prima tappa del loro cammino.

Poi, gli incontri con loro si erano succeduti una volta al mese, per tutto il pomeriggio e la serata del sabato. Il team degli animatori - anch’essi metà francesi e metà emigranti portoghesi - si adoperava per lanciare chi un canto, chi una riflessione, chi delle spiegazioni o altre attività... Al terzo incontro i giovani potevano già scegliere una serie di testimoni della fede da incontrare - impegnati nella pastorale dei sacramenti, della carità, della liturgia - e da invitare per una intervista.
Ricordo la sorpresa degli animatori nel vedere come nella scelta vi fosse anche l’équipe che incontrava le famiglie in lutto: nella parrocchia essa presenta in casa le condoglianze, informa e prepara insieme alla famiglia la celebrazione. Ascoltare, allora, la testimonianza di fede di Alice che parlava del funerale di due giovani portoghesi fu qualcosa di scioccante e di emozionante per tutti. Quando muore un giovane, è vero, è il mondo intero ad essere sconvolto. Ma per molti è anche momento di coraggio, di speranza e di fede senza misura. Le sue parole semplici per sentimenti così grandi li aveva incantati.

Poi, un lungo, intero fine settimana, lo avevano vissuto chiusi in un monastero. Ed era l’esperienza senz’altro più ardua e più bella per loro. Vivere al ritmo dei monaci, della loro preghiera, del silenzio, della semplicità di vita si rivelava tonificante per ognuno. Così, la serietà e la bellezza di una comunità in preghiera, i lavori quotidiani, la fratellanza, le parole di testimonianza di un monaco cariche di humour e di delicatezza li aveva segretamente trasformati.

Infine, ogni giovane scriveva una lettera al Vescovo. Era un compito personale: vi metteva dentro i motivi per cui chiedeva di essere cresimato, ma anche gli aspetti, le scoperte o i piccoli impegni della sua stessa fede. Compito laborioso, prezioso, fatto da tutti con buona volontà: sapevano che andava direttamente nelle mani del loro Vescovo. E poi nella celebrazione li vedevi attentissimi, perché nell’omelia lui ne faceva uno stupendo bouquet, presentando i passaggi che aveva assaporato a tutta l’assemblea degli adulti.

La celebrazione continuava, poi, con testi e canti in due lingue, manifestando la giovane fede dei cristiani di domani. Ancora una lezione di ecclesialità. La Chiesa è comunione e la diversità delle proprie culture e tradizioni ne è componente vitale: lo Spirito di Dio saprà crearne una misteriosa unità.

Si arrivava, così, all’ultima pagina del libretto che avevano tra le mani. Stampata a grandi caratteri un’unica frase: “Ed ora lotta per una grande causa!”. Sì, per la giustizia, per la pace o per la solidarietà che attendono incessantemente gli inviati di Dio. “Andate, la vostra missione ora incomincia!”: le ultime parole del vescovo cadevano come un sigillo. “Rendiamo grazie a Dio!” rispondevano degli occhi luminosi, spalancati sul mondo, che non dimenticheremo più.

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Tommaso Moro, il primato della coscienza

Il nostro redattore Renato Zilio ci parla del libro di Paloma Castillo Martinez, edito dalle Paoline


“Non desidero morire, ma so che ora devo morire. Nessuno sembra comprendere le ragioni per cui ho accettato il mio destino... Muoio per essere fedele a me stesso e a quelli che credono ancora nella grandezza e nella libertà dell’uomo.” In queste ultime righe, stese in un’opera come fosse una splendida autobiografia (brillante trovata dell’Autore), troviamo il senso e lo stile di un grande uomo di Stato. Politico e umanista, amico di Erasmo da Rotterdam e di Juan Luis Vives, uomo di lettere e avvocato, scrittore prolifico, studioso dei classici, tra cui appassionato cultore di Luciano e della sua brillante satira, era un diplomatico giunto all’altissimo grado di Cancelliere di Stato durante il regno di Enrico VIII: Tommaso Moro. Fu canonizzato nel 1935 dalla Chiesa cattolica, alla cui difesa egli aveva dedicato estremo impegno e devozione, ma è anche venerato oggi dalla Chiesa anglicana come un martire della coscienza. “La coscienza è la presenza di Dio nell'uomo” direbbe Emanuel Swedenborg, facendoci pensare ad un altro grande apostolo della coscienza in terra inglese come il cardinale Newman.
È suggestivo pensare a questi due grandi uomini in quanto figli di un popolo di mare, di un universo cioè dove tutto si fa mobile e cangiante - il mare, per l’appunto - che abitua a vivere trovando necessariamente nel proprio intimo un centro di gravità, una solidità interiore.
Sulla copertina dell’opera stessa ammiriamo questo statista nel ritratto dipinto da Hans Holbein nel 1526: un volto dai tratti nobili, decisi, come scolpiti su pietra; uno sguardo sereno e lucido che si porta diritto sulla realtà, e allo stesso tempo si fa assorto, mirando ben lontano come di fronte a una visione.
È verso quella visione di un mondo ideale che lo spinse la sua incredibile tensione interiore e che appare nella sua opera più conosciuta, stampata in primis in Inghilterra e frutto della sua coscienza: Utopia. In questo luogo immaginario, ma sognato intensamente “il disprezzo dell’oro e dell’argento, l’uguaglianza dei beni e degli sforzi tra i cittadini, e l’amore costante e tenace della pace e della tranquillità risultano essere antidoti contro ogni frode, inganno e impostura”.”Che cos’è Utopia?” si chiede lui stesso quasi in un momento di calma lucidità, enumerandone le sfaccettature: “un gioco, un sogno, un desiderio, un avvertimento, in racconto fantastico e divertente, un’idea filosofica, una provocazione, una critica.”
In questi tratti che si vorrebbero autobiografici emerge tutta l’ambivalenza di un’esistenza vissuta ai più alti livelli del Regno. “Dentro di me dovevano coesistere il chiostro e la corte, e la battaglia per trovare un modo con questi due mondi di riempire di angoscia la mia gioventù, finchè non riuscii a trovare un equilibrio sufficientemente stabile”. E più avanti confessa: “Ho cercato di conciliare il servizio pubblico e la mia vita interiore con la volontà di Dio e per questo non mi si può considerare un uomo di Stato, un politico autentico, poichè costui deve accettare e difendere anche ciò che va contro la sua stessa essenza, la sua coscienza e io non sono mai riuscito a farlo”. Affermerà poi, con una convinzione che ci stupisce ancora oggi, “l’uomo è la sua coscienza e non altro”.
Rinchiuso nella Torre di Londra, condannato dal Re per alto tradimento, medita sul senso del morire: “La morte di un uomo comporta una certa parte di morte anche per tutti gli uomini e quando un uomo muore per la mano di un altro la luce delle stelle si attenua, perche si è alterata la creazione.”

In questo frangente ripercorre brevemente anche le ansie dei suoi tempi e la storia della Riforma. Rivolgendosi direttamente a Lutero, nell’oscuro della sua prigionia, ci introduce nel senso del suo operato: “Roma innalzava il più grande e splendido tempio del mondo sulla tomba di un povero pescatore di Galilea e per finanziarlo il suo successore Leone X faceva vendere nella tua Germania, Martin, il perdono dei peccati e la vita eterna in cambio di alcune monete, cambiali mediante le quali distribuiva il cielo a pezzettini”. E ricorda pure la sua amicizia con il grande Erasmo, per il quale “la Bibbia era il luogo di incontro con il Cristo; dopo la rivelazione di Cristo, il cristiano doveva dimenticare inutili argomentazioni dottrinali dedicandosi a cambiare il mondo con il suo sforzo e il suo esempio”. E la sua riflessione sa farsi preghiera umile, intensa, eloquente: ”O Dio, non mi resta più tempo per continuare a lottare; sii tu il mio paladino e proteggi l’Inghilterra, proteggi questa Chiesa che, essendo tua, deve essere Chiesa rinnovata, Chiesa di futuro. Concedile fede in te, carità per gli uomini e unità per i popoli.”

All’alba di martedi 6 luglio dell’anno del Signore 1535, vigilia della festa di san Tommaso di Canterbury e ottava di san Pietro, fu comunicato a Tommaso Moro che sarebbe stato giustiziato prima delle 9 di mattina di quello stesso giorno. Il latore delle notizia fu Thomas Pope, uno dei suoi amici... si congedò da Moro senza riuscire a evitare le lacrime, per cui Tommaso lo confortò in questo modo: ”Tranquillizzatevi, e non siate triste, perche io confido che una volta in cielo ci rivedremo nella massima gioia.”

Rientrando in se stesso, infine, riassume la sua vita in un ultimo attimo di luce: “Sono un raccolto di molte semine: di parole, di preghiere, di sogni, di paesaggi, di profumi e soprattutto di sacrifici e di lacrime umane. Sono il risultato di molti dolori senza compromessi, senza ambizioni, senza viltà. Ora va tutto bene, la nave mi attende, il vento comincia a stendere le sue vele e la luna sorge all’orizzonte, anche se è giorno”.

Così ha preso il largo un difensore indimenticato di un valore supremo per l’umanità: la coscienza e la sua libertà. Un santo per la Chiesa. Un’opera da rileggere e meditare per noi.

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7.7.2011 Presenza di vangelo

dal nostro inviato in Marocco Renato Zilio

Taroudant: la splendida cinta muraria color ocra

risplende del suo recente restauro, ed è l‘unica ambizione di antica capitale del Marocco che le è rimasta, ora semplicemente un`attrazione per i turisti. Sono mura non per difendersi, ma per proteggere: le tradizioni, le attese e le ansie di tutto un popolo musulmano che vedi formicolare dappertutto al suo interno, per strade o nei souk. Ma vi e anche una minuscola presenza cristiana: da tantissimo tempo, infatti, vive una piccola comunità parrocchiale e una comunita di tre suore francescane missionarie. ”Ti aspettiamo a braccia aperte!” mi diceva suor Denise; l`accoglienza è un valore grande e prezioso del popolo marocchino e segna anche i cristiani di qui. Nel loro semplice appartamento situato al primo piano sopra dei negozi, suor Georgette con un bel sorriso congolese non farà che ripetervi: “State a vostro agio, qui è casa vostra!”. Vivere insieme è già da parte loro una grande testimonianza di vita per i vicini, essendo talmente differenti da loro per colore e cultura. E Georgette ve lo dirà subito chiaramente: “Vengo da un Paese dove tutta una popolazione ha la fede cristiana, qui invece non si parla del Cristo, ma lo si vive. È la vostra stessa vita che parla”. E vi aggiungerà pure che, pare strano, trova qui qualcosa che le mancava prima... Lavora come infermiera all’ospedale e così si congeda in fretta dopo la messa celebrata nel loro appartamento con qualche cristiano aggiuntosi. Il lavoro la chiama ed è una testimonianza che lei vive con passione.

Suor Denise invece, originaria di Reims e battezzata nella famosa cattedrale, pur avanti negli anni dimostra uno spirito combattivo al pari di Francesco di Assisi. La senti affermare categoricamente, parlando delle belle vetrate e dei recenti restauri: “È bene che sia lo Stato a preoccuparsene, le comunità cristiane devono prendersi cura dei poveri, non dei muri!”. Infatti così è in Francia. E avverti una sua profonda complicità con i poveri, mentre con una punta di invidia ti racconta della Piccola sorella morta a Casablanca, ai cui funerali ha partecipato tutto il quartiere musulmano in massa, che ha poi voluto aggiungervi proprio il loro rito musulmano, perchè era “una loro vera sorella”.

Con queste suore la Chiesa mostra qui un’anima evangelica e si incarna in questo mondo dei poveri e di credenti, pur così differente da noi ma non sordo al linguaggio dell’amore, che è la vera originalità del cristiano.

Denise, in Marocco da più di quarant’anni, vi dirà quanto è importante resistere con questa presenza, e una generazione non basta. E ricorda il suo lavoro di formazione per le ragazze animatrici di bambini di montagna in fase prescolare, lavoro necessario perchè questi, come le loro caprette, non sapevano sedersi su una sedia, ascoltare, parlare... solo gridare. Ricorda ancora Myriam, venuta al corso un mattino dopo aver attraversato un torrente in piena, bagnata fino alle ascelle. Le animatrici in verità erano appassionate di imparare, ma ancor di piu sentirsi amate da una straniera.

Ora l’anziana suora anima delle associazioni di donne e di bambini abbandonati sempre con uguale entusiasmo. Sempre in movimento. Per questo non sopporta quando ci si installa. “A volte anche i religiosi o la chiesa, preoccupandosi per i loro beni o i possedimenti che possono avere, non camminano più”, ti soffia con amarezza. “Io credo nella chiesa itinerante, quella che cammina - ti dirà spontaneamente, pensando a Francesco, quello che si era spogliato di tutto - Noi siamo qui in affitto, ma anche domani possiamo partire...”.

E difatti pare che questa posizione apostolica venga chiusa il prossimo anno. Ma queste presenze evangeliche sono come le stelle: quando muoiono la loro luce continua per lungo tempo ancora ad illuminare. Illuminare naturalmente il cuore dell’umanità che hanno qui conosciuto ed amato. In nome del vangelo.

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Uniti qui e altrove

del nostro corrispondente a Londra Renato Zilio

Al Royal Theatre di Londra c’era il pienone: in cartellone, l’Aida di Verdi. Dalla confortevole loggia dove mi trovavo, invitato da una famiglia inglese, potevo contemplare da vicino la loggia della famiglia reale, l’orchestra, i personaggi e una grandiosa visione del pubblico. Si poteva indovinare l’entusiasmo di questo pubblico inglese per la cultura italiana e per l’opera. Entusiasmo non di oggi. Già prima della nostra unità nazionale la Gran Bretagna supportava gli ideali del popolo italiano - la sua unità e la libertà dallo straniero - con una generosità lungimirante. Personaggi come Mazzini, Garibaldi, Vittorio Emanuele... lo toccavano con mano nelle loro visite o permanenze in terra inglese. Questo, infatti, è stata proprio il primo Paese che ha riconosciuto il nuovo Stato Italiano appena unificato, dopo averne seguito con entusiasmo l’epopea risorgimentale.

Oggi, nel campo italiano le iniziative di ricordo e di celebrazione sono le più varie. La sera del 17 marzo, nei saloni della Residenza dell’Ambasciatore d’Italia si svolgeva un ricevimento per tutte le case di moda italiane a Londra, “città vetrina del mondo”, dedicato ai prestigiosi marchi della moda nazionale che sanno rinnovare il fascino inimitabile dello stile italiano.

“Happy Birthday, Italia!” auguravano, invece, moltissimi ristoranti italiani qui come nel mondo per i suoi 150 anni. Iniziativa lanciata dall’associazione “Ciao, Italia” e rivelatasi occasione speciale per servire le eccellenze della nostra tradizione eno-gastronomica, insieme a un depliant informativo sui 150 anni dell’Unità. Era promuovere, così, la cucina del nostro Paese, coinvolgendo non solo i connazionali all’estero, ma tutti gli appassionati dell’Italia, e far loro conoscere la nostra storia. E la nostra avventura, pure.

Sì, un’avventura originale: quella di saper comporre l’unità di un popolo vario ed eterogeneo che abita la nostra penisola. Ma anche quell’avventura altrettanto importante che ha creato un’Italia differente e alternativa, frutto della nostra emigrazione: circa 60 milioni di persone di origine italiana sparsi nel mondo. Esistiamo, così, qui e altrove, in patria e fuori. Dimenticarlo sarebbe automutilarsi della propria storia e dei nostri pregi tanto valorizzati altrove o della coscienza delle proprie carenze rivelateci da un altro sguardo.

Sarà ricordare città come Genova, diventata la grande porta d'addio per molti dei 29 milioni di italiani che lasciavano la nostra terra tra l'Unità d'Italia e la Seconda Guerra Mondiale. A loro era rimasto un unico sogno: rifare la propria vita in America o altrove. In questo l'emigrazione fu veramente “un fenomeno di espulsione collettiva.” E l'Italia non ha mai saputo mostrare riconoscenza ai suoi cittadini emigrati, che nonostante tutto “continuarono ad amarla e promuoverne altrove il patrimonio di valori e di civiltà”. Con il passare del tempo, si sentivano sempre legatissimi alle origini italiane, custodendone la lingua, la cultura e le tradizioni. Un amore questo che, superando i regionalismi, non dimenticava le proprie radici.

Essere siciliano, calabrese, friulano... in altre società, in un contesto assolutamente nuovo per qualità e ritmo di vita, valori, cultura e lingua divenne per l’esistenza di un italiano un vero challenge. Un’apertura di mente e di cuore nuova e impensabile. Per questo – e così per ogni migrante - Giovanni Battista Scalabrini esclamava: “L’emigrante ha fatto sua patria il mondo!”

L’unità d’Italia è anche omaggio a questo popolo di uomini che hanno fatto del loro modo di vivere e di pensare una sintesi di mondi differenti. In fondo, hanno unito il mondo, lanciando nel mare aperto dell’umanità passerelle e ponti di collegamento. Hanno aperto il mondo abituale e familiare di chi hanno incontrato. Veri ambasciatori dell’italianità, i nostri emigranti sono stati grandi “tessitori” della nostra terra con altri popoli, un po’ come il Cavour dell’unità.

Il mondo inglese - che ha saputo rivestirsi della multiculturalità più di ogni altra nazione a causa del suo impero sui mari - ci ricorda che le nostre differenze possono essere un grande atout, un’occasione per esaltare le nostre potenzialità mettendole insieme. In fondo, è la cultura dell’unità, non quella della separazione o della chiusura, che prepara il futuro. Per cui i nostri 150 anni sono un piccolo, giovane anniversario per una nazione. Ma un grande segno di speranza per l’umanità.

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La luce di Benedetto

del nostro corrispondente a Londra Renato Zilio

Cattedrale di Westminster: il volto del giovane che sostiene una torcia accesa – volto dai tratti forti e decisi, capelli biondi a taglio corto – ne è splendidamente illuminato dalla fiamma. In piedi, immobile per tutta la celebrazione, sembra conficcato per terra come accanto a lui lo stendardo blu di Cassino. L’assemblea lo ammirava come fosse davanti a un’icona. Da solo suggeriva la forza suggestiva del simbolo: la luce di Benedetto da Norcia nell’oscurità della barbarie di quei secoli lontani, tra uomini dai lineamenti altrettanto forti e decisi. 
Benedetto aveva illuminato i suoi tempi come una fiaccola vivente. Con una regola, dei monasteri e un principio di vita, scolpito negli spiriti: ora et labora.

Lo si è celebrato il 3 marzo nella cattedrale cattolica di Westminster di fronte a un’assemblea fatta di inglesi, di italiani e di polacchi a ricordo della tragedia di Montecassino. Confortante era la presenza dell’abate benedettino Don Pietro Vittorelli e di vari vescovi, mentre il canto gregoriano saliva leggero e gradevole come le volute dell’incenso. Anche il mio vicino inglese rispondeva a memoria in latino con un intimo entusiasmo ritrovato. Emergeva il senso di universalità. Non tanto nella lingua latina, quanto piuttosto nei volti e nelle culture differenti riuniti insieme. Sfida questa sempre attuale per la Chiesa d’Europa: il saper riunire, riconciliare, far ritrovare accoglienza e fratellanza perdute. Le parole dell’arcivescovo di Westminster, Vincent Nichols, risuonavano ancora nella mente - la pace non è un’idea romantica, ma dialogo, compassione e riconciliazione - mentre sul sagrato si riversava festosamente il corteo storico “Terra sancti benedicti.” Si mescolava, così, alla gente come un colorito pezzo d’Italia nel cuore di Londra, impensabile in altri tempi. Miracolo della“fiaccola di san Benedetto.”

Il suo pellegrinaggio era iniziato qualche giorno prima in Vaticano con la benedizione papale e proseguiva per Londra, quasi in un replay dei recenti e indimenticati passi di un altro grande Benedetto. Sostava, anzittutto, nell’antica abbazia di Westminster a due passi dal Parlamento inglese. Da qui erano partiti gli ultimi benedettini mandati al rogo nel XVI secolo, mentre la chiesa, bruciando secoli di monachesimo, diventava luogo ufficiale del culto anglicano. Una celebrazione ecumenica - come in una nemesi storica - accoglieva mercoledi 2 marzo questo nobile simbolo del patrono d’Europa: la “fiaccola di san Benedetto.” Quasi ad indicare che la luce per il mondo d’oggi, fatto di differenze e di violenze ravvicinate, non può essere che il cammino faticoso della riconciliazione. Indispensabile arte di coltivare la nostra terra, in tutti i suoi sensi.

In serata nella cornice accademica dell’Istituto italiano di cultura a Londra seguiva una ricca presentazione della realtà del territorio cassinese e della presenza monastica. Dopo le note affascinanti del coro “S.Giovanni Battista Città di Cassino” diretto da Fulvio Venditti un folto pubblico seguiva con particolare attenzione gli interventi di Antonio Capranica, di Franco Cardini dell’Università di Firenze e di Franco De Vivo dell’Università di Cassino, nell’ambito di un “progetto integrato” con le realtà istituzionali, culturali, artistiche e imprenditoriali del territorio.

Concludeva l’abate di Montecassino ricordando gli strumenti del monaco benedettino per trasformare l’esistenza dell’uomo: la croce, il libro cioè l’attività amanuense e l’aratro. La dialettica dell’ora et labora - dove un aspetto trova senso e valore nell’altro - si propone come pacifica conquista della dignità dell’essere umano nella sua triplice relazione con Dio, con il creato e gli altri. Solo così si coltiva la visione di un mondo nuovo, più umano e fraterno.

In tempi di imbarbarimento dei costumi, del senso politico e del rapporto all’altro, la lezione del Maestro di Norcia si rivela oggi un’opera incompiuta. Sì, una lezione di pace drammaticamente attuale, luminosa come allora per la nostra stessa terra. Non mancherà di ricordarlo la fiaccola di san Benedetto quando il 20 marzo giungerà a Montecassino per il suo “messaggio di pace” ai popoli d’Europa. Per umanizzare la terra a cominciare dalla porta accanto. Anzi, dalla nostra casa.

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L’Italia capovolta

Semplice riflessione sull’arte del sedurre di un leader ai nostri tempi

Renato Zilio

Londra, Trafalgar square. Lo senti ridere nel retrobottega, guardandosi la foto. Il responsabile inglese del ristorante non riesce a trattenersi e si eclissa dietro. È appena passata una ragazza italiana, una delle centinaia di giovani che ogni giorno sbarcano a Londra, nella sua maratona quotidiana di curriculum da presentare per un impiego. La foto, quasi un’attricetta in posa, nasconde una pretesa di seduzione. Viene proprio da chiedersi come gli ultimi tempi hanno educato da noi le giovani generazioni... No, qui non si seduce. Anzi non si mette neppure la foto nel curriculum. Si guarda alla sostanza, a quello che sai fare. Altro mondo qui, pragmatico, attento alle cose, ai fatti. La forza della cultura inglese si chiama, appunto, concretezza. 
“È l’Italia capovolta” mi fa Cinzia, londinese ormai da un paio d’anni e lo spiega. “Non devi sgarrare, nè scoraggiarti. Gli inglesi ti fanno salire sempre più in alto, ti danno delle opportunità. Ma guardano sempre quanto vali. Le raccomandazioni qui non hanno presa!” 

La seduzione, invece, è il nostro stile. Quasi un nostro handicap permanente. Perfino nella politica. E questo ha un rapporto con l’estetica, il gusto del bello, che ci troviamo nel nostro stesso DNA di italiani. Un leader da noi ce la mette tutta per sedurre, incantare, promettere, sorridere, “incartare” l’altro. Alcuni ne sono un vero modello. Il nostro popolo, poi, è sensibilissimo alla seduzione di un capo. Si lascia portare. Perde la testa, neutralizza lo spirito critico. Ma la seduzione non porta affatto lontano. Il pifferaio magico della favola di Grimm seduce con le sue note i topi del villaggio per poi, senza farsi accorgere, annegarli nell’acqua del fiume... Sarà mai la nostra parabola?! 

Sedurre, trasportare con sè, ha anche un altro senso, ben più alto. Nobile, anzi. Quando un leader si nutre di valori, ha una visione davanti a lui, qualcosa di grande e di bello che lo incanta, lo illumina. Con questo, sa trascinare un popolo. Ci viene in mente Mosè, mentre scendeva luminoso dalla montagna, una vera forza per trascinare verso la terra promessa il suo popolo. Ci viene in mente un papa venuto dal fondo del mondo, che ha rubato il nome al figlio più povero di Assisi. A Francesco, infatti, altro non gli restava. 

Ecco leaders che hanno una visione. Non curano i propri interessi. Non coltivano l’ambizione, nè l’arroganza. Non mettono gli uni contro gli altri come dei tribuni, dei capipopolo. Il vero leader conduce verso la “terra promessa di Dio”: la fratellanza tra gli uomini. Fa di elementi dispersi di un popolo una comunità vera. Sa intravedere le forze migliori, le qualità negli altri, le energie nascoste. Le sa stimolare, risvegliare, rimettere in cammino. Esercita l’arte della maieutica, del “dare alla luce”. 

Il leader che si profila da superuomo, invece, non sarà mai un vero leader. Ma un uomo di potere. Di ambizione. Il vero leader è un uomo di servizio: serve un ideale, una comunità e un cammino arduo da compiere. “Io non sono nulla, sono i miei uomini a fare della mia azienda un vero successo!” replicava un manager di fronte alla domanda sul segreto del suo successo. Gli piaceva enumerare, poi, le qualità e le competenze a una a una del suo team. Sì, un leader sarà sempre un direttore d’orchestra. L’anima di una bella sinfonia, l’artefice di una straordinaria unità tra strumenti e talenti differenti. Ma un direttore d’orchestra si mostrerà a tutti sempre di spalle. Non è una prima donna. L’umiltà resta, nonostante tutto, la sua dote più grande. 

Il vero leader, in fondo, ci ha insegnato concretamente papa Francesco, partirà sempre dagli ultimi. I giovani. Gli emigrati. Per ricostruire l’umanità del nostro mondo.

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Quando Treviso abbraccia il mondo

Giornata mondiale dell'emigrazione con le comunita' di Trevisani nel mondo sparse nei cinque continenti

di Renato Zilio

Domenica 19 gennaio. Giornata mondiale dell’emigrazione. Un piatto di pasta e fagioli alla trattoria da Raimondo non è mai stato così delizioso. Da avere tutti i sapori, anche quello del mondo. I discorsi, infatti, viaggiano tra Canada, Sidney, Ginevra e altrove... come i vari punti del mappamondo, che i trevisani nel mondo coltivano come un angolo di casa loro. Emigrando. Il comitato direttivo dell’ associazione “Trevisani nel mondo”, attorno al fondatore Don Canuto Toso, oggi li ripassa a uno a uno qui all’osteria. Come una lezione di scuola. Ricordando tra gioia, emozione e risate i tanti incontri all’estero, i mille volti di gente nostrana partita, le infinite sorprese che vi cadevano addosso come saette. Quando giri il mondo, la vita è fatta così! I nostri trevisani non hanno esportato con loro radicchio rosso o prosecco - che restano unici qui - ma l’arte e i valori antichi che li hanno fatti nascere e crescere. Franchezza, amabilità, senso di famiglia, laboriosità e un rosario di altre belle qualità. Contorno delizioso questo, oggi, giorno dei migranti, che gusti anche a tavola. 
La messa presieduta da don Adelino, parroco di S.Maria del Rovere, grossa periferia di Treviso, era stata lunga, solenne e anch’essa dal sapore di mondo. Bambini di diverse nazionalità avevano regalato ai presenti la parola pace. Quasi fossero dei gesubambino discesi dal presepio, che era ancora in piedi, in fondo alla chiesa. Ma, in verità, è proprio vero. Questi bambini stranieri costruiscono come veri artigiani ogni giorno in mezzo a noi – direbbe ridendo papa Francesco – il dono più grande di Dio: la pace tra gli uomini. Fanno la sintesi di culture, di lingue, di sensibilità e di tradizioni differenti. Nel loro cuore e nella mente. E saranno uomini di domani. Di quell’Italia multiculturale e aperta al mondo, che noi adulti non vedremo... 
Al mattino presto, invece, Trevisani nel mondo aveva organizzato un incontro vario e colorito sull’emigrazione di oggi. Giusto il tempo per padre Renato Zilio* di ricordare che vista dall'estero la nostra patria pare fatta di paesaggi da cartolina postale, stupende vedute, ma anche di un sottile feudalesimo, un misto di privilegi, tasse, balzelli, corporazioni, feudi, che l’emigrazione ad intra o ad extra aiuta a superare con il suo senso aperto del mondo. Anche la crisi ci ricorda sulla nostra pelle, rifletteva poi un artista musicale, Andrea Zuin, i nostri grandi valori perduti. Da ritrovare al più presto. “Un mondo nuovo ormai è alle porte” declamava deciso, infatti, don Adelino. “E chi varda la luna casca nel fosso!” sembrava farvi eco un antico proverbio trevigiano.

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4.12.2011

La penisola proibita.

Esperienza al monte Athos

Renato Zilio ci parla del libro di Alain Durel della Collana Libroteca Paoline

In questo testo ci si incammina in una scrittura chiara, leggibile, leggera. Come il passo di un viandante. E l’autore lo è effettivamente: viaggiatore instancabile, uomo di teatro, regista, studioso di filosofia e di saggezze del mondo. Passa tra molteplici e diversificate esperienze: il filo rosso ne è la ricerca ansiosa di sè, del bene e della verità. Non dimenticando, però, quanto scriveva Mallarmé: “Ogni cosa sacra, e che vuole rimanere sacra, si avvolge nel mistero”. La lezione più grande - in cui si penetra come in un misterioso labirinto - resta quella del mondo monastico del monte Athos. Un percorso del combattente compiuto contemporaneamente dall’anima e dal corpo, dallo spirito, dalla mente e dallo sguardo. Tutto si impregna di questa realtà a-temporale che si libra tra ascesi, preghiera, humour, azione e meditazione. Si comprende con l’autore, così, come “il monaco non sia un irresponsabile che fugge le sofferenze del mondo per rifugiarsi in un’oasi di pace. Al contrario, l’Athos è il fronte più violento della guerra che infiamma la terra tutta. Il monaco è un combattente, una colonna di intercessione”.

Nei meandri della sua scrittura l’autore vi raccoglie pure le perle di spiritualità più belle incontrate qui. Assetato di saggezza e affinato dalla sua ricerca orientale egli accosta con l’animo sensibile del discepolo i vari maestri - tra cui Efrem, uno che sa leggere nei cuori “come si guarda la televisione”, dice scherzando - e varie situazioni nel mondo monastico del monte Athos, definito qui sinteticamente, in una meravigliosa triade, “un gioiello, un mistero, un miracolo”. Si introduce, così, nella teologia ortodossa, “teologia esistenziale: non si impara nelle scuole, bisogna viverla!”. Vi incontra uomini che possono essere “uomini semplici, pastori illetterati o pescatori di aragoste, ma anche individui dal percorso eccezionale, artisti, intellettuali, uomini appassionati di bellezza e di assoluto”.

Si seguono con interesse anche osservazioni puntuali sul mondo spirituale, come quella di Theodosios che faceva notare “che i sacerdoti che vivono nel mondo sono sempre di corsa, a destra e a sinistra, per radunare le persone, parlare loro... e si occupano degli altri ma non di loro stessi. Insegnano il Vangelo ma molto spesso non lo praticano piu”. Mentre la vita monastica si rivela “la testimonianza di tutta una vita consacrata a Dio”.
Seguendo il filo del racconto di questo universo monastico, così libero nella sua autonomia spirituale e reale, si percepisce la grande verità che un monaco “è chiamato a vivere ogni secondo come se fosse l’ultimo istante del mondo”. E resta icasticamente abbozzata una lezione finale, in seguito a una breve ed intensa esperienza di viaggio a Parigi. “Solo quando si rinuncia a voler possedere, avere, dominare, che la Provvidenza accorda gratuitamente i suoi favori. Gratuitamente, perchè tutto è grazia. La vita e la morte non dipendono da noi, ma sono offerte. L’amore non si compera, nemmeno con i buoni sentimenti”.
Sublime il finale, ancora tutto impregnato dello spirito del monte Athos, benchè ci si trovi con l’autore in un angolo di Francia, nel suo eremo, davanti alla cassetta della posta desolatamente vuota. “Compresi allora che la lettera che aspettavo mi era già arrivata: era un messaggio incorporeo, ma quanto reale! Una missiva non scritta da mano d’uomo, una buona novella ‘Cristo è risorto’”.
Un cammino come questo, in fondo, apre su orizzonti inediti, insegna a percorre sentieri nuovi, inseguendo le tracce di un uomo alla ricerca. Con passo leggero e meditativo. Da percorrere con interesse, senz’altro, come queste pagine.

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R:    Un grazie favoloso da Marseille

DA:  oltrefrontiera ( Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. )           18 mag 2015 - 09:27

A:    < Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. >

Per avermi inserito tra i personaggi del sambrusonlastoria. Grazie, Luigi, ti trovero` in agosto?? Bye R.


Trentesima Ristampa

Dio attende alla frontiera

Pubblicato il 09 ottobre 2012, opera narrativa, saggistica, sociale ed ecumenica  ma soprattutto reportage autobiografico, racconti che diventano quadri del suo apostolato. Bestseller richiesto e  distribuito in numero straordinariamente elevato di copie, già presentato in questo articolo in modo esauriente, e commentato da importanti personalità religiose e culturali

viene riproposto da Renato Zilio  nella sua
Trentesima Ristampa

Accogliamo l'evento proponendo l'articolo di M. Zuin,  opportunamente pubblicato nel mensile LA VOCE del  Veneto.

 

Per un'Italia ormai con il fiato corto si rivela urgente uscire dalle abitudini, dalle chiusure e dalle paure. Questa testimonianza missionaria vissuta all'estero tra emigranti italiani a Parigi, a Ginevra, a Londra e in Marocco e il loro sguardo sulla nostra patria sono un capolavoro di passione e di analisi delle situazioni che viviamo.

«Quadri di vita vissuta,
guardata con l'occhio attento e libero
che sa andare oltre l'apparenza
della superficie e arrivare in profondità,
alla vera essenza di situazioni umane,
all'anima»

Uomo di frontiera è colui che ha la lunga pazienza di cucirsi sulla pelle un vestito di terre e di cieli nuovi. 
Che si abitua a vedere paesaggi differenti, a spaziare nell'orizzonte dell'altro come una normalità. 
Vive a fianco dell'altro con empatia, oltrepassa i confini, nemici dell'umanità. 
Contemplare, oggi, tutto questo, e intravederne la forza segreta, significa riscoprire il medesimo e sempre nuovo volto di Dio: Colui che ti libera da te stesso. 
Il Dio dell'incontro. 
Colui che ti attende a ogni frontiera.

 


Colgo l'occasione per i complimenti a Padre Renato, ma soprattutto  per un caro e cordiale abbraccio. L. Z.

 

 


articolo a cura di Luigi Zampieri

 


 

 

Ultimo aggiornamento (Mercoledì 02 Settembre 2020 11:05)

 

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