BRENTASECCA lo "Spoon River" di Andrea Zilio sulla gente di Sambruson
PERSONE - PERSONE |
Caro Luigino, ho deciso. Ti spedisco subito il mio “Spoon River”.
Si chiama “Brenta secca”, come sai, il piccolo ramo del nostro fiume.Ci ho messo anni a pensarlo, a scriverlo con grande sofferenza. Solo così puoi spremere non solo pensieri, ma l’anima. E’ dedicato alla gente, a personaggi piccoli, ma tipici del nostro paese, che vedo ormai sempre più attraverso un vetro appannato fatto di ricordi dolci e dolorosi. L’ho aggiornato appena. Qualche poesia supera il confine, ma la semplicità della nostra gente di campagna non varia. Ciò che voglio dire resta intatto. Molti personaggi li riconoscerai. Alcuni sono simbolo, emblematici. Altri sono volutamente adombrati. Il significato del messaggio, comunque, è chiaro. Ho voluto andare oltre le ville e i monumenti. Ho voluto parlare della gente, come ho fatto sempre, vedendola, questa volta, dall’altra parte. E non è stata facile, te l’assicuro. Nella scelta e nel dire. Quando scrivo, mi commuovo. Allora capisco che ho scritto qualcosa che merita rispetto, attenzione, credito. Questo è il caso.
Ti affido un altro piccolo tesoro, un poemetto, è un tassello insolito, una tessera originale del mosaico della tua Storia di Sambruson. Andrea.
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Caro Andrea
ho ricevuto il tuo “ Spoon River, Brentasecca”, è una cosa importante e comprendo la tua fatica e sofferenza ad averlo scritto. I personaggi sono in gran parte riconoscibili e sono naturalmente molto rappresentativi e significativi o emblematici come tu dici, nella loro a volte semplicità, a volte complessità.
In questo ultimo periodo stavo pensando di inserire nel sito Sambrusonlastoria, una nuova sezione, intitolandola “PERSONE”, appunto per parlare un po’ più della gente e non sempre di ville e monumenti. L’avrei suddivisa in tre categorie:
PERSONE ILLUSTRI (esempio: Il Lirico Velluti, i due pittori Tito, lo scrittore Musatti, gli scultori De Putti e Cassetti, ect.).
PERSONE IMPORTANTI (Sindaci, preti, medici, politici, Lino Vanuzzo, Riccardo Meneghelli, Orlando Minchio, Don Rimano, Dott. Bortolazzi, Bruno Busetto e altri). Aggiungo a questo punto una terza categoria chiamandola semplicemente:
PERSONE ( questa categoria la dedico allo “Spoon River/Brentasecca” di A.Zilio. Mi sembra adatto).
Ciao. Luigi.
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BRENTA SECCA
Pensieri in prosa, ma ispirati,
detti con passione,
con orgoglioso desiderio
di parlare di persone dell’altra Riviera
che hanno alzato la testa,
una volta almeno,
informando che esistevano,
lasciando tracce,
ricordi inconfondibili,
del loro passaggio qui.
Questo paese
per secoli è vissuto
senza un nome definitivo,
senza identità.
Nessuno si è mai ribellato,
perché nessuno se n’è accorto.
Almeno un raggio di luce
merita chi,
per amore, per dignità
o per rabbia o per vanità,
ha avuto attimi di emersione
nella massa inerte.
Parlerò di voi che dormite silenti
nel quadrato,
a mezzogiorno del paese.
Pace a voi, finalmente.
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Ecco il mio “Spoon River”.
Inizio:
Sambruson, venerdì 10 aprile 2009
Andrea Zilio
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1) CIPRESSO
Cipresso,
che hai fatto
degli ultimi tuoi cinquantacinque anni?
Ti vedo bene, non sei cambiato per niente.
Venimmo da ragazzi
con una rete da roccolo
a battere i tuoi rami
a caccia di passeri.
Era una notte d’inverno.
Era una sfida che ci eravamo imposti.
C’era un gufo e ci scappò.
Spaventati a morte, noi lo seguimmo.
Non che mi interessi,
ma, così!, mi piacerebbe sapere:
qualcuno ha mai fatto il nido in te?
Sarebbe un luogo sicuro.
C’è troppo silenzio in questo quadrato,
certamente si chiederanno, perché?
Quante cose sanno i passeri
che alle nostre scuole ci vanno,
ma solo per nidificare sotto i coppi.
In qualche modo avranno capito
che meravigliosa trappola è la vita.
Dimmi, cipresso:
quante lacrime hai visto in mezzo secolo?
Anche di mie ne hai viste.
Cosa vuoi dirmi? ti ascolto.
Sono tornato senza roccolo.
Ho voglia di parlare con te,
vorrei contrattare con te un appiglio intimo
tra i tuoi rami per quando sarò leggero
e su impalpabile vento, mi verrò a posare.
Ho tanti amici qui.
Ogni tanto, con comodo,
li vorrei salutare.
2) BIMBO
E tu bimbo con unica data sul marmo,
oh, Paolino!
Tremava tutto il corteo,
si doleva per te.
E per tuo padre ancora più annichilito.
Che hai fatto nel frattempo?
Ti portai anch’io e pesavi niente,
cassa bianca.
Con tua madre in corteo silente
Solo cri.. cri.. cri.. sul ghiaino
facevano i piedi lenti e delicati, senza offesa.
Se n’è partita or ora, cercala, aspettala,
ti riconoscerà subito
Noi? Cosa vuoi che ti dica!
Non siamo più gli stessi,
a volte uno si chiede se ne è valsa la pena.
In che reparto sei?
Certo, dove gli Angeli osano
e dicono oooh.
Qui da noi non è successo niente,
abbiamo corso tanto
per stare sempre fermi.
Così ti dico, se vuoi sapere,
altrimenti, come non detto.
3) GEOMETRA
Ehi, ricercatore di cocci!
Son qui per dirti:
stai tranquillo.
Non dirmi che sai
che al solo sentir queste parole
uno comincia a preoccuparsi.
Quante volte le hanno dette a te,
i trafugatori delle tue memorie di pietra.
Palafitte, tombe millenarie, anfore d’unguenti…
Eh, sì! scrivevi poesie a un giovinetto,
piuttosto…
Imperdonabile!
I tuoi cocci ti restituivano alla civiltà.
Te li rubarono, ti tolsero di più.
Nessuno ti cercò più come prima.
Altolà!
Ti faccio sapere, amico geometra:
tutto a posto!
Sono tornati a casa i tuoi tesori, sai?
Ma sì!
Anche le piccole cose
sono tesori per chi le mette a simbolo,
a scopo del suo percorso.
Coloro che ti fuggivano,
ora sono nonni e mandano i nipotini
a studiare i tuoi cocci.
Proprio come tu volevi.
Fallo sapere nei luoghi dove sei.
Ora sei onorato nel nostro quadrato.
4) PRO MEMORIA
Non cercarmi tra le zolle,
posa altrove il tuo fiore,
amico.
Dove sono non è male
Ho trovato Enio, Letizia e Giovanna,
ed ora Luciana e Graziano,
ormai di casa.
Con Diego e Carlo
Parliamo ancora della squadra
E della maglietta celeste.
Siamo vissuti insieme in Brenta Secca
calciando un groviglio di copertoni
per pallone
E cantando la donna è mobile.
Cosa vi posso dire, amici?
Che la mia casa non è qui nel prato,
ancora.
Quando il vento penetrerà il giaciglio
scioglierà la polvere al vento
E sarà musica.
Ascoltatemi di sera,
la mia voce è inconfondibile:
è stonata
Tra non molto sarò scomposto assai.
Ma alla fine saprò ricompormi
L’ordine mi piace.
5) MARIO
Il grano è alto quest’anno
Viene bene,
è piovuto molto ad aprile.
La terra fuma,
innalza il suo grazie al cielo.
Che ne dici, Biondo,
vorrei saperlo?
Se un campo andava bene
lo raccontavi.
C’è latte abbondante in latteria?
No, Biondo, ora non più.
“Da quando?” ti chiedeva Giovanin.
“Da ieri sera!” rispondevi svelto.
Parlavate in gergo, strizzando l’occhio
sensuale.
Cicca a lato e sorriso sornione.
Erano solo questi i vostri svaghi.
Piccoli sberleffi,
tra un sudore e l’altro.
I tuoi sette figli vanno bene,
come il grano d’aprile.
Ricordo una sera che ti venni a trovare,
non bussai.
Parlavate tutti insieme.
Mangiavate insieme.
Famiglia.
Bella gente hai lasciato, amico.
Dimmi, come hai fatto?
Non dissi niente.
Le porte erano aperte
le finestre erano aperte
i cuori erano aperti.
6) STORIA DI UN RISCATTO
Giovanni l’orbo, possidente.
Eri una freccia con il tuo cavallo baio
alla frusta per gli stradoni.
Gran parlatore e mangiatore,
esperto di femmine e di semine.
Ti vantavi di essere figlio di tuo nonno.
Narravi di tuo nonno che andò
al Caffé Commercio
a trattare l’acquisto dei campi in affitto.
Vorrei rivederti e sentirtelo
raccontare quello che altri hanno detto.
Erano orgogliosi, i contadini del paese,
della tua famiglia,
perché uno di loro si era vendicato.
In questo paese di broccoli e barbabietole,
tu parlavi di uno che seppe elevarsi.
Si presentò vestito da campi:
pantaloni arrotolati
bomboniera aperta
cintura di balzo
camicia spalancata
terra secca sulle mani.
I padroni di città,
signorotti in declino
panciotto e orologio in vista
toscano tra i denti,
con figli debosciati,
lo fecero attendere.
Non gli diedero la mano.
“Storaro, allora, che facciamo?”
Poi dissero quanto.
(Raccontavi e facevi pausa.)
S’aspettavano cambiali.
Li fulminò,
“Volete oro o schei?
Fate presto, ho fretta.”
Tutti sbalordirono.
Balzarono in piedi, applaudirono.
Firmarono il contratto.
Allora gli porsero la mano.
Ma lui si scusò: non era in abito.
Dove ti sei nascosto nel quadrato?
Ti troverò, ti verrò a salutare.
Fa piacere a tutti, la vostra storia.
7) MATTO
“Cos’hai da guardare?
Lasciami dormire in pace.
Ti meravigli vero?
sentendomi parlare
con senno.”
“Cicci, sei tu che parli?”
E’ accanto a suo padre Toni,
in una nicchia modesta, ma sufficiente.
Ero lì per prendere misure ad occhio.
“Certo mi sorprendi, Cicci.
Ma, allora, tu sai ragionare.”
“Cosa credevate. Cicci è matto?
Non era vero.
Ci sono persone che hanno l’intelligenza
indietro un chilometro dagli occhi.
E il loro pensiero ha di fronte un percorso lungo
per arrivare alle labbra.
Ma voi non avevate pazienza con me.
Andavo a rubare mutande di donna
appese ai trami, erano lì ad asciugare.
Per questo mi dicevate matto.
Voi facevate la stessa cosa, di nascosto,
tutto compreso. E non eravate matti!
Era l’età che s’imponeva.
Ma a me no.
Perché ero il matto.
Ognuno ha una vita sola
e la mia mi fu sprecata,
in paese non ci fu pazienza con me,
che peccato!
8) SIGNOR PROCURATORE
Signor procuratore la vedo preoccupata.
Non mi dirà che ha problemi
nel nuovo sito.
Lei girava con carta bollata in tasca.
Pronto a denunciare.
Che tormento un arrabbiato come lei intorno!
Mi dispiacerebbe che avesse ancora guai.
Sempre all’attacco,
ora mi sembra in difesa.
forse non le hanno ancora detto
che qui il sonno è eterno e garantito?
Lasci perdere, si distenda, dorma in pace.
Ti vidi una volta in tribunale a Dolo.
Ad accusare un galantuomo.
Non ho mai capito di cosa.
Neanche il giudice.
Gli attribuivi sguardo truce,
colpevole di intenzioni malvagie.
Il geometra si toccava, non si riconosceva.
Il giudice ascoltò, girò le carte, guardò e si pronunciò.
Assolto!.
Tu procuratore non battesti ciglio.
Avanti un altro, stesso discorso.
Dormi nel quadrato da tanto tempo,
spero sia finito il processo che ti riguarda,
perché ti vedo cupo assai
e senza pezze giustificative aggiuntive.
Tuo figlio Alberto sta venendo in tuo soccorso.
Ha lasciato la casa Fabiola
che cura i confusi.
E’ lui il bollo di fuoco
sul tuo passaporto,
sarà il tuo salvacondotto.
Ha ragionato di studi colti,
l’ho sentito,
fatti con un grande sacerdote,
già suo compagno di classe,
recitarono qualcosa e sorrisero.
Era stato paziente, il prete Francesco.
Aveva atteso che gli arrivassero i ricordi.
E le parole.
Quando ripasserò, ne sono certo,
troverò la tua fronte finalmente spianata.
Dopo che ti è venuta la nuova compagnia.
9) MARINARETTO
Sogno infranto a 11 anni, luglio del ’23.
Oh piccolo Monarin!
Un mese durò l’agonia
di una madre disperata
Sarà venuta a vedere
se la maglietta era a posto,
con il freddo che fa lassù, oltre le nere nubi.
Non poteva resistere
senza il tuo grembiule elementare
da rattoppare.
Che sia stato un problema di stiratura?
Ho cercato la tua storia.
Sono passati quasi cento anni!
Ma tu non lo sai,
dormi il sonno placido
dei bimbi protetti.
Sei là col berrettino da marinaio,
ti faceva bello assai
per essere contadino.
Un ricciolo ti esce.
La madre te lo sistemava
con due dita umide di saliva
e di orgoglio.
Tuo padre sta in alto,
sorveglia che nessun altro bussi,
siete già stretti da soli.
Ma la vostra casetta funerea
pende da un lato,
nessuno la guarda,
a nessuno importa,
Cadrà presto, ha un equilibrio instabile,
e nessuno dirà niente.
A che è servito
il tuo passaggio in questi campi,
ragazzo vestito da marinaretto?
10) SPOSO RAPITO
Eri alto e forte, Giovanni.
Hai sempre avuto lo sguardo mesto,
figuriamoci ora.
Hai una foto che si scolora
ad ogni due novembre.
I parenti se ne sono andati.
Sei sempre più solo.
La tua promessa sposa
l’hai lasciata
in imminenza di altare.
Al momento del sì,
di un fiato solo,
il tuo se ne uscì.
Restò impietrita per anni, sai!
Con la sua veste bianca
intatta,
perenne
riposta con cura.
Cuore impietrito all’istante,
come la tua lastra.
Non sorrise più.
Bella figliola!
Incenerita sul salire della vita
verso una vetta agognata.
Se non sai t’informo:
è rimasta inchiodata in casa
come un alpinista fulminato sulla croda
che stava per scalare.
Senza speranze di vetta,
senza desideri di precipizio.
Là, in attesa, silente..
Sfida vivente.
Destino crudele.
Spero tu l’abbia incontrata,
spero non siate girovaghi entrambi,
non meritate.
Alza una mano
e chiedi al primo angelo che passa:
dov’è?
La potrei sposare, ora?
Ah, terzo cielo, a destra!
Grazie, chiederò là.
11) PATRIARCA
Conobbi un uomo,
capo di una tribù di fratelli, di figli e di nipoti.
Ognuno per sé.
Eppure,
nei grandi raduni di famiglia sedeva a capotavola,
tutti lo guardavano,
facevano silenzio quando apriva bocca..
Gli chiedevano, si informavano,
poi ognuno se ne andava
guardando indietro.
Nelle assemblee di paese
aveva per ultimo la parola.
Ed era quella che si scriveva.
Dov’è il valore?
Non è scritto, non è dato,
si scopre, si conquista goccia a goccia.
Si perde per un attimo balordo.
Vecchio buon Riccardo,
ti ho sempre visto canuto,
austero e pio.
Da te ho imparato ad ascoltare.
La tua fronte alta
era sgombra di rughe, di anfratti, di tranelli.
Era la trasparenza dei tuoi occhi chiari
a trasmettere fiducia,
a spingere la gente semplice
a chiedere consiglio a te.
Sulla tua tomba non vedo ghirlande,
ma fiori sparsi, differenti,
mani diverse, fuori circostanza.
Tanti di quelli che avevi intorno se ne sono andati.
Ma tanti piccoli ignoti ti ricordano.
Gli uomini come te si tramandano.
Quali monumenti eccelsi nascondono
questi piccoli cimiteri di campagna
che sanno solo d’incenso,
di brezza levantina
e scricchiolii di piedi devoti
sulle sminuzzate ghiaie!
12) BRACCIANTE
Scannabisse, tu non sai.
Mi piacque il tuo nome
e lo impressi ad un ragazzo
bello, triste, forte.
Sai, una storia la sua,
inventata eppur vera,
bella e dura,
che non si dimentica.
Così sarà per te,
spaccatore di zolle
con maglio di robinia.
Mediatore e vaccaio,
bracciante in offerta;
baffetti sbarazzini, inutili.
Li mostri ancora, belli e lucidi,
sorridente.
Non si disse mai niente di te.
Lavoratore, costavi poco.
Ti chiamavano.
Per questo sarai dimenticato-
Ma non da me.
Nei giorni di trebbia,
prestatore di manodopera.,
tra la polvere accecante,
sembravi uno scalatore.
La tua vetta era una paga,
misera, ma certa.
13) SINDACALISTA
Mi sono sognato di te,
Beppino.
Stanotte, e non so perché.
Non mi sono mai dimenticato,
ecco perché!
Trasmettevi allegria, sicurezza.
Parlavi di andare
Di fare
Di chiamare
Di lavorare
Di dare una mano…
Eri fatto così.
Ti sei sciolto per il prossimo tuo,
come te stesso, ora.
Avevi la casa da finire.
Mi chiamasti a vedere la tua casa.
La cercavo anch’io.
Ne parlammo,
fu per poco che non salii le tue stesse scale.
Com’eri orgoglioso!
Venni a Venezia
a trovarti
sulla sponda del tetto d’ospedale…
Dimezzato,
chino,
occhi bassi
non li alzasti…
Uscì Toni
occhi lucidi
ci guardammo
e piangemmo insieme
appena fuori.
Sono venuto a salutarti,
so che mi hai visto.
Ho alzato la mano da lontano.
”Che novità oggi?”
Il solito, Beppino.
14) VENTO DI SERA
Vento di sera, vento del tramonto,
come oscillano i rami dei salici
al tuo lento, delicato sfogliare:
altalenano litanie e rugiade,
lunghe dita aperte lo salutano.
Il nostro amico Bruno non è più qui.
Sì! E’ caduto come foglia secca
che si stacca senza rumore alcuno.
Eppure è stato uno schianto
vedere il suo ramo vuoto,
il posto a tavola vuoto,
il suo angolo scelto al circolo vuoto.
Portalo lassù in cielo oltre le stelle,
là tutto è pace, purezza, silenzio.
Cogli gli applausi dei giorni felici,
l’elenco delle cose buone fatte.
Siano perdonati errori
e debolezze terrene.
Il suo lenzuolo sia di fiordalisi,
i lini del suo sudario
rechino profumo di campi arati:
è cosa buona partire
con gioiose immagini per compagne,
col suono di voci note.
Vento di sera, suo angelo custode,
tu profumi di casa sua,
conosci il calore della famiglia,
lo accompagni già dal primo vagito,
tu hai raccolto il suo ultimo respiro.
Sii testimone il giorno del giudizio.
Alleggerisci il dolore ai suoi cari,
conducilo ai lidi eterni,
all’incontro col Creatore.
Preghiera del “Trovemose” a Bruno Brusegan
Sambruson, 5 aprile 2010
15) BRENTA SECCA
Qui la Brenta è ovunque.
La terra contadina di questi luoghi
ne è impregnata.
Il suo nome si spezzetta in mille rivoli
Una volta era così.
Nessuno ha visto, ma si capisce tutto
leggendo le rughe della terra, le sue ferite, i suoi tormenti,
gli scavi, i rii contorti
piegati paralleli verso il mare,
come capelli bagnati
stirati da un unico pettine.
Gli acquazzoni si chiamavano brentane.
Noi, Brenta Secca,
siamo l’altra riviera, quella povera,
fatta di popolo,
non di ville patrizie.
Sull’onda pigra lavavano lenzuola,
le belle lavanderine.
Gli uomini fischiettavano
tra i tralci nella potatura.
Il fiasco prendeva il fresco
tra esche e raganelle.
La gente, imparentata
nel sangue, nel lavoro, nella terra, nel cielo,
nei tramonti sempre uguali,
si aiutava.
Non ci sono colline, non ci sono monti
a svariare i cieli.
Anche nelle rabbie, e nelle nebbie
di testa, si capiva:
non si moriva per un confine.
E’ da qui che ho guidato acque al mare.
E’ qui che mi lascerò prosciugare,
non ho niente più da guardare.
Ricordo le ragazze a coglier violette,
quando l’arzariva scendeva pettinata
fino a filo d’acqua chiara.
I ragazzi frenavano bici sgangherate,
prese a prestito per una sera,
con zoccoli lucidati.
Oh, buonasera, signorine!
Oh, bella sera davvero!
Intrecciavano candidi grappoli,
fragranti, di robinia,
sedute su tappeti di nontiscordardime.
Luccicavo sotto la luna.
Era bello sentir sorridere, sperare.
Ora neanche quello.
16) GENEROSA
Mi piaceva piacere.
Molti ragazzi mi seguivano e mi guardavano,
andavo alle feste,
ma la festa ero io, se non c’ero la festa non c’era.
Andai nella casa del principe dei ragazzi di allora,
assai ricco, assai ammanigliato nel paese,
assai colto, assai rozzo.
Ma la sua mente era già occupata,
tuttavia venne nel mio letto.
Volubile!
Mi stancai presto.
Ma non feci in tempo a girare altri sguardi.
Un morbo rapido mi rapì.
Il bravo figliolo seppe distrarsi,
ma mai mi dimenticò.
Ero valsa la pena,
forse.
Guardò altrove
già prima che andassi via di fretta.
Ho saputo che ora anche lui è passato di qua,
anche lui ha oltrepassato l’acheronte,
girovaga sbandato,
con l’aria di chi non gli importa
non ha ancora capito cosa gli è successo.
E’ stata una sbandata in curva
e si sta ancora
chiedendo come sia stato possibile
a uno esperto, ricco come lui.
Con me gli era andata bene
sembrava disposto a morire per me,
e invece non andò così.
Ci siamo incrociati in queste nebulose,
ma non mi ha riconosciuto,
forse,
forse non ci siamo mai amati,
mai conosciuti.
17) COMMENDATORE
Riposi in un angolo in fondo,
assai discreto.
Non eri nobile di casata, ma di fatto.
Partivi con mazzette da cinquemila lire
in tasca.
Salutavi tutti con grande cera
e tutti ti salutavano, molti con un inchino,
allungavi la mano
ti risalutavano
alzando il cappello.
Entravi in prefettura,
all’uscita allungavi un biglietto.
Perché? Ti chiedevano
Così, per niente. “Non si sa mai.”
Andavi in Comune, al vigile allungavi la manina.
Il buon uomo scattava sull’attenti.
Comandi! diceva.
“Comodo, comodo”.
Andavi in curia, allungavi una busta chiusa
al segretario:
“sempre sia lodato,” ti rispondevano.
La vedova chiedeva
un posto in collegio per l’orfanello,
“… sa, commendatore, nessuno mi ascolta.”
Andava a trovare il rettore
Che si scappellava all’uscita.
“Tutto a posto, signora.”
Al gondoliere che ti diceva grazie in anticipo
allungavi il foglietto magico.
Cosa chiedeva?
Niente! Non chiedeva mai niente.
Da sole tutte le porte gli si aprivano.
Avevi capito che bisognava ungere prima.
Sì, tutte le porte si aprivano.
“Vedi come si fa?” mi dicevi. “Impara.”
Non avevo mazzette da cinquemila
E molte porte mi furono sbattute in faccia.
E’ rimasto un grande rimpianto per il buon uomo,
e le sue mazzette.
L’ha fatta sempre franca con gaudio di tutti.
Una volta diede anche a me uno di quei foglietti.
“Perché?” chiesi.
“Non si sa mai.”
Lo raccolsi, rinculai, lo misi in cornice.
Non vale più niente, ma non si sa mai.
18) ONOREVOLE
Una vita spesa bene, operosa, movimentata.
Giravi per i ministeri romani, qualsiasi.
E’ scomparso il tuo nome
dalla memoria dei paesani,
che pure molto avevi beneficiato
in cavalierati, in raccomandazioni,
in spintarelle, in prebende e promozioni.
Ora? Più niente.
L’unico devoto rimasto,
il tuo segretario,
con affetto e dedizione.
Aveva trasformato la strada
in aula parlamentare.
Passo lento, sguardo a terra,
tanto, sapeva già che lo salutavano,
appena rispondeva con la testa.
Cellulare sempre aperto.
Per ore, per giorni, per mesi, per anni,
sempre stessa scena.
Sacra amicizia la sua!
Conosceva l’indirizzo di tutti i palazzi,
gli orari dei treni, i prezzi dei taxi,
le locande dell’abbacchio scottadito,
i migliori alloggi per i pellegrini,
i monsignori che contavano.
E tu?
Avevi assunto l’aria capitolina
sguardo sempre rattrappito
una pensosa, sciatta loquela,
frutto del contatto con quel potere
inutile e sorprendente.
Perciò temuto e rispettato.
Il nostro contadino
era disuso ai discorsi in lingua,
non li capiva, perciò li temeva.
Il tuo incedere era stanco, sempre uguale,
sempre monotono, solitario.
Ora riposi ignoto
in un piccolo quadrato fuori paese,
vispo solo di cardi insistenti
e teneri ciuffi d’erba cipollina.
19) PENSIONATO
Quanti anni, don Raffaele?
Novanta.
Pare miga.
Grazie!
E’ stato segretario comunale.
E sempre ha conservato il titolo di segretario,
anche quando divenne assessore.
Il suo braccio destro
colpito da un malanno giovanile
era proteso ad angolo retto.
Avanzava sempre
con la mano tesa
e tutti gliela stringevano.
Tutti lodavano la sua umiltà, la sua semplicità.
Anche le autorità dovevano rispondere
a un gesto così spontaneo.
Forse fu per questo che amò l’umanità
oltre il necessario,
i paesani della Brenta Secca soprattutto
che vedevano venirgli incontro,
un’autorità
sempre sorridente, pronta a porgere la mano.
Quanti encomi!
Mai sospettò di niente,
finché, allo scadere dei novant’anni,
un novizio di politico
gli chiese spazio,
gli chiese di rassegnare le dimissioni da assessore.
“Segretario, grazie di tutto, non possiamo ricandidarti.”
“Grazie, grazie” avevi risposto sorridente.
Eri diventato anche sordo,
così forse non hai saputo mai
che non eri più in nessuna lista.
Quasi subito uscì di pista.
20) L’IMPRESARIO
Sono nato sfoderato, rovesciato,
con la pelle all’interno e l’intelligenza in bella vista.
La scorrettezza mi veniva naturale,
che vi posso dire?
Divenni un bravo costruttore di palazzi.
Sono sempre stato spavaldo e arrogante.
Visto che funzionava
non mi sono mai sottratto
all’occasione di barattare un niente con qualcosa.
Minacciando pur di non pagare un debito.
Vendevo le stesse case anche due volte,
creando disperazioni incredibili.
Ciò rafforzava il mio coraggio.
Il successo è eccitante e pericoloso.
Ti fa credere onnipotente.
E’ successo anche a Napoleone.
Ho fallito più volte, mi sono rimesso in piedi,
ma sempre con maggior fatica.
Siccome in questo mondo gli stolti abbondano
per me c’è sempre stata pastura.
Riuscivo a farmi pagare un caseggiato
prima di costruirlo e a non finirlo.
Mi denunciavano con corpose contestazioni.
Finiva che ci riguadagnavo ancora con le ristrutturazioni.
Poi mia moglie inorridita mi lasciò.
Mio figlio cambiò Paese.
Molti mi tolsero il saluto.
Ingrassai paurosamente.
Per l’inerzia che ad un certo punto ti coglie
per l’accerchiamento in cui ero precipitato,
sono finito sbandato.
Non so neppure dove giaccio,
in quale ansa del naviglio
son precipitato tra canne e nidi di anatrelle.
Non le ho neppure spaventate.
Ho capito che la storia era finita.
Ed è perfetto come canovaccio
di una tragedia greca,
per un rovesciato come me
è il massimo.
Non ho avanzato neppure un angolo d’orto
con tre margherite, un ciuffo di nontiscordardimé.
21) BOTTEGAIO
Mio padre mi parlò chiaro:
“Sii onesto e pio, fatti pagare subito”.
Avevo un negozio di chincaglieria che vendeva di tutto:
giocattoli, giornali, francobolli, lotto, presepi, cancelleria.
La nostra botteguccia è antica, è in centro,
il transito è assicurato..
Siamo bravi,
diamo ragione a tutti,
siamo discreti.
Imparai il mestiere in negozio, dal vivo.
“Dammi una pallina da ping-pong da cento lire”
mi disse Paolo, un compagno.
“Papà, quanto costa una pallina
da ping-pong da cento lire?”
“Cento lire.”
“Cento lire, Paolo.”
Ero diventato ricco, molto magro, quattro ossa.
Sa, occorreva fare economia!
Ho sempre mangiato poco,
per vivere mi bastava quasi niente.
Per strada guardavo sempre dritto,
non guardavo donne,
non tenevo rapporti con nessuno,
così non davo prestiti.
Quando cambiai nicchia non me ne accorsi.
Smisi di respirare all’improvviso.
Non ci fu sperpero di badanti, di medicine,
di consulti costosi.
Ora mi copre un marmo meraviglioso color rosa,
mi dicono i miei in preghiera.
Ma non m’importa,
basta che sia a loro gradito,
che non sia a tramontana
che non mi sloggino presto,
che il Comune mi tenga qui
trent’anni almeno.
Spero non sia costato troppo.
Son sempre stato trasparente,
per me non è cambiato niente.
22) SACERDOTE
La vita è amore, ma anche morte.
Nel fervore del mio nuovo apostolato
alle falde del monte Grappa,
correvo ansioso in motorino a portare soccorso,
e io non l’ebbi.
Come spiegare?
Un platano infranse la mia corsa e la mia vita,
caddi sull’asfalto.
La mia veste lisa fu intrisa per sempre
ed io rimasi vuoto dentro per sempre.
Fratelli cari, la vita va spesa bene,
ma è la morte, come muori, che crea la fama.
Non so perché, non so come mai,
un paesello della Brentasecca,
che già mi aveva dimenticato,
abbellì gesta normali per un prete
da me compiute colà
durante la mia missione.
Certo il mio apostolato è sempre stato missionario,
avevo grande cuore, anche se poco studio,
già! non tutti ebbero da me quello che cercavano
ma la volontà di amarli c’era tutta, sincera.
Solo una grande fede mi premiò.
Eppure ho una lapide in quel paesello.
Nessun prete ha avuto altrettanto
e perché? per aver sostenuto un campicello
per ragazzi da pallone?
Ora molti intingono il pane nel mio dolore,
brindano al mio nome.
Non capisco,
non ho fatto solo quello:
ho consolato molti,
qualcuno magari avrò ho confuso.
Anch’io lo ero.
Guardate le minuzie?
E la mia fede appassionata?
E l’apostolato mio accorato?
Mi dispiace per lo sgarbo fatto
ai miei confratelli,
grandi pastori e maestri,
che dormono dimenticati
nella chiesetta al centro del quadrato,
steso all’ombra di alti pioppi che mormorano,
chissà che cosa,
ogni sera al tramonto.
Dormo ai piedi del gran monte,
in cielo sto a fianco di mamma mia.
23) PARAPLEGICA
Ero piccola, bella, poliomielitica.
Che altro vuoi sapere, visitatore?
Non camminavo, caracollavo.
Tutti mi chiamavano zia.
Era il mio dottorato campestre
lungo la contrada delle Baccanelle
Da bimba soffrii da morire,
da ragazza piansi da restare impietrita.
Era l’età dell’amore.
Tutti i coetanei erano teneri con me,
ma poi mi lasciarono sola,
nel mio casone di paglia e fango,
intrufolato nella campagna brentana
che scolava verso le barene
cariche di zanzare, di anguille e di folaghe.
I miei erano contadini di mestiere,
cacciatori e pescatori per necessità.
Ero povera,
ma sempre ben pettinata, ordinata,
profumata di fiori di campo.
Cosa credi?
Misi ciuffetti di violette
nel mio piccolo corpetto.
Anche un rametto debole di ciliegio,
sospeso sul ciglio del fosso
oltre la siepe dei sempreverdi,
aveva osato avere il suo fiore
e il suo ciuffo di frutti rubicondi.
Perché no? Avevo pensato.
Attesi invano.
Allora il mio amore è stato quello di consolare
gli affitti più di me,
eppure belli più di me.
Di sorridere di buon cuore,
anche questo è amore.
Mi trovi sempre nel mio quadrato,
fa Prozzolo di nome il paese.
24) CALZOLAIO
Ancora non capisco come posso essere finito
così presto
a due passi dal rio Serraglio,
a monte della Brenta che si flette.
Caro amico, non immagini il silenzio di queste plaghe,
di notte ci passiamo solo il silenzio,
si può dire qualcosa tacendo,
non ci sono lacrime
solo effluvi di fiati sommersi,
non ti spaventare, viandante.
Ricordate la mia forza, e la mia voce tonante?
E la mia allegria e il mio appetito
e il mio buonumore?
Poi successe che d’improvviso
qualcosa cominciò a mangiare me dal di dentro
svuotandomi,
lasciandomi sconosciuto anche a me stesso.
E pensare
che facevo una scarpa così bella che parlava
e uno stivaletto che rendeva una gamba di donna
un gioiello.
Ora sono qui scalzo.
Anna mi chiama, mi cerca, i ragazzi lavorano fuori,
anch’io sono fuori
dalla casa che tanti sudori e rinunce mi era costata.
Ricordate, le feste del condominio?
Tutti invidiavano la nostra armonia.
Oh, se mi ricordo, Roberto, mi ricordo mi ricordo.
Sei stato un gigante di simpatia,
ancora parliamo di te con le famiglie di allora.
Eh, sì! Ma ho perso la mia partita più importante.
Dormo qui sotto le stelle fredde
che non capiscono, non ascoltano,
non sanno neanche di esistere.
Se passi, amico mio, fermati un attimo.
Guardiamoci.
25) PATER et MATER
Il silenzio è stato il vostro marchio di vita.
Parlavate poco, vi capivamo subito.
Gente travolta dal lavoro dei campi,
non potevate alzare la testa,
figuriamoci la voce.
I nostri cimiteri
li chiamo quadrati,
vi radunano
allineati e coperti
siete come libri,
nelle biblioteche.
Ti ascolto, pater, eri saggio e buono
mi hai già detto tutto,
ma se qualcosa hai lasciato indietro
son qui pronto ad ascoltarti.
So che ne vale la pena.
Ci insegnavi, mater, con una piega del volto,
con un tono di voce,
con uno sguardo,
con un silenzio più lungo.
Avevate fatto la seconda
eppure mi avete insegnato tante storie,
stimolato a crearle, a inventarle.
A volte vengo qui solo,
vi racconto dei ragazzi
dei pensieri
dei travagli.
Entro nel vostro cuore,
mi guardate con occhi fissi.
So che mi vedete.
So che mi direte.
Tu sapevi sempre come fare,
padre.
Tu avevi sempre qualcosa da darmi,
madre.
26) CASELLANTE
Emilio Dei, toscanaccio!
Trapiantato qui nel casello
della vaca-mora,
che portava gli operai a Marghera,
Guardiano delle traversine,
dovevi controllare il binario,
le distanze e l’allentarsi dei bulloni.
Sempre in mezzo ai sassi,
al baluginare dell’onda bollente dei meriggi.
Picchiavi con la mazza,
ne leggevi il suono vibrante, avvitavi,
passavi su un carrello spinto con un’asta,
in diagonale nella campagna verde,
salutavi i lavoratori della terra
con voce tonante.
Eri ammirato assai.
Sigaro fumante sempre acceso,
toscano, ovviamente.
Hai nostri contadini ha insegnato
a mangiare i chiodini,
funghi meravigliosi dei loro pioppeti infiniti.
Nessuno aveva insegnato loro a distinguere.
Vedendo che tu mangiavi e riprendevi a fumare,
i braccianti ti invitarono alla mensa
sotto la pergola e, dopo di te, li provarono.
Andò bene.
“Vi meravigliate, posteri?”
Non fatelo.
Ecco spiegato da quanto lontano
questa nostra gente minuta è partita
e quanta strada ha dovuto percorrere per arrivare qui.
Ragazzi delle scuole andate nei nostri cimiteri
e fatevi spiegare dalle maestre perché siete là.
Emilio è ancora tra noi,
lo trovate a Sambruson
sul muretto di tramontana.
Altri, di questi maestosi piccoli giganti
sono lì nel quadrato.
Ascoltateli.
27) DONNA DI CUORI
I campi di sorgo maturo
erano impenetrabili in agosto,
per le polveri urticanti e la mancanza di respiro.
Là si davano appuntamento,
perché solo i giovani coraggiosi osavano.
Là Lisetta riceveva.
Da ragazza aveva amato un ragazzo del sud.
Ma i suoi dissero di no.
Senza sapere perché:
era l’usanza polentona.
Soffrì da impazzire, poi fece soffrire gli altri.
Accettò tutti, ma con discrezione.
Si sapesse, ma non si vedesse.
Ecco salva la reputazione,
ecco l’ipocrisia nostra contadina.
Il buon nome era salvo.
Aspettava i ragazzotti
in un giaciglio di erba medica,
invisibile ai lavoranti,
forte da far tremare i suoi coetanei,
che uscivano stravolti a tuffarsi nel Brentone.
Se ne vantavano e tornavano.
Eppure nessuno dei padri disse niente.
Lo si capì in seguito.
I bravi contadini, religiosi e pii,
avevano fatto altrettanto
nei loro giorni lieti, prima di chinare il capo
per tutta la vita
sui solchi di caranto.
Finì sposa felice e fedele
di un metalmeccanico
in un vicolo operaio.
Ora riposa in pace in un cimitero
che vede le ciminiere alle foci del naviglio.
I suoi sono sempre qui.
I vecchi la ricordano ancora.
Se avessero i baffi come i loro padri
li arriccerebbero.
28) AVARO
Dove dormo nessuno lo sa,
non lo so neppure io,
certamente nella brumosa campagna brentana,
assolata da bruciare d’agosto
con larghe crepe nella terra impietrita.
Fu in un’estate così che successe.
Da ragazzo ero stato poverissimo,
ero uno di numerosa famiglia,
uscii per fare da solo.
Ero partito con un campo padovano.
Poi ne acquistai un altro, poi un altro.
Mi ero fissato un traguardo:
raggiungere 15 campi ed essere benestante.
Mi sposai con la Celestina,
non ebbi figli, lavorai come un forsennato
e a ottantadue anni raggiunsi il traguardo.
Non conoscevo più nessuno,
nessuno si ricordava più di me
Il giorno in cui tornai con il rogito del notaio di Dolo,
che mi assegnava la vittoria del quindicesimo campo,
mi fermai di scatto,
salii sullo sgabello della mungitura, lo rovesciai,
e più mon fiatai.
Rimasi appeso al soffitto con la corda nuova
per un giorno intero.
Nessuno veniva più a casa mia.
Avevo scoperto, fulmine a ciel sereno,
che la mia vita era stata tutta inutile.
A che era servita la mia vita?
A scavare come un pazzo nicchie ai semi di mais,
a estirpare gramigna?
Aveva vinto lei, da tempo me ne ero accorto.
Di me non è rimasto nulla.
Hanno disperso le mie ossa che nessuno reclamava
Dormo da qualche parte,
ma non so dove nella gronda lagunare
della Brenta secca.
Come farò a ricompormi il giorno del giudizio?
29) RAGIONIERA
Bella come il sole e fortunata.
Diplomata e già lavoravi in banca.
Avevi una vita e tanti sogni davanti.
“Vai piano” diceva tua madre,
aprendo il cancello di ferro
alla tua cinquecento nuova.
Comperata a rate, ma sicura nel pagamento.
Anche quella mattina ti disse la stessa cosa.
Facesti un chilometro, eri in ritardo
Nel sorpasso di un carro di fieno,
sei rimasta infranta sulla fronte di un camion,
trasportava misera ghiaia
.
Tuo padre e tua madre più non sono usciti,
Si vedevano solo rasentare l’ombra delle case
e venire a deporre rose sul tuo giaciglio,
dove dormi sola.
Perché? Perché? Perché?
E questa la domanda sconsolata
di tuo padre Ubaldo.
Chi voleva consolarlo,
più parlar non poteva.
30) MATER DOLOROSA
Pronipoti miei, vi racconto
come giunsi nel casone di canne
in mezzo alla risaia di Prozzolo
in una giornata di primavera.
Ero felice, giovanissima, mi ero risposata.
Avevo sposato un uomo gentile,
ma con quattro figli,
uno lo portavo in dote.
Ne avemmo altri sei in quella sterminata piana,
per noi era immensa,
anche se non lo era,
perché immenso era il vuoto di lavoro
intorno a noi.
Che altro potevamo fare
per riscaldarci e consolarci
sui duri pajoni di cartocci,
se non fare figli?
La laguna e i fossati pescosi
ci fornirono da mangiare
quando non c’era pane né polenta.
Perfino il padrone del casone
andava via sconsolato
e senza niente quando veniva per l’affitto.
Mangiavamo a giornata,
i ragazzi dormivano in mucchio sotto il tetto,
gocciolava ogni volta che pioveva.
Poi, grazie al cielo, uno alla volta
ebbero un lavoro,
si sposarono lasciando spazio.
Rimasi vedova di nuovo,
ma non mi disperai, come potevo?
Guido, il più vecchio, mi aiutò,
lavorò una vita per una scodella di farina
Aldo soffrì prigioniero in Germania,
Lina e Tina andarono, per disperazione,
servette a Roma,
erano poco più che bambine.
Pasquale cantava nel coro della chiesa,
perché era uno svago,
Germano fu un bravo fabbro,
Dino si ingegnò in molte cose,
Bepi perse un occhio in guerra,
Nino era l’intruso, mai per me, sua madre,
Aronne era il più giovane, riuscirà a farsi una bella casa,
Maria è l’ultima, ancora in via.
Siamo tutti qui,
nei cimiteri di campagna,
ognuno dorme il suo sonno,
non ci importa più di niente.
I figli dei figli
sono bravi e affermati,
sono diplomati, laureati, artigiani,
nessuno lavora la terra,
si fanno ascoltare nelle assemblee.
31) FABBRO FERRAIO
Fausto ti chiamavi,
buon auspicio.
Ma fu duro il tuo mestiere
di fabbro, domatore di acciai,
costruttore di vomeri.
I migliori.
Tutti venivano da te.
Passa qualcuno da te, ora?
Non ne vedo, son morti tutti i contadini.
Di chi vuoi sapere?
Storari, Cuchi, Pastoreti, Magnamai?
Brava gente, grandi lavoratori, grandi intenditori.
Sorridono fissi un po’ qua un po’ là,
umidità permettendo.
Tutti i santi hanno un premio.
Tu una officina celeste da tenere in ordine
ce l’hai di sicuro.
Il Padre che è nei cieli
non lascia certo a sbando gente brava,
dà loro un premio secondo i meriti.
Lascia che l’anima sia felice
permettendole di restare
quello che è sempre stata.
Uno non è lì per caso.
Ti avrà dato un vomere celeste da sistemare
ne sono certo,
dei gioghi da incurvare
delle falci da affilare sull’incudine,
per i prati celesti
che noi neppure immaginiamo.
Lampeggiano frastuoni in cielo,
sei tu per caso, con i tuoi martelli?
Che altro può fare in paradiso
uno che non ha conosciuto altro che la sua incudine?
Quel che hai fatto
l’hai sempre fatto bene.
Dormi in pace, senza rumori.
32) AMBULANTE
Mi informerò.
Mi è venuta voglia di vederti, Gusto.
Dove sei? A Camponogara?
Per questione di tre metri di confine, dovrebbe essere così.
Mi ricordi la mia infanzia in una stradina polverosa
che si snodava tra i campi,
qui colline non ci sono mai state.
Faticava a farsi strada,
eppure era sempre la stessa strada.
Tra fanghi infernali e ghiacci invernali,
noi facevamo vacanza, oltre le vacanze.
Non si passava.
Ma tu passavi.
Venivi con il tuo piccolo cavallo,
e un tentennante carretto
pieno di cassetti con cianfrusaglie,
pezze e bottoni, ciondoli e tovaglioli da ricamare.
Si fermava da solo a ogni ponticello,
testa bassa, orecchie chine,
come te.
Le contadine venivano
per chiederti spagnoletti, aghi, pezze da unire
per fare grembiulini
per noi bimbetti.
Vuoi che non mi ricordi di te?
Che ci portavi caramelle
assai piccole, in verità, ma attese.
Eri una sagra, ti vedevamo venire da lontano,
ti aspettavamo in strada festanti.
Che paura che tirassi dritto!
Non passavi dappertutto, e quindi noi ci vantavamo
di avere una bottega in casa.
Dove sei ora, amico Sanco,
mancino di mano, ma serioso in volto,
anche di troppo.
Vorrei vedere se sei pacificato,
vorrei vederti sorridere una volta sola,
non l’hai mai fatto prima,
mi basta leggere una foto
per capire se sei cambiato.
Le foto abbrutiscono al sole,
ma anche no, migliorano,
se chi è di là
ha trovato la pace sempre cercata
e mai incontrata.
33) LA FORNAIA
Non è possibile che tu sia rincantucciata
in qualche sottoscala celeste.
Ti ho voluto bene prima di conoscerti,
nonna del pane al Ponte.
Ti è stato assegnato senz’altro un posto luminoso.
Salivo dalla mia stradina e il vento girava,
veniva il profumo del tuo pane.
Niente! Per andare a scuola si doveva scendere per via Villa,
poi il vento girava ancora,
forse le case, forse gli alberi, forse perché tanto! era inutile.
Subentrava furtivo l’odore di gesso e d’inchiostro
della scolastica Gigia.
La fame passava.
Non era fame fame per la gente dei campi,
brodi di verze e latte a volontà a tutte le ore,
ma una fette di pane odoroso,
fragrante, da farti piangere di voglia
non c’era mai.
Poi mi mandarono al tuo forno.
I campi erano stati spartiti.
Ci fu altro tipo di fame.
Delle piccole agevolezze,
agognate e mai conosciute.
Ti conobbi, bianca, infarinata,
per trenta, quaranta, cinquanta anni? Quanti?
Hai passato i tuoi giorni dicendo-sentendo
mezzo-chilo-tre-etti-quattro-ciope,
già finite le mantovane?
Quando ti vidi restai incantato.
Finalmente! Ti vidi già vecchia,
spero tu non ti offenda!
O era proprio la farina impalpabile che già ti santificava?
Se si farà un giorno l’elenco dei personaggi da storia,
non si parlerà solo dei Cimbri e dei Teutoni,
gli eruditi cresciuti qui racconteranno
la storia dei piccoli personaggi,
dei testimoni
che qui hanno fatto la storia, a loro insaputa.
Tanti tasselli con piccole luci
faranno brillare
un paesaggio minore, sincero, autentico,
che sa di pane.
34) PATRIOTA
Il tuo nome era Antonino.
Da subito ti riconoscemmo come gigante.
Non eri bravo a parlare in lingua,
ti esprimevi chiaramente con timbro friulano,
con gesti loquaci, con un sorriso forte e sicuro,
con toni aspri, convinti.
Trascinatore!
Ti saluto, maestro.
Ho qui davanti a me la tua epigrafe.
Te ne sei andato molto giovane
e subito non ci credemmo.
Si era mai visto un vulcano spegnersi all’istante?
Un partigiano osovano schiantarsi sul palco,
mentre a Roma parla, chiede ai ministri
un aiuto per far crescere l’ospedale di Dolo?
Presidente, valoroso e forte, fosti rapito a tutti.
Venivi spesso tra noi in paese,
perché avevi scoperto i giovani migliori.
Quaranta corone di fiori al tuo tremendo funerale!
Lo vollero così i potenti, le istituzioni.
Poi sparirono.
Con Ulisse e Paolo e altri di quei ragazzi, in corteo,
anonimi tra la folla, piangemmo per te,
tenendoci per mano.
Riposi oltre Tagliamento,
ma il tuo cuore è ancora in noi.
L’ospedale ora è stato spostato,
la sala delle conferenze sarà adibita ad altro.
Sarà staccata, la lapide! Oh, sarà così, vedrai.
Lo so che a te non importa. Ma ai posteri sì.
Soltanto, chi sono i posteri, ora?
Siamo pochi, sai. Dispersi.
Sai, caro Nino, cosa successe a Gina,
dopo il tuo funerale?
Fu fatta una colletta tra gli amici per le spese.
Sei morto povero.
Un lunedì di Pasqua la vidi, tua moglie,
dietro un chiosco di frutta.
Cercava, sgranocchiava una mela:
era il suo pranzo.
Ahi! Un altro grande presidente,
eppure tuo avversario politico,
alzò la testa e urlò di sconforto. Ed era balbuziente.
Gina andò a stirare in lavanderia.
Ebbero un pane per sempre, lei e tua figlia.
Grazie, Nino, per averci portati a conoscere Porzus.
35) SCHERZEVOLE
“Cos’ha questa bicicletta?”
“Ha preso una brocca.”
“E non sei capace di usare il mastice?”
Rimproverava, rideva, metteva soprannomi
a tutti i ragazzi della piazza.
Ora sono pensionati,
ma sono stati professori, pediatri, ragionieri,
sfaccendati di classe in politica.
Eri bisunto di grasso.
Tua moglie era la più bella maestra del paese.
Fu la mia in quarta elementare.
Ci faceva rigare dritti.
Venivo a riparare la ruota davanti impegnata nei fanghi
della mia stradina.
Speravo che le parlassi bene.
Ci lasciavamo maltrattare.
“Dirai una parola buona alla maestra Stella?”
Questo volevo chiederti.
Non lo feci mai, tanto sarebbe stato lo stesso.
Come hai fatto a incontrare una donna bella e intelligente,
tu sporco e ironico,
allegro sempre?
nessuno lo capì mai.
Eppure ora lo capisco:
bello dentro come te
non ce ne’erano, pur sorridenti.
Il tuo successore,
Piero meccanico, altra pasta.
36) MECCANICO
Personaggi piccoli e maestosi.
Nessun giornale parlò mai di voi.
Nessuna autorità venne mai a farvi visita.
Ostile a tutti:
perché tutti ti prendevano in giro.
Perché Piero?
“Paese di bigotti e falsi, cosa credete?”
E noi giù a ridere.
“Io non credo, va bene?”
Eri diverso da Emo, meccanico tuo precedente.
“Io non bestemmio, va bene?”
Eri perfetto nel tuo lavoro.
Eri onesto nel chiedere il pagamento.
Tu, ignorante di cultura, vuoto di testa,
un giorno provasti a spiegare
a studenti, come me,
che gli americani sbagliavano in Viet Nam.
E noi, giù a ridere.
“Ma cosa vuoi sapere tu,
meccanico?”
C’era gente che sentiva, che intuiva
a cuore, le cose com’erano.
Non sopportavano i torti,
sfacciati,
i luoghi comuni.
Dove sei sepolto, Piero?
Vorrei trovarti, e portare i miei compagni di studi
per dirti che avevi ragione.
“Lascia stare, non mi interessa.”
Meccanico, dopo di te,
esperto in mastici,
non c’è stato più nessuno.
37) PESCIVENDOLO
Vedo che guardi ancora con ghigno,
anche se uno gira l’angolo, tu lo segui.
Ti chiamavano Rosso, perché
lo eri, totale:
capelli, volto, lentiggini, muscoli.
Passavi di casa in casa con la tua cassetta,
sul portabagagli.
“Pesceeee!”
Le donne, timide, uscivano.
“Cosa avete, oggi?”
“Quello che volete.”
Tu snocciolavi, sardee, schie, sgranfi, anguee,
passsarini, allora cosa? quanto?
Eri spiccio, facile di maleparole.
Presi il tifo da te!
“Cosa?”mi chiedi. “Perché?”
Te lo dico: cape!
Scadute.
Puzzavano.
“E perché le hai mangiate?”
Anche adesso volete avere ragione,
bigotti della malora?
Ricordo un pomeriggio, di domenica,
sagra di S.Valentino, freddo,
eri ubriaco fradicio.
Riuscisti a sollevare con i denti
un sasso incatramato sull’asfalto.
Dopo lunga dolorosa fatica.
Davanti alla sala del cinema.
Ragazzi ti guardavamo sbigottiti.
Gli adulti dietro, con disprezzo.
“Che fate, guardate lo spettacolo?”
Non ti facevi intimidire da nessuno
Eri riuscito, una volta sola,
ad avere l’attenzione totale del paese.
Sei stato un ribelle.
A modo tuo,
in un mare di conformismo.
Per questo ti ricordo.
Gente ha provato piacere
a tenerti lontano.
Di questo noi pagheremo.
38) ZINGARO
Ci fu un tempo i cui
noi universitari eravamo gagliardi,
unica cosa bella di un paese
dove i migliori avevano la quinta.
Le nostre imprese goliardiche furono famose
Inventammo un rimborso record:
con tanto di carta intestata e timbri.
“Per danni di guerra” a causa di carotaggi
nelle campagne da parte degli alleati.
Perché? Si era cercato il petrolio.
Tutti i notabili, i proprietari
furono convocati a Venezia,
in prefettura.
Nessuno mancò.
Parroco compreso.
Beffa totale, clamorosa, impensabile.
Già, era un primo d’aprile.
Belli eravamo, con Toni, Piero, Virgilio…
Ero tra questi ragazzi,
Gli altri si laurearono, si sistemarono, esercitarono.
Qualcuno è pensionato, qualcuno è accanto a me, ora.
Discorriamo ogni tanto,
ma non è come allora.
Ti capisco, Marcello, bighellone e scartato
Fosti un ribelle, un tipo originale,
hai saputo ergerti, da solo.
I tuoi amici poi furono altri,
don Bruno Nicolini, Mirella Karpati:
seguivano, istruivano, aiutavano i nomadi.
“Sì! Andavo a visitare le carovane e le tende,
fui loro amico , volevo conoscere, capire.”
Zingaro, mi chiamarono.
Nella mia totale indifferenza.
Anche per mia insistenza
fu costruita una scuola per nomadi
a Casello dodici.
C’è ancora? Fatemi sapere.”
Tranquillo, vorrei dirti.
Continua, sarai ricordato per questo,
nessuno dei tuoi compagni
ha lasciato traccia così larga.
E pensare
che per svago vendevi cachi.
39) ENIO
Fratello,
che fai oggi di giovedì?
Una volta lavavi la macchina.
Avevi l’orario ridotto,
poi perdesti anche quello,
poi il lavoro tutto.
Guardavi da dietro i vetri come ora,
sguardo fisso
inghiottito dal male d’ansia
non sapevi che fare.
Cadesti a terra come masso.
E fu per sempre.
Ti guardai,
non ci credevo,
mi guardavi come sempre,
ma eri spazi infiniti oltre.
Vorrei dirti
che è stato bello essere fratelli con te.
E’ stato un peccato separarsi così presto.
Oh, quante cose facemmo insieme,
con i tanti cugini!
lungo i trami e le rive.
Sapessi che silenzio
c’è adesso in tutta la stradina.
I pioppi ombrosi con i funghi?
e le raganelle al sole?
Non ci sono più, né i platani
che ci nascondevano nei giochi.
Neppure un ohe! senti.
Solo telefono, fax, e-mail.
Vorrei tanto vederti
per sapere se ti ricordi
di quando lottavano con le gocce dal tetto
sul letto steso in un granaio.
Non era così brutto sai.
C’erano canti, richiami e rincorse
lungo la nostra stradina fangosa.
Ora è bella, solitaria e muta.
Non è giusto avere fratelli e sorelle,
no! non è giusto
vederli andare via per primi.
Ed erano arrivati ultimi.
40) GIGI
Ho rivisto Gigi,
carissimo amico
di quelli da gomito a gomito
in chiesa, a tavola, in ospedale,
alla sagra di S.Rocco.
Avevi l’angolo della bocca
già messo in piega per darci
il motto, il vezzo, lo sberleffo
che c i aspettavamo.
Donavi sorrisi leggeri a tutti.
“Come va , lì da te?”
“Sai com’è!”
A un certo punto nella vita
la giovinezza di restringe
l’allegria pure.
Ahi! Come ci si dimentica degli amici,
che delitto è questo!
Passavo per vedere volti e scritte notevoli,
parte vecchia, cadente, morti antichi,
grandi baffi, cappello in testa,
l’unica foto di matrimonio è anche di sepoltura.
E chi mi ritrovo in un angolo buio?
Nel quadrato di Dolo?
Vedo te, e mi sorridi, amico.
Lo fai davvero per me?
Ne saresti capace.
Vedo il tuo mezzo sorriso, Gigi,
il resto lo intuisco.
L’acqua ha trovato una fessura, ahimé!
Bisogna che venga a salutarti ancora,
prima che la muffa l’abbia vinta.
Sono contento di averti ritrovato.
Non mi scappare, lascia l’indirizzo sulla porta,
dove sei,
chissà che confusione!
Il giorno in cui passerò dalle tue parti,
vorrei tanto incontrarti subito,
di certo sei in segreteria,
eh, San Pietro se ne intende!
ti avrà dato un posto per far sentire
a chi viene che è bene accolto,
che è arrivato alla casa.
41) SIAMO TUTTI CARI
I tuoi cari!
Sempre insieme!
Non ti dimenticheremo!
Sono passato a visitare zie antiche carissime
nonni dal ricordo immenso,
affranti tra ghiaie sotto il sole
che annienta fiori e ghirlande
all’istante.
Solito sguardo,
solite parole
inermi, grigie, assurde.
La copiatura di fretta
che tutto livella,
ti fa sentire fotocopia di chi ti riposa a fianco.
Stiamo zitti, per favore.
L’opinione non è dei vivi,
ma dell’impresario
che ti toglie dagli impacci
in un doloroso momento
in cui sei solo, confuso.
Ecco, gli affetti cari
non salgono dai cuori,
ma dagli stampi, dai prontuari, dai necrologi già stilati.
Preferite questo o quello, oppure…
Si cerca quello in rima, quello in bella grafia
o anacronistico purché …
E chi se ne accorge mai il giorno dopo?
Leggendo i necrologi scopri subito,
dal linguaggio fotocopia
non le gesta del defunto
ma la qualità dell’impresa funebre
che ha condotto nel quadrato
il caro estinto.
Infine
è questa l’ultima parola vera:
è un viaggio caro,
caro.
Non farci caso, non si ripeterà.
42) PRESIDENTE
Vorrei chiamarti presidente
ma non so di cosa.
Ovunque andavi presiedevi.
Per sessanta degli ottanta e più.
Nella tua vita hai sentito solo questo appellativo:
buongiorno, presidente
buonasera presidente
come sta presidente
complimenti presidente.
Di cosa? Dove?
In cantina, nel consorzio agrario,
del mais, nei macelli sociali
nei consessi fondiari o dei bieticoltori
nelle banche agrarie
nel club dei possidenti
nel collegio dei signori delle ville venete…
L’unica volta che dicesti… mi dimetto…
Zac! Sì, presidente!
Unanime fu il coro e l’applauso
L’ipocrisia verde è la migliore.
Da quel momento dovesti salutare per primo
E non tutti rispondevano.
Chi è? Non ti conoscevano più,
non servivi più.
Poi ci fu il cordoglio,
assai mesto in verità.
Non sei uno che s’arrende
Certo! Stai pensando di consorziare i serafini
di presiedere l’ala destra dei cherubini
di aggregare i presidenti pensionati.
Beh! un posto in consiglio,
con presidenza su arzilli di confine
tutto sommato ancor l’avrai.
Attento! T’avverto!
Presto avrai un concorrente
assai spregiudicato, ssst! frode fiscale.
Prima che gli dicano chi sei?
si presenterà:
i santi li ho fatti tutti io!
E poi, quel che dicono
non è vero, mi consenta che le spiego.
43) SEGRETARIO
Signor segretario generale
dell’ospedale generale provinciale
dagli occhi sbarrati perenni,
sei sempre lo stesso.
Allora sembravi attento,
silenzioso com’eri.
E invece non ci vedevi, scrutavi.
Eri sempre in attesa di capire
che cosa volesse il medico attonito,
venuto per un chiarimento,
che non c’era ,
perché il colloquio non iniziava neppure.
Invece eri tu che non ispiravi per niente.
Non osava parlare,
pensava che fossi disperso in studi di bilanci
eri solo in attesa di mettere a fuoco
la visione, e il problema.
Ti vedeva assonnato.
Era difficile vederti sorridere prima,
figuriamoci ora.
Per scienza e cultura,
esperto di codici, codicilli e protocolli,
non di rapporti umani.
Eppure nel chiuso tabernacolo
del tuo ufficio
avresti potuto essere un grande.
Senza quegli occhi sbarrati
che incutevano un timore inesistente,
una lontananza esistenziale
scostante.
Peccato che grandi menti
abbiano cuori tiepidi.
Forse non era solo questione di lenti.
44) MARIROSA
Donna gentile, madre rumorosa,
ora pro nobis.
Sorriso contagioso, rapita in giorni rapidi, contati.
A casa hai lasciato tutti esterrefatti.
Anche noi tuoi amici.
Sorridente, serena.
Così appari nel tuo santino.
Lo sai che le tue rose hanno un rosa triste,
in questo maggio tenero di olezzi
e di gradite fragranze?
S’allungano sui gambi le calle
ma non ti vedono,
non sentono il tuo passo, la tua voce;
eri di famiglia nelle fioriere,
parlavi loro con tenerezza,
ti davano coloratissime risposte.
Anche il caminetto è spento.
Stupore per il visitatore!
D’estate era nido per la cova di miti alzavole.
I trifogli si ritirano presto,
mancano loro fiato, voce e luce.
I fiori sanno ascoltare e rispondono
non con i nostri ritmi e modi,
tu sapevi come, parlavi loro.
Parlavano le tue gardenie
e tutte le campanule sgargianti
aggrappate alle reti.
Lungo la strada… buongiorno, Marirosa!
La gente ti salutava emergente
confusa tra i petali.
Le gallinelle, ora, razzolano in silenzio
vicino al canneto.
Cosa è successo? si chiedono.
Quanti sul sagrato hanno detto la stessa cosa,
donna di generosità e di letizia.
Ora Rivale è in festa, ma non in fiore,
è più povero il tuo paesello,
tutti siamo più poveri.
quando cadono pilastri di madri portanti.
45) LA COMARE
Quando parlavi nessuno ti rispondeva,
guardavi altrove,
eri strabica.
Eppure hai aiutato a nascere centinaia,
di coloro che ora sono nonni e nonne
Onore a te.
Certo che, nascere,
sul momento,
è una sorpresa che non ti aspetti.
A uno devi pur lasciargli
un po’ di tempo per capire
cosa gli è successo.
E’ un fatto grave
essere sradicato dove stavi bene,
a tua insaputa.
A Brenta Secca, anni trenta,
si nasceva
per lo più in granai rattoppati,
in spazi strappati ai fienili
con coltrine ricamate ai finestrini,
ricordo in dote per amore.
Ti venivano a prelevare
all’ultimo istante,
arrivavi premurosa in calesse,
grassa assai,
eppure saltavi su per le scale,
mettevi le donne al lavoro, al fornello,
acqua e panni bollenti,
mandavi lontano gli uomini brontolando.
Ti obbedivano al volo.
Eri bruttina sai,
tutti ti benedivano.
In un modo o nell’altro.
Fosti la prima a prendermi in braccio,
eravamo in bassa stagione,
fine novembre,
perché marzo è buono
per mettere a dimora ogni tipo di vita.
Poi, in campagna, i lavori urgono.
Passo davanti e ti saluto
al limite del quadrato.
Tu non mi guardi affatto.
46) VAI IN SEMINARIO
Quante zolle hai spaccato,
quanta gleba hai scavato
quanti vitelli hai allattato,
quanta verza hai mangiato
quanti insulti hai sopportato.
Che poteva mai fare
un mezzadro padre di futuri mezzadri?
A Brenta Secca
i figli dei contadini
nascevano già chinati,
già addestrati al signorsì.
“Portiamolo a far vedere”,
disse la donna preoccupata
che il figliolo fosse irrequieto,
impreparato ad affrontare il mondo
in modo a loro adeguato e corrente.
Andarono subito dal Bortolazzi.
Lo guardò, lo palpò:
apri la bocca, fai aaaah!
Si tolse gli occhiali.
Cos’ha fatto la comare?
Questo non vuole stare storto
Vuole stare sempre dritto.
Ahi, ahi! Vi darà dolori,
cari genitori.
Preventivamente,
lo mandarono in seminario.
Era un buon motivo, in campagna,
per mangiare all’ora giusta,
per imparare le orazioni,
senza imprecazioni.
Passasti il resto della tua vita,
sempre chinato
e sempre sia lodato.
Sei stato sterrato,
un po’ qua, un po’ là.
Così va la morte,
tutti allo stesso livello:
nessuno è dritto, nessuno è chinato.
Almeno quello.
47) PRENOTATI
Lino e Lina, si fa per dire,
prenotati prima di finire.
Cosa vi dite anzitempo,
dalla foto già smarrita, estinta
anzitempo ai posteri?
Cara,
hai capelli apposta da parrucchiera,
sempre uguali ormai, vai a farti
una messa in piega,
screpolata non stai bene
anche per chi viene e ti vede
così.
La foto? Ricordi?
Alzi la testa, signora
Un po’ a destra, prego, chiuda la bocca.
Sorriso! Fatto.
Le faccio la coppa alta o bassa?
Alta!
Vengo meglio, di profilo.
Già!
Ma sei stato ripreso di fronte.
Alta o bassa fa lo stesso.
Lassù non interessa,
quaggiù nemmeno, ormai.
Sbrigatevi,
perché l’anagrafe,
passati gli anni di concessione
vi sfratta anzitempo
e allora che farete?
Hai già messo la giacca nuova,
a pallini celesti,
a doppio petto, che più non s’usa.
Non l’indosserai quando sarà.
Già data alla S.Vincenzo.
Cambiano i marmi e le cornicette,
cambiano le preghiere e le usanze.
Siete già in scadenza,
prima ancora di entrare in tabernacolo
Che non è eterno,
ma trentennale, non lo sapete?
48) CADUTO
Morto sul Piave?
silenzio
Morto sul Grappa?
silenzio
Morto sull’Ortigara?
silenzio
In Russia? In Albania?
Creatura! Che domande inique
ti faccio.
A che importa a uno che non c’è più
sapere: dove, perché?
Domanda da superstiti,
strani,
ti battiamo i tamburi il 4 Novembre.
A te non importa, lo so!
Foto da morosa,
arsa, slavata, corrosa, ma prima… prima no!
Ti vedevo alla pari, occhi negli occhi,
quando la maestra Neva
ci portava a conoscere
i caduti in guerra,
a dirvi una preghiera,
a scrivere pensierini per voi,
in bella scrittura,
mi raccomando.
Ho la gola secca, fratello paesano,
caduto.
Non hai più parenti,
l’ortica ti rasenta,
nessuno pulisce la tua faccia marmorata;
chissà quante volte lo fece tua madre
quando succhiavi al seno!
Qui ti ha consumato lei di baci,
non sono state le stagioni.
La tua immagine s’incatrama
sempre più,
come il ricordo di tanti ragazzi
scomparsi tra nevi mai viste prima,
mai studiate a scuola,
ma che altrimenti mai avrebbero conosciuto.
Capirai!
Oh, infami governanti,
cosa avete fatto per i confini!
Ora che i confini non esistono
neppure per le siepi di contrada?
49) A FIANCO
Ci fu uno schianto,
bloccarono l’autostrada.
La cara scrisse:
stai al mio fianco
sempre, Elio caro.
Di lacrime ne sparse a fiumi.
Fu molto chiaro
l’affetto che ti portava,
e di cui aveva bisogno assai.
Dieci anni sono lunghi,
capirai.
Ora nel tuo letto stareste scomodi
in tre.
Nel tuo funereo alloggio
questi rischi non li corri,
almeno per ora,
nessuno infatti mette mano
oltre la fredda pietra.
Ti vedo indifferente.
Penso che neppure t’importi.
Ma quando sceglieste
il loculo per due urne unite
non pensavi allo sfratto.
Datti pace,
uno dei tre darà il passo,
toccherà all’usato.
50) SOPRANO
Giovan Battista,
delicato cantore del ‘700.
Vieni dai tempi arcigni
quando a voi nobili,
con i serenissimi pregadi
Badoer, Grimani, Mocenigo,
tutto era permesso.
Chiese, balaustre, canoniche,
con zecchini sonanti
diritto di scelta del prete
per vile denaro vi erano concesse.
Marchigiano, tu no!
Sulle pietre sacre solo i santi,
non i soprani!
Se pur hai visto regge, teatri
e amanti d’alto rango,
dovremmo forse inorgoglirci?
No davvero!
Marmoree parole
che nessuno legge,
rintronano,
ma a chi?
Guardi dall’alto
con superbia
i campi che furono dei tuoi pari.
C’è gente sciolta dai lacci, ora.
E se li ha, li ha cercati
con sadico piacere.
Qui nessuno ti ricorda.
La vanità è un soffio,
dice Qoèlet,
lo dice la Bibbia.
Davanti a te,
c’è una muraglia di cinta
con le ultime lastre
dell’antico quadrato.
Quaggiù ti avremmo conosciuto,
saresti stato più di un soffio,
ti avremmo voluto bene.
51) AVISINO
Volontario samaritano,
hai donato il tuo sangue a tutti.
Occorse a te,
ma avevi dato tutto,
non ne avevi più.
“Che problema c’è?”
Quante difficoltà
hai fatto superare all’Avis,
con un sorriso,
e con questo motto.
Su, coraggio! Volevi dire.
Trovavi sempre la via della vittoria.
Quanti ti conobbero
ti amano ancora.
Guarda che non è poco,
è difficile che accada.
Tu ci sei riuscito, Francesco.
Ora sei in un angolo,
cenere eccelsa,
memoria in tutti coloro
che ti conobbero.
Onore a te,
amico.
Impietrita,
una donna ti fissa, fiera di te.
In molti sommessi
passiamo, chiniamo il capo.
Del tuo passaggio
hai lasciato bella traccia.
52) CONTADINO
Apri gli occhi, contadino!
Son venuto a salutarti,
a pregare per te.
Dio mio, quanti lumi!
Vi siete svegliati in tanti.
Vi conosco tutti,
lacrimo per tutti voi,
miei cari.
Non dimentico le mie radici.
E voi, donne misere e derise,
vestite di nero da subito,
costava meno la tela,
già pronte alla vedovanza.
Contadino, umiliato e deriso,
spero tu abbia trovato pace,
ricompensa, la carezza divina.
Ora siete nell’eternità.
Con il Padre,
che perdona e rialza.
I figli dei figli? Ah non sapete?
Per sgravarsi,
passarono nelle fabbriche.
Allora tutto si rovesciò.
I timidi si fecero arditi.
Vinsero i primi urti,
poi ci fu il riflusso,
come l’onda sulla spiaggia delle Giare,
spiaggia proletaria.
L’onda invade la terra, poi
spaventata per il suo azzardo,
torna nella marea confusa,
vagante, anonima.
Re Lear!
Brutti tempi…
i ciechi si affidano a un pazzo.
Si credono anch’essi signori,
grati di stare alla sua ombra:
sono chini, non per timore,
ma per ambizione.
Topi di Hamelin!
Non sarete mai liberi.
Dormi in pace, almeno tu,
contadino,
ultimo crociato della gleba.
53) SUORA
“Ma non certo tu!”
Ci fu in chirurgia
una suora favolosa
per autorità e pietà.
Suor Ester si chiamava.
Nome austero, biblico.
Eppure dolce con il paziente afflitto
che invocava la famiglia,
quando le visite erano ad orario.
Passavi di notte con la lanterna,
a vedere, a consolare
chi era solo con i suoi dolori.
Un po’ d’acqua, una pastiglia, un sorriso.
Scadeva l’ora?
Categorica intimavi: visite, fuori!
Era l’ordine inflessibile,
imposto dall’alto.
Uno spavaldo, irsuto si oppose.
Si rizzò e ti offese.
Gridò.
“Ci vorrebbe un uomo per calmarti.”
Silenzio in corsia.
“Ma non certo tu.”
Pronunciasti queste ferme parole
lentamente,
a ciglio asciutto, a braccio teso.
“Quella è la porta.”
Confuso uscì.
Non so dove tu sia,
carissima suora,
volto pietoso
raccolto in una cuffietta bianca.
Tutti ti temevano, ti rispettavano.
E non tu sola, grazie, sorelle.
Il professore Loi a te s’inchinava.
Se, un giorno, la tua dimora definitiva
fosse tra noi,
sappi che gli ospedalieri di Dolo
passeranno a salutarti
per una devota prece.
Il buon Dio te la annoterà.
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INDICE
1. Cipresso
2. Bimbo
3. Geometra
4. Pro memoria
5. Mario
6. Storia di un riscatto
7. Matto
8. Signor procuratore
9. Marinaretto
10. Sposo rapito
11. Patriarca
12. Bracciante
13. Sindacalista
14. Vento di sera
15. Brenta secca
16. Generosa
17. Commendatore
18. Onorevole
19. Pensionato
20. Muratore
21. Bottegaio
22. Sacerdote
23. Paraplegica
24. Calzolaio
25. Pater et mater
26. Casellante
27. Donna di cuori
28. Avaro
29. Ragioniera
30. Mater dolorosa
31. Fabbro ferraio
32. Ambulante
33. La fornaia
34. Patriota
35. Scherzevole
36. Meccanico
37. Pescivendolo
38. Zingaro
39. Fratello
40. Gigi
41. Siamo tutti cari
42. Presidente
43. Segretario
44. Marirosa
45. La comare
46. Vai in seminario!
47. Prepagato
48. Caduto
49. A fianco
50. Soprano
51. Avisino
52. Contadino
53. Suora
a cura di Luigi Zampieri
< Prec. |
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Ultimo aggiornamento (Mercoledì 11 Marzo 2020 16:13)